Archivio del Tag ‘inciucio’
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Sinistra neoliberista? Impossibile. Ditelo, ai morti del Pd
Il Pd si sta macerando in una dolorosa e lunga agonia senza sbocco. Quello che li tormenta sono due cose: il nome del segretario e se e con quali alleati andare alle elezioni, senza rendersi conto che tanto l’una quanto l’altra cosa sono gli ultimi problemi in una situazione del genere. Il punto è la prospettiva politica che manca. I dirigenti del Pd, se volessero davvero fare il loro dovere, dovrebbero chiedersi in un convento in alta montagna e, cinti di cilicio e muniti di flagellum, autoflagellarsi chiedendosi ad alta voce: «Ma come abbiamo fatto a consegnare il paese a questa maggioranza?». Se poi gli venisse difficile autoflagellarsi, potrebbero chiedere aiuto e sarei pronto a dargli una mano. Loro si dividono in due correnti principali: i renziani, per i quali la colpa è dell’elettorato (che si è sbagliato a votare) e gli anti-renziani, che ammettono che a sbagliarsi è stato il Pd che «non ha saputo comunicare». E hanno torto tutti e due, perché non l’elettorato, ma il Pd, si è sbagliato – e non perché non ha saputo comunicare, ma perché ha fatto una politica di merda. Scusate la rudezza dell’espressione, ma la politica del Pd nell’ultima legislatura non merita altro appellativo.Il Pd è destinato a scomparire perché non è in grado di riconoscere i suoi errori e, perciò stesso, è condannato a ripeterli. Ad esempio, Martina è un bravissimo ragazzo animato dalle migliori intenzioni, Zingaretti ci mette molta buona volontà, Franceschini mostra segni di pentimento per aver spalleggiato Renzi (del quale non parlo nemmeno), ma tutti si ostinano a giocare la carta della “sinistra interna al sistema”, senza rendersi conto che nel sistema neoliberista (in particolare in tempi di crisi) non c’è spazio per alcuna sinistra. Il neoliberismo è un ordinamento costitutivamente di destra, che non ammette altro da sé, e la sinistra non può che collocarsi al di fuori di esso e lavorare per il suo crollo. E questo ha una serie di implicazioni, che vanno dall’atteggiamento verso l’attuale Unione Europea (con quel gioiello che è la sua moneta) sino alla politica delle privatizzazioni, al come affrontare l’immigrazione, eccetera.Ma il Pd ha le risorse intellettuali, la volontà politica, il coraggio per affrontare simili questioni? Non credo. E allora perché gli elettori dovrebbero tornare a votarlo? Per anni questo è accaduto perché ha retto l’incanto del “partito di sinistra” che era l’alternativa alla destra, pur con i suoi cedimenti occasionali. Ma, una volta chiarito che non di cedimenti occasionali si trattava e rotto l’incanto della alternativa, non c’è più niente da fare: gli incanti, una volta spezzati, non si ricompongono mai più. La situazione attuale si spiega in poche poverissime parole: Pd e Forza Italia sono stati il male, M5S e Lega sono il rimedio sbagliato di cui dobbiamo liberarci, ma non certo per tornare indietro. Serve altro, serve roba nuova.(Aldo Giannuli, “Perché il Pd è destinato a morire”, dal blog di Giannuli del 26 settembre 2018).Il Pd si sta macerando in una dolorosa e lunga agonia senza sbocco. Quello che li tormenta sono due cose: il nome del segretario e se e con quali alleati andare alle elezioni, senza rendersi conto che tanto l’una quanto l’altra cosa sono gli ultimi problemi in una situazione del genere. Il punto è la prospettiva politica che manca. I dirigenti del Pd, se volessero davvero fare il loro dovere, dovrebbero chiedersi in un convento in alta montagna e, cinti di cilicio e muniti di flagellum, autoflagellarsi chiedendosi ad alta voce: «Ma come abbiamo fatto a consegnare il paese a questa maggioranza?». Se poi gli venisse difficile autoflagellarsi, potrebbero chiedere aiuto e sarei pronto a dargli una mano. Loro si dividono in due correnti principali: i renziani, per i quali la colpa è dell’elettorato (che si è sbagliato a votare) e gli anti-renziani, che ammettono che a sbagliarsi è stato il Pd che «non ha saputo comunicare». E hanno torto tutti e due, perché non l’elettorato, ma il Pd, si è sbagliato – e non perché non ha saputo comunicare, ma perché ha fatto una politica di merda. Scusate la rudezza dell’espressione, ma la politica del Pd nell’ultima legislatura non merita altro appellativo.
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Il volto della nuova élite che pilota il populismo gialloverde
Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.Pensiamo a quel novembre del 2011, in cui la destituzione di Berlusconi e l’insediamento di Monti alla presidenza del Consiglio segnarono la vittoria dell’élite tecnocratica, loden, austerity, Bruxelles e rigorismo, sull’élite berlusconiana – élite imprenditoriale, delle telecomunicazioni, del porno-divertentismo. Questa élite antipolitica («meno tasse per tutti») a sua volta aveva guerreggiato con l’élite post-comunista che dal Pci era approdata fino al Pd (passando per Psd e Ds), un’élite politica (con le sue scuole di formazione, la sua gavetta interna). Poi avvenne un altro scontro. Il Commissario Monti, e il suo successore Letta, fronteggiarono una nuova élite, diversa dalle precedenti. Si tratta di una banda di ruba galline proveniente da Firenze e dintorni: è il giglio magico (Carrai, Lotti, Boschi&family), è il dream team renziano. Dopo il loden, il risvoltino. La parola magica per spaccare la vecchia egemonia socialdemocratica (D’Alema, Prodi, Bersani) è quella di “rottamazione”.Ecco che questa élite di estrazione provinciale (spregiudicata, trasformista, ignorante, legata a banche di credito e a cooperative) ha sfruttato la debolezza della vecchia politica dei partitocrati, degli imprenditori e dei tecnocrati, a suon di un populismo che Revelli ha giustamente definito “ibrido”, dall’alto, né identitario né indignato, e crollato su se stesso perché incapace di sanare le sue contraddizioni interne: obbligato a giostrarsi tra le richieste di Draghi, la vecchia guardia del Pd, l’elettorato e il patto del Nazareno, tra le promesse fatte in sede europea e il calo dei consensi in casa propria. Le élites, come abbiamo visto, sono diverse fra loro, adottano formule, discorsi, narrazioni diverse. Ma perché oggi tutta quella élite che possiamo riconoscere nell’establishment politico è in crisi? Ce lo spiegava con anticipo qualche anno fa un sociologo americano, Christopher Lasch, nel suo saggio, “La ribellione dell’élite”. Lasch, sulla falsariga di Pareto, aveva intuito che un’élite, nel momento in cui si allontana oltremodo dalla collettività e dal territorio di cui dovrebbe difendere gli interessi, soffre una crisi di legittimità.Questa élite, spesso infiacchita dai privilegi e dagli onori, finisce per perdere le virtù civiche, per avere inclinazioni cosmopolite, atteggiamenti snobistici, e al buonsenso sostituisce un discorso sofisticato, subendo così l’«invasione di sentimenti umanitari e di morbosa sensibilità» (Pareto) di cui il popolo non sente il bisogno concreto. Perde quindi quella facoltà di dominare le formule vincenti e quella di individuare un nemico, entrambi fattori che determinano il suo consenso tra la popolazione. Ecco che, inversamente a questa crisi, abbiamo vissuto l’ascesa del fenomeno populista – utilizziamo il termine in un’accezione neutra – coronato dal suo successo elettorale, e quindi conclusosi con la sua istituzionalizzazione. Quindi al momento in Italia la situazione è paradossale. C’è un élite senza popolo (e perciò in declino) che adotta pose populiste per recuperare i consensi perduti – si veda l’atteggiamento di tutti i partiti tradizionali nei confronti del nuovo governo, e insieme tutta la parabola renziana (inaugurata da un monito che se si fosse realizzato sarebbe risultato imprudente: «La mia scorta sarà la gente») contraltare dell’antipolitica berlusconiana e ultimo canto del cigno di una sinistra incapace di sintetizzare il malessere del paese.Poi abbiamo, dall’altro lato, un populismo che ha fondato la sua vittoria ideologica nella lotta contro l’élite politica e finanziaria e adesso si vede costretto a cercare le sue élite di governo proprio tra quella élite politica e finanziaria – si pensi alla scelta di Conte a premier, di Savona e poi di Tria all’economia, dell’ex montiano e atlantista Moavero Milanesi alla Farnesina. Come è possibile che da due entità populiste, le più populiste che l’Italia abbia conosciuto, sia venuto fuori il più tecnico dei governi politici? Questo elemento deve portarci a riflettere sulle contraddizioni del populismo. Può, un populismo che ha fatto protesta contro le élites, farsi istituzione senza diventare élite a sua volta? Senza élites la politica è impraticabile, perché la politica è gestione del potere, e il potere non è equamente divisibile, quindi, dobbiamo ammettere che anche il populismo gialloverde, nonostante abbia fondato la sua mitopoiesi sulla lotta contro le élites – la casta per i grillini, l’oligarchia europea per la Lega – rientra nel discorso di Pareto e di Michels: «Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia».Perciò, ci sembra chiaro, noi non stiamo assistendo a nessuna rivoluzione, a nessun cambiamento nello schema classico della circolazione delle élite. Tuttavia, dobbiamo notare le novità apportate dalle modalità populiste di conquista del potere, ossia negando, o occultando, la propria impostazione, fatalmente elitaria. Si legga quanto veniva scritto sul Blog di Beppe Grillo nel 2013: «Il MoVimento 5 stelle è un