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Vogliono mangiarsi la Russia, piani di guerra in autunno
Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.Semplicemente incredibile, rileva Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, la vicenda del volo Mh17 della Malaysia Airlines abbattuto da un caccia di Kiev nei cieli dell’Est Ucraina: a inchiodare i golpisti ucraini sostenuti dalla Nato, le testimonianze di un osservatore canadese dell’Ocse e di un pilota tedesco. «Tutto punta ad un cannone da 30 millimetri di un Su-25 ucraino che fa fuoco sulla cabina di pilotaggio dell’Mh17, causando una decompressione istantanea e lo schianto». Nessun razzo, dunque, men che meno il missile aria-aria evocato nelle «prime, frenetiche dichiarazioni statunitensi». In più, le nuove versioni collimano con le testimonianze oculari in loco registrate dalla Bbc in un reportage «notoriamente “scomparso”». Conclusione: incidente pianificato dagli Usa e messo in atto da Kiev per incolpare Mosca. «Ci si può solo lontanamente immaginare il terremoto geopolitico se il “false flag” fosse reso di pubblico dominio».Nebbia, ovviamente, sulle indagini: la Malesia ha consegnato i registratori dell’Mh17 al Regno Unito, «quindi alla Nato, quindi alle manipolazioni della Cia», mentre il volo Air Algerie Ah5017, precipitato dopo l’Mh17, è già stato chiarito grazie a un’indagine prontamente divulgata. «Sorge spontanea la domanda sul perché ci sta volendo così tanto per analizzare/manipolare le scatole nere dell’Mh17». Fare chiarezza ostacolerebbe il gioco sporco delle sanzioni: «La Russia resta colpevole – senza alcuna prova – quindi deve essere punita». L’Ue? «Ha seguito servilmente la voce del padrone e ha adottato tutte le sanzioni estreme contro la Russia». Mosca avrà accesso ridotto ai mercati in dollari ed euro, e alle banche di Stato russe sarà proibito vendere azioni o bond in Occidente. Ma ci sono scappatoie decisive: Sberbank, la più grande banca russa, non è stata sanzionata. Nel medio-breve termine, la Russia dovrà finanziarsi da sola? «Le banche cinesi possono facilmente rimpiazzare quel tipo di prestiti».E’ ormai strategica la partnership con Pechino. «Come se Mosca avesse bisogno di altri avvertimenti che l’unico modo per farcela è abbandonare sempre più il sistema dollaro». Gli Stati dell’Ue ne soffriranno molto, continua Escobar: Bp ha una partecipazione del 20% nella Rosneft, e per la cronaca «sta già dando di matto». Anche Exxon Mobil, la Statoil norvegese e la Shell saranno penalizzate. Le sanzioni non toccano l’industria del gas: se così fosse stato, «la stupidità controproducente dell’Ue sarebbe schizzata a livelli galattici». La Polonia, «che istericamente incolpa la Russia per qualsiasi cosa accada», compra da essa più dell’80% del gas, e «le non meno isteriche Repubbliche Baltiche, così come la Finlandia, il 100%». Il veto sui prodotti a doppio uso – militare e civile – creeranno invece problemi alla Germania, il maggior esportatore dell’Ue verso la Russia. Nel ramo della difesa saranno Francia e Regno Unito a soffrire: quest’ultimo ha almeno 200 contratti di vendita di armi e controlli per il lancio di missili in Russia; tuttavia la vendita da 1,2 miliardi di euro (1,6 miliardi di dollari) di navi d’assalto “Mistral” alla Russia da parte della Francia continuerà a procedere.Il consigliere economico di Putin, Sergei Glazyev, sostiene che l’economia europea dovrebbe stare veramente attenta nel proteggere i propri interessi, mentre gli Usa cercano di «scatenare una guerra in Europa e una Guerra Fredda contro la Russia». Conclusione: «Settori chiave della plutocrazia occidentale vogliono una continua e indefinita guerra con la Russia». Il piano-A della Nato, aggiunge Escobar, prevede di impiantare batterie di missili in Ucraina: «Se dovesse accadere, per Mosca la linea rossa verrebbe oltrepassata di parecchio», visto che a quel punto «si darebbe la possibilità di un primo attacco ai confini russi occidentali». Nel frattempo, Washington punta a isolare dalla Russia i separatisti dell’Est Ucraina. «Ciò implica finanziare direttamente e massivamente Kiev e parallelamente costruire e armare, per mezzo di consiglieri statunitensi già sul posto, una enorme armata (circa 500.000 entro la fine dell’anno, secondo le proiezioni di Glazyev)». Lo scacco matto: rinchiudere i federalisti in una minuscola area. Per il presidente ucraino Petro Poroshenko, dovrebbe accadere entro settembre, alla peggio entro la fine del 2014.«Negli Stati Uniti e in gran parte dell’Ue, si è sviluppata una mostruosa caricatura che rappresenta Putin come il nuovo Osama Bin Laden stalinista», scrive Escobar. «Fino ad ora la sua strategia sull’Ucraina si è basata sulla pazienza», cioè «stare a guardare le gang di Kiev suicidarsi mentre si tentava di sedersi civilmente con l’Ue per trovare una soluzione politica». Ora però ci potremmo trovare di fronte a una variabile che cambia i giochi, perché «l’ammassarsi di prove, che Glazyev e l’intelligence russa stanno fornendo a Putin, indicano l’Ucraina come campo di battaglia, come una spinta ad un cambio di regime a Mosca, verso una Russia destabilizzata». Si avvicina dunque la possibilità di «una provocazione definitiva». Geopolitica mondiale: «Mosca, alleata con i Brics, sta lavorando attivamente per bypassare il dollaro – che rappresenta il punto di riferimento di una economia di guerra statunitense basata sulla stampa di inutili pezzi di carta verde. I progressi sono lenti ma tangibili: non solo i Brics, ma anche gli aspiranti Brics, i G-77, il Movimento Non Allineato e tutto il Sud del mondo ne hanno piene le tasche dell’eterno bullismo dell’Impero del Caos e vogliono un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali».Gli Usa contano sulla Nato – che manipolano a loro piacimento – e sul “cane pazzo” Israele, e forse sul Ggg (Consiglio di Cooperazione del Golfo), le petro-monarchie sunnite complici nel massacro di Gaza, che possono essere comprate e messe a tacere «con uno schiaffo sul polso». A Mosca, i nervi sono stati messi a dura prova: «La tentazione per Putin di invadere l’Ucraina dell’Est in 24 ore e ridurre in polvere le milizie di Kiev deve essere stata sovrumana. Specialmente con la crescente escalation di follia: missili in Polonia e presto in Ucraina, bombardamenti indiscriminati di civili nel Donbass, la tragedia dell’Mh17, l’isterica demonizzazione da parte dell’Occidente». Moltissima pazienza, finora, da parte dell’“orso” russo – pazienza non illimitata, però. «Putin è programmato per giocare la partita a lungo termine. La finestra per un attacco-lampo ormai s’è chiusa: quella mossa di kung fu avrebbe fermato la Nato con un fatto compiuto e la pulizia etnica di 8 milioni di russi e russofoni nel Donbass non sarebbe mai iniziata». Putin, però, non “invaderà” l’Ucraina: sa che «l’opinione pubblica russa non vuole che lo faccia».Mosca, aggiunge Escobar, continuerà a sostenere quello che si configura come un movimento di resistenza de facto nel Donbass: tra due mesi al massimo, «l’inverno inizierà ad imporsi in quelle lande ucraine distrutte e saccheggiate dal Fmi». Il piano di pace russo-tedesco da poco trapelato, continua l’analista di “Asia Times”, potrà essere sviluppato «sul cadavere di Washington». Ecco perché questo nuovo “Grande Gioco” promosso dagli Usa punta a prevenire un’integrazione delle economie di Ue e Russia attraverso la Germania, «che diverrebbe parte di una più estesa integrazione eurasiatica che includa la Cina e la sua moltitudine di vie della seta». Se i commerci della Russia con l’Europa – circa 410 miliardi di dollari nel 2013 – stanno per ricevere un colpo a causa delle sanzioni, ciò implica un movimento che spinga ad Est. Il che comporta un aggiustamento del progetto di Unione Economica Eurasiatica, o una Grande Europa da Lisbona a Vladivostock, «l’idea iniziale di Putin», in tandem coi cinesi. «Tradotto, sta a significare una forte partnership Cina-Russia nel cuore dell’Eurasia – una terrificante maledizione per i Padroni dell’Universo».Non si sbaglia, la partnership strategica Cina-Russia continuerà a svilupparsi velocemente – con Pechino in simbiosi con le immense risorse naturali e tecnologico-militari di Mosca. Per non menzionare i benefici a livello strategico, aggiunge Escobar: «Una cosa del genere non accadeva dai tempi di Genghis Khan. Ma in questo caso, Xi Jinping non sta arruolando un Khan per sottomettere la Siberia ed oltre». Attenzione: «La guerra fredda 2.0 è ormai inevitabile perché l’Impero del Caos non accetterà mai che la Russia abbia una sfera di influenza in zone dell’Eurasia (come non accetta che ce l’abbia la Cina). Non accetterà mai la Russia come un partner paritario (l’eccezionalismo non ha eguali) e non perdonerà mai la Russia – come la Cina – per aver apertamente sfidato il cigolante e eccezionalista ordine imposto dagli Stati Uniti». Per cui, «se il Dipartimento di Stato Usa, guidato da quelle nullità che passano per leader, nella disperazione, andasse un passo troppo avanti – potrebbe avvenire un genocidio nel Donbass, un attacco della Nato in Crimea o, nel peggiore dei casi, un attacco alla Russia stessa – attenzione: l’orso colpirà».Lo status quo post guerra fredda nell’Europa dell’Est, per non parlare di quella occidentale, è morto: «Per la plutocrazia occidentale, quello 0,00001% all’apice, i veri Signori dell’Universo, la Russia è il premio finale», scrive Pepe Escobar. «Un immenso tesoro di risorse naturali, foreste, acque cristalline, minerali, petrolio e gas: abbastanza per portare ad uno stato di estasi qualsiasi gioco di guerra Nsa-Cia owelliano-panottico». Domanda: «Come prendere al volo e approfittarsi di un bottino tanto succulento?». Qui entra in gioco la “globopolizia” Nato. Sul punto di vedere la sua retroguardia impietosamente maltrattata da un pugno di guerriglieri di montagna armati di Kalashnikov, l’Alleanza Atlantica si sta velocemente voltando – lo stesso vecchio schema Mackinder-Brzezinsky – verso la Russia. La road map, avverte il giornalista di “Asia Times”, verrà preparata al summit dei primi di settembre in Galles. Gli Usa vanno “a caccia di orsi”, ma la pazienza dell’orso russo non è infinita: sostenuto dalla Cina, prima o poi Putin sarà costretto a reagire. E saranno guai per tutti.
