Archivio del Tag ‘Il Sussidiario’
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L’inutile boom di Salvini: a Bruxelles resta al potere il rigore
«Meteor-Matteo, il cazzaro che vince le europee saturando i media, è una replica in saldo. Rispetto a Renzi nel ’14, Salvini ha 7 punti in meno, e calcolata l’astensione il suo 34% in realtà significa meno di 2 elettori su 10. Al tramonto però anche i nani proiettano lunghe ombre». Così Alessandra Daniele su “Carmilla” commenta l’esito – largamente atteso – delle europee: la Lega sopra il 34% e il Pd che risale al 22,7 sorpassando i grillini, franati fino al 17%. «Il rovinoso crollo grillino è una replica renziana in fast-forward: in meno d’un anno di governo, il Movimento 5 Stelle Spente ha già perduto metà degli elettori». La primissima esperienza politico-mediatica di Beppe Grillo, ricorda la Daniele, fu commentare da comico una maratona elettorale nei primi anni ’80 dell’ascesa di Craxi. «Ieri sera, nessuno dei grillini ha avuto il coraggio di apparire davanti alle telecamere per commentare il suicidio di massa che hanno compiuto favorendo l’ascesa di Salvini. Il cerchio s’è chiuso». E Zingaretti? «Ha esultato molto più di quanto il misero recupero del suo partito lo autorizzasse a fare», specie dopo aver candidato “frontman” come Giuliano Pisapia e Carlo Calenda, campioni di grigiore assoluto.Osserva ancora Alessandra Daniele: «Il Pd festeggia perché Salvini è il nemico ideale, contro il quale spera di ri-mobilitare a suo vantaggio quell’union sacrée orfana dell’antiberlusconismo di facciata, e quegli antifascisti a progetto che oggi fingono di non accorgersi che Salvini non è che la continuazione della dottrina Minniti con gli stessi mezzi», al netto di qualche “sceneggiata”. «Intanto l’élite Ue si prepara ancora una volta ad ammortizzare e neutralizzare le ambivalenti spinte al cambiamento espresse dagli elettori in tutti i paesi europei». In realtà i “sovranisti” come Orban e Marine Le Pen sono soltanto «meteore», destinate a brillare solo per un attimo, «per poi inabissarsi nella palude degli affari comuni». Lo conferma Gianni Rosini sul “Fatto Quotidiano”: sarà ancora il medesimo blocco di potere – popolari e socialisti, con in più i liberali – a gestire la farsa post-democratica delle istituzioni europee: a controllare Strasburgo sarà sempre l’alleanza trasversale che finora ha imposto le peggiori politiche di rigore. «Il successo dei partiti conservatori, euroscettici e nazionalisti c’è stato rispetto al 2014, ma non basta per pensare a un’apertura del Ppe a destra, come auspicato da Forza Italia e da Silvio Berlusconi».«Sarà quindi, con tutta probabilità, un’alleanza al centro – scrive il “Fatto” – quella che guiderà la nuova Unione. Nemmeno un’uscita di Orban dal Ppe, oggi sempre più improbabile, metterebbe in discussione la grande coalizione a tre». Aggiunge Sergio Luciano sul “Sussidiario”: «Le Pen e Farage in un simile quadro continueranno a essere attori comprimari ma irrilevanti. Quindi è impensabile, in queste condizioni, che la filiera decisionale, peraltro lunga e lenta, che da Strasburgo arriverà a fine anno alla Commissione Europea e in qualche modo anche alla Bce possa strizzare l’occhio alla manica larga necessaria al Capitano per fare una finanziaria con il deficit al 3,5 o al 4%». La Flat Tax, continua Luciano, pur essendo una formula cara ai paesi “sovranisti” teoricamente vicini alla Lega («ma in pratica vicini solo a se stessi, se no che sovranisti sarebbero?»), in realtà determina nell’immediato un calo del gettito che l’Italia «non è assolutamente in grado di fronteggiare, esponendo in bilancio la previsione di entrate compensative: come potrà mai, il Capitano, ottenere la luce verde europea su una misura simile?». E come potrà essere confermata “quota 100”, allo scadere dei due anni di test, «in un’Europa che non avrà nel frattempo rivisto il totem del 3% di rapporto massimo deficit/Pil?».