Archivio del Tag ‘impunità’
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Katherine Frisk: il Diavolo veste Prada e siede in Vaticano
Il Vaticano è il prototipo di un’entità fascio-corporativa. Non risponde né paga le tasse a nessuno. I suoi vescovi e i suoi sacerdoti hanno l’immunità diplomatica in tutto il mondo. Ha le sue ambasciate e possiede più beni immobili di qualsiasi altra entità del pianeta. Non ha mai avuto a che fare con Dio, Gesù o il cristianesimo …. ma con il potere, il controllo e la ‘moda’. Il Vaticano ha rilevanti partecipazioni in tutte le più grandi aziende multinazionali, come ad esempio la Lockheed-Martin e la Bank of America. Ma chi e che cosa è davvero il Vaticano? Cosa si nasconde dietro agli ‘uomini eletti’ [i Papi] che calzano scarpe rosse fatte da Prada (il Diavolo veste Prada)? Una fra le più grandi reti pedofile presenti sul pianeta, un’industria attiva nel riciclaggio del denaro e nella gestione del commercio illegale dei farmaci e delle armi. Il Vaticano è una ‘copertura’ per la ‘nobiltà nera’ d’Europa, per i banchieri sionisti e per la setta wahhabita controllata dalla famiglia reale saudita.Non crede nella democrazia e certamente non nelle strutture democratiche di una Repubblica. Sostiene il monopolio, la tirannia politica, l’egemonia e le strutture di tipo gerarchico. I suoi Tribunali sono delle ordalie [il ‘giudizio di Dio’] e non dei luoghi dove i testimoni, sotto la propria responsabilità, possono parlare liberamente. Negli ultimi 1.000 anni il Vaticano si è sempre posto l’obiettivo di fagocitare la Russia, che invece è rimasta cristiano-ortodossa – a dispetto dell’invasione comunista finanziata dai banchieri di Wall Street – e non ha ceduto alla dittatura del Papa né alla sua pretesa di possedere tutto il pianeta, con tutti i suoi corpi e tutte le sue anime. Una Chiesa Apostolica basata su tutti i suoi dodici discepoli – e non del solo Pietro, che è l’unica persona che la Bibbia considera al livello di Satana – è più in linea con il concetto di Federazione di Stati, di Repubblica e di democrazia.Gli spagnoli, ai tempi dell’Inquisizione e dell’ascesa dei Gesuiti, hanno esplorato e colonizzato il Nuovo Mondo, in particolare il Sud America. Nel 20° secolo, in tutto il Continente, abbiamo regolarmente assistito alla soppressione della volontà popolare per mezzo delle violente dittature fasciste, con la ‘mano nascosta’ della Cia, forzata dal Vaticano, a svolgere un ruolo di primo piano. C’è ancora chi sta cercando di divorarsi la Russia – oggi come negli ultimi 1.000 anni – ma c’è anche chi ha preferito trasferirsi, poco a poco, nei paesi del Sud America, portando con sé le sue ricchezze. Queste persone hanno anche generato – utilizzando le ampie risorse del Vaticano – un Nuovo Ordine Mondiale, prototipo del fascismo corporativo, sotto l’egida degli accordi per il Tpp [Trans Pacific Partnership] e per il Ttip [Transatlantic Trade and Investment Partnership]. Il Vaticano, che una volta era il loro ‘pane-e-burro’, si è ora ampliato trasformandosi in quello che è conosciuto come il ‘Vampire Squid’. Una piovra costituita da multinazionali i cui tentacoli abbracciano tutto il mondo.Sotto il regime del Tpp e del Ttip le multinazionali diventeranno esse stesse, analogamente al Vaticano, una specie di Stato, con i loro Tribunali segreti, le loro immunità diplomatiche ed il loro status di aziende esentasse. Avranno gli stessi diritti e gli stessi poteri dei governi. Potranno anche citarli in giudizio per le perdite di reddito conseguenza di Leggi da loro emanate sulla remunerazione del lavoro, sulla sanità e sull’ambiente …. in realtà su qualsiasi Legge governativa che le multinazionali vedessero come un ostacolo alla loro redditività. La Nobiltà Nera, i Gesuiti, gli Illuminati ed i Banchieri Sionisti cambieranno come camaleonti … anzi, lo hanno già fatto. Sono diventati gli Amministratori Delegati delle multinazionali e si sono liberati con successo degli stati-nazione, dei troni sui quali una volta erano seduti, degli altari che una volta servivano come sacerdoti ed infine delle Banche Centrali che un tempo controllavano. Scusate ragazzi, ma il cavallo è già scappato dalla stalla.Negli ultimi 500 anni hanno rubato tutto l’oro che potevano e l’hanno immagazzinato in impianti privati di cui non si sa nulla, lasciando i paesi di tutto il mondo con ‘sistemi bancari centrali’ ormai pressoché defunti, in bancarotta. Il Vaticano diventerà una ‘chiesa povera’ semplicemente perché tutta la sua ricchezza ha già da tempo lasciato l’Italia, insieme a tutto l’oro che era nelle sue catacombe, alle sue opere d’arte e alla sua biblioteca. Oggi, tutto ciò che si vede in Vaticano è una replica. Il ‘vero potere’ del Vaticano ha da tempo lasciato libero l’edificio. Ora siede nei Consigli d’Amministrazione, traccia e pianifica la piena attuazione del Tpp e del Ttip e, se incontra delle difficoltà lungo la strada, scatena ‘rivoluzioni colorate’, tsunami, terremoti e siccità, per convincere le varie nazioni a rientrare nei ranghi. Si tratta, fra l’altro, di crimini contro l’umanità che dovrebbero essere affrontati in un ‘Tribunale di Diritto Internazionale’. I suoi