movimento senza. Senza contributi pubblici, senza sedi; senza strutture; senza giornali; senza televisioni; senza candidati pregiudicati; […] senza compromessi; senza inciuci; senza leader; senza politici di professione; […] senza ideologie; […] senza banche». Il M5S ha fatto di una pletora di giovani disoccupati la sua classe dirigente dall’oggi al domani. Privi di qualsiasi formazione politica, imbevuti di un corso accelerato di democrazia diretta, gli eletti dei Cinque Stelle ragionano con quelle 4 o 5 linee guida ricavate dal mito dell’onestà, dalla lotta alla casta e altre menate urlate da un capo carismatico Grillo, teorizzate da un capo occulto, Casaleggio, con una sana ma ridotta spruzzata di massimofinismo.Il M5S tuttavia nasce tra diversi chiaroscuri, ed effettivamente il suo non è solo populismo, non è solo adesione incondizionata alle istanze provenienti dalla sempre tirata in ballo “base”, non c’è solo l’interpretazione e la politicizzazione degli umori diffusi tra la popolazione, nel M5S c’è un sostrato ideologico architettato da un’élite che Pareto avrebbe annoverato tra le “élite non di governo”, quella della Casaleggio Associati, che ai temi cari al populismo tenta di conciliare in una versione New Age e un po’ strampalata – pensiamo al video Gaia – alcuni temi del neoliberismo (la smartnation, l’universalismo, la governance globale). Non sappiamo quanta influenza abbia sugli eletti del movimento, e non vogliamo scadere in dietrologie, ma ci sembra chiaro che, di fronte alle ambiguità elettorali della piattaforma di voto interna al movimento, di fronte allo scandalo delle esplusioni, anche il M5S non sia immune a una tendenza élitaria.La Lega ci offre invece un esempio di populismo per certi versi immacolato, intriso della retorica piccolo-borghese poujadista, dei toni provocatori del qualunquismo di Giannini, e nonostante le diverse esperienze di governo, è un partito ancora poco a suo agio all’interno delle istituzioni. La Lega infatti nasce come outsider della politica, è un partito arrembante, cresciuto anno dopo anno a Pontida, grazie alle abilità oratorie di un leader, Bossi, di una classe politica fuoriuscita dai margini dei partiti tradizionali, e di una classe amministrativa emanazione per lo più dalla piccola imprenditoria padana, un po’ parrocchiale, abituata a gestire la cosa pubblica come si fa con un’azienda agricola. Tuttavia anche la Lega pur rimanendo sempre affezionata ad una narrazione vernacolare, localistica, popolare, anti-élitista – ricordiamo Bossi che si reca nella villa di Berlusconi in canottiera, come per sottolineare la differenza tra lui, l’uomo qualunque, e l’arricchito prestato alla politica – rispetta, in quanto partito, la «legge ferra dell’oligarchia» di cui parlava Michels.Perciò, siamo tentati dal dire che il populismo come ideologia – la contrapposizione popolo/élites – è una truffa, o più semplicemente una strategia di conquista del potere che un’élite mette a frutto per ribaltare l’élite precedente e da forza di protesta diventare istituzione. La sua tattica è quella di dimostrarsi più sensibile nei confronti di un popolo di cui si impegna a sintetizzare meglio i discorsi, intuirne i problemi e le paure, origliarne i disagi, fino ad accaparrarsi il monopolio delle “formule” vincenti. Ma adesso che da movimento è diventato regime, vediamo la trasformazione (non priva di incognite) del populismo. Di fatto chi si scandalizza per l’inversione di rotta da parte dei grillini sulla questione dell’alleanza con Salvini, o sulla nomina di un premier non eletto dal popolo «è sempre banale: ma, aggiungo, è anche sempre male informato». Così come chi crede a quanto dice Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, ossia che «i Davos Man (le élite, NdR) hanno paura del populismo perché hanno paura che il potere arrivi al popolo. E che succeda quello che è successo in Italia» è un po’ ingenuo.Le élite possono aver paura di essere sostituite da altre élite, il che nella storia è avvenuto soltanto all’indomani di violente rivoluzioni, ma non dal popolo. Nella maggior parte dei casi, i meccanismi sono più complessi, e le nuove élites tendono ad essere assimilate. Il populismo, perciò, è stato gestito da un’élite che non era a-élitaria, ma solo nemica (e neanche troppo) delle élites precedenti, un’élite in via di formazione politica e ideologica che non sappiamo se stia facendo scouting tra altre élite da cooptare al suo interno per mantenere gli equilibri di potere con delle élite più forti (quelle sovranazionali, finanziarie, atlantiche) che ne possono determinare la caduta, oppure se stia venendo cooptata da queste ultime. Tutto il problema tempistico della scelta del governo è dipeso da questa contraddizione, dal difficile equilibrio tra i programmi della nuova élite populista nata dalle piazze e imbottita di protesta, ancora vicina al territorio, alle istanze e ai malumori del popolo, e i giochi di Palazzo in cui deve giostrarsi.La nostra fortuna, che è insieme la nostra disgrazia, è l’inadeguatezza di questa nuova élite, ancora inconsapevole di esserlo. Livellando il discorso verso il basso – privi di un laboratorio culturale, dotati solo di una leadership carismatica – questi populismi non hanno fatto altro che appaltare molta della propria elaborazione ideologica al popolo del web, a tante piccole realtà intellettuali – testate, blog, singoli influencer – che hanno animato il dibattito politico, hanno sabotato l’informazione mainstream, hanno diffuso notizie diverse tra la popolazione, hanno creato una narrazione alternativa dei fatti, e hanno anche inquinato molti temi, hanno diffuso rabbia, malcontento, frustrazione, confusione, hanno dato via libera a troll e fanatici, complottismi e dietrologie, analisti improvvisati, studenti impreparati, incompetenti di buona volontà, animatori nerd di pagine facebook che hanno agitato il basso ventre del web a suon di Meme, ma anche a tanti think thank preparati, professori universitari non allineati, giornalisti e reporter seri, associazioni che hanno fatto un buon lavoro culturale sul proprio territorio occupando quegli spazi disimpegnati dalle sedi di partito.Questa élite è ancora legata alla base da cui proviene, ed è perciò in una fase di assestamento. Non è un’élite da salotto, da club del golf, da circolo della caccia, non è un’élite ripiegata su sé stessa, chiusa, ma può dimostrarsi permeabile e sensibile a talune istanze popolari di cui si è fatta latrice. Eppure, se questa sostanziale inadeguatezza è il risultato di una politica nata dalla piazza, dalla protesta, e perciò davvero vicina agli appelli della cittadinanza, è sempre questa inadeguatezza – l’idea grillina di fare politica in base al criterio dell’onestà (criterio etico, ma non politico), le antinomie di una Lega identitaria ma liberista – che ha obbligato l’élite populista ad aggregare dei tecnici e dei membri dell’élite precedente nel proprio governo, e a fare una serie di compromessi che ne sconfessano, da subito, i motivi della propria elezione. Asseconda di come si risolverà questa contraddizione potremo giudicare l’operato di questa élite.Contraddizione che trabocca da ovunque, dalle dichiarazioni di Tria, per esempio, del prima e dopo G7, laddove inizialmente parlava di «un vasto programma di investimenti pubblici infrastrutturali attuato e finanziato in deficit senza creare un problema di sostenibilità dei debiti pubblici», oggi afferma che «non puntiamo al rilancio della crescita tramite deficit spending». A chi guarda l’attuale governo – a questo ibrido concentrato di socio-securitarismo, liberista in economia e conservatore nel costume, euroscettico senza essere sovranista, russofilo ma atlantista – con ottimismo, con la convinzione che abbia vinto il popolo, chi pensa a un governo del cambiamento, a tutti costoro consigliamo di rileggere Pareto, ma anche Tomasi di Lampedusa. A Freccero e Magris che fanno l’elogio del populismo, e che Pareto lo hanno letto bene e che di un’élite intellettuale fanno parte, chiediamo se abbiano già cominciato a circolare.(Lorenzo Vitelli, “Il volto elitario del populismo”, da “L’Intellettuale Dissidente” dell’11 giugno 2018).Ha tardato a fare il suo ingresso nel dibattito politico, ma ce la siamo trovata tra i denti senza accorgercene. È la parola “élite”, un termine impolverato, annacquato, dal sapore un po’ retro. Eppure ad oggi sono sempre di più gli operatori e i cronisti del mondo della politica che ne fanno uso. Si sente infatti parlare di una crisi delle élites. Ma prima di parlare della loro crisi, è bene parlare di questo concetto ambiguo, soggetto a molteplici interpretazioni e in cui si intersecano diversi piani di significato. Noi ci limiteremo a darne una definizione elementare: una ristretta cerchia di persone che detiene la maggior quantità di risorse intellettuali, economiche, politiche e simboliche esistenti. Ci basti dire, parafrasando Gaetano Mosca, che un’élite è quella minoranza organizzata che esercita il suo potere sulla maggioranza disorganizzata. Sono coloro che occupano le posizioni rilevanti di una struttura sociale e politica, meritatamente o immeritatamente. Secondo Pareto, le élites, in ogni epoca, possono formarsi, estinguersi, rinnovarsi o circolare, e tutto il decorso storico è un succedersi di conflitti tra diverse élites per la conquista del potere. Anche noi abbiamo assistito, in questi ultimi anni, a partire dalla crisi del 2008, a una serie di scontri ai vertici politici del paese tra diverse élites.