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Human Rights Watch: dietro quei terroristi c’era l’Fbi
Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.«Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», dice Andrea Prasow, vicedirettore di “Human Rights Watch” a Washington. «Ma se si osserva da vicino, si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagati». Secondo “Hrw”, l’Fbi spesso individua soggetti vulnerabili, con problemi mentali o dalla scarsa intelligenza, come Rezwan Ferdaus, un 27enne condannato a 17 anni di carcere perché accusato di voler attaccare il Pentagono e il Congresso con piccoli droni carichi di esplosivo, in un falso complotto organizzato dagli stessi agenti americani. Strategia della tensione, dunque, nonostante la prevedibile smentita del ministro della giustizia Eric Holder, cui l’Fbi risponde. Peccato che i media mainstream se ne “accorgano” solo ora, aggiunge Pino Cabras su “Megachip”: all’epoca degli “attentati” di cui si è occupata “Human Rights Watch”, infatti, la Rai e i giornali «ripetevano le veline dell’Fbi: fanno così molto spesso, senza correggersi mai», o comunque fuori tempo massimo.La notizia rende finalmente giustizia ai reporter che fanno «semplice giornalismo d’inchiesta» ma vengono regolarmente tacciati di “complottismo”. Disinformazione criminale, dunque, che ogni giorno “ruba” «un pezzo di libertà, di sovranità», fino ad imporre «lo spionaggio totalitario della Nsa». Attenti, sottolinea Cabras: «Non stiamo parlando di un generico sottofondo di notizie: si tratta dei modi con cui si è lanciato un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio onnipervasivo e reintrodotto gli arresti extralegali e la tortura». In questo quadro, «emerge chiaramente che il terrorismo in Usa è un’interminabile catena di azioni “false flag” (sotto falsa bandiera), in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’Fbi, che li manipola per i propri fini. Era così già dal primo attentato alle Torri Gemelle di New York, nel 1993, fu così per una parte dei soggetti implicati nei mega-attentati dell’11 settembre 2001, è stato così per Mutanda Bomber e per la maratona di Boston».«L’indagine di Human Rights Watch – continua Cabras – sarebbe già sufficiente da sola per dire che questo è un metodo di governo e che il cosiddetto terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei grandi organi di informazione che sono adibiti a organizzare l’isteria collettiva a comando». Con ogni probabilità, aggiunge l’analista di “Megachip”, la realtà è invece «ancora più vasta e incancrenita», tanto che l’indagine «sarebbe da estendere anche oltre gli Usa (pensiamo agli attentati di Londra del 2005), oltre l’Fbi (pensiamo al terrorismo internazionale segnato e finanziato da un intreccio di servizi segreti di vari paesi), e oltre i piccoli episodi (pensiamo anche all’11 Settembre e all’allarme antrace del 2001)».Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive “Hrw”. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.
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Strage Moby Prince, mistero Nato con troppe navi-fantasma
Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.Navi-fantasma: il riascolto incrociato delle tracce radio, sostiene Francesco Sanna nel suo reportage, realizzato col contributo dello studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, rivela la presenza di almeno tre natanti inzialmente non identificati, sfuggiti alle prime indagini sul disastro. Il nome del primo vascello-fantasma, l’Agrippa, viene fatto – via radio – dalla nave militarizzata americana Cape Breton, che incrocia a un miglio dall’Agip Abruzzo. Alla Cape Breton si sono rivolti i piloti di Livorno per ricostruire l’accaduto e organizzare i soccorsi. La nave Usa, carica di armamenti destinati alla base di Camp Darby tra Livorno e Pisa, rivela che “Agrippa” è a fuoco, ma l’incendio è sotto controllo. Nella prima inchiesta giudiziaria, la parola “Agrippa” viene male intepretata e tradotta in “adrift”, alla deriva. Nell’inchiesta-bis, aperta nel 2006 e chiusa con l’archiviazione nel 2010, i periti della Procura di Livorno distinguono invece nettamente il nome “Agrippa”. Problema: «Nell’area del porto di Livorno, quella sera del 10 aprile 1991, non c’è nessuna imbarcazione con quel nome», osserva Sanna. «Per giunta l’unica nave interessata da un incendio, oltre al Moby Prince avvolto dal greggio incendiato ma che nessuno vede per ore, è l’Agip Abruzzo».Quella notte, continua il giornalista del “Fatto”, un’altra nave-fantasma girava per il porto di Livorno: si chiamava Theresa e si mise in comunicazione radio con un terzo natante non identificato, “ship one”. Chi era Teresa, e chi era la “nave uno”? Secondo gli ingegneri dello studio Bardazza di Milano, che sta lavorando su mandato dei familiari delle vittime, «si trattava della Gallant II, un’altra nave militarizzata americana all’ancora quella sera davanti a Livorno». Benché il quesito cardine alla riapertura dell’inchiesta nel 2006 fosse proprio la tesi del presunto traffico illecito di armi che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, i pm di Livorno «non decisero alcun approfondimento su quell’Agrippa», precisa Sanna. Oggi, a distanza di 23 anni dalla strage, si può ipotizzare che “Agrippa” fosse la Agip Abruzzo, ma non si capisce come mai – parlando con la capitaneria di porto – la nave americana Cape Breton non menzionò la Moby Prince né l’incendio a bordo del traghetto.«Di navi fantasma la vicenda della tragedia del Moby Prince ha fatto la collezione», riassume Sanna, menzionando «un peschereccio bianco che qualche testimone ha visto allontanarsi dal punto della collisione», quella sera, subito dopo l’impatto. Per contro, c’è la sicurezza che il natante, “21 Oktobar II” (secondo Ilaria Alpi coinvolto in traffici di armi) era «ormeggiato e inservibile a una banchina del porto». Oltre a Theresa, «l’imbarcazione che usa dei nomi in codice per allontanarsi dalle navi incendiate», c’è quindi l’americana Cape Breton che, mentre parla con la capitaneria, chiama col nome in codice “Agrippa” una nave incendiata, quasi certamente la petroliera dell’Agip. «Ma basta scorrere con attenzione i nastri dei canali radio attivi, e registrati per un caso e senza che quasi nessuno lo sapesse – continua Sanna – per trovare almeno altre due imbarcazioni “fantasma” che quella sera erano nella rada del porto di Livorno». “Fantasma”, ovvero non registrate dall’Avvisatore Marittimo e mai identificate nelle inchieste giudiziarie. «Navi che hanno nome e carta d’identità tutt’altro che irrilevanti per le indagini ricostruttive: la fonte è certa e a portata degli inquirenti, benché trascurata finora da tutte le inchieste».Le comunicazioni finora “sfuggite” alle inchieste sono tutte in codice Nato. Una di queste proviene dalla Ntv Alliance, «una nave militare da ricerca, principalmente di tipo sottomarino», tuttora in forza alla Nato in acque italiane. «Cosa ci faceva questa nave nella rada di Livorno a mezz’ora dalla collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo?», si domanda Sanna. «E soprattutto: era ancora in prossimità del luogo dell’evento durante le operazioni di soccorso? Se così fosse, decadrebbe definitivamente il “pilastro” dell’irreperibilità del Moby Prince fino ad un’ora dopo l’incidente». Interrogativi inquietanti: «Può forse una nave come la Alliance perdere di vista per tutto quel tempo il secondo natante in una collisione?». Ma non è finita, perché quella notte «nella rada del porto toscano c’era anche almeno un’altra imbarcazione “fantasma”. Si chiama Amer Ved, nave cargo battente bandiera americana, le cui dimensioni (13.000 tonnellate di stazza lorda) suggerirebbero uno stazionamento in rada». La prova è la registrazione di una comunicazione radio. Ma neppure la Amer Ved era stata regolarmente registrata dall’Avvisatore Marittimo, né è mai stata presa in considerazione dalle inchieste.Eppure, aggiunge il “Fatto”, un collegamento con la scena della collisione la Amer Ved l’avrebbe anche: alle 22.50 del 10 aprile 1991 compare sul canale 16 una chiamata della nave militarizzata americana Gallant 2. «Siamo a 25 minuti dalla collisione (avvenuta alle 22.25 circa) e nessuno ha ancora identificato la nave che ha speronato l’Agip Abruzzo». Il comandante della Gallant, Theodossiou, «chiede l’attenzione di “America Cargo” – quindi non segnala un nome preciso ma una qualità dell’imbarcazione – e da “America Cargo” gli rispondono in un inglese masticato chiedendo “dov’è la posizione della nave”, senza specificare quale essa sia». Theodossiou chiuderà con un lapidario: «Me ne sto andando, abbi tu cura della cosa». La conversazione è alquanto enigmatica, sottolinea Sanna. Tuttavia emerge inequivocabilmente la presenza in rada di questa “America Cargo” e il suo domandare circa la posizione di un’altra nave. “America Cargo” potrebbe essere la Amer Ved? «Se sì, cosa stava facendo nella rada di Livorno e perché non è stata identificata durante le indagini? E di cosa si doveva curare, come consigliato dal capitano greco della Gallant 2 che ha tanta premura di “andarsene”?».Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio. Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.