responsabili dovrebbero essere indagati, processati e condannati.Avendo fallito in almeno tre occasioni di prendersi la Russia – Napoleone e le due Guerre Mondiali, ma anche la guerra in Ucraina del 2014 e i patetici tentativi degli anni ’90, attuati attraverso delle guerre economiche – [il vero potere] ha ora deciso di scaricare l’Europa nel suo complesso, per approdare nei più salubri climi del sud del mondo. E, come al solito, farà in modo che tutto questo sembri colpa di qualcun altro. In ogni caso è questo il loro piano. Da qui il finanziamento di Soros ai ‘profughi’ diretti in Europa e la promessa fatta ai wahabiti [sauditi] che la fallita invasione [a suo tempo tentata] dall’Impero Ottomano potrà ora aver luogo. I musulmani saranno chiamati invasori, colonizzatori … e saranno la causa principale della distruzione della società europea per come la conosciamo. Ma le cose potrebbero risultare del tutto diverse da come [il vero potere] se le aspetta.Per gli europei la soluzione migliore, se vogliono sopravvivere, è di chiudere le frontiere, rifiutare di firmare il Ttip e poi andare verso Est unendosi all’Aiib [Asian Infrastructure Investment Bank] e ai Brics. Si tratta di un ‘caval donato’, non stiano a ‘guardare in bocca’. Dovrebbe tenere la Monsanto fuori dall’Europa e rimandare i ‘profughi’ da Soros con un biglietto di sola andata! Egli è così ricco che potrà senz’altro accoglierli, nutrirli e vestirli. Egli li ha finanziati, in primo luogo, perché potessero andare in Europa …. ed allora rimandateglieli indietro. Dopo secoli di tirannia del Vaticano gli europei diventeranno liberi. Dite ciao alla Nobiltà Nera, ai Gesuiti ed ai banchieri sionisti perché stanno imbarcandosi su aerei diretti in Sud America. Vi siete liberati di loro. Mille anni di persone inviate al rogo sono stati veramente troppi. Papa Francesco ha fondamentalmente chiuso bottega e il Vaticano è ormai un guscio vuoto. Lui non calza scarpe Prada e sta dando una rappresentazione del ruolo che contrasta con quella di Papa Benedetto, che sedeva su un Wc dal coperchio d’oro. Ma il suo è solo fumo negli occhi, baby!Polonia, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e Slovacchia si sono già svegliate. Si muovono verso Est ed hanno gettato nella discarica le politiche di Bruxelles. Questi paesi sono stanchi di essere usati ed abusati, di essere scaraventati in mezzo a guerre che hanno attraversato e distrutto il Continente, mentre coloro che le hanno istigate se ne vanno via con le tasche piene, dopo aver devastato le popolazioni. L’Ungheria, nella sua saggezza, ha bruciato i campi Ogm della Monsanto e ha sradicato questa multinazionale dal paese. Seguirà presto il resto dell’Europa. L’Ucraina Orientale diventerà uno Stato indipendente. La Polonia e l’Ungheria reclameranno quello che originariamente era il loro territorio e la giunta nazi-sionista di Kiev resterà isolata in un piccolo Stato. Chi è che ha bisogno di quei mostri? Il mondo intero, nel 2014, ha visto i loro barbari stupri, le loro ruberie ed i loro saccheggi. La Germania andrà presto verso Est, così come la Francia.Per quanto riguarda la Spagna, il paese è ancora legato al Sud America da un cordone ombelicale, analogamente alla Nobiltà Nera e a quello che una volta era il Vaticano, ma ora solo il grande ‘Vampire Squid’. Chissà come andrà a finire? La Turchia sta scavandosi la tomba con le proprie mani, minacciando la Russia nel nord della Siria. Dovesse persistere, il paese sarà suddiviso tra Armeni, Curdi e Cristiani Ortodossi d’Occidente. Quello che sarà lasciato alla Turchia sarà solo un territorio di lieve entità. Mi aspetto anche che Costantinopoli e la Basilica di Santa Sofia siano restituite alla Grecia, paese cui appartengono. E così l’Apocalisse sarà compiuta. Questo è quello che, a torto o a ragione, son riuscita a capire. Io sono solo una donna [nel senso di ‘essere umano’] e mi riservo di conseguenza il diritto di cambiare idea in qualsiasi momento. Il tempo dirà se ho avuto o meno ragione.(Katherine Frisk, “Il diavolo veste Prada – il fascismo, il Vaticano e il 21° secolo”, da “Veterans Today” del 23 gennaio 2016, tradotto da “Come Don Chisciotte).Il Vaticano è il prototipo di un’entità fascio-corporativa. Non risponde né paga le tasse a nessuno. I suoi vescovi e i suoi sacerdoti hanno l’immunità diplomatica in tutto il mondo. Ha le sue ambasciate e possiede più beni immobili di qualsiasi altra entità del pianeta. Non ha mai avuto a che fare con Dio, Gesù o il cristianesimo …. ma con il potere, il controllo e la ‘moda’. Il Vaticano ha rilevanti partecipazioni in tutte le più grandi aziende multinazionali, come ad esempio la Lockheed-Martin e la Bank of America. Ma chi e che cosa è davvero il Vaticano? Cosa si nasconde dietro agli ‘uomini eletti’ [i Papi] che calzano scarpe rosse fatte da Prada (il Diavolo veste Prada)? Una fra le più grandi reti pedofile presenti sul pianeta, un’industria attiva nel riciclaggio del denaro e nella gestione del commercio illegale dei farmaci e delle armi. Il Vaticano è una ‘copertura’ per la ‘nobiltà nera’ d’Europa, per i banchieri sionisti e per la setta wahhabita controllata dalla famiglia reale saudita.