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Toti, Mieli, Fico: se il potere prova a mangiarsi i gialloverdi
Verrà il giorno che il verde si separerà dal giallo, la Lega sarà la nuova destra e il M5 Stelle sarà la nuova sinistra. Dalla maggioranza di governo del presente nascerà un nuovo sistema bipolare. I tempi potranno essere rapidi se in autunno o anche subito la coalizione si spaccherà sui temi sensibili che già conosciamo, vale a dire migranti, giudici, pensioni, reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, mentre su altri come l’Europa e l’avversione alla Casta dei potentati sembrano essere abbastanza omogenei. Ma se resisteranno alla prova d’autunno ci sarà poi la prova dell’Europa quando i due partiti si presenteranno divisi e faranno incetta di voti gli uni nell’area del centro-destra e gli altri in prevalenza della sinistra. Questa profezia circola sotto traccia da qualche tempo, e Bobo Maroni l’ha di recente rilanciata, vedendo nella Lega l’erede della destra e di Forza Italia, e nei grillini gli eredi della sinistra e del Pd. Rispetto alla nuova destra e alla nuova sinistra che faranno quelle cariatidi in caduta? Cambieranno nome, faccia e leader ai loro partiti in ritirata, si aggrapperanno al passato (Veltroni e Berlusconi), cercheranno di aprire i ponti ai due Soggetti principali tramite i loro ambasciatori (Toti e Zingaretti). E per completare la partita si dovrà vedere poi che fine faranno Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, se saranno dentro, fuori a mezzadria, satelliti o in disparte, rispetto ai due poli principali.Insomma, il futuro non finisce mica qui, altri futuri si prospettano davanti, e nel rimescolamento del pappone nazionale non sono esclusi anche vintage, coalizioni riesumate e rigurgiti di passato. L’ipotesi subalterna, naturalmente, è che gli eventi precipitino, con l’aiutino determinante dei poteri interni e internazionali, e riescano a disarcionare la maggioranza, magari dopo averla divisa. E al suo posto, al governo ci manderebbero la Troika o chi ne fa le veci. Direi che è questa prospettiva a tenere unita l’alleanza gialloverde e a renderla sopportabile anche ai loro elettori refrattari, di ambo i versanti, sia coloro che non sopportano i grillini sia coloro che non sopportano i leghisti. Nell’attesa è divertente vedere come si regolano i maggiori segnalinee, sagrestani e portavoce dell’Establishment. Quasi tutti mirano a dividere gli alleati per farli cadere e la preferenza negli assalti è naturalmente contro Salvini, il Nemico Principale di tutti i poteri costituiti, magistrati inclusi. Insomma c’è gente che sta cercando di far saltare il ponte gialloverde, perché con i due tronconi divisi, come a Genova, non potranno più andare avanti.Ma c’è una seconda via, un piano B, in cui risale l’antica indole democristiana che oggi veste i panni laici e curiali del Cardinal Paolo Mieli. È vedere se i barbari, come vengono sinteticamente definiti i leghisti e i grillini, possano essere convertiti, disossati o corrotti, secondo i punti di vista. La missione di ammansire i lupi e condurli all’ovile riguarda principalmente i grillini che sono radicali ma sprovveduti, giacobini ma dilettanti, non hanno una loro visione di riferimento ma agiscono random, sulla base di un pauperismo che si autodefinisce momento per momento, rete per rete. E soprattutto sono acquiescenti rispetto al Politically correct, sono più addomesticabili, non hanno le remore della Lega in tema di bioetica e famiglia, sovranità nazionale e confini, migranti e sicurezza. È così che il più modesto, il più moscio, il più rintronato dei grillini, Messer Fico, è diventato il loro ponte, la loro matrioska e il loro parente acquisito tramite cui chiedere il ricongiungimento.Ma la conversione dei barbari in seconda battuta riguarda anche i leghisti. In questo senso era stato rivalutato persino Berlusconi e il suo bromuro personale, Tajani, con la missione di annacquarli, devitalizzarli fino a neutralizzarli, in un altro centro-destra a guida padronale, senza una linea e pronto a intendersi coi dirimpettai. Perché l’apice della redenzione dei barbari, per la curia dei potentati, è l’inciucio. Lasciare agli estremi gli irriducibili, bollati come nemici dell’Europa, della Modernità e della Democrazia liberale, e convergere al centro, governando come Ue comanda, senza l’ardire di rimettere in discussione i comandi. Questi sono gli scenari futuri. Insomma il film è ancora agli inizi, può essere un cortometraggio oppure un kolossal, non sappiamo la trama e nemmeno come va a finire. Se sarà un horror, un lietofine, una farsa.(Marcello Veneziani, “Barbari o divisi”, dal “Tempo” del 1° settembre 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).Verrà il giorno che il verde si separerà dal giallo, la Lega sarà la nuova destra e il M5 Stelle sarà la nuova sinistra. Dalla maggioranza di governo del presente nascerà un nuovo sistema bipolare. I tempi potranno essere rapidi se in autunno o anche subito la coalizione si spaccherà sui temi sensibili che già conosciamo, vale a dire migranti, giudici, pensioni, reddito di cittadinanza, nazionalizzazioni, mentre su altri come l’Europa e l’avversione alla Casta dei potentati sembrano essere abbastanza omogenei. Ma se resisteranno alla prova d’autunno ci sarà poi la prova dell’Europa quando i due partiti si presenteranno divisi e faranno incetta di voti gli uni nell’area del centro-destra e gli altri in prevalenza della sinistra. Questa profezia circola sotto traccia da qualche tempo, e Bobo Maroni l’ha di recente rilanciata, vedendo nella Lega l’erede della destra e di Forza Italia, e nei grillini gli eredi della sinistra e del Pd. Rispetto alla nuova destra e alla nuova sinistra che faranno quelle cariatidi in caduta? Cambieranno nome, faccia e leader ai loro partiti in ritirata, si aggrapperanno al passato (Veltroni e Berlusconi), cercheranno di aprire i ponti ai due Soggetti principali tramite i loro ambasciatori (Toti e Zingaretti). E per completare la partita si dovrà vedere poi che fine faranno Fratelli d’Italia e Liberi e Uguali, se saranno dentro, fuori a mezzadria, satelliti o in disparte, rispetto ai due poli principali.
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Sperano in Mattarella per fabbricare il nuovo Renzusconi?