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Gladio, spie e oligarchi: chi è Juncker, il nuovo capo Ue
Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo alla guida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio, cioè Usa.Juncker, «inamovibile primo ministro lussemburghese per 18 anni», ha presentato le sue dimissioni al Granduca dopo sette ore di dibattito alla Camera, scriveva “Rete Voltaire” il 19 luglio 2013. Il Parlamento lussemburghese ha esaminato il ruolo del primo ministro nella gestione dell’intelligence, in seguito alla pubblicazione della relazione della commissione d’inchiesta sullo Srel. In sostanza, per anni «i parlamentari hanno fatto finta di credere che Gladio fosse stata effettivamente sciolta nel 1990 e le successive azioni di Srel fossero spiegabili come derivanti dal mancato controllo del primo ministro, che nel frattempo – non potendo riconoscere la perpetuazione del sistema segreto dell’Alleanza atlantica – è stato costretto a cercare di minimizzare la questione delle sue responsabilità in seno all’Eurogruppo». Una versione «smentita dal fatto che Juncker aveva infiltrato il suo autista nello Srel, affinché l’informasse sul suo lavoro». In realtà, secondo l’accusa, Juncker avrebbe «illegalmente proceduto nella schedatura di tre quinti della popolazione del Granducato e in diverse operazioni di spionaggio e di ricatto».La Gladio in Lussemburgo era stata sciolta ufficialmente nel 1990, come in altri paesi europei. «Tuttavia – aggiunge “Rete Voltaire” – i funzionari dei servizi segreti avrebbero poi continuato a spiare illegalmente singoli individui per motivi privati senza che il premier intervenisse. Così, il direttore operativo ha creato una società d’intelligence economica, Sandstone, utilizzando risorse statali». Citando il giornale lussemburghese “Wort”, Corrado Belli su “Informare per resistere” ricorda che proprio l’intelligence del Granducato fu pesantemente coinvolta in operazioni di destabilizzazione e strategia della tensione, con attentati “false flag” progettati con la collaborazione dei servizi segreti tedeschi: «Negli anni tra il 1984 e il 1986, il Lussemburgo fu preso di mira con diversi attentati dinamitardi che colpivano per lo più l’industria dell’energia CeCedel, caserme e commissariati di polizia, tribunali, fabbriche di bombole di gas, la piscina olimpica, la redazione del giornale “Luxemburger Wort” e l’aeroporto Findel».Sempre citando la stampa lussemburghese, Belli rivela che l’establishment politico tentò di fermare la magistratura che stava cercando di far luce su quegli strani episodi di terrorismo. Per zittire il giudice Robert Biever, che era giunto ad accusare direttamente il ministro della giustizia Luc Frieden di sabotare le indagini, fu scatenata una campagna di disinformazione e discredito, arrivando a incolpare il magistrato di turismo pedofilo in Thailandia. Gli oscuri attentati degli anni ‘80 contro l’innocuo Lussemburgo, dice Belli, in realtà «servivano a creare una tensione allarmante nella popolazione, al fine di far accettare leggi restrittive e un controllo totale su ogni singola persona», come afferma lo storico svizzero Daniel Ganser, che denuncia i contatti “coperti” tra l’intelligence lussemburghese e il Bnd, il servizio segreto della Germania. La storia processuale della Gladio del Lussemburgo ricorda quella delle tante stragi italiane: processi rinviati, amnesie, testimoni scomparsi, sparizione delle prove.Nel compassato Lussemburgo, «l’affare Gladio diventava una guerra interna tra il governo, la magistratura e le diverse famiglie di alto rango implicate». Chiamato a deporre insieme al ministro Frieden, lo stesso Juncker «come al solito disse di non sapere nulla e che non era suo dovere sapere cosa facessero i servizi segreti». A smentirlo provvide Marco Mille, direttore dell’intelligence, che attirò Juncker in una trappola: doveva essere un colloquio privato, ma fu registrato con una microspia nascosta nell’orologio del generale – cosa che scatenò le proteste di Juncker, indispettito per la registrazione “illegale” e la diffusione di informazioni “protette da segreto di Stato”. Non fece mistero delle ombre lunghe di Glaido, invece, un altro politico lussemburghese, Jacques Santer, precedessore di Juncker sia come premier che come presidente della Commissione Ue. Juncker però è noto per lo stile tutto suo. Sempre Belli racconta che alla rivista “Focus” dichiarò: «Nulla deve essere portato in pubblico, noi del gruppo Europa Unita discutiamo tutto in segreto, e quando la cosa diventa seria dobbiamo dire esclusivamente le bugie».Lo “stile” Juncker, secondo i molti detrattori, si richiama direttamente a quello dei “padri” dell’Unione Europea: prendiamo una decisione e aspettiamo di vedere cosa succede, ha detto di recente allo “Spiegel”; se nessuno protesta – magari perché la gente non capisce bene cosa significa quello che abbiamo deciso – allora procediamo, spingendoci al punto da non poter più tornare indietro. Questo è il personaggio a cui oggi è affidata la guida della Commissione Europea, all’indomani di elezioni in cui tutti i partiti in lizza avevano invocato meno rigore, più democrazia e più trasparenza. Inoltre, le sue provvidenziali “amnesie” sul ruolo ambiguo dei servizi segreti Nato rappresentano un’ottima credenziale sul piano geopolitico, proprio ora che gli Usa premono su Bruxelles per coinvolgerla nelle ostilità contro la Russia. L’Europa senza una politica estera? Niente paura, ora c’è l’uomo giusto al posto giusto: grazie ad Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi.Leali e obbedienti, soprattutto perché ricattabili: è la regola d’oro in base alla quale il super-potere sceglie i suoi ineffabili candidati. Jean-Claude Juncker, l’anonimo politico democristiano per 18 anni alla guida del Lussemburgo, non è stato solo al vertice della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, prima di presiedere l’Eurogruppo dal 2005 al 2013. E’ stato anche l’uomo che, per anni, ha messo illegalmente sotto sorveglianza i tre quinti dei suoi concittadini, spiati segretamente dallo Srel, l’intelligence lussemburghese. Per questo, accusato nel 2013 da una commissione d’inchiesta, è stato costretto alle dimissioni. Ombre lunghe, dunque, sulla nomina di Juncker al vertice della Commissione Europea: Angela Merkel, che l’ha imposto alla Gran Bretagna con la collaborazione di Renzi e Hollande, sa di poter sempre contare sulla fedeltà di un uomo molto chiacchierato, storica pedina dei poteri forti e accusato, nel suo paese, di aver fatto schedare migliaia di persone a loro insaputa, dopo aver coperto la strategia della tensione di marca Gladio.
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Guido Rossi: conta solo il denaro, la democrazia è finita
omo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.