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Craig Roberts: schiavi e padroni (di tutto, anche degli Stati)
Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.Questo obiettivo viene raggiunto inquadrando ogni intromissione nei profitti aziendali da parte di leggi esistenti o potenziali come una limitazione agli affari, per la quale le aziende possono intentare causa ai governi “sovrani”. Per esempio il divieto in Francia ed altre nazioni riguardo gli Ogm verrebbe annullato dal Ttip. La democrazia viene semplicemente sostituita dalle regole aziendali. Avrei voluto parlare di più di tutto questo. Comunque altri, come Chris Hedges, stanno facendo un buon lavoro per spiegare la stretta del potere che sta eliminando i governi rappresentativi. Le grandi aziende comprano il potere a basso prezzo. Hanno comprato la Camera dei Rappresentanti negli Usa per meno di 200 milioni di dollari. Questo è quanto è stato dato al Congresso per proseguire con “Fast Track”, che permette al braccio delle corporation, il Rappresentante del Commercio Usa, di negoziare segretamente senza spinta o supervisione da parte del Congresso stesso.In altre parole un agente delle grandi aziende si relaziona con altri suoi simili nelle nazioni che compromettono la “partnership” e questo gruppetto di gente profumatamente prezzolata scrive accordi che soppiantano la legge a favore degli interessi aziendali. Nessuna delle persone coinvolte rappresenta gli interessi delle nazioni o delle loro popolazioni. I governi delle nazioni aderenti alla partnership possono solo votare sì o no all’accordo… e verranno pagati profumatamente per votare nel modo giusto. Una volta che queste partnership sono attive, i governi stessi sono come privatizzati. Legislature, presidenti, primi ministri e giudici non hanno più alcuna ragione di esistere. I tribunali aziendali decidono le leggi e il funzionamento delle corti.È probabile che questa “partnership” avranno conseguenze indesiderate. Per esempio, Russia e Cina non fanno parte degli accordi, così come Iran, Brasile, India e Sud Africa, benchè, separatamente, il governo indiano sembra essere stato comprato dai grandi capitali agricoli statunitensi e sia sulla strada della distruzione del proprio sistema autosufficiente di produzione del cibo. Questa nazioni saranno depositarie della sovranità nazionale e del controllo pubblico, mentre libertà e democrazia saranno estinte in Occidente e presso i suoi vassalli asiatici. Rivoluzioni violente per tutto l’Occidente e la completa eliminazione dell’“un per cento” è un altro scenario possibile. Ad esempio, una volta che la popolazione francese avrà scoperto di aver perso il controllo sulla propria dieta a vantaggio della Monsanto e dell’agribusiness statunitense, i membri del governo francese che hanno condotto il paese verso una prigione alimentare di cibo tossico probabilmente verranno fatti a pezzi per le strade. Eventi di questo tipo sono possibili in Occidente solo se le popolazioni scopriranno di aver totalmente perso il controllo su ogni aspetto della loro vita e che l’unica scelta è tra la rivoluzione o la morte.(Paul Craig Roberts, “La ri-schiavizzazione delle genti occidentali”, da “Counterpunch” del 10 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Una nuova schiavizzazione delle popolazioni occidentali è in atto su diversi livelli. Uno di cui sto parlando da almeno dieci anni è la delocalizzazione del lavoro. Gli Stati Uniti, ad esempio, partecipano sempre meno alla produzione dei beni e dei servizi che finiscono sul loro mercato. Ad un altro livello stiamo esperendo la finanziarizzazione dell’economia occidentale, della quale Michael Hudson è uno dei maggiori esperti (“Killing the host”). La finanziarizzazione è il processo di rimozione di ogni tipo di presenza pubblica nell’economia e la conversione del surplus economico nel pagamento di interessi al settore finanziario. Questi due fattori privano la gente di prospettive economiche. Una terzo li priva dei diritti politici. Il Tpp e il Ttip eliminano la sovranità politica e spostano il controllo sulle grandi aziende. Questi cosiddetti “partenariati commerciali” non hanno nulla a che fare con il business. Questi accordi negoziati in segreto accordano immunità alle grandi aziende nei confronti delle leggi nazionali dei paesi in cui operano.