Insieme al picco dei calori estivi, in questi giorni sembra si sia arrivati anche al picco di confusione politica: dopo l’ondata di entusiasmi in primavera, con l’avvicinarsi dell’autunno pochi ormai scommettono che il governo supererà la soglia delle elezioni europee l’anno prossimo. Lo scrive Lao Xi, dalla Cina, sul “Sussidiario”: sempre più gente crede che il governo si scioglierà e si arriverà a un redde rationem tra le varie forze politiche. Vero, il clima resta volatile e tutto potrebbe sempre cambiare: in questa altalena di tensioni magari il governo durerà per cinque anni, superato il giro di boa della legge di bilancio in autunno. Se non altro, ammette l’analista, oggi «non ci sono alternative vincenti», e quindi «si passerebbe da confusione in confusione». E se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – storico esponente del Pd insediato al Quirinale da Renzi – lavorasse a un partito nuovo, in grado si archiviare il patto tra Salvini e Di Maio? Conclusione ipotetica, a cui Lao Xi perviene esaminando lo scenario attuale, che vede la Lega come primo partito, nettamente in vantaggio: «Potrebbe arrivare alla soglia del 40% dei voti e prendersi quindi più del 51% dei seggi in Parlamento». Prospettiva che inquieta i detentori del potere europeo, gli artefici della sciagurata austerity in nome della quale – evocando il fantasma dello spread – lo stesso Mattarella sbarrò la strada a Paolo Savona come ministro dell’economia.La propaganda di Salvini è efficiente, riconosce Lao Xi: il leader leghista «batte su paure a basso costo: gli emigranti che scombussolano la nostra società e la sicurezza personale e della propria casa». Grandi incertezze, letteralmente esplose «con la decadenza della classe media», insieme all’aumento della povertà e dell’insicurezza «percepita nelle periferie e nelle piccole città». Ma anche con il 40% dei voti e il 51% dei seggi, continua l’analista, nessun paese si governa facilmente con il 60% della gente contro e senza una vera e propria egemonia culturale: «Con la Chiesa contro e i vecchi apparati intellettuali ostili, la Lega ha bisogno di spostarsi al centro e parlare a queste due istituzioni con profondità e spessore, al di là dei tweet». Operazione tutt’altro che facile. Quanto ai 5 Stelle, per loro le difficoltà sono maggiori: il movimento «ha vinto promettendo il bengodi», cioè il reddito di cittadinanza – ma senza spiegare come finanziario, cosa che in questi termini equivale a promettere «la botte piena e la moglie ubriaca, senza avere né la moglie né la botte». Lao Xi paragona i pentastellati addirittura ai giovanissimi dirigenti della disastrosa Rivoluzione Culturale di Mao, che spedì «i contadini all’università e i liceali nei campi». I grillini? «Paiono volenterosi, ma sembrano altrettanto incapaci di capire cosa stiano facendo: da questa confusione probabilmente deriva anche il loro calo nei sondaggi».Parte del Vaticano «sembra voglia adottarli come argine realistico alla brutalità di certi slogan leghisti: in fondo è quello che fece la Chiesa con i barbari». Ma allora, aggiunge Lao Xi, ci vollero secoli per civilizzare germani, slavi e unni: «Oggi non ci sono nemmeno anni, ma solo mesi: riusciranno?», si domanda l’analista, dando per scontato che la “civilizzazione” dei “barbari” sia stata un affare, per l’Europa delle Crociate e delle guerre di religione, delle persecuzioni degli ebrei e dei eretici, del totalitarismo oscurantista che mandò in carcere Galileo e sul rogo Giordano Bruno, prima di cedere Roma alla nuova Italia solo grazie alle cannonate dei bersaglieri, per poi benedire l’ultimo “barbaro” italico proposto dalla storia, Benito Mussolini. Tornando all’oggi e tralasciando i presunti barbari – Salvini sembra un pargoletto, a confronto con gli squali-tigre come Draghi, Monti e Merkel – Lao Xi cita il politologo Claudio Landi, intervistato da “Radio Radicale”: se l’alleanza gialloverde vale il 60% del consenso, l’orrendo Renzusconi (l’inciucio per il quale fu appositamente progettato il Rosatellum) potrebbe non arrivare neppure al 20%. Un’alleanza aperta tra Renzi e Berlusconi migliorerebbe i valori elettorali del Pd e di Forza Italia? «Forse li peggiorerebbe. Due debolezze insieme non fanno una forza, fanno una debolezza ancora maggiore».Questo, aggiunge Lao Xi, a meno che il calcolo non sia un altro: «Ottenere un manipolo di voti in base al quale sedersi al tavolo delle trattative parlamentari. In fondo la bocciatura di Foa presidente della Rai dimostra che il duo conta ancora», almeno oggi. Ma in un nuovo Parlamento come andrebbero le cose? E’ lecito, per loro, sperare in un’inversione di tendenza? Lo stesso Lao Xi invita a non escludere l’ipotesi teorica del “jolly”, ovvero «la fisica, cioè le grandi leggi della politica». Tradotto: «Quando nessun partito gira, qualcosa nascerà: questo sperano gli illuminati romani e certi ambienti che vantano legami con il Quirinale». Obiettivo: un partito “nuovo”, che l’anno prossimo si accaparri quel 20%, puntando anche al 30% di indecisi. Certo, resta «un pensiero da laboratorio», visto che «non si sa che cosa dirà il nuovo partito, dove si inserirà, chi proporrà». In realtà, il bivio è obbligatorio: o ci si piega all’Europa del rigore, o – come si spera farà il governo gialloverde – la si sfiderà, cercando di ampliare il deficit. Non esiste terza via, nella realtà. Quanta parte della popolazione lo comprende? Questo è il punto: c’è grande insoddisfazione, in parte dell’elettorato. Milioni di voti, forse, attendono ancora una proposta convincente: una narrazione efficace. Magari l’ennesima truffa, come quelle rifilate agli italiani prima da Berlusconi e poi da Prodi, e infine da Monti e Letta, Renzi e Gentiloni. Ci cascheranno ancora, gli italiani? L’establishment, intanto – intellettuali in testa – spara ogni giorno sulla Lega, cioè il partito che ha promesso di ribellarsi alla “dittatura” dell’Ue. Non uno di loro fiatò, quando Monti – con Berlusconi e Bersani – impose il pareggio di bilancio in Costituzione, cioè la morte civile del paese per strangolamento finanziario.Insieme al picco dei calori estivi, in questi giorni sembra si sia arrivati anche al picco di confusione politica: dopo l’ondata di entusiasmi in primavera, con l’avvicinarsi dell’autunno pochi ormai scommettono che il governo supererà la soglia delle elezioni europee l’anno prossimo. Lo scrive Lao Xi, dalla Cina, sul “Sussidiario”: sempre più gente crede che il governo si scioglierà e si arriverà a un redde rationem tra le varie forze politiche. Vero, il clima resta volatile e tutto potrebbe sempre cambiare: in questa altalena di tensioni magari il governo durerà per cinque anni, superato il giro di boa della legge di bilancio in autunno. Se non altro, ammette l’analista, oggi «non ci sono alternative vincenti», e quindi «si passerebbe da confusione in confusione». E se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – storico esponente del Pd insediato al Quirinale da Renzi – lavorasse a un partito nuovo, in grado si archiviare il patto tra Salvini e Di Maio? Conclusione ipotetica, a cui Lao Xi perviene esaminando lo scenario attuale, che vede la Lega come primo partito, nettamente in vantaggio: «Potrebbe arrivare alla soglia del 40% dei voti e prendersi quindi più del 51% dei seggi in Parlamento». Prospettiva che inquieta i detentori del potere europeo, gli artefici della sciagurata austerity in nome della quale – evocando il fantasma dello spread – lo stesso Mattarella sbarrò la strada a Paolo Savona come ministro dell’economia.