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Mafia ad alta velocità, in val Susa l’indagine del Ros
«Via la mafia dalla val Susa», gridarono in coro i No-Tav asserragliati a Chiomonte il 27 giugno 2011, quando scorsero la ruspa dell’Italcoge di Ferdinando Lazzaro sfondare le barricate degli attivisti per consentire ai duemila agenti di sgomberare la “Libera Repubblica della Maddalena” e avviare il mini-tunnel geognostico, primo e unico cantiere finora aperto per la linea Tav Torino-Lione, considerata la grande opera più costosa della storia italiana nonché la più inutile d’Europa, visto il crollo del traffico Italia-Francia e la presenza in valle di Susa della ferrovia internazionale Torino-Modane ormai deserta, nonostante l’ammodernamento del traforo del Fréjus. Oggi, a tre anni di distanza, i No-Tav accolgono con sollievo la retata di arresti e denunce operata dai carabinieri del Ros su ordine della direzione distrettuale antimafia del Piemonte, tesa a stroncare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella maxi-torta dell’alta velocità. «Quella dei No-Tav è anche una lotta antimafia», ha ricordato Marco Revelli al maxi-processo torinese contro gli attivisti della valle di Susa, indagati anche per terrorismo dalla procura torinese guidata da Caselli, prima che la Cassazione stabilisse l’insussistenza di quel gravissimo reato.Contro gli inquirenti di Torino in questi mesi si erano levate voci molto autorevoli, tra cui quelle di alti magistrati a riposo, come Taselli, Pepino e Palombarini. «Contro di noi anche la folle accusa di terrorismo – hanno protestato i No-Tav – mentre nessuno indaga sull’ombra della ‘ndrangheta che incombe sul cantiere di Chiomonte». Errore: qualcuno indagava. E ha intercettato alcune aziende incaricate del movimento terra: «Prendiamo tutto noi», gongolavano i titolari delle imprese. Tra questi Giovanni Toro, secondo gli inquirenti esponente di spicco della ‘ndrina di San Giovanni Marchesato (Crotone), che proprio grazie a Lazzaro – la cui azienda oggi si chiama Italcostruzioni – avrebbe lavorato a Chiomonte aggirando le norme che impedivano l’accesso ai camion privi delle necessarie autorizzazioni. «Lo faccio attraverso la Prefettura, gli dico che dobbiamo asfaltare, è urgente», dice Lazzaro, intercettato dai Ros.Uno dei punti sotto esame riguarda l’asfaltatura delle piste destinate al pattugliamento della polizia, all’interno dell’area militarizzata del cantiere. «Il fatto che emerge, e che dovrebbe far riflettere sulla sicurezza del cantiere – scrive “L’Espresso” – è che gli investigatori non hanno trovato traccia di contratti registrati tra Toro, Italcostruzioni o Ltf», la società Lyon-Turin Ferroviaire che ha in appalto la costruzione dell’arteria. Il che vuol dire, secondo gli inquirenti, che l’azienda di Toro «ha lavorato sotto gli occhi dei militari che presidiavano il sito senza un pezzo di carta che certificasse la sua presenza». Sempre sull’“Espresso”, Giovanni Tizian ricostruisce le vicende alla base dell’indagine: «Inizialmente, la ditta di Lazzaro si chiama Italcoge. Con questa ottiene la commessa. Poi però Italcoge fallisce». Ma Lazzaro «continuava di fatto a occuparsi del cantiere avvalendosi proprio di Toro», scrive il giudice delle indagini preliminari che ha firmato le 900 pagine dell’ordinanza.L’imprenditore in pratica ha creato una nuova società, la Italcostruzioni, proseguendo senza problemi i lavori a Chiomonte: «Italcostruzioni acquisiva i mezzi, le autorizzazioni di legge nonché il subentro nel Consorzio Valsusa», che raccoglie gran parte delle aziende impegnate nel grande appalto pubblico. Ma c’è di più, aggiunge Tizian: Lazzaro negli atti è indicato come uno degli interlocutori principali di Rfi, Rete ferroviaria italiana, e Ltf. «Alcune conversazioni intercettate dimostravano sia l’influenza esercitata da Lazzaro in seno al Consorzio Valsusa, che di fatto considerava di sua proprietà, sia il ruolo di unico interlocutore della committente Ltf», scrivono i magistrati. «Prendiamo tutto noi, Nando», si sente in una delle intercettazioni. E Lazzaro conferma: «Prendiamo tutto noi». Tra gennaio e marzo 2012 poi il titolare di Italcostruzioni – per ora indagato per smaltimento illecito dei rifiuti di cantiere – cerca «di fare entrare Toro all’interno del Consorzio Valsusa». L’imprenditore calabrese che ha asfaltato le piste a Chiomonte, ora in carcere insieme a una ventina di persone, è invece indagato per concorso esterno con il clan crotonese.Ferdinando Lazzaro, dicono ora gli attivisti valsusini, è andato ripetutamente in televisione ad accusare i No-Tav degli incendi divampati presso aziende coinvolte nel cantiere: tesi avallata dai media, nonostante i roghi di tanti presidi No-Tav (i punti d’incontro del movimento, regolarmente dati alle fiamme). In prima fila, a incolpare i valsusini, i politici dell’establishment, dal senatore Pd Stefano Esposito al ministro Maurizio Lupi. Mai un accenno al problema-mafia in valle di Susa neppure dal ministro Alfano, recatosi in visita al cantiere di Chiomonte come l’ex sindaco torinese Sergio Chiamparino, ora presidente della Regione Piemonte, fattosi fotografare in campagna elettorale nel sito di cantiere che secondo gli inquirenti sarebbe stato realizzato con il contributo dell’imprenditoria mafiosa. «Le grandi opere come il Tav fanno gola alla mafia», avvertì il giallista Massimo Carlotto al “Valsusa FilmFest”, «perché sono un’occasione d’oro per riciclare denaro sporco». Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, Ferdinando Imposimato ricorda che buona parte della rete Tav italiana è stata costruita dalla mafia, grazie al sistema dei subappalti a cascata che rende incontrollabile la lievitazione dei prezzi.Di mafia in valle di Susa in realtà si parla da sempre, visto che il comprensorio turistico è dotato di importanti impianti invernali e ha ospitato grandi eventi, dai Mondiali di sci alle Olimpiadi. Storie di appalti sospetti, intimidazioni e sindacalisti minacciati fanno parte della letteratura giudiziaria della valle di Susa, fin dalle prime segnalazioni della Commissione Antimafia. A metà degli anni ‘90, su iniziativa della nuova magistratura antimafia creata dopo la morte di Falcone e Borsellino, fu disciolto per infiltrazioni mafiose il Consiglio comunale di Bardonecchia – primo caso, nel nord Italia. Sempre negli anni ‘90, affiorarono legami tra Susa e la ‘ndrangheta attraverso uno strano traffico di armi, centinaia di pistole cedute illegamente dalla locale armeria a una cosca calabrese “sotto gli occhi di settori dell’intelligence”, secondo gli inquirenti. Di mafia si è occupato a lungo il nuovo procuratore capo di Torino, Armando Spataro, succeduto a Gian Carlo Caselli, protagonista della dura repressione contro il movimento No-Tav, con un migliaio di cittadini denunciati, oltre 50 imputati al maxiprocesso celebrato nell’aula-bunker del carcere torinese delle Vallette e persino il rivio a giudizio dello scrittore Erri De Luca, “reo” di aver difeso lo strumento del “sabotaggio” come forma di resistenza civile contro la grande opera, che devasterebbe il territorio fino a renderlo inabitabile, mettendo in pericolo anche la salute data la presenza di amianto e uranio nel materiale di scavo.Spataro, che nel giorno del suo insediamento ha dichiarato di non gradire i giudici-superstar, si è occupato anche di terrorismo, denunciando l’opacità dei legami con alcuni settori dello Stato. Dopo aver condotto l’indagine sul rapimento illegale del mullah Abu Omar, sequestrato in Italia dal Sismi per ordine della Cia, il giudice è stato premiato per il saggio “Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza, 2010). Nucleo centrale della narrazione, è proprio la vicenda della “extraordinary rendition” del leader islamico catturato e poi torturato. L’opposizione del segreto di Stato, da parte dei governi Prodi e Berlusconi, è stata per Spataro «l’occasione per riflettere sui rapporti tra politica e magistratura e sulla violazione dei diritti umani con il pretesto della sicurezza». E’ ora l’ex magistrato di Mani Pulite a coordinare una procura, quella di Torino, impegnata nella repressione di centinaia di attivisti No-Tav, decisi a contrastare un’opera inutile, per la quale l’Europa ha appena dimezzato il già scarso contributo previsto, mentre la Francia riprenderà eventualmente in considerazione il progetto Torino-Lione solo dopo il 2013. Un’opera costosissima e ora anche inquinata dall’ombra della mafia, come anticipato dai documenti sequestrati ai No-Tav. «Bollati come terroristi che accumulavano materiale chissà per quale scopo criminale», chiosa Tizian su “L’Espresso”. «Oggi invece la storia sembra un po’ diversa: facevano lavoro di controinformazione».«Via la mafia dalla val Susa», gridarono in coro i No-Tav asserragliati a Chiomonte il 27 giugno 2011, quando scorsero la ruspa dell’Italcoge di Ferdinando Lazzaro sfondare le barricate degli attivisti per consentire ai duemila agenti di sgomberare la “Libera Repubblica della Maddalena” e avviare il mini-tunnel geognostico, primo e unico cantiere finora aperto per la linea Tav Torino-Lione, considerata la grande opera più costosa della storia italiana nonché la più inutile d’Europa, visto il crollo del traffico Italia-Francia e la presenza in valle di Susa della ferrovia internazionale Torino-Modane ormai deserta, nonostante l’ammodernamento del traforo del Fréjus. Oggi, a tre anni di distanza, i No-Tav accolgono con sollievo la retata di arresti e denunce operata dai carabinieri del Ros su ordine della direzione distrettuale antimafia del Piemonte, tesa a stroncare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella maxi-torta dell’alta velocità. «Quella dei No-Tav è anche una lotta antimafia», ha ricordato Marco Revelli al maxi-processo torinese contro gli attivisti della valle di Susa, indagati anche per terrorismo dalla procura torinese guidata da Caselli, prima che la Cassazione stabilisse l’insussistenza di quel gravissimo reato.