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Dezzani: sui francesi veglia la Dgse, e i risultati si vedono
Per scovare i mandanti della carneficina del “venerdì 13” non serve allontanarsi da Parigi, probabilmente basterebbe visitare il quartier generale della Dgse, la Cia francese. Lo sostiene Federico Dezzani, analizzando le falle, troppo clamorose, della sicurezza: tre kamikaze che si fanno saltare in aria allo stadio, uccidendo solo se stessi, per dar modo ai colleghi di scorrazzare in pieno centro su una Seat Leon nera, per quasi mezz’ora, sparando nel mucchio. Tutti gli indizi, afferma Dezzani, conducono ai vertici dei servizi segreti francesi, rinnovati sotto Nicolas Sarkozy e confermati sotto la presidenza di François Hollande: «Con il subentrare allo spionaggio transalpino di personaggi vicini agli angloamericani è avviata nel 2012 la strategia della tensione. Dopo una pausa coincidente con i primi due anni della presidenza di Hollande, il terrorismo islamico riesplode in concomitanza alla caduta verticale del capo dello Stato nei sondaggi». Sarebbe questo, sostiene l’analista, il vero ruolo della “Direction générale de la sécurité extérieure”: organizzare l’accurata copertura necessaria a rendere efficace l’azione dei commando, nient’altro che manovalanza reclutata e addestrata.
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Levy: persino Gandhi capirebbe la violenza dei palestinesi
Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.Come ha scritto recentemente l’attivista palestinese di lunga data Hanan Ashrawi, i palestinesi solo l’unico popolo sulla terra a cui si chiede di garantire la sicurezza dell’occupante, mentre Israele è l’unico paese al mondo che pretende protezione alle sue vittime. E come possiamo rispondere? Come ha chiesto il presidente Mahmoud Abbas in un’intervista ad “Haaretz”: «Come vi aspettate che la piazza palestinese reagisse dopo che l’adolescente Mohammed Abu Khdeir è stato bruciato vivo [nel luglio 2014, dopo l’uccisione di tre giovani israeliani], l’incendio della casa dei Dawabsheh [nell’agosto 2015, in cui è morto carbonizzato un bambino di 18 mesi e, dopo qualche settimana, sono deceduti i suoi genitori], le aggressioni dei coloni e gli attacchi contro le proprietà [palestinesi] sotto gli occhi dei soldati?». E cos’abbiamo da rispondere?Ai cento anni di spoliazione ed ai 50 anni di oppressione possiamo aggiungere gli ultimi anni, segnati dall’intollerabile arroganza israeliana che ci sta esplodendo ancora una volta in faccia. Sono stati gli anni in cui Israele ha pensato di poter fare qualunque cosa senza pagarne il prezzo. Ha pensato che il ministro della difesa [Moshe Ya’alon, del Likud, il partito di Netanyahu] potesse vantarsi di conoscere l’identità degli assassini dei Dawabsheh senza arrestarli, e i palestinesi si sarebbero controllati. Ha pensato che quasi ogni settimana un ragazzo o adolescente potesse essere ucciso dai soldati e i palestinesi sarebbero rimasti tranquilli. Ha pensato che i soldati israeliani potessero irrompere nelle case dei palestinesi ogni notte e terrorizzare, umiliare ed arrestare la gente. Che a centinaia potessero essere arrestati senza un’accusa. Che lo Shin Bet, il sevizio di sicurezza, potesse continuare a torturare i sospetti con metodi satanici.Ha pensato che i prigionieri che fanno lo sciopero della fame e che sono stati liberati potessero essere riarrestati, spesso senza alcuna ragione. Che Israele potesse distruggere Gaza una volta ogni due o tre anni e che Gaza si sarebbe arresa e la Cisgiordania sarebbe rimasta tranquilla. Che l’opinione pubblica israeliana avrebbe applaudito tutto ciò, nella migliore delle ipotesi con sorrisi e nella peggiore con la richiesta di più sangue palestinese, con una sete che è difficile da comprendere. E i palestinesi lo avrebbero perdonato. Tutto ciò potrebbe continuare ancora per molti anni. Perché? Perchè Israele è più forte che mai e l’Occidente è indifferente e gli consente di scatenarsi come non mai. I palestinesi, nel contempo, sono deboli, divisi, isolati e colpiti come non mai dai tempi della Nakba. Così tutto ciò potrebbe continuare perché Israele lo può fare – e il popolo [israeliano] lo vuole. Nessuno potrà fermare ciò, se non l’opinione pubblica internazionale, che Israele rifiuta in quanto anti-ebraica.E non abbiamo detto niente in merito all’occupazione in quanto tale e l’incapacità di porvi termine. Siamo stanchi. Non abbiamo detto una parola sull’ingiustizia del 1948, che avrebbe dovuto finire allora e non continuata con ancor maggiore forza nel 1967, e continuata senza che se ne veda la fine. Non abbiamo parlato delle leggi internazionali, del diritto naturale e l’etica umana, che non può assolutamente accettare niente di simile. Quando giovani uccidono coloni, lanciano bottiglie molotov contro i soldati e scagliano pietre contro gli israeliani, questo è il contesto. Ci vuole una buona dose di ottusità, ignoranza, nazionalismo e arroganza – o di tutto ciò insieme – per ignorare tutto ciò.(Gideon Levy, “Perfino Gandhi capirebbe la violenza palestinese”, articolo pubblicato sul quotidiano israeliano “Haaretz” il 9 ottobre 2015 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Attraverso la nebbia del senso di superiorità, della propaganda dei media, dell’istigazione, della disattenzione, del lavaggio del cervello e della vittimizzazione degli ultimi giorni, ritorna pienamente d’attualità la semplice domanda: chi ha ragione? Nell’arsenale propagandistico israeliano non ci sono argomenti giustificati accettabili per una persona onesta. Persino il Mahatma Gandhi capirebbe le ragioni di questo scoppio di violenza palestinese. Persino quelli che rifiutano la violenza, che la vedono come immorale ed inutile, non possono fare a meno di capire come mai scoppia periodicamente. La domanda è perché non scoppi ancora più spesso. Dalla domanda su chi ha iniziato tutto ciò a quella su chi è da condannare, il dito è giustamente puntato contro Israele, solo contro Israele. Non è che i palestinesi siano incolpevoli, ma la responsabilità principale ricade sulle spalle di Israele. Finché Israele non si libererà di questa colpa, non avrà ragioni per fare uno straccio di richiesta ai palestinesi. Ogni altra cosa è falsa propaganda.