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Galloni ai gialloverdi: come assumere 1 milione di giovani
Incombe una nuova crisi finanziaria, si aggraverà l’emergenza migranti, la Germania inizierà a sfilarsi dall’euro e l’Italia sarà nei guai senza più il “quantitative easing” garantito dalla Bce. Queste, per l’economista Nino Galloni, sono le vere mine sulla strada del governo gialloverde: senza una moneta parallela, fiscale, non sarà possibile andare lontano. La questione Tav in valle di Susa e le nomine Rai? Vengono enfatizzate e dipinte dagli avversari del governo quali prove dei contrasti interni e dei problemi della nuova maggioranza. In realtà, per Galloni, si tratta di tempeste in bicchieri d’acqua e, semmai, di sintonia futura. Certo, tutto può sempre accadere, persino tra qualche mese salti tutto, di fronte alle difficoltà proprie della legge finanziaria. Tuttavia la previsione che Galloni affida a “Scenari Economici” è diversa. «L’attuale cambiamento è importante ed irreversibile, sebbene varie questioni adesso in ballo rilancino la prospettiva di un’alleanza strategica tra Pd e Forza Italia», cosa che, beninteso, «rafforzerebbe quella fra gialli e verdi». Ma, se il governo supererà le tante “tempeste nel bicchiere” e anche la primavera 2019, dovrà affrontare le quattro grandi sfide che accompagneranno l’Europa. La prima? Sarà «la crisi finanziaria globale che seguirà l’allineamento della Bce sulle posizioni più restrittive della Fed e l’aumento dei tassi d’interesse che, col rafforzamento insensato del dollaro, costringeranno Trump ad insistere coi dazi».La crescita del Pil Usa, spiega Galloni, è stata tutta dovuta all’acquisto di merci Usa prima dell’introduzione dei dazi stessi. A questo si aggiungerà «l’aggravarsi e l’estendersi del problema immigrazione dall’Africa occidentale», un disastro che diventerà catastrofico, a medio termine, «se non si interverrà efficacemente sulle carestie locali, di origine climatica». Terzo guaio in arrivo: «Nella seconda parte del 2019 la Germania potrebbe cominciare a sfilarsi dall’euro per guardare di più verso Est». Attenzione: «Senza Qe e con un possibile declassamento del rating – sostiene Galloni – l’Italia si troverebbe in serie difficoltà, a meno di non introdurre valute parallele, minibonds o certificati di credito fiscale». Una strettoia serissima: «La possibilità che sia la Bce a fornire denaro allo Stato contro i titoli che le banche ordinarie non potessero più assorbire – spiega l’economista – è legata al commissariamento del paese», addirittura. Quarta calamità in arrivo, lo squilibrio tra domanda e offerta, nel mercato del lavoro: «Il sistema sta domandando sempre meno lavoro nei comparti redditizi, mentre in quelli dove l’occupazione dovrà crescere (servizi di cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), i costi – cioè il lavoro necessario – sono superiori al fatturato; quindi, alle condizioni del mercato non sono gestibili».Ecco la grande sfida che abbiamo di fronte, secondo Galloni, vicepresidente del Movimento Rooseelt: si tratta di «coniugare reddito di cittadinanza, riduzione delle tasse, maggiore libertà di azione per le piccole imprese, sicurezza e riqualificazione (ma non ridimensionamento!) dei compiti dello Stato». Finora, spiega, queste cose sono state rappresentate come alternative tra loro; adesso, invece, «bisogna trovare energie e risorse per realizzare qualcosa di nuovo e di assolutamente necessario». Le energie? Loro: i giovani disoccupati, laureati e diplomati. E le risorse? Basterà «l’emissione di un 2-3% di Pil di moneta sovrana non a debito a sola circolazione nazionale, non convertibile». Esempio: «Con l’equivalente di 25 miliardi di euro (pari all’1,5% del Pil) si potrebbe assumere un milione di giovani a 1.500 euro al mese per un anno». Obiettivo necessario, che «getterebbe nuova luce sul tema del reddito di cittadinanza e riqualificherebbe l’equilibrio di bilancio in rapporto alla riduzione della pressione fiscale». La moneta non a debito, infatti, «ha segno algebrico opposto a quello della spesa: e così il cambiamento sarebbe fattibile e possibile».Incombe una nuova crisi finanziaria, si aggraverà l’emergenza migranti, la Germania inizierà a sfilarsi dall’euro e l’Italia sarà nei guai senza più il “quantitative easing” garantito dalla Bce. Queste, per l’economista Nino Galloni, sono le vere mine sulla strada del governo gialloverde: senza una moneta parallela, fiscale, non sarà possibile andare lontano. La questione Tav in valle di Susa e le nomine Rai? Vengono enfatizzate e dipinte dagli avversari del governo quali prove dei contrasti interni e dei problemi della nuova maggioranza. In realtà, per Galloni, si tratta di tempeste in bicchieri d’acqua e, semmai, di sintonia futura. Certo, tutto può sempre accadere, persino tra qualche mese salti tutto, di fronte alle difficoltà proprie della legge finanziaria. Tuttavia la previsione che Galloni affida a “Scenari Economici” è diversa. «L’attuale cambiamento è importante ed irreversibile, sebbene varie questioni adesso in ballo rilancino la prospettiva di un’alleanza strategica tra Pd e Forza Italia», cosa che, beninteso, «rafforzerebbe quella fra gialli e verdi». Ma, se il governo supererà le tante “tempeste nel bicchiere” e anche la primavera 2019, dovrà affrontare le quattro grandi sfide che accompagneranno l’Europa. La prima? Sarà «la crisi finanziaria globale che seguirà l’allineamento della Bce sulle posizioni più restrittive della Fed e l’aumento dei tassi d’interesse che, col rafforzamento insensato del dollaro, costringeranno Trump ad insistere coi dazi».
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Contro Marcello Foa in Rai, il complotto dei morti viventi
Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.Per contro, il “complotto dei sorci” rende ancora più palese la disperazione degli ex partiti caduti in rovina, specchio perfetto – e piuttosto vomitevole – dei grandi poteri che li hanno utilizzati per decenni, allo scopo di ridurre in cenere la sovranità italiana e svendere il patrimonio nazionale, fino a precipitare il paese in una crisi presentata come fisiologica e incurabile. Sono ancora a piede libero, e armati fino ai denti, i killer politici dell’Italia che fu: possono infatti contare sul plumbeo mainstream cartaceo e radiotelevisivo, lesto nel trasformare in una specie di pazzo visionario un reporter come Foa, allievo di Montanelli, distintosi – nella sua lunga carriera – per equilibrio, indipendenza politica e capacità di fornire opinioni illuminanti e giudizi altamente critici sullo stato delle cose, a cominciare dal giornalismo declassato a far west dove ormai gli “stregoni della notizia” fabbricano quotidianamente le “fake news” suggerite dai governi. Era decisamente troppo, Marcello Foa – troppo abile, troppo trasparente – per essere tollerato dagli omuncoli del Pd e dai loro compari, i residuati bellici ancora al servizio del nonno di Arcore. C’è anche un che di lugubre, nella congiura dei ratti livorosi, pieni di furore per i successi di Salvini: hanno bocciato Foa, ma non hanno niente di meglio da proporre agli italiani. Sanno di non essere nient’altro che cadaveri politici.Tutti i sondaggi attribuiscono ai gialloverdi un consenso che supera il 60%, senza contare gli elettori di Fratelli d’Italia e quel 27% di italiani che il 4 marzo ha scelto di non votare, nauseato dalle performance dei renziani e dei loro colleghi berlusconiani. In modo sbilenco e “gridato”, tra proclami e slogan che sarà difficile trasformare in provvedimenti legislativi, il nuovo governo è comunque assistito dalla sostanziale indulgenza di un paese che non riesce più a digerire gli zombie che ancora infestano, ventiquattr’ore al giorno, i salotti televisivi. E’ in atto un scontro epocale, socio-culturale prima ancora che politico: il sentimento di rivolta generalizzata, per comodità chiamato populismo, segnala che la narrazione dei leghisti e dei pentastellati ha comunque colto nel segno, visto che risponde a un preciso stato d’animo largamente condiviso. Non sarà più possibile truccare completamente la politica, al punto da spacciare per “riforme” endogene la traduzione sistematica dei diktat dell’oligarchia finanziaria euro-pilotata. I morti viventi ancora in circolazione possono, appunto, sabotare l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma la storia è contro di loro. Si è innescata una sorta di rivoluzione culturale: e più la crisi continua a mordere, meno comprensione ci sarà chi ha osato cestinare un gentleman come Marcello Foa, vero e proprio alieno in questa Italia di roditori in via di estinzione.Nella desolante bocciatura di Marcello Foa, da parte del comitato parlamentare che dovrebbe vigilare sulla lottizzatissima televisione di Stato, si legge in controluce la bancarotta politica e intellettuale di un establishment disperato. A infliggere gli ultimi colpi di coda sono i rottami della Seconda Repubblica neoliberista, finto-liberale e finto-progressista, ridotti a fischiare e demonizzare qualsiasi iniziativa del governo gialloverde, la cui vera e unica colpa è quella di esistere, per volere dei maledetti elettori che hanno osato rovesciare milioni di voti sui 5 Stelle sulla Lega. Neutralizzata dall’ennesima legge elettorale fatta apposta per rifilare al paese il solito inciucio maleodorante, la democrazia è riuscita comunque a infiltrarsi in Parlamento, mettendo in piedi – contro tutti i poteri forti – un esecutivo problematico e squilibrato, pieno di incognite e di falle, ma quantomeno distante mille miglia dalla politica senza speranza e senza verità che aveva stremato l’Italia negli ultimi 25 anni, sotto il dominio del “pensiero unico” dell’austerity interpretato dal falso centrodestra in combutta con l’altrettanto falso centrosinistra. Due pugili suonati, travolti dai rispettivi fallimenti, ma ancora capaci di far male all’Italia, privando il paese della possibilità – storica – di disporre di un presidente Rai antropologicamente diversissimo dai precedessori. Un giornalista di razza: onesto, coraggioso, pulito.