«Meteor-Matteo, il cazzaro che vince le europee saturando i media, è una replica in saldo. Rispetto a Renzi nel ’14, Salvini ha 7 punti in meno, e calcolata l’astensione il suo 34% in realtà significa meno di 2 elettori su 10. Al tramonto però anche i nani proiettano lunghe ombre». Così Alessandra Daniele su “Carmilla” commenta l’esito – largamente atteso – delle europee: la Lega sopra il 34% e il Pd che risale al 22,7 sorpassando i grillini, franati fino al 17%. «Il rovinoso crollo grillino è una replica renziana in fast-forward: in meno d’un anno di governo, il Movimento 5 Stelle Spente ha già perduto metà degli elettori». La primissima esperienza politico-mediatica di Beppe Grillo, ricorda la Daniele, fu commentare da comico una maratona elettorale nei primi anni ’80 dell’ascesa di Craxi. «Ieri sera, nessuno dei grillini ha avuto il coraggio di apparire davanti alle telecamere per commentare il suicidio di massa che hanno compiuto favorendo l’ascesa di Salvini. Il cerchio s’è chiuso». E Zingaretti? «Ha esultato molto più di quanto il misero recupero del suo partito lo autorizzasse a fare», specie dopo aver candidato “frontman” come Giuliano Pisapia e Carlo Calenda, campioni di grigiore assoluto.
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Formica: il M5S non fa politica, l’onestà pubblica è religione
Quando in politica si ricorre alla questione morale vuol dire che non si hanno più soluzioni politiche. Anzi, la semplice posizione della questione morale è già aver attraversato la soglia tra ideologia e religione. Vuol dire che siamo allo Stato religioso. Cosa sono in definitiva i sistemi teocratici? Sono sistemi non politici, dove le ragioni politiche non contano, contano gli atti di fede. Quando si ricorre agli atti di fede andiamo indietro nella storia europea di molti secoli. Ma la fede non c’è più. Ci sono altre strade per smantellare la ricerca di soluzioni politiche: i luoghi comuni. Uno dei più frequenti è la mancanza di alternative. Come si fa a produrre l’alternativa? Abbandonando il totem della continuità. La crisi di sistema richiede di ragionare in termini di rottura. Il sistema politico e istituzionale del paese si sta disgregando. Si badi: è un processo di lungo periodo, che occupa gli ultimi 25 anni. Accade quando le istituzioni non svolgono più il loro ruolo, quello di essere contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari. Una seconda Tangentopoli, con i Pm che fanno politica? Non direi così. Il M5S nasce come espressione organizzata del dissenso diffuso e contraddittorio che c’è nella società. Qui emerge però il suo peccato d’origine.Le mille proteste muovono la piazza, ma non creano di per sé una struttura istituzionalmente capace di portare un equilibrio, un ordine, una visione realizzabile. Movimento 5 Stelle e magistratura sono simili, nella limitazione del fine politico. La magistratura non può non svolgere il suo ruolo, che è quello di colpire quelle che dal punto di vista penale sono responsabilità personali. Non ha come obiettivo quello di risolvere crisi di sistema. E infatti ad ogni sospetto o accusa di agire con finalità politiche ogni magistrato risponderà, senza paura di essere smentito, di avere fatto solamente il suo lavoro. Chi esiste per mantenere o correggere il sistema sono i partiti politici. Ma il M5S è sprovvisto di fine politico, perché il fine politico è la gestione dell’interesse generale nella ricomposizione