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I ladri spolpano il paese e gli italiani credono a un bugiardo
Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».Affarismo generalizzato, sistemico. «Irrazionale è anche pensare che la magistratura di un cosiffatto paese possa risanare il sistema», scrive Della Luna nel suo blog. Il potere giudiziario può colpire singoli imbrogli, non il sistema. Prima di Tangentopoli, la giustizia non interveniva. «Si è mossa solo nel ’92 a seguito del Britannia Party, quando si trattò di arrivare ad altri scopi, soprattutto coprire operazioni di svendita del paese», la super-privatizzazione per la quale fu cooptato Mario Draghi. Dal “sistema”, inoltre, non sono esenti spezzoni della magistratura: dopo lo scandalo Mose, lo stesso Cacciari ha rivelato di aver a suo tempo «presentato un dossier su questo scandalo in una pubblica seduta della Corte dei Conti, senza raccogliere interesse». E un giudice di questa stesa Corte «ha denunciato di aver redatto un rapporto sulle mangerie del Mose già nel 2009, ma di essere stato semi-silenziato da un superiore». Piove sul bagnato: «Gli uomini della casta si riciclano sempre tra di loro, e smettono solo se muoiono». I “Compagni G” sono inarrestabili, «non li fermi con l’interdizione dalle attività pubbliche, ma solo rinchiudendoli a vita», perché «agiscono sott’acqua e non hanno bisogno di assumere cariche pubbliche».Finché vivranno questi uomini, circa 400.000 secondo il libro “La Casta” di Aldo Rizzo e Gian Antonio Stella e almeno un milione secondo altri, «l’Italia continuerà a declinare e non inizierà alcun risanamento». Mose, in fondo, fa rima con Vajont e con Tav: opere inutili, pericolose, inquinate. Idem per lo stillicidio dell’aumento indiscriminato della cementificazione, motivato con la riduzione delle piogge: le precipitazioni sono sì calate su base annua, ma si sono concentrate in periodi rischiosi, moltiplicando le alluvioni. Ma il cemento, si sa, fa comodo al “sistema”. Per non parlare del problema numero uno, la finanza pubblica “privatizzata” dai signori dell’euro. Perché non indagare penalmente anche lì, continua Della Luna, dal momento che l’Italia continua a non avvalersi dell’articolo 123 del Trattato di Maastricht che consente agli Stati di finanziarsi presso la Bce attraverso una banca pubblica? In quel modo, il nostro paese «pagherebbe interessi dello 0,25 o 0,15 % anziché del 5% sul debito pubblico, risparmiando 80 miliardi l’anno». Meglio invece «prelevare 57 miliardi con le tasse dagli italiani già colpiti dalla recessione solo per darle ai banchieri predoni francesi e tedeschi onde assicurare i loro profitti nei prestiti fraudolentemente da loro concessi a Grecia, Spagna e Portogallo».E ancora: «Perché non indagare i cancellieri europei che hanno premuto in tal senso, forse ricattando e limitando nella loro libertà le nostre istituzioni, appoggiati dai banchieri e dalle società di rating? Perché non aprire un fascicolo sull’imposizione all’Italia dell’euro, che si sapeva, tecnicamente, che avrebbe causato ciò che ha poi causato? Lo si era già visto con lo Sme, molti economisti di vaglia l’avevano predetto e gli effetti del blocco dei cambi erano descritti nei libri di testo». Già, perché non indagare? Il solo divorzio tra Stato e Banca d’Italia, nel 1981, ha raddoppiato in pochi mesi il rapporto tra debito pubblico e Pil, cessando la funzione di Bankitalia come “bancomat” del governo a costo zero, per favorire l’interesse speculativo della finanza privata. «La politica italiana degli ultimi decenni è piena di simili scelte distruttive per il paese e lucrative per determinati soggetti finanziari, in termini sia di denaro che di potere». Dunque, «perché non indagare se costituiscano crimini contro gli interessi nazionali? Alto tradimento? Attentato alla sovranità e indipendenza nazionali mediante violenza economico-finanziaria sulla popolazione e sull’economia del paese?». E cosa si scoprirebbe, «rovistando nei circuiti di compensazione bancaria semi-segreti» come Clearstream, Euroclear e Swift? Magari che «i nostri politici, ministri, altri statisti, oltre a prendere soldi dalle grandi imprese per i grandi appalti, hanno preso soldi o altre utilità da finanzieri o statisti stranieri per fare quelle operazioni disastrose per l’Italia».Forse, continua Della Luna, «agli italiani non interessa nulla di ciò che riguarda la sfera della legalità e della moralità, e accettano che i loro governanti siano sleali e traditori». Un nome a caso, Matteo Renzi: «Oggi riscuote successo e consenso un personaggio che ha pugnalato alle spalle il suo compagno di partito, allora premier, dicendoli di stare tranquillo, che non gli avrebbe tolto Palazzo Chigi. Un personaggio che ha violato la promessa fatta pochi giorni prima alla nazione, dicendo che non avrebbe accettato il premierato se non passando per le urne». Davvero ottime credenziali, per un moralizzatore: in qualsiasi altro paese, la sua carriera politica sarebbe finita. In Italia, invece, quei vizi capitali diventano virtù. Lo sanno bene «i poteri che lo hanno scelto», spianandogli la strada con tutta la potenza dei media mainstream. Sapevano che gli italiani ci sarebbero cascati, magari con l’aiutino degli 80 euro – carota per gonzi, immediatamente compensata con più tasse e meno servizi.Chi se ne importa se Renzi «non ha una strategia macroeconomica per rimediare», pazienza se «la disoccupazione, la domanda interna, gli investimenti, il debito pubblico continuano a peggiorare». Tutto ciò che il governo fa è «autofinanziarsi prendendo i soldi del risparmio degli italiani per ridistribuirli senza creare nuove fonti di reddito al paese». L’apparato del partito pigliatutto ha una storia analoga a quella degli altri partiti di potere: il Pd «non ha chiarito come i suoi uomini hanno gestito o lasciato gestire il Monte dei Paschi di Siena, saccheggiando di oltre 10 miliardi». Tutto ciò «non impedisce al novello statista di dichiarare, con la massima e più virginale serietà di espressione, che se fosse per lui condannerebbe per alto tradimento tutti i pubblici funzionari e amministratori che si lascino corrompere. Davvero il personaggio giusto, per ridare la moralità alla Repubblica!». In Italia, chi fa davvero sul serio resta isolato. Come il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, titolare dell’indagine sul Mose: quando nel 1997 scrisse il saggio “Giustizia” che metteva alla berlina il sistema Tangentopoli, permettendosi anche «alcune benevole e mitigatissime critiche alle lobbies dei suoi colleghi e ai parteggiamenti filocomunisti di certuni», secondo Della Luna l’Anm «attaccò il dottor Nordio con toni e contenuti molto preoccupanti, esagerati e sorprendentemente minacciosi per un paese in cui vige libertà di espressione». Avanti Renzi, dunque. Show must go on.Il Mose di Venezia, la ricostruzione dell’Aquila, l’Expo di Milano, il villaggio della Maddalena, il sistema Sesto (San Giovanni), gli scandali della protezione civile, le mangerie sulla sanità e sui rifiuti nel meridione e nel Lazio, le ruberie sulla Tav e le porcate nei consigli regionali di mezza Italia (tutti quelli su cui si indaga), gli sprechi nei palazzi siciliani: «Tutto questo mostra che gli apparati dei partiti politici e della burocrazia sono strutturalmente dediti a queste cose, che la politica e l’amministrazione vivono di questo». Accusa Marco Della Luna: «La partitocrazia equivale alla mafia: controllo del territorio, lavoro, istituzioni, spesa pubblica». Grazie all’apparato dei partiti, è inevitabile che da noi le opere pubbliche costino il doppio o il triplo. Ed è infantile sperare in qualche politico salvatore della patria: «Qualsiasi premier, qualsiasi statista politico poggia per il potere e per la fiducia in Parlamento su quegli apparati di partito e di burocrazia, che non lo appoggerebbero se egli impedisse i loro traffici».