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Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Sanità da medioevo, solo per ricchi: l’infame modello Renzi
Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.Si dice che in questo modo si risparmieranno 13 miliardi che potranno essere spesi meglio. Tutti i tagli alla spesa pubblica son giustificati così da sempre, e da sempre sappiamo che questo non è vero. La sostanza è che si ridurrà la prevenzione sulle malattie, solo i ricchi potranno continuare a permettersela mentre i poveri si ammaleranno e moriranno prima. Ma forse questo è proprio ciò che si vuole. Il sistema pensionistico dalla riforma Dini si fonda sull’aspettativa di vita. Più questa statisticamente sale, più si deve andare in pensione ad età elevate. Per questo le tabelle già prevedono la pensione a 70 anni di età nei prossimi decenni. Immaginiamo allora che i tagli alla sanità blocchino o addirittura abbassino questa aspettativa di vita. Sarebbe un doppio guadagno per le casse dello Stato, da un lato risparmi sulla spesa sanitaria, dall’altro su quella pensionistica perché pur andando in pensione più tardi si morirebbe prima. Tempo fa una giornalista televisiva parlando del sistema pensionistico si lasciò scappare che i costi crescevano perché “purtroppo” si viveva più a lungo. Ecco, con quel purtroppo la giornalista era in perfetta sintonia con le intenzioni dei governanti liberisti.I medici sono giustamente in rivolta contro questa legge, perché verrebbero sottoposti ad uno standard di regole e comportamenti di modello aziendalistico. È evidente infatti anche in questa “riforma” il modello Marchionne, il nume ispiratore a cui Renzi vorrebbe fare un monumento. Come nella scuola con i presidi caporali, anche nella sanità ci saranno strutture e poteri burocratici che avranno il compito di decidere sui comportamenti. Il modello aziendale fondato sul profitto è quello che da tempo si sta imponendo nei servizi pubblici, in questo modo trasformando le persone ed i loro diritti costituzionali in oggetti di mercato. Ancora più infame è poi la partita di scambio che viene offerta ai medici per compensarli della distruzione della loro libertà. Il governo intende impedire le cause dei cittadini per malasanità. Così come ha fatto con il decreto Ilva, che ha garantito impunità ai manager che inquinano nell’esercizio delle loro funzioni, il governo offre la stessa protezione ai medici. I pazienti saranno meno immuni da malattie gravi, ma i medici verranno immunizzati dalle cause dei pazienti.L’Italia è il paese di Cesare Beccaria, che alla cultura medioevale contrappose quella illuminista delle pene: meglio un colpevole libero che un innocente in prigione. Con lo stato sociale questo principio di civiltà si era esteso ai diritti sociali. Meglio spendere 13 miliardi in visite anche per chi non ne ha bisogno, che negare le cure a chi invece ne necessita. Ora con le politiche di austerità il governo abbandona i principi illuministi per tornare a quelli medioevali, meglio che un malato muoia prima piuttosto che spendere dei soldi in più. L’autorità pubblica ha così potere di vita e di morte e il principio che la ispira è quello del mercato, rispetto alla cui suprema autorità, come nel Medio Evo, le persone normali non hanno più diritti personali indisponibili. Quella dell’austerità è prima di tutto una cultura di morte.(Giorgio Cremaschi, “La sanità modello Marchionne”, da “Micromega” del 24 settembre 2015).Che cosa rende una visita, un esame clinico, inutile? Il fatto che il paziente non abbia nulla. Che cosa lo rende particolarmente inutile? Il fatto che questo esame sia stato prescritto solo in via precauzionale, magari proprio solo per escludere il rischio malattia e tranquillizzare il paziente. Questi esami inutili, se passa il provvedimento legislativo annunciato dal governo, non si potranno più fare, pena sanzioni contro il medico che li prescrive. Quindi saranno utili solo gli esami clinici che riscontrino effettive patologie, magari irrecuperabili. Ci rendiamo conto della mostruosità di questa misura, naturalmente giustificata con la necessità del rigore nei conti dello Stato? Naturalmente i soliti pifferai liberisti spiegheranno che si tratta di eliminare sprechi, definendo standard validi per tutti, senza danni per nessuno. Mi pare che abbiano annunciato come esempio che gli esami sul colesterolo dovrebbero farsi ogni cinque anni. Immaginiamo una persona che improvvisamente abbia sintomi di malanni che il medico giudichi dovuti a cause di scompensi nel metabolismo, da sottoporre ad analisi. Se il paziente ha oltrepassato i tempi standard dall’ultimo controllo il medico potrà fare la prescrizione, se invece così non è dovrà aspettare. Oppure rischiare di finire sotto procedura di controllo e sanzione.