dei conflitti di parte. Un paradosso: un partito come il Movimento 5 Stelle, con 221 deputati e 122 senatori, non ha un fine politico? Non ce l’ha. E quando dichiara di non essere né di destra né di sinistra dice, senza saperlo, di non essere una forza politica. Essere di destra o di sinistra significa avere la capacità di decidere scegliendo. Anzi, di esistere solamente in virtù di tale scelta. Se dico “non sono né di destra né di sinistra” dico implicitamente “io non scelgo”, ovvero “non sono un politico”.Esiste la possibilità che il M5S, come organizzazione a-politica, non decidente sulle questioni sostanziali, faccia gli interessi di qualcun altro? Certo. Lo fa indirettamente: creando il vuoto, consente a forze esterne di inserirsi. Nel caso italiano, sono forze che disgregano la funzione dell’Italia all’interno di un sistema attualmente in fase di scomposizione e alla ricerca di una ricomposizione, il sistema-Europa. Meglio: sono interessate ad utilizzare il caos italiano per creare una condizione di caos europeo. L’America di Trump? Non solo. Le forze interessate alla disgregazione europea sono in tutto il mondo. Quando è finita la gestione bipolare del mondo Usa-Urss, a farla da padrone è stato l’unilateralismo americano. Ma la globalizzazione ha imposto nuovi centri di aggregazione degli interessi geopolitici di vaste dimensioni. Bisognerebbe che il socialismo europeo non fosse sconfitto e che il Ppe non fosse costretto ad un’alleanza con la destra. C’è un problema: la vecchia coalizione Pse-Ppe ha fallito. Questa Ue è il suo prodotto. Quel patto va riformato. Non attraverso una ricomposizione statica dell’alleanza tradizionale, ma mediante un rinnovamento delle culture democratiche europee, quella dei popolari, dei socialisti, dei liberaldemocratici e dei Verdi. Se queste forze si troveranno a non avere delle maggioranze precostituite già assegnate, vedranno un forte riformismo di cultura politica. Allora l’Europa potrà entrare in Italia. Altrimenti sarà il caos italiano a entrare in Europa.(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Tangenti e Pm, Formica: ecco chi manovra il M5S”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 17 maggio 2019. Formica, 92 anni, a lungo ministro socialista, è una memoria vivente della Prima Repubblica. Ebbe a dire: «Se fai il puro, c’è sempre qualcuno più puro di te, che poi ti epura»).Quando in politica si ricorre alla questione morale vuol dire che non si hanno più soluzioni politiche. Anzi, la semplice posizione della questione morale è già aver attraversato la soglia tra ideologia e religione. Vuol dire che siamo allo Stato religioso. Cosa sono in definitiva i sistemi teocratici? Sono sistemi non politici, dove le ragioni politiche non contano, contano gli atti di fede. Quando si ricorre agli atti di fede andiamo indietro nella storia europea di molti secoli. Ma la fede non c’è più. Ci sono altre strade per smantellare la ricerca di soluzioni politiche: i luoghi comuni. Uno dei più frequenti è la mancanza di alternative. Come si fa a produrre l’alternativa? Abbandonando il totem della continuità. La crisi di sistema richiede di ragionare in termini di rottura. Il sistema politico e istituzionale del paese si sta disgregando. Si badi: è un processo di lungo periodo, che occupa gli ultimi 25 anni. Accade quando le istituzioni non svolgono più il loro ruolo, quello di essere contenitori democratici della dialettica degli interessi, generali e particolari. Una seconda Tangentopoli, con i Pm che fanno politica? Non direi così. Il M5S nasce come espressione organizzata del dissenso diffuso e contraddittorio che c’è nella società. Qui emerge però il suo peccato d’origine.