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Di Maio e Salvini: trasparenza mai vista prima, nella storia
Questa è la prima volta, nella storia della Repubblica italiana, che un partito che va al governo si impegna con un programma preciso in 30-40 punti. Finora, l’unico impegno visto era stato quello di Berlusconi quando aveva firmato il suo “contratto con gli italiani” da Vespa, promettendo un milione di posti di lavoro – ma quella era solo una battuta da saltimbanco, mentre quelli sottoscritti da Di Maio e Salvini sono punti precisi. E quindi, supponendo che si arrivi fino alla fine della legislatura, il cittadino poi sarà in grado di valutare cosa è stato fatto e cosa non è stato fatto, e – nel caso delle cose non fatte (certamente ce ne saranno), di valutare se è stato per mancanza di volontà o per mancanza di possibilità. Non è detto che tutto si possa fare, ma almeno alla fine potremo giudicare – al momento di tornare a votare – se questa gente ha fatto il massimo possibile, rispetto alle cose su cui s’era impegnata. Non era mai successo, questo. E secondo me stabilisce un punto di non-ritorno, nella storia italiana: da domani, è difficile che un partito che voglia andare al governo non si senta obbligato, a sua volta, a fare una promessa altrettanto specifica.E’ un complimento, che va fatto sia a Salvini che a Di Maio, a prescindere da quello che poi riusciranno a mettere in atto: hanno comunque cambiato le regole del gioco. E la chiarezza e la trasparenza delle intenzioni, secondo me, sono una parte fondamentale del meccanismo democratico. Sapete, gli altri – il Pd – dicevano semplicemente “votate noi, che penseremo a proteggere i più deboli”, punto a capo, e ciao. Cosa penso del programma di Salvini e Di Maio? Penso che rappresenti il miglior equilibrio che si potesse raggiungere, all’interno di una legge elettorale che era stata concepita proprio perché questo non avvenisse. Quindi, secondo me, Salvini e Di Maio la seconda “magia” l’hanno fatta nel riuscire comunque ad arrivare all’intesa, pur all’interno delle costrizioni di una legge elettorale che, veramente, ti impone di metterti d’accordo su tutto con qualuno, altrimenti non puoi fare il governo. La buona volontà ce l’hanno messa tutta, e stanno sconfiggendo il sistema stesso, che aveva pensato di “fotterli” (soprattutto i 5 Stelle) con questa legge elettorale. Non ci sono riusciti, almeno finora. E infatti, come vedete, sia Berlusconi che gli uomini di Renzi sono contrariati: “je rode”, e mica poco.Lo si vede dalle interviste in televisione: Martina sembra isterico, quando accusa i 5 Stelle e la Lega di aver “fatto perdere 70 giorni di tempo” all’Italia. E’ ormai una commedia ridicola vedere i telegiornali, con questi che strepitano e si lamentano. Di Maio e Salvini non hanno ancora fatto niente: aspettiamo, a giudicarli. Magari andrà male veramente, però aspettiamo. Questa voglia di seppellire un governo che non è neanche nato ci dà la misura di quanto gli rompe le scatole, e quindi di quanto fosse subdolo il calcolo che era stato fatto a monte – l’alleanza Pd-Berlusconi, che avrebbe mantenuto le cose esattamente come sono rimaste fino ad oggi. Potrebbe aprirsi una pagina di speranza? Lo vedremo. Una pagina nuova, comunque, si è già aperta. Hanno cambiato le regole del gioco, questi due: nella pagina nuova ci siamo già. Volenti o nolenti, siamo in una Terza Repubblica dove, da oggi in poi, le cose si mettono per iscritto – e quindi, dopo cinque anni, l’elettore può andare a vedere quante ne hai fatte e quante no, se eri in buona fede o se hai preso in giro gli elettori.Nella fase nuova, ripeto, siamo già entrati. La speranza? Se non ci riescono loro non ci riesce nessuno, a scardinare questo sistema. Se non ci riescono loro due insieme, che arrivano risicati al 51%, a scardinare almeno alcuni punti fondamentali del sistema, anche quelli che non hanno dichiarato ufficialmente, non ce n’è più, di speranza: se c’è una speranza, è in loro. Certo, non dobbiamo illuderci: siamo molto ricattabili. L’altra sera ho visto Monti, da Formigli. E con quella sua da prete disinteressato, Monti ha sibilato: però ragazzi stiamo attenti, visto quello che è successo ad altri paesi che hanno provato ad alzare un po’ la cresta (sottinteso, la Grecia). Mi ha stupito, Formigli: di fronte a una frase simile, pronunciata da un ex primo ministro, un giornalista che voglia chiamarsi tale avrebbe chiesto a Monti di spiegare il senso di quella sua minaccia. Invece Formigli ha permesso a Monti di dire quello che voleva, in modo vergognoso – ma lasciamo perdere, sulla vergogna dei giornalisti italiani ormai abbiamo steso due o tre veli pietosi.Siamo comunque ricattabili, dicevo. Ma intanto, secondo me, l’importante è comunque far entrare il seme dell’idea che le cose si possono cambiare: perché poi su questo seme puopi costruire molto di più, nel corso del tempo. Se tu riesci a cambiare anche una sola cosa, che prima dicevano che era impossibile cambiare, hai dimostrato alla gente che quando qualcuno dice “questo non si può fare”, be’, non è vero. E questo apre, per le future legislature, moltissime possibilità, che prima non c’erano. Se noi continuamo a produrre informazione alternativa indipendente, a un certo punto le due linee potrebbero anche finire per convergere su cambiamenti più radicali. Anche perché i poteri forti si chiamano “forti” per un motivo preciso, ma possono anche crollare: l’Impero Romano è durato 5-600 anni e poi è scomparso in poche settimane. Quando arrivano a maturazione le motivazioni storiche corrette perché avvenga un cambiamento, poi il cambiamento avviene. Noi possiamo cercare di prepararlo, sperando che nel frattempo ciascuno faccia la sua parte – anche chi andrà al governo molto presto.(Massimo Mazzucco, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming su YouTube “Mazzucco Live” del 19 maggio 2018).Questa è la prima volta, nella storia della Repubblica italiana, che un partito che va al governo si impegna con un programma preciso in 30-40 punti. Finora, l’unico impegno visto era stato quello di Berlusconi quando aveva firmato il suo “contratto con gli italiani” da Vespa, promettendo un milione di posti di lavoro – ma era solo una battuta da saltimbanco, mentre quelli sottoscritti da Di Maio e Salvini sono punti precisi. E quindi, supponendo che si arrivi fino alla fine della legislatura, il cittadino poi sarà in grado di valutare cosa è stato fatto e cosa non è stato fatto, e nel caso delle cose non fatte (certamente ce ne saranno), di valutare se è stato per mancanza di volontà o per mancanza di possibilità. Non è detto che tutto si possa fare, ma almeno alla fine potremo giudicare – al momento di tornare a votare – se questa gente ha fatto il massimo possibile, rispetto alle cose su cui s’era impegnata. Non era mai successo, questo. E secondo me stabilisce un punto di non-ritorno, nella storia italiana: da domani, è difficile che un partito che voglia andare al governo non si senta obbligato, a sua volta, a fare una promessa altrettanto specifica.
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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Avvoltoi: rimpiangono Silvio per spaventare Lega e 5 Stelle
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).Vedo tanti gufi in giro, in buona fede e in malafede: pensosi, preoccupati e accigliati. Io sarò il primo a non fare sconti a questi “ragazzi”, a questa ipotesi di governo con Lega e 5 Stelle, però la guardo con simpatia e anche con un’apertura di credito. Peraltro, il popolo italiano – che mi pare sia sovrano (fino a prova contraria) anche se in questi anni ci hanno abituato all’idea che il potere debba essere altrove, presso i sedicenti illuminati e oligarchici gestori delle grandi cose – si è espresso in modo chiaro. In democrazia il potere appartiene al popolo. E il popolo, pur nelle strettoie della legge elettorale Rosatellum, ha chiaramente premiato Lega e Movimento 5 Stelle, dando loro una spinta verso la realizzazione di qualcosa di nuovo. Il popolo ha bocciato gli epigoni della Seconda Repubblica (il Pd, con tutti i vari leaderini e leaderucci improbabili, del passato e del presente) e ha bocciato Berlusconi, che ha beneficiato dell’alleanza di centrodestra, in cui le parole più interessanti venivano proprio dalla Lega, però è stato chiaramente ridimensionato. E a proposito del Cavaliere: il sistema mediatico del nostro paese, così spesso imbelle e asservito, ha sostenuto che la sua riabilitazione (sulla quale non ho nulla da ridire: Berlusconi ha sin qui scontato le sue pene) avrebbe riaperto per lui chissà quale ruolo. Io però non ci credo.