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In Cina chi sbaglia paga, l’Ue invece premia i suoi mostri
Così come Macbeth, i politici tendono a commettere nuovi peccati per coprire i propri vecchi misfatti. E i sistemi politici dimostrano il loro valore a seconda della rapidità con cui pongono fine agli errori politici seriali, che si rafforzano a vicenda, dei loro funzionari. Giudicata secondo questo standard, l’Eurozona, comprendente 19 democrazie consolidate, non riesce a stare al passo con la più grande economia non democratica del mondo. Dopo l’inizio della recessione che seguì la crisi finanziaria globale del 2008, i responsabili politici della Cina hanno speso sette anni per sostenere la domanda calante delle esportazioni nette del proprio paese mediante una bolla di investimenti interni, gonfiata dall’aggressiva vendita di terreni dei governi locali. E, quando quest’estate si è arrivati alla resa dei conti, i leader cinesi hanno speso 200 milioni di dollari di riserve in valuta estera permettere al Vecchio re [in riferimento a Macbeth] di contenere il declino dei titoli di Borsa.Rispetto all’Unione Europea, comunque, gli sforzi fatti dal governo cinese per correggere i suoi errori – permettendo eventualmente ai tassi di interesse e ai valori borsistici di oscillare – sembra un esempio di rapidità ed efficienza. In effetti, il fallimentare “programma di risanamento del bilancio e di riforma” greco, e il modo in cui i leader dell’Unione Europea si sono avvinghiati ad esso, nonostante gli ultimi cinque anni dimostrino che il programma non può avere successo, è sintomatico del fallimento più ampio di una governance europea, con profonde radici storiche. All’inizio degli anni ‘90, la traumatica rottura del meccanismo europeo di cambio ha solo rafforzato la determinazione dei leader dell’Unione Europea di mantenerlo in piedi. Quanto più il regime si è rivelato insostenibile, più i funzionari gli si sono tenacemente aggrappati e più ottimiste si sono fatte le loro narrazioni. Il “programma” greco è solo un’altra incarnazione della rosea inerzia politica dell’Europa.Gli ultimi cinque anni di politica economica nell’Eurozona si sono rivelati in una notevole commedia degli errori. L’elenco degli errori nelle politiche è quasi infinito: l’aumento del tasso di interesse da parte della Banca centrale europea nel luglio del 2008 e di nuovo ad aprile del 2011; l’istituzione della più dura austerità per le economie cadute nella peggiore recessione; trattati perentori che chiedono svalutazioni competitive interne per peggiorare le condizioni degli Stati vicini; e un sistema bancario che manca di un adeguato modello di deposito di assicurazione. Come possono i politici europei farla franca? Dopo tutto, la loro impunità politica risulta in netto contrasto non solo con gli Stati Uniti, dove i funzionari devono almeno rispondere al Congresso, ma anche con la Cina, dove è comprensibile pensare che i ministri sono meno controllabili rispetto alle controparti europee. La risposta giace nella natura frammentata e volutamente informale dell’unione monetaria europea.I funzionari cinesi possono non essere tenuti a rispondere ad un Parlamento democraticamente eletto o ad un Congresso, ma i funzionari del governo hanno un corpo unitario – i sette membri del comitato permanente del Politburo – a cui devono tenere conto dei loro errori. L’Eurozona, invece, è governata dall’ufficialmente non ufficiale Eurogruppo, che comprende i ministri delle finanze degli Stati membri, insieme ai rappresentanti della Bce, e quando discutono “programmi economici nei quali è coinvolto”, anche il Fondo Monetario Internazionale. Solo recententemente, come risultato degli intensi negoziati del governo greco con i creditori, i cittadini europei hanno realizzato che l’economia più ampia del mondo, l’Eurozona, è guidata da una struttura priva di norme procedurale scritte, che tratta questioni cruciali in maniera “confidenziale” (e senza che vengano redatti verbali) e non è obbligata a rispondere a nessun organo eletto, neppure al Parlamento Europeo.Sarebbe un errore considerare la frattura tra il governo greco e l’Eurogruppo come uno scontro tra la sinistra greca e il tradizionale conservatorismo europeo. La nostra “Primavera di Atene” è stata qualcosa di più profondo: il diritto di un piccolo Stato europeo di sfidare una politica fallimentare che stava devastando le prospettive di una generazione (o due), non solo in Grecia, ma in tutta Europa. La Primavera di Atene è stata