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Spannaus: poteri opachi dietro la rissa tra Salvini e Di Maio
Poteri opachi potrebbero strumentalizzare la guerra interna ai gialloverdi. Lo sostiene Andrew Spannaus, giornalista americano, fondatore di “transatlantico.info” e consigliere delegato dell’Associazione stampa estera di Milano, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. Lo scontro intestino, in effetti, continua senza tregua: «Di Maio vuole stanziare per la famiglia i soldi avanzati dal reddito di cittadinanza, introdurre il salario minimo a 9 euro e nuovi criteri, solo tecnici, per le nomine in sanità». Ma il capo politico dei 5 Stelle, aggiunge Ferraù, ha pure stigmatizzato «le camionette delle forze dell’ordine» alla Sapienza, dove parlava Mimmo Lucano, e «una tensione sociale palpabile come non si avvertiva da anni». Pronta la risposta: «Di Maio e Zingaretti parlano di razzismo che non c’è», ha replicato Salvini: «Gli italiani non sono violenti, né egoisti, né razzisti. Pd e 5 Stelle si sono forse coalizzati anche contro autonomie, Flat Tax e per aprire i porti ai clandestini?». Il capo della Lega rilancia quindi su autonomia, tasse e decreto sicurezza bis. Ce n’è quanto basta – osserva Ferraù – per rendere esplosivo il prossimo Consiglio dei ministri, l’ultimo prima del voto europeo. «In campagna elettorale bisogna distinguersi», premette Spannaus. Prima, però – aggiunge – i distinguo e le repliche erano reciproci ma senza andare allo scontro. «Adesso invece la situazione sembra quasi fuori controllo».Il governo terrà? «Mi auguro che le due forze siano in grado di gestire la competizione elettorale senza andare alla rottura», dice Spannaus: «Ne va della loro fortuna». Prima delle inchieste – prosegue Ferraù – Salvini diceva di voler governare altri quattro anni. I 5 Stelle anche, perché erano in difficoltà e non volevano andare al voto. Ma adesso? «Salvini intende raddoppiare il consenso delle politiche e io credo che ci andrà vicino», sostiene Spannaus. «Se non arriverà al 30% la sua sarà vista come una sconfitta, in modo un po’ ingannevole perché la Lega sarà comunque il primo partito italiano. Se invece dovesse superare il 33-34%, sarà tentato di passare all’incasso». Lo farà? «Lui stesso dovrebbe valutare attentamente le prospettive». Insomma, far saltare il governo non conviene? «Il voto europeo non cambierà la composizione del Parlamento», sottolinea il giornalista americano. Un’ovvietà, certo. «Ma è il primo dato con cui fare i conti». Eventuali elezioni anticipate, «oltre ad arrivare in vista della legge di bilancio, sarebbero un’incognita». Perché, ragiona Spannaus, «o si ha la certezza di superare il 40%, oppure con l’attuale sistema elettorale occorre allearsi».Per Salvini, «ribaltare la maggioranza parlamentare a suo favore sarebbe molto difficile» e probabilmente neppure auspicabile, «soprattutto nel momento in cui, alla luce del risultato europeo, dovesse risultare più forte». Riflette Ferraù: e se il Movimento 5 Stelle si rivelasse in Italia ciò che è stato Syriza in Grecia, il partito che ha raccolto il voto anti-establishment ma poi ha governato attuando l’austerity europea? «Non mi spingerei così avanti», frena Spannaus. «Nei fatti, soprattutto a breve termine, il M5S potrebbe anche avere questo ruolo, ma che possa fare intenzionalmente una virata pro-establishment mi pare improbabile e controproducente», sostiene il giornalista. «Questo governo – aggiunge – è totalmente diverso dagli altri governi in Europa. E mi auguro che Di Maio e Salvini se ne siano accorti. Pur litigando, mantiene un consenso del 55%, forse superiore». Velo pietoso sulle opposizioni: «Le critiche che provengono dagli altri partiti si riducono a quella di litigare senza affrontare i problemi del paese», taglia corto Spannaus. I litigi dentro il governo gialloverde, invece, fino a prima della contrapposizione frontale, «sono avvenuti sul da farsi, sulle