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Folli: governo “istituzionale” con Pd e M5S o nuove elezioni
«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».Di Maio si è rivolto agli elettori del Pd, ha difeso la necessità di un “contratto di governo al rialzo”. Ha detto che serve una legge sul conflitto di interessi e ha perfino “difeso” Salvini dal possibile attacco mediatico di Berlusconi. «Il conflitto di interessi non è una novità per Di Maio, ma stavolta è stata una minaccia: Berlusconi badi a non mettersi troppo di traverso». Secondo Folli, «le blandizie a Salvini sono poca cosa, se l’obiettivo è cercare di riaprire il fronte leghista, con l’idea che Salvini possa mollare Berlusconi dopo il voto in Friuli», alle regionali. Di Maio continua a parlare da premier in pectore, ma lo sarà mai? «No, né lui né Salvini», risponde Folli. «Di Maio parla al suo elettorato, che comincia ad essere assai deluso di quanto sta accadendo». Attenzione: «Se al malumore crescente per l’ipotesi di un’alleanza con il Pd si aggiunge la rinuncia esplicita a Palazzo Chigi, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere nei 5 Stelle». Sul fronte opposto, i “governisti” del Pd sono ancora in minoranza, ma non è detto che il 3 maggio la direzione nazionale del partito sancisca per forza il “no” all’ipotesi di un governo col Movimento 5 Stelle: «La politica è strana», ammette Folli. «Stiamo vivendo una stagione piena di imprevisti».Difficile pensare a un accordo diretto tra Pd e 5 Stelle, «però un governo di garanzia o istituzionale sarebbe certamente visto in modo diverso nel Pd, anche da parte di coloro che oggi dicono “no” e basta». Sarebbe l’unica soluzione alternativa alle elezioni anticipate, sostiene Folli. Ma che governo dovrebbe essere, per essere votato anche da Salvini e Di Maio? «Un governo senza un’impronta politica, senza rappresentanti dei partiti nella squadra di governo e senza una maggioranza politica intesa come tale a sostenerlo». In altre parole: un esecutivo che non contenga nessuna delle istanze emerse alle elezioni (“la solita merda”, per dirla con Carpeoro). Cambiare almeno la legge elettorale? Solo strada facendo, dato che «ci vuole un accordo trasversale molto ampio, una maggioranza politica», mentre oggi «si comincerebbe da una semplice convergenza parlamentare su un governo di transizione». Un governo, ricorda Ferraù, che dovrebbe innanzitutto farsi carico del Def: cioè la “lista del rigore” che l’Ue pretende, come se gli italiani non avessero votato – in larga maggioranza – per archiviare l’austerity, tagliando le tasse e finanziando il reddito di cittadinanza. Il Def che incombe sul paese, ricorda Stefano Folli, prevede invece il taglio della spesa per scongiurare l’aumento dell’Iva: «Un’eventualità micidiale per l’economia italiana. E’ davvero singolare che non se ne parli».In mancanza di un’alternativa politica, osserva Folli, questo tipo di governo sarebbe la prima opzione del Colle. «L’altro giorno Di Maio ha scartato questa soluzione, a parole; nei fatti, potrebbe andare diversamente». E se anche questa soluzione dovesse fallire? «Resterebbero solo le elezioni anticipate, insieme al problema del governo con cui arrivarci», sottolinea l’editorialista di “Repubblica”. «Sarebbe un fallimento politico tremendo: altri Stati europei hanno rivotato in breve tempo senza terremoti, ma nella situazione italiana bisognerebbe pensarci bene prima di precipitarsi di nuovo alle urne, magari solo per calcoli e ripicche». Eppure, questa è la situazione: l’unica svolta politica – l’alleanza tra Di Maio e Salvini – è bloccata da Berlusconi, con cui Salvini non romperebbe mai, dato che punta a ereditare l’elettorato del Cavaliere: «Non gli conviene fare il partner di minoranza di un governo Di Maio, nemmeno in cambio di qualche ministro di peso». E se Berlusconi teme le urne, a scommettere sulle elezioni anticipate sarebbe proprio Renzi. Un calcolo spericolato, motivato solo dalla voglia di «regolare ancora una volta i conti con i suoi nemici interni, Franceschini per primo, e ottenere il controllo assoluto di un partito che ritiene non possa scendere sotto la percentuale del 4 marzo», un umiliante 18,7%. Un tracollo inflittogli dall’elettorato leghista e grillino, che il Pd pro-Bruxelles non ancora trovato il coraggio di discutere. Sul fronte opposto, chi ha vinto le elezioni (alzando il tono contro il rigore Ue) sembra destinato, ancora una volta, a “perdere” il governo.«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».
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Inciucio Pd e 5 Stelle, il governo dei servi richiesto dal Fmi
Il Fondo Monetario Internazionale di Washington, con la sua nota storia di sabotaggi e saccheggi delle economie dei paesi sottomessi attraverso le sue ricette economiche deliberatamente errate, torna ad occuparsi dell’Italia raccomandando di aumentare le tasse sul risparmio, sulla casa, sui consumi per alleggerire quelle sul lavoro. E’ la medesima ricetta che il Fmi attraverso il governo Monti impose nel 2011, producendo il crollo del Pil, del mercato immobiliare e dei consumi, in particolare svalutando il patrimonio immobiliare italiano di circa il 30%, ossia di oltre 2000 miliardi di euro. Più tasse su risparmio, immobili e consumi comportano riduzione della domanda interna e fuga dei risparmi e degli investimenti verso l’estero. Ecco l’obiettivo del Fondo Monetario Internazionale. Pensateci bene: se grazie alla riduzione delle tasse sui redditi di lavoro vi ritrovate con più reddito disponibile e insieme con un’Iva più alta, con tasse patrimoniali aggiuntive sulla casa e sugli investimenti immobiliari, che cosa fate? Non vi viene certo voglia di aumentare i consumi e gli investimenti di risparmio. Invece vi viene voglia di portare i soldi all’estero.E se invece il taglio delle tasse sul lavoro vi consente semplicemente di ottenere un impiego sufficiente a mantenervi coi magri salari che oggi vengono concessi, che cosa comprate? Comprate i prodotti che costano poco venduti nei discount, prodotti che vengono dall’estero, quindi i vostri soldi egualmente finiscono all’estero. Come con le rimesse degli immigrati. Tutto contribuisce a decapitalizzare l’Italia. Tutto questo porta a minor domanda di beni e servizi prodotti in Italia virgola quindi a recessione indotta dal calo della domanda interna e degli investimenti interni. Al contrario, da sempre, ciò che fa ripartire l’economia, l’occupazione, i consumi, e soprattutto la domanda di beni e servizi prodotti nel paese, è il mercato immobiliare, le costruzioni, l’arredamento, l’impiantistica, la progettazione, etc. L’Italia ha avuto i suoi migliori periodi di espansione quando avveniva proprio questo, l’investimento nel mattone da parte delle famiglie e delle imprese, che poi usavano i beni immobili come garanzia accettata dalle banche per finanziare l’acquisto di beni di consumo e strumentali, l’apertura di nuove aziende, la crescita. Ma le banche accettavano in garanzia i beni immobili quando gli immobili non erano tartassati dal fisco.È questo il senso malizioso della politica raccomandata dal Fondo Monetario Internazionale in passato come oggi: sabotare l’economia nazionale, impoverire, trasformare radicalmente l’Italia in territorio decapitalizzato e indebitato, passivo serbatoio di manodopera mal pagata (alimentato da scadente immigrazione) e sfruttata a disposizione della grande industria straniera, soprattutto tedesca, che si trattiene tutto il profitto della filiera. Un paese schiavo del debito pubblico e privato, gestito da una classe dirigente ad alta vocazione parassitaria alleata con gli interessi stranieri e che trae il grosso dei suoi consensi dalle regioni e dalle categorie che vivono di trasferimenti a carico delle aree produttive. Questo è lo spirito del governo servile che si sta cercando di impiantare a Palazzo Chigi con un inciucio M5S-Pd. Il M5S ormai, al di là dei suoi programmi, deve la sua forza elettorale a un voto motivato in gran parte da aspettative assistenzialistiche (reddito di cittadinanza, rectius di sussidio a chi risulta disoccupato, trasferimenti meridionalisti), quindi è legato a quelle aspettative; anche il Pd deve la sua residua forza a categorie ampiamente improduttive e ai legami col mondo bancario. La sinergia tra questi due partiti sarà quindi necessariamente nel senso di aumentare la tassazione e i trasferimenti, oltre che di obbedire alle richieste della cosiddetta Europa e dei cosiddetti mercati. E di proteggere il passato bancario di molti uomini del Pd, come spiegato nel mio precedente articolo.(Marco Della Luna, “Pd-M5S, un governo per il Fmi”, dal blog di Della Luna del 23 aprile 2018).Il Fondo Monetario Internazionale di Washington, con la sua nota storia di sabotaggi e saccheggi delle economie dei paesi sottomessi attraverso le sue ricette economiche deliberatamente errate, torna ad occuparsi dell’Italia raccomandando di aumentare le tasse sul risparmio, sulla casa, sui consumi per alleggerire quelle sul lavoro. E’ la medesima ricetta che il Fmi attraverso il governo Monti impose nel 2011, producendo il crollo del Pil, del mercato immobiliare e dei consumi, in particolare svalutando il patrimonio immobiliare italiano di circa il 30%, ossia di oltre 2000 miliardi di euro. Più tasse su risparmio, immobili e consumi comportano riduzione della domanda interna e fuga dei risparmi e degli investimenti verso l’estero. Ecco l’obiettivo del Fondo Monetario Internazionale. Pensateci bene: se grazie alla riduzione delle tasse sui redditi di lavoro vi ritrovate con più reddito disponibile e insieme con un’Iva più alta, con tasse patrimoniali aggiuntive sulla casa e sugli investimenti immobiliari, che cosa fate? Non vi viene certo voglia di aumentare i consumi e gli investimenti di risparmio. Invece vi viene voglia di portare i soldi all’estero.