schiacciata per motivi che non avevano nulla a che fare con le politiche di sinistra del governo greco. L’Unione Europea ha ripetutamente rifiutato e denigrato politiche basate sul buon senso. Un esempio è dato dalle posizioni contrapposte sulla politica fiscale. Come ministro delle finanze greco, proposi una riduzione dell’aliquota di imposta sulle vendite, sulle imposte sul reddito e sulle società, con lo scopo di ampliare la base imponibile e dare una spinta alla danneggiata economia greca. Nessun ammiratore di Ronald Regan si sarebbe opposto al mio piano. L’Unione Europea, al contrario, chiese – ed impose – un incremento su tutte e tre le aliquote fiscali.Così, se la bagarre con i creditori europei non è stata una contrapposizione destra-sinistra, di cosa si trattava? L’economista americana Clarence Ayres una volta scrisse, come a descrivere i funzionari europei: «Si adoperano sulle politiche modo cerimoniale, come se quella fosse la realtà, ma lo fanno solo per convalidare uno status, non per raggiungere un’efficienza tecnologica». E così la fanno franca, perchè chi prende le decisioni nell’eurozona non è obbligato a rispondere ad alcun organo sovrano. Spetta a quelli che tra noi desiderano migliorare l’efficienza dell’Europa, e diminuire le sue evidenti ingiustizie, di lavorare per ri-politicizzare l’eurozona come un primo passo verso la democratizzazione. Dopo tutto, l’Europa non merita un governo responsabile delle proprie azioni più di quanto lo sia quello della Cina comunista?(Yanis Varoufakis, “L’Eurogruppo è l’antitesi della democrazia”, da “Project-Sindycate” il 2 settembre 2015, ripreso dal blog di Stefano Santarelli).Così come Macbeth, i politici tendono a commettere nuovi peccati per coprire i propri vecchi misfatti. E i sistemi politici dimostrano il loro valore a seconda della rapidità con cui pongono fine agli errori politici seriali, che si rafforzano a vicenda, dei loro funzionari. Giudicata secondo questo standard, l’Eurozona, comprendente 19 democrazie consolidate, non riesce a stare al passo con la più grande economia non democratica del mondo. Dopo l’inizio della recessione che seguì la crisi finanziaria globale del 2008, i responsabili politici della Cina hanno speso sette anni per sostenere la domanda calante delle esportazioni nette del proprio paese mediante una bolla di investimenti interni, gonfiata dall’aggressiva vendita di terreni dei governi locali. E, quando quest’estate si è arrivati alla resa dei conti, i leader cinesi hanno speso 200 milioni di dollari di riserve in valuta estera permettere al Vecchio re [in riferimento a Macbeth] di contenere il declino dei titoli di Borsa.
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Sofri consulente alla giustizia: arrivati al fondo, si scava
Renzi non è un inetto. Renzi ha alcuni obiettivi da perseguire. Alcuni mandati, alcuni compiti da eseguire. La distruzione del tessuto sociale, la distruzione dell’assetto democratico e la distruzione dello Stato di Diritto. Era già chiaro dall’inizio, con la revisione dell’articolo 416 ter del Codice Penale. Una norma “perfetta” l’avrebbe definita il Procuratore Generale Lombardi. Così, almeno, continua a ripetere la presidente della Commissione Antimafia Bindi. Cieca e sorda rispetto agli effetti che questa “riforma” sta producendo. Una riforma che costringe alla scarcerazione indagati per voto di scambio. Era chiaro dall’inizio, con la cosidetta “depenalizzazione dei reati minori”: 112 reati che non costituiscono più reato penale. Alcuni odiosissimi, come lo stalking, lo stupro e ovviamente evasione fiscale e falsi in bilancio. Nel volgere di un anno sono stati più volte “attenzionati” gli argomenti “evasione fiscale” e “falso in bilancio”. Ogni volta alleggerendo ora la pena e ora il reato per arrivare alla nuova “legge anticorruzione” e alla fine è stato creato un sistema per cui, di fatto, il falso in bilancio non esiste più.Ovviamente non può mancare l’antiriciclaggio. La storia della impunibilità se l’autoriciclaggio avviene per “utilità personale” è tutta da ridere. E mentre per i “reati da poveracci” nulla cambia, i “colletti bianchi” e la casta politica sono al sicuro. Per buona misura, poi, viene introdotta la responsabilità civile diretta dei giudici. Uno strumento perverso per cui chi ha disponibilità di denaro, di fatto condiziona la libertà di giudizio del giudice. Una giustizia sempre più elitaria che i continui aumenti dei contributi unificati rendono inaccessibile al cittadino comune che chiede giustizia. Il