tasse, sullo sblocca-cantieri». E quindi: si può rimproverare all’esecutivo Conte di non averlo fatto in modo abbastanza incisivo o sufficiente. «Ma dire, come fa Zingaretti, “meno litigi e più lavoro” è la confessione di una penosa mancanza di proposte».La controffensiva grillina ha trovato un alleato nelle inchieste della magistratura, osserva Ferraù: si sta dunque ripetendo il copione di Tangentopoli, quando le inchieste risparmiarono il maggiore partito della sinistra? Per Spannaus, i 5 Stelle «potrebbero avere indirettamente un ruolo strumentale in un gioco di interessi più ampio», anche se la loro posizione non è paragonabile a quella del Pci-Pds negli anni ‘90. «Ricordiamoci che i 5 Stelle nascono come partito anti-casta, dunque la loro prima ragion d’essere è l’anticorruzione. Oggi si sono trovati ad approfittare di un momento favorevole. Ma effettivamente un rischio c’è». Quale? «Quello di prestarsi al gioco di cui sopra, perdendo lo slancio che questo governo potrebbe avere». Da straniero, Spannaus aggiunge un’osservazione: «Che dei politici vengano indagati o arrestati a tre settimane da un appuntamento elettorale, mi sembra fuori dal mondo». E quindi cosa dobbiamo aspettarci? «Il problema più grande è la prossima manovra», sostiene il giornalista, pensando alle ristrettezze finanziarie alle quali Bruxelles ha costretto l’Italia, negandole il pur minimo aumento del deficit proposto dall’esecutivo.«In occasione dell’ultima legge di bilancio il governo italiano ha lanciato una sfida all’Ue sull’austerity, ma per evitare la procedura di infrazione ha dovuto chinare il capo all’automatismo delle clausole di salvaguardia. E al rinvio del problema. Per negoziare con più probabilità di successo è necessario che il governo sia unito e che il consenso delle due parti si mantenga alto». Scenario probabile: un rimpasto, dopo le europee, per dare più spazio alla Lega. Conclude Ferraù: dobbiamo attenderci un’offensiva “antisovrana” dell’establishment, italiano ed europeo? «Questa offensiva – conferma Spannaus – è pronta a scattare ogni volta che il governo fa qualcosa per contravvenire alle regole europee. Chi osteggia questo governo, dentro e fuori dall’Italia, cerca ogni occasione per fargli male. Mi stupirei se Salvini e Di Maio, presi dalla campagna elettorale, lo avessero dimenticato». Cosa dovrebbero fare, i due ex amici gialloverdi? «Del loro meglio – risponde Spannaus – per gestire la conflittualità senza spezzare l’impulso del governo. E andare avanti».Poteri opachi potrebbero strumentalizzare la guerra interna ai gialloverdi. Lo sostiene Andrew Spannaus, giornalista americano, fondatore di “transatlantico.info” e consigliere delegato dell’Associazione stampa estera di Milano, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. Lo scontro intestino, in effetti, continua senza tregua: «Di Maio vuole stanziare per la famiglia i soldi avanzati dal reddito di cittadinanza, introdurre il salario minimo a 9 euro e nuovi criteri, solo tecnici, per le nomine in sanità». Ma il capo politico dei 5 Stelle, aggiunge Ferraù, ha pure stigmatizzato «le camionette delle forze dell’ordine» alla Sapienza, dove parlava Mimmo Lucano, e «una tensione sociale palpabile come non si avvertiva da anni». Pronta la risposta: «Di Maio e Zingaretti parlano di razzismo che non c’è», ha replicato Salvini: «Gli italiani non sono violenti, né egoisti, né razzisti. Pd e 5 Stelle si sono forse coalizzati anche contro autonomie, Flat Tax e per aprire i porti ai clandestini?». Il capo della Lega rilancia quindi su autonomia, tasse e decreto sicurezza bis. Ce n’è quanto basta – osserva Ferraù – per rendere esplosivo il prossimo Consiglio dei ministri, l’ultimo prima del voto europeo. «In campagna elettorale bisogna distinguersi», premette Spannaus. Prima, però – aggiunge – i distinguo e le repliche erano reciproci ma senza andare allo scontro. «Adesso invece la situazione sembra quasi fuori controllo».