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Giannini: farsa anti-Silvio, i 5 Stelle verso l’inciucio col Pd
Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».Non si sono mai viste pressioni ed urgenze così “infestanti” per sostenere «il neoliberismo finanziario, estremista e globale», che in Italia «è equivalso a recessioni finanziarie e politiche di macelleria sociale». Ebbene: «Sarà un caso, ma subito dopo la prima “udienza” al Colle, Di Maio si è sperticato in elogi e lodi verso la permanenza nell’euro, nell’Ue e nel “Patto Atlantico”», scrive Giannini in una riflessione su “Come Don Chisciotte”. Intanto le settimane passano, e i vincitori delle elezioni «non si sono ancora accordati per cambiare l’Italia», voltando pagina rispetto al rigore che ha disastrato il paese. Prima del voto, continua Giannini, la Lega aveva fatto promettere solennemente al Cavaliere che non avrebbe tradito la coalizione con un nuovo “Nazareno” col Pd, ma a sua volta si era impegnata a non abbandonare Forza Italia per i 5 Stelle. A proposito: «Di Maio lo sa che quando dice “non rifaremo un Nazareno” si riferisce in primis al Pd? Allora perché ha dichiarato che è disponibile ad allearcisi?». Non può non sapere, Di Maio, che Salvini non potrebbe mai abbandonare Berlusconi: «Quindi evidentemente non vuole allearsi con la Lega, bensì col Pd».Resta una sola possibilità, «per trasformare il voto democratico in un fatto». Questa: tornare alle urne con una inedita coalizione. «Se Lega, e 5S (e FdI) davvero vogliono governare insieme – scrive Giannini – devono riportarci al voto presentandosi coalizzati, dando il colpo di grazia a chi ci ha portato nella catastrofe negli ultimi 25 anni». In quel modo si avrebbe «una maggioranza chiara e solida, rispettosa della volontà dei cittadini stufi di alchimie e alleanze post-elettorali diverse dalle coalizioni pre-voto». Alchimie di quel genere, ricorda Gianni, «hanno sempre generato governi catastrofici (Ciampi, Dini, D’Alema, Monti, Letta, Renzi». Non sarà per per timore di questa inedita coalizione che Calenda (Pd) adesso vorrebbe governare coi 5 Stelle addirittura creando una Bicamerale per cambiare legge elettorale? Un cartello con Salvini e Meloni costringerebbe i grillini a uscire allo scoperto: si vedrebbe «se davvero vogliono governare per il paese o se Berlusconi è per loro solo una scusa per finire comodamente all’esecutivo col Pd (e la Bonino)». Per i 5 Stelle, in ogni caso, è finita l’epoca del rifiuto delle alleanze. Parlamentari neo-eletti già “affezionati” alla poltrona? Si può comprendere, ma un governo-salvezza vale ben di più.L’inedita coalizione tra Di Maio, Salvini e Meloni avrebbe anche il merito di saldare il Sud al Nord, mentre un governo 5 Stelle-Lega con l’appoggio esterno di Forza Italia «renderebbe Berlusconi l’ombelico del mondo, in un costante e strumentale malpancismo». Per Giannini, «i cittadini italiani hanno il diritto di comprendere se ciò che passano i partiti e le Tv è reale o virtuale». Ovvero: si lotta per avere al timone una guida patriottica (euroscettica) oppure euro-entusiasta e quindi anti-italiana? «Nel primo caso, al tavolo con Merkel e Macron a decidere qualità e entità della famosa clausola di uscita concordata dall’euro si siederebbe anche l’Italia». Giannini invece ha il fondato sospetto che Forza Italia e 5 Stelle «stiano in realtà collaborando, mediante i ben noti veti incrociati». Obiettivi: non farcela sedere, l’Italia, a quel tavolo, perché «Berlusconi non può inimicarsi i “mercati” che detengono azioni Mediaset, mentre i 5 Stelle non si sa se sono ancora una forza autonoma o se sono diretti da soggetti con sede a Londra (appunto, i “mercati”)». Giannini ricorda che accettammo un rapporto d’ingresso catastrofico nell’euro (990 lire per 1 marco), che resta «il vero motivo delle nostre attuali sofferenze, perché non rispecchiante la nostra economia reale».Non partecipare al nuovo tavolo europeo «sarebbe una ripetizione della storia in farsa, per la felicità dei vari global-entusiasti Napolitano, Mattarella, Merkel, Draghi, Clinton». Nel frattempo, Di Battista si agita a bordo campo definendo “male assoluto” Berlusconi? «Il forte sospetto – scrive Giannini – è che tutto ciò serva a far passare in secondo piano l’austerity come vero dramma per l’Italia e far digerire la prossima alleanza col Pd». E intanto, al grido “bisogna fare in fretta” (tanto caro a Monti, nel 2011) i media cercano di spaventare l’italiano medio, di manipolarlo e di convincerlo che nuove elezioni sarebbero una catastrofe economica. Così provano a «incatenarci altri anni all’ennesimo governo inciucista, venduto come al solito per “responsabile”». Che poi è la vera specialità del Pd, massimo garante italiano – almeno finora – dell’ordoliberismo europeo fondato sull’austerity. Ce l’avranno il coraggio, i 5 Stelle, si saltare l’ostacolo e puntare a premiare l’espressione popolare del 4 marzo, alleandosi con Salvini e Meloni? Viceversa, dimostrerebbero di essere solo la versione 2.0 del Pd, in salsa populista ma con lo stesso traguardo: rassicurare i grandi poteri neoliberisti e privatizzatori che stanno spolpando l’Italia.Lega, 5 Stelle e Fratelli d’Italia. Ce l’avranno il coraggio di presentarsi uniti, nel caso di elezioni anticipate, visto che tra Salvini e Di Maio resta l’ingombro dell’alleato Berlusconi? L’alternativa è la peggiore: un euro-governo targato 5 Stelle, col Pd a fare da garante, di fronte a Bruxelles, per la continuità “eterna” dell’austerity. «Il rispetto del voto democratico è ormai un’utopia, perché siamo maestri nel trasformare i fatti in opinioni», premette Marco Giannini, esperto di economia vicino ai pentastellati fino al momento della loro grottesca “conversione” al super-eurismo in seno al Parlamento Europeo. Altra premessa: secondo le agenzie di stampa, Mattarella assegnerebbe l’incarico solo a figure “fedeli” alla moneta unica e «alle autolesionistiche politiche di bilancio» imposte dall’Ue, «che sono un indirizzo non solo politico-economico ma soprattutto geopolitico». Di fatto: «Indirizzi “europei” contro gli interessi del popolo italiano, come hanno lasciato intendere sia l’ex presidente della Confindustria e della Ibm tedesca Henkel, sia i principali economisti del paese teutonico». Conclude Giannini: «Rimanendo nell’euro, l’austerity è immutabile». E anche se questo «in Italia non è afferrato da tutti (se non da una minoranza qualificata)», c’è però il vero significato nel voto del 4 marzo 2018: «Se c’è una questione su cui l’80% degli italiani ha votato compatto, è quello di una ferma opposizione alle politiche di austerità».