contributo aumenta con la “legge di stabilità 2015”, ma era già aumentato a giugno 2014. Una condizione medioevale in cui sussistono diversi piani di giustizia. Una giustizia riservata ai potenti e un’altra (quasi vessatoria, basti pensare al sistema tributario e a Equitalia, che di “equo” non ha nulla) che investe (è il caso di dirlo) i comuni cittadini. Ma non è sufficiente. Occorre, adesso, rimuovere anche il “senso di Giustizia”. Occorre instillare il convincimento (fondato, peraltro) di vivere in un paese in cui è l’ingiustizia ad essere premiata.Ecco, quindi, parlamentari indagati e per i quali viene richiesta autorizzazione all’arresto e sottosegretari indagati, in faccende estremamente contigue a “mafia capitale”, attorno ai quali si sollevano muri di ipocrita garantismo. Ecco Poletti che “legittimamente” va a cena con Buzzi e capi mafia sostenendo che “non sapeva”. Ecco le candidature della Paita in Liguria, di De Luca in Campania, che viene candidato CONTRO legge, ma per il quale, pur rischiando blocchi istituzionali inimmaginabili vengono studiati metodi per consentirgli l’insediamento per consentirgli di nominare la Giunta e governare per il tramite di un vice presidente fantoccio. E non dimentichiamo Poziello (candidato e poi eletto sindaco di Giugliano) anch’egli rinviato a giudizio e sostenuto, manco a dirlo, da De Luca.Quando pensi di aver toccato il fondo, ecco che dal cappello renziano esce un altro coniglio che fa apparire acqua fresca lo scandalo precedente. Serve ad abituarci, a costruire una cultura della illegalità. Con un decreto del 19 giugno, infatti, il ministro Orlando ha nominato Adriano Sofri “consulente” per la riforma carceraria: “Responsabile di istruzione e cultura negli Stati generali delle carceri”. Adriano Sofri consulente del Ministero di Giustizia. Chi sia Adriano Sofri lo spiega il “Corriere.it”. Sofri. Il mandante dell’omicidio del commissario Calabresi. Sofri. È il “renzismo bellezza”. Adriano Sofri, infatti, è il suocero di Daria Bignardi. Il padre di quel Luca Sofri che appella Matteo Renzi con “ciao, capo”.(Stefano Ali, “Sofri consulente del ministero Giustizia, giunti al fondo si scava”, dal blog “Il Capello Pensatore” del 24 giugno 2015).Renzi non è un inetto. Renzi ha alcuni obiettivi da perseguire. Alcuni mandati, alcuni compiti da eseguire. La distruzione del tessuto sociale, la distruzione dell’assetto democratico e la distruzione dello Stato di Diritto. Era già chiaro dall’inizio, con la revisione dell’articolo 416 ter del Codice Penale. Una norma “perfetta” l’avrebbe definita il Procuratore Generale Lombardi. Così, almeno, continua a ripetere la presidente della Commissione Antimafia Bindi. Cieca e sorda rispetto agli effetti che questa “riforma” sta producendo. Una riforma che costringe alla scarcerazione indagati per voto di scambio. Era chiaro dall’inizio, con la cosidetta “depenalizzazione dei reati minori”: 112 reati che non costituiscono più reato penale. Alcuni odiosissimi, come lo stalking, lo stupro e ovviamente evasione fiscale e falsi in bilancio. Nel volgere di un anno sono stati più volte “attenzionati” gli argomenti “evasione fiscale” e “falso in bilancio”. Ogni volta alleggerendo ora la pena e ora il reato per arrivare alla nuova “legge anticorruzione” e alla fine è stato creato un sistema per cui, di fatto, il falso in bilancio non esiste più.
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Carpeoro: l’infame complotto degli italiani contro se stessi
L’Italia, oggi, sicuramente ha come nemico i poteri forti. Ma coloro che si dovrebbero opporre a quei poteri fanno tutt’altro. Il problema vero di questo paese non è di storia criminale, ma di storia non governata. Non è che siamo governati male: non siamo governati – il che, per certi aspetti, è peggio: forse, essere governati male è meglio che non essere governati. Certo, l’ideale sarebbe essere governati bene. Ma sapete cos’è necessario, per essere governati bene? Bisogna che, alla fine, qualcuno abbia il potere di decidere; che si sappia chi è che decide; e che il potere democratico, se le decisioni di questa persona si dimostrano sbagliate, la volta successiva lo lasci a casa. Vorremmo che la nostra vita fosse scandita da certezze, che non abbiamo: non abbiamo certezza nella giustizia e non abbiamo certezza nel nostro potere economico, perché non sappiamo chi lo governa. Non più la Banca d’Italia. La Banca Centrale Europea? Sì, ma chi la governa? Siamo sicuri che la governi quello che sembra che la governi adesso?