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Sapelli: i giudici, Conte e gli omini-Lego comandati da fuori
«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.La politica economica ordoliberista (Fiscal Compact, deflazione, pilota automatico, debito come peccato irredimibile, distruzione dello Stato sociale) disgrega la società civile ed esalta il ruolo dell’eterodirezione delle classi politiche in qualche modo sempre presente in qualsivoglia sistema politico. La specificità italiana risiede nella frantumazione e debolezza della società civile, colpita dalla bassa dimensione dell’impresa in forma dominante e quindi con scarsissima capacità lobbistica, che tracima nell’aumento di potere delle classi politiche. Ma esse, le classi politiche, non hanno più potere proprio. Donde lo traggono, allora, se vogliono preformare in modo compulsivo, tramite la macchina parlamentare, la società secondo i loro fini? Non lo traggono solo dall’eterodirezione internazionale, com’è tipico del movimento pentastellato, ma altresì dalle vertebre statali rimaste attive.Nel caso italico, se si escludono le forze armate e i servizi segreti (tra i migliori al mondo e per questo estranei al gioco politico), l’unico potere vertebrato è quello giurisprudenziale, sempre più manifesto e attivo, soprattutto in prossimità delle prove elettorali. Pizzorno fu buon profeta, preconizzando lo strapotere compulsivo della magistratura come elemento attivo del parallelogramma delle forze poliarchiche. Accanto a esso vige il soft power internazionale. Nel governo italiano vi è a riguardo uno sbilanciamento delle forze. Il ruolo anglo-cinese è fortissimo e minaccia lo stesso profilo atlantico, che deve essere invece proprio del nostro storico interesse prevalente. Per questo l’intervista del premier Conte a “El País” è disarmante nella sua chiarezza. Esprime non il ruolo dominante di un mediatore, ma il certificato dello sbilanciamento del parallelogramma delle forze di ciò che rimane della società civile e il nuovo profilo delle forze politiche prevalentemente eterodirette. Ciò che rimane della società civile, ossia il lavoro dipendente e soprattutto le imprese piccole e medie, è sempre più escluso dall’azione di governo.Del resto, una classe politica peristaltica senza base sociale, ma con segmenti di relazione elettronica istantanea e volatile e molto limitata numericamente nei processi selettivi, non può condurre a termine nessun processo decisionale complesso. I gradi di libertà che questo segmento della classe politica eterodiretta una volta eletta detiene in misura rilevante (e questo è il dato democratico liberale che ancora pervade questo nuovo sistema del comando sociale italico) alimentano la fibrillazione continua di ciò che rimane del potere: nulla infatti si decide. L’altro segmento delle classi politiche con gradienti di eterodirezione assai minori, tanto al governo quanto all’opposizione, si trova incapace di esprimere un potere condizionante dinanzi all’attivismo eterodiretto. La follia shakespeariana domina così le italiche terre che son tornate al tempo dei goti, visigoti e longobardi. Dove sono i Boezio?«Perché a volte abbiamo la sensazione che chi comanda nel governo è Salvini?». «Se all’esterno o a voi stranieri richiama di più l’attenzione il ruolo o l’immagine di Salvini, che ha una grande capacità comunicativa, e credete che nel governo comandi lui, è una vostra illusione ottica. Alla guida del governo ci sono io. E Salvini, come Di Maio, è vicepresidente e leader di una delle due forze politiche». Giuseppe Conte ha risposto così alla domanda di “El País”. Chi comanda politicamente in Italia? Sì, politicamente e basta. Perché la grande innovazione dei sistemi poliarchici con alto gradiente di classi politiche eterodirette, com’è nel caso italico, è quella di autonomizzare sempre più fortemente le classi politiche medesime dalla società civile hegelianamente intesa. Per Hegel – e per Ferguson – la società civile costituisce lo spazio sociale di formazione della proprietà di qualsivoglia forma e dei mercati. Le classi politiche tradizionalmente intese mantenevano e mantengono con la società civile un rapporto costante, che è l’essenza del sistema poliarchico costruito dalle volizioni elettorali che si compongono in un parallelogramma di forze con la logica delle lobby e dei soft power che promanano dalla società civile.