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Tribunale dei Popoli, la valle di Susa si appella al mondo
Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?A firmare l’esposto è Livio Pepino, già alto magistrato italiano, insieme a Sandro Plano, presidente della Comunità Montana, appena rieletto primo cittadino di Susa. Con loro i sindaci dei principali centri della valle, da Avigliana a Bussoleno. Tra i firmatari, celebrità internazionali come l’economista Riccardo Petrella e l’archeologo Salvatore Settis, combattenti per i diritti come Alex Zanotelli, grandi giornalisti del calibro di Paolo Rumiz. Insieme a nomi da sempre accanto alla battaglia civile della valle di Susa – dal professor Marco Revelli al climatologo Luca Mercalli – condividono l’appello al Tribunale dei Popoli la presidente di Emergency Cecilia Strada e popolari vignettisti come Ellekappa e Sergio Staino. Con la valle di Susa si schierano l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici (avvocato Roberto Lamacchia), l’omologa International Association of Democratic Lawyers e la European Association of Lawyers for Democracy & World Human Rights. Aderiscono autorevolissimi magistrati: Domenico Gallo, consigliere presso la Corte di Cassazione, e Paolo Maddalena, vicepresidente emerito della Corte Costituzionale. Firma anche il giurista Giovanni Palombarini, già procuratore generale aggiunto della Cassazione.Mentre il movimento No-Tav è alla sbarra in seguito agli scontri con la polizia susseguitisi a partire dal 2011 a Chiomonte, sito dell’unico mini-cantiere finora attivato (solo una galleria esplorativa, nulla a che vedere con l’ipotetico traforo ferroviario), i media mainstream e la politica al potere evitano accuratamente, da vent’anni, di accettare la sfida democratica ingaggiata dai valsusini. I tecnici universitari scesi in campo accanto al movimento – centinaia di professori e ingegneri – dimostrano che la grande opera in progettazione è un attentato alla salute (rischio tumori, a causa delle polveri di amianto e uranio), una garanzia di devastazione del territorio (catastrofe abitativa e idrogeologica), un bagno di sangue per il debito pubblico italiano (almeno 20 miliardi di euro, mentre l’Ue ha appena dimezzato il già irrisorio contributo europeo). Sacrifici ritenuti intollerabili, soprattutto per una ragione: la linea Tav italo-francese, destinata alle merci, sarebbe completamente inutile.Il traffico lungo l’asse est-ovest è infatti crollato, e l’attuale linea internazionale valsusina che già collega Torino a Lione è praticamente deserta, nonostante l’Italia abbia recentemente speso 400 milioni di euro per migliorare la capacità del traforo del Fréjus. Il tunnel, tra Bardonecchia e Modane, oggi è in grado di accogliere treni con a bordo Tir e grandi container navali. Secondo la Svizzera, cui Bruxelles ha affidato il monitoraggio dei trasporti alpini, oggi la valle di Susa potrebbe incrementare del 900% il trasporto Italia-Francia. Perché costruire un inutile doppione, costosissimo e da vent’anni avversato dalla popolazione? A rendere particolarmente odiosa la grande opera più contestata d’Italia, il sospetto che l’ombra della mafia si allunghi sulle operazioni di cantiere: i No-Tav hanno inutilmente sottoposto al tribunale di Torino il corposo dossier del Ros inerente l’indagine “Minotauro” sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. In base al lavoro antimafia dei carabinieri, i militanti denunciano collegamenti pericolosi tra le cosche del Canavese e alcune imprese coinvolte nei lavori di movimento terra in valle di Susa.Molti aspetti della crisi scoppiata attorno alla Torino-Lione vanno ben oltre la valle di Susa, sostengono i firmatari, che denunciano «questioni di evidente rilevanza generale»: dalle crescenti devastazioni ambientali, «lesive dei diritti fondamentali dei cittadini attuali e delle generazioni future», fino alla «drastica estromissione dalle relative scelte delle popolazioni», anche in violazione di trrattati internazionali come la Convenzione di Aarhus del 1998. Ecco il punto: la valle di Susa è «espressione e simbolo» del grande male odierno, cioè l’esproprio antidemocratico del futuro, sotto forma di «trasferimento a poteri economici e finanziari nazionali e internazionali di decisioni di primaria importanza per la vita di intere popolazioni». I firmatari segnalano «situazioni in cui la violazione dei diritti fondamentali di persone e popolazioni avviene in modo meno brutale di quanto accaduto in altre vicende prese in esame dal Tribunale», che si è occupato delle maggiori tragedie umanitarie, da Timor Est all’Afghanistan. Ma la valle di Susa segna «la nuova frontiera dei diritti a fronte di attacchi che mettono in pericolo lo stesso equilibrio (ecologico e democratico) del pianeta».Ne sono convinti attivisti internazionali di prima grandezza: dal boliviano Oscar Olivera, paladino dell’acqua di Cochabamba, premio Goldman per l’ambiente, alla canadese Laura Westra, presidente dell’Ecological Integrity Group. Con la valle di Susa anche l’olandese Rembrandt Zegers di Greepeace International, lo statunitense David Bollier (Commons Strategy Group per i beni comuni) e il messicano Gustavo Esteva, economista, fondatore dell’Universidad de la Tierra a Oaxaca. Imponente il parterre universitario italiano: Marco Aime (Genova), Gaetano Azzariti, Piero Bevilacqua e Gianni Ferrara (Roma), Luciano Gallino e Angelo Tartaglia (Torino), Tomaso Montanari (Napoli) e Danilo Zolo (Firenze). E poi universitari di mezzo mondo, uniti per la causa valsusina: Weston Burns (Iowa, Usa), Fritjof Capra e Herbert Walther (Vienna), Vito De Lucia (Norvegia), Ugo Mattei (California), Laura Nader (Berkeley), Simon Read (Londra) e Anna Grear (Waikato, Nuova Zelanda). Fortissima anche la presenza dei cattolici latinoamericani, che come Leonardo Boff si sono riavvicinati al Vaticano con il pontificato di Papa Francesco: firmano per la valle di Susa il domenicano brasiliano Frei Betto, il connazionale benedettino Marcelo Barros, celebre biblista e scrittore, e il teologo Waldemar Boff che in Brasile dirige “Água Doce Serviços Populares”.Sicuri che sia accettabile la legge imposta alla valle di Susa in nome dell’opaco business finanziario chiamato Tav? Sicuri che il trattamento inflitto alla popolazione sia conforme alle prescrizioni dei trattati internazionali? Nel silenzio delle autorità italiane – caduti nel vuoto tutti gli appelli alle istituzioni romane, da Palazzo Chigi al Quirinale – da oggi se ne occuperà il Tribunale Permanente dei Popoli, fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso per tutelare i diritti delle genti calpestate dalla storia. L’appello degli amministratori valsusini, che si rivolge a questa prestigiosa tribuna internazionale di giuristi, è stato subito sottoscritto da personaggi mondiali di prima grandezza, da Dario Fo al brasiliano Leonardo Boff, fondatore della teologia della liberazione, dal profeta francese della decrescita Serge Latouche al regista cinematografico inglese Ken Loach, insieme a docenti universitari di tutto l’Occidente. Domanda: il mondo civile può accettare che una popolazione sia maltrattata per vent’anni e costretta a subire una maxi-opera completamente inutile, pericolosa e devastante per il territorio?
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Hitler a spasso in Argentina, non muore la leggenda nera
Fantasia o realtà? Per ora, solo un mistero. Ma la stampa inglese rimette in discussione questo tema, sulla base dell’archivio riguardante la sorte di Adolf Hitler, desecretato dall’Fbi nel giugno 1998: il genocida nazista e la moglie Eva Braun non sarebbero morti nel loro bunker a Berlino il 30 aprile 1945, dando esecuzione al loro patto suicida, ma sarebbero scappati con un sottomarino verso l’Argentina. Secondo i documenti dell’Fbi, sui quali si basano le informazioni dei quotidiani “Daily Express” e “Sunday Express”, questa pista sarebbe stata indicata a un agente nordamericano da un cittadino argentino residente a Los Angeles, California, che nel settembre del 1945 gli avrebbe riferito che Hitler sarebbe sbarcato sulle coste della Patagonia, più precisamente presso il Golfo San Matias, nel mese di maggio dello stesso anno, un paio di settimane dopo la caduta di Berlino.Secondo tale testimonianza, due sottomarini lo avrebbero portato alla località nota come Caleta de los Loros, situata nel Golfo di San Matias, sulla costa atlantica argentina. Le due imbarcazioni sarebbero state affondate a circa 800 metri dalla costa e avvistate per anni dagli abitanti della zona nei periodi di bassa marea, nei quali erano visibili le sagome parzialmente coperte dalla sabbia; questo secondo la testimonianza di un pilota civile, Mario Chironi, che era solito sorvolare la zona negli anni Cinquanta, pubblicata dal quotidiano “La Nación” di Buenos Aires il 6 luglio 1998. Gli archivi dell’Fbi, una volta segreti, riferiscono che, dopo una notte passata in un hotel della città di San Antonio Oeste (piccola città la cui economia all’epoca dipendeva dalla fabbrica tedesca Sassenberg & Cia), Hitler e quelli che erano con lui furono trasferiti verso la Cordigliera delle Ande, stabilendosi per molto tempo nella proprietà di una famiglia tedesca residente a San Carlos de Bariloche, la Hacienda San Ramon.A partire da quel periodo, i dati sono diventati imprecisi e confusi. Un informatore afferma di aver visto Hitler che camminava per una via di Charlottesville, Virginia (Usa), il 18 luglio 1946. Un altro luogo dove il Führer sarebbe stato avvistato il 16 luglio 1947 è un casinò «tra Buenos Aires e Rio de Janeiro», città distanti 2.000 km l’una dall’altra, presumibilmente a “Rio Grande del Sur”, che non è una città, bensì uno Stato di più di 280.000 kmq. I rapporti di intelligence presentati al capo dell’Fbi, J. Edgar Hoover (1895-1972), raffigurano Hitler come un turista che passeggia tra il Sudamerica e gli Stati Uniti. Quelli che credono alla versione secondo cui il gerarca tedesco non morì a Berlino, sostengono che egli riuscì a scappare con l’aiuto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, prima che l’Unione Sovietica prendesse il controllo della capitale tedesca, in cambio di denaro e trasferimento di tecnologie.Le opinioni divergono, però, sul luogo e sulla data della sua morte: taluni affermano che sarebbe morto in Paraguay nel febbraio 1971, altri a Cordoba (Argentina) nel 1962, altri ancora a Nossa Senhora do Livramento (Brasile) nel 1984, stando alla pubblicazione, da parte di “O Globo”, con acclusa una foto di un Hitler abbracciato alla sua amante mora! Se è accertato che l’individuazione di Adolf Eichmann nella zona suburbana di Buenos Aires nel maggio 1960 e il suo sequestro da parte del Mossad sono stati resi possibili dalla soffiata di un vicino, mentre le precedenti operazioni di spionaggio erano fallite, sembra invece poco credibile che, se Hitler si muoveva veramente con tanta libertà su e giù per il continente americano, non venisse individuato dai servizi di intelligence israeliani per catturarlo e condurlo davanti alla corte marziale. Tuttavia, anche i corpi trovati nel bunker di Berlino, parzialmente calcinati, non poterono mai esser veramente identificati, secondo quanto riferito da Stalin a Churchill.Gli archivi segreti dell’Fbi che danno spazio a tutte queste congetture furono declassificati nel 1998. Ma cosa c’è di nuovo? Abel Basti, giornalista argentino residente dal 1978 a Bariloche, che ha anche lavorato come guarda forestale nella zona dove si dice che Hitler abbia vissuto almeno tra il 1945 e il 1955, ha finito di pubblicare la sua ricerca sulle tracce del Führer in Argentina (“Tras los pasos de Hitler”, Editorial Planeta, 2014), quinto libro di una saga iniziata con “Bariloche Nazi” (2004), “Hitler en la Argentina” (2006), “El exilio de Hitler” (2010) e “Los secretos de Hitler” (2011). Basti mette direttamente in relazione l’arrivo di Hitler in Argentina con l’esistenza dei due sottomarini affondati nel Golfo di San Matias, alla cui ricerca ha partecipato. Finora i tentativi di recupero delle due imbarcazioni non hanno avuto successo, anche perché, secondo il giornalista, la mancanza di coordinate esatte rende difficoltosa la loro individuazione; comunque, la ricerca continua ancora oggi mediante l’impiego di magnetografi.Basti sostiene che questi due sottomarini facevano parte di una dozzina di “U-Boote” che salparono dall’Europa alla fine della seconda guerra mondiale per portare in salvo ufficiali, beni, denaro e documentazione nazista, parte dell’operazione Paper Clip patteggiata tra tedeschi e alleati, e che gli altri due sottomarini che si recarono il 17 agosto 1945 a Mar del Plata (Argentina) facevano parte della stessa flotta che aveva condotto Hitler in Patagonia. Nel suo ultimo libro, Basti afferma che Hitler si mosse in totale libertà in diversi paesi del Sudamerica sotto false identità, come Adolf Schütelmayor o Kurt Bruno Kirchner (sì, Kirchner!), raccogliendo le supposte testimonianze della sua assaggiatrice di cibi, Eloisa Lujan, e della nipote della sua cuoca, Carmen Torrentegui, che sarebbero state sempre vicine al genocida tedesco.L’opera di Basti è contestata, accusata di plagio. Si dice sul web che sia una brutta copia di precedenti titoli (“Gestapo Chief” di Gregory Douglas, “Hitler’s escape” di Ron. T. Hansic, “Escape from the bunker” di Harry Cooper e “El escape de Hitler” de Patrick Burnside), tutti libri carenti di rigore storico e documentale. A sua volta, Basti ha accusato di plagio Simon Dunstan e Gerrard Williams, autori di “The Grey Wolf: The escape of Adolf”, con i quali afferma di aver firmato un contratto per la pubblicazione del suo libro in Inghilterra e ricavarne anche un film. Gli inglesi sono però spariti, per poi pubblicare il suo libro presso la casa editrice Sterling Publishing, anch’essa querelata da Basti. Misteri ancora irrisolti, dati da confermare e accuse incrociate continuano ad aleggiare sopra di noi, proiettando l’ombra del demone nazista.(Horacio Morel, “Hitler a spasso in Argentina: cosa c’è di vero nella leggenda nera?”, da “Il Sussidiario” del 3 maggio 2014).Fantasia o realtà? Per ora, solo un mistero. Ma la stampa inglese rimette in discussione questo tema, sulla base dell’archivio riguardante la sorte di Adolf Hitler, desecretato dall’Fbi nel giugno 1998: il genocida nazista e la moglie Eva Braun non sarebbero morti nel loro bunker a Berlino il 30 aprile 1945, dando esecuzione al loro patto suicida, ma sarebbero scappati con un sottomarino verso l’Argentina. Secondo i documenti dell’Fbi, sui quali si basano le informazioni dei quotidiani “Daily Express” e “Sunday Express”, questa pista sarebbe stata indicata a un agente nordamericano da un cittadino argentino residente a Los Angeles, California, che nel settembre del 1945 gli avrebbe riferito che Hitler sarebbe sbarcato sulle coste della Patagonia, più precisamente presso il Golfo San Matias, nel mese di maggio dello stesso anno, un paio di settimane dopo la caduta di Berlino.
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I grandi ladri dell’élite mondiale: uno scandalo al giorno
Siamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.Ebbene, lunedì scopriamo che la medesima banca avrebbe allungato circa 400 milioni di commissioni a un suo azionista per evitare il fallimento. Le autorità inglesi indagano. Ma non finisce qui. Questa volta è il procuratore generale di New York a prendere di mira Barclays (con Goldman Sachs e Credit Suisse). È un’inchiesta delicatissima sugli scambi ad alta frequenza e su piattaforme (su cui si scambiano titoli) piuttosto oscure. Per darvi un’idea, sul mercato italiano (nonostante la Tobin tax, inutile anche su questo) circa il 22 per cento degli scambi si svolge in queste forme. Manipolare tassi di interesse e scambi sul mercato, per un’istituzione finanziaria, è il peccato peggiore che si possa immaginare. Non è un caso, la notizia è di ieri, che il mercato dell’argento nato a Londra 117 anni fa, il prossimo 14 agosto chiude battenti: chi si fida di questi trader?Martedì scopriamo che Bnp Paribas, una delle principali banche francesi, e il solito Credit Suisse, sono nuovamente nei guai con gli americani. I francesi rischiano una multarella da 3,5 miliardi (praticamente l’Imu sulla prima casa). Mica un fulmine a ciel sereno: a Parigi si aspettavano una sanzione da un miliardino. Triplicata. I banchieri avrebbero fatto affari con paesi sotto embargo, e avrebbero continuato a farlo anche quando pizzicati dalle autorità americane. Si tratterebbe della multa più alta mai pagata da una banca in America. Il record, di due anni fa, era di Hsbc che versò 1,2 miliardi per aver riciclato i dollari dei narcotrafficanti. Il quel caso, visto che si raggiunse un accordo con il dipartimento di giustizia, venne coniato il termine (solo per le tangenti bancarie anglosassoni): “too big to jail”, troppo grandi per la galera. Il ministro delle finanze francese si è presentato in America per fare lobby, ma il procuratore generale lo ha spaventato e in un video ha detto che nessuna banca è più “too big to jail”. Si è dimenticato del passato.Mercoledì c’è poco da segnalare. Non vorrete commentare Bernie Ecclestone. Il boss della F1 si presenta al tribunale di Monaco con aereo privato, limo, traduttrice privata, stuolo di avvocati e parcheggia nel sotterraneo riservato ai giudici. Con questa pattuglia di assistenti ascolta il suo accusatore che la spara: Bernie mi ha offerto una mazzetta di 80 milioni di dollari per cedere la sua quota della F1. E mi ha anche spiegato che conveniva farlo a Singapore, perché si tratta di un porto sicuro: non paghi le tasse e non ti beccano. Peanuts. Bernie prende il suo jet e se ne va: altro che Maltauro. Giovedì ci si diverte. I giudici cinesi mettono sotto accusa l’inglese Gsk. Il colosso farmaceutico avrebbe pagato stecche a non finire su tutto il territorio cinese, per vendere i suoi medicinali al prezzo otto volte superiore al resto del mondo. Già sentita questa storia. L’indagine va avanti da 10 mesi. Il gruppo licenzia alcuni manager di vertice. Nell’ultimo trimestre del 2013 Gsk, vede crollare le vendite in Cina quasi del 30%. Le autorità parlano di «corruzione su larga scala».Ma torniamo alle nostre banchette. Proprio nel giorno delle indagini su Bazoli & Pesenti, scopriamo che una delle più grandi istituzioni americane, Citi, licenzia 11 dirigenti chiave in Messico. Avrebbero prestato 400 milioni di dollari, grazie all’emissione di fatture false e senza vedere indietro il becco di un quattrino. Poca roba rispetto all’indagine aperta contemporaneamente in Massachusetts, sulla medesima controllata di Citi in Messico, per un’ipotesi di riciclaggio del narcotraffico. Venerdì scopriamo, sempre sulla prima pagina del “Ft”, che il capo di Deutsche Bank se la prende con i propri trader. Invia loro una mail dicendo di non dire più parolacce. «È tutto registrato e al prossimo scandalo (del genere manipolazione tassi di interesse) farebbe molto male alla reputazione della banca, vedere il linguaggio scurrile con cui parlate» è più o meno il senso della richiesta.Venerdì è un giorno buono per la stampa specializzata in corruzione, cioè quella finanziaria. Ci sono i broker americani che pagano prostitute per i propri clienti, c’è la casa automobilistica che non cambia elettronica difettosa e potenzialmente mortale, c’è il tycoon brasiliano che vende le sue azioni il giorno prima del fallimento e nessuno lo può toccare. Insomma c’è, come sempre, di tutto. Resta il fatto che siamo dei dilettanti. Ma dei professionisti nel pensare presuntuosamente di essere peggio di tutti al mondo.(Nicola Porro, “Stecche e tangenti? All’estero sì che ci sanno fare”, dal blog di Porro su “Il Giornale” del 19 maggio 2014).http://www.ilgiornale.it/news/interni/stecche-e-tangenti-allestero-s-che-ci-sanno-fare-zuppa-porro-1020294.htmlSiamo dei principianti. In tema di stecche, tangenti, corruzione, mazzette siamo dei principianti. Questa settimana sembrava essere andata alla grande. Si parte con il milioncino dell’Expo, si passa per i finanzieri Magnoni, addirittura si pizzica Nanni Bazoli con i suoi amici bresciani e poi Giampiero Pesenti e la barca con lo sconto grazie al leasing dell’Ubi. Come sempre si propongono nuove leggi e maggiori pene. Ma non ci siamo. Bastava sfogliare il “Financial Times” di questa settimana e accorgersi che, rispetto al resto del mondo, siamo dei dilettanti. Occorre imparare. A smazzettare, si intende. Lunedì si parte con Barclays. Ancora, qualche informato potrà dire. Eh sì: altro che Greganti e Frigerio. Fu la prima a cadere in “tassi puliti” e confessare. Questi galantuomini un paio di anni fa si misero a truccare il Libor, i tassi di interesse interbancari, in combutta con altri soci (Royal Bank of Scotland, Société Générale, Credit Agricole, Hsbc, Jp Morgan, Citigroup, Deutsche Bank e Ubs), ammisero la colpa, fecero fuori i loro capi e fecero pagare ai propri azionisti complessivamente un paio di miliardi in multe.
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Rettighieri, all’Expo l’uomo del cantiere Tav alla Cmc
Cmc è impegnata a Chiomonte nel maxi-appalto più contestato d’Italia, quello per il tunnel geognostico della Torino-Lione. E a Milano, dopo gli arresti per lo scandalo dell’Expo, potrebbe arrivare proprio l’ex direttore di Ltf, la società del Tav.«In attesa che l’inchiesta sull’Expo continui e abbia nuovi risvolti – scrive Fabio Tanzilli su “Valsusa Oggi” – il governo Renzi avrebbe già deciso a chi assegnare il ruolo di direttore: nientemeno che all’ex direttore di Ltf, Marco Rettighieri. Lo stesso che ha seguito, tra le varie cose, il cantiere Tav della Maddalena». Nelle carte giudiziarie del Tribunale di Milano, che descrivono in maniera dettagliata lo scandalo dell’Expo e le motivazioni «che hanno portato agli arresti eccellenti di una banda di politici, dirigenti, faccendieri e imprenditori» per la gestione irregolare degli appalti pubblici, viene citata più volte anche la famosa Cmc, attiva anche in valle di Susa. «L’aspetto interessante – aggiunge Tanzilli – riguarda soprattutto il ruolo che avrebbe Primo Greganti, fino a ieri tesserato del Pd a Torino, e il suo rapporto con la Cmc». Già nel 2013 la Cmc chiese a Greganti informazioni sul padiglione Cina. «Trent’anni fa l’avevo portata io la Cmc a Shangai», si sarebbe vantato Greganti, che – secondo gli inquirenti – avrebbe ottenuto contratti fittizi di consulenza, per giustificare le elargizioni di denaro in cambio della sua diplomazia affaristica pro-Cmc.Il nome della potente cooperativa rossa, aggiunge Tanzilli, ricorre nelle pagine dell’ordinanza del Tribunale anche per un altro episodio, la preoccupazione dei personaggi dello scandalo Expo per un problema giudiziario che ha coinvolto la Cmc a Molfetta: l’arresto del procuratore speciale della cooperativa nel cantiere pugliese, dopo che si è scoperta la truffa riguardante il “cantiere fantasma” del porto. «Nelle chiacchierate della banda dell’Expo, è in particolar modo Maltauro (l’imprenditore vicentino arrestato che sarebbe a capo del gruppo delle turbative d’asta) a definire quello della Cmc un problema pesante e serio». E qui ricompare il nome di Greganti, «che avrebbe avuto il ruolo di “soccorritore”, pronto a tranquillizzare gli animi e ad escogitare qualcosa per risolvere il problema e tutelare la Cmc». Secondo Gad Lerner, personaggi come il presidente della Cmc, Matteucci, «lasciano bene intendere chi tenga il coltelllo dalla parte del manico anche nel rapporto con i dirigenti dei partiti della sinistra». Illegalità o no, chiosa il sito “NoTav.info”, il fatto che colpisce è «l’intreccio di potere tra i soliti noti e i partiti, che – come avvoltoi – decidono le grandi opere e i grandi eventi per spolpare più denaro pubblico possibile».Marco Rettighieri, dirigente di Italferr, sostituisce Angelo Paris, responsabile dell’Expo di Milano, arrestato per la devastante tangentopoli attorno al grande evento mondiale. Notizia: Rettighieri è stato direttore di Ltf, la società della Torino-Lione, che per l’unico cantiere finora aperto – quello del tunnel geognostico di Chiomonte – ha ingaggiato proprio la Cmc di Ravenna, ora nell’occhio del ciclone per il ruolo strategico che a Milano avrebbe affidato a Primo Greganti, secondo gli inquirenti pagato con consulenze fittizie per giustificare le elargizioni di denaro in cambio del suo impegno “diplomatico” a favore della potente cooperativa rossa di Ravenna. «A una decina di giorni dall’arresto di Primo Greganti – complimenti per la tempestività – il presidente della Cmc di Ravenna in una intervista a “La Repubblica” ammette che fra la sua cooperativa e il faccendiere Primo Greganti era vigente un contratto di consulenza», osserva Gad Lerner nel suo blog.
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Figlio mio in carcere, la barbarie contro chi osa dire no
Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.Carissimo Mattia, perché ti abbiamo insegnato il dovere di dissentire, di ribellarti davanti alle ingiustizie? Perché ti abbiamo trasmesso l’amore per l’umanità e per la terra? Non era meglio lasciarti crescere cullato dall’edificante cultura offerta dal nostro paese negli ultimi vent’anni? Sono certa che risponderai di no, che preferisci mille volte essere chi sei – e dove sei – piuttosto che adeguarti a questo spettacolo raccapricciante, offerto da chi esercita l’abuso di potere applaudendo gli assassini di Altrovaldi, rispondendo con i manganelli e la prigione ai movimenti popolari che nascono dalle necessità reali della gente, ignorate da chi dovrebbe cercare e trovare delle risposte.Carissimo figlio, sabato 10 saremo – siamo – tutti qui alla manifestazione contro la barbarie dell’accusa di terrorismo, contro la devastazione della val di Susa, per la libertà di dissenso, per il diritto degli italiani a un’esistenza dignitosa. Ci siamo tutti, e siamo tanti. Manifestiamo tutto l’amore che proviamo per te, ma anche per Claudio, Chiara, Nicolò e tutti gli indagati del movimento No-Tav. E la promessa è di non smettere mai di lottare fino a quando non vi riporteremo a casa. Un abbraccio. Mamma.(Testo della lettera che la madre di Mattia Zanotti ha indirizzato al figlio in carcere e letto pubblicamente di fronte alle migliaia di militanti No-Tav accorsi a Torino il 10 maggio 2014 per protestare contro l’arresto di Mattia, detenuto in un carcere di massima sicurezza dal 9 dicembre 2013. Mattia è stato arrestato insieme a Claudio Alberto, Chiara Zenobi e Niccolò Blasi: contro i quattro giovani è stata formulata l’accusa di attentato con finalità terroristiche per aver partecipato, il 13 maggio 2013, a un assalto notturno al cantiere Tav di Chiomonte, con lancio di molotov e petardi. Nel blitz, conclusosi senza neppure un ferito, andò a fuoco un piccolo macchinario di cantiere, un compressore).Carissimo figlio, perdonami se rendo pubblica questa lettera, ma ciò che ci accade non appartiene solo a noi. Tra pochi giorni sono cinque mesi che sei chiuso in carcere. Tanta vita rubata. Sono 150 lunghi giorni, e 150 lunghe notti di angoscia. Ti chiedo sempre di tenere duro, ma sono io che non ho più la forza. L’amarezza a tratti mi sommerge, lo sdegno mi ferma il respiro. Mi sveglio di soprassalto ogni notte, e nel silenzio mi sembra di poterti raggiungere, nell’isolamento atroce in cui ti costringono. L’idea di vivere in un paese che permette che questo accada mi ripugna. Sono oscene, queste maschere del potere, interessate solo alle loro poltrone e ai loro portafogli. La corruzione in Italia è spaventosa, la politica ha perso qualsiasi ideale di giustizia e di uguaglianza, e per voi giovani non c’è nulla: il vostro futuro è stato depredato da chi oggi vi giudica. Né lavoro, né aria che si possa respirare, né terra pulita. E né libertà: dovete tacere, dovete subire, altrimenti essere incarcerati.