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Piano Usa: Libia divisa in tre (regia della Banca Mondiale)
Tripoli ha rotto le relazioni con la Francia “perché sostiene Haftar”. Una decisione che semplifica il quadro ma nello stesso tempo lo complica, perché allontana la possibilità di un accordo che fermi lo scontro tra Tripoli e Tobruk. Agli Stati Uniti appartiene la chiave della soluzione: sembrano distanti, ma in realtà la prospettiva di una spaccatura della Libia (in due o tre parti) sarebbe coerente con il progetto che Washington persegue da decenni. Lo afferma Ibrahim Magdud, intellettuale e arabista libico, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. «Ci sono due volontà in conflitto», premette Magdud: «Una è quella del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, l’altra è quella espressa dal Parlamento di Tobruk, eletto regolarmente dal popolo libico». Tutto comincia dall’applicazione degli accordi di Skhirat (Marocco) del 2015. Il Consiglio presidenziale avrebbe dovuto essere di nove membri, ma vi aderirono tre persone soltanto. Attualmente, la comunità internazionale riconosce come unico rappresentante della Libia Fayez al-Serraj e come legittima la Camera di Tobruk, ma non il governo nato da quel Parlamento. Serraj e la Camera di Tobruk sono entrambi legittimati, ma il governo di Tripoli non è espressione del Parlamento eletto. E così, l’appoggio di alcuni paesi esteri all’uno o all’altro dei contendenti ha ulteriormente inasprito la conflittualità fra le parti.Haftar vuole risolvere il problema della Libia a modo suo: «Sostiene di voler entrare a Tripoli e liberarla dalle milizie che la tengono in ostaggio». Non si pensi a semplici bande armate, avverte Magdud: «Sono gruppi organizzati che comandano a tutti i livelli dell’istituzione pubblica». Gli avversari di Haftar, invece, sostengono che intenda varare lo stato d’emergenza e mantenerlo per 2-3 anni, così da stabilire una dittatura militare su tutto il paese. «È verosimile», conferma il professore. Il generale della Cirenaica, sostenuto dalla Francia, «formerebbe un consiglio militare e probabilmente indirebbe le elezioni, col rischio che queste possano essere manovrate se svolte in un simile contesto di forte pressione», tenendo contro che in Libia c’è neppure una Costituzione. Per contro, Serraj «gode formalmente dell’appoggio dell’Onu e di tutta la comunità internazionale, in particolar modo di Qatar, Turchia, Italia e Regno Unito». Ma quel sostegno si sta indebolendo, avverte Magdud. Poi c’è la Russia: «Mosca vuole conquistare spazio strategico nel Mediterraneo. L’eventuale sostegno ad Haftar è funzionale a questo progetto. La stessa situazione in Siria ne è parte integrante». La Francia? «A Parigi interessa la Libia perché a sud confina con il Ciad e il Niger. E laggiù c’è l’uranio. Non sono dunque interessi limitati al petrolio libico».Cosa dovrebbe fare il nostro governo? «Essere più attivo all’interno dell’Ue, lavorando per portare quanti più paesi è possibile sulle posizioni italiane», sostiene Magdud. «Senza questo allineamento non otterrà molto di più rispetto a quello che sta facendo». Il nostro alleato più importante è l’America, osserva Ferraù, e Washington sembra addirittura volersi ritirare dal Mediterraneo. Ovviamente, però, nessuno lo crede. «Il filo del burattinaio c’è sempre, anche se non si vede», conferma Magdud. «Da Washington arriva fino al Qatar e muove in molti modi, non solo con le armi, ma anche con il lasciar fare al momento opportuno». Secondo il professore «c’è un progetto americano, risalente ai primi anni ‘80, che prevedeva una messa in sicurezza del Medio Oriente attraverso lo smembramento dei paesi arabi». Quel progetto, aggiunge Magdud, «è stato ideato dall’orientalista Bernard Lewis e adottato dall’establishment americano», ormai da diverse decadi. «L’ultima ad averlo sostenuto è stata Robin Wright sul “New York Times” nel 2013». E il piano prevede una Libia divisa in tre: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.La frantumazione degli Stati arabi disegnata da Washington preconizza inoltre una bipartizione dell’Iraq, la divisione della Siria in tre parti e la frammentazione della stessa Arabia Saudita addirittura in 5 regioni, quelle precedenti l’epoca contemporanea, più un allargamento del territorio israeliano. «Molto di questa “previsione” si sta avverando, o ci va molto vicino». Oggi, ovviamente, a far notizia è soprattutto Tripoli: e rimane il fatto che il caos libico «può essere risolto solo dagli americani», afferma Magdud. «Oltre ad avere il diritto di veto in Consiglio di Sicurezza, hanno ottimi rapporti bilaterali con i paesi che ne fanno parte». Sempre sul “Sussidiario”, Ferraù fa notare che nessuno, in questa crisi, sembra occuparsi della Noc, la compagnia petrolifera di Stato libica. Perché? La Noc, risponde Magdud, è saldamente in mano ad al-Serraj, il presidente di Tripoli. «Lo è anche la banca centrale libica, garantita a sua volta dalla Banca Mondiale». Chiosa Magdud, rivolto a Ferraù: «Adesso sono io che le chiedo: chi comanda in quest’ultima?».Tripoli ha rotto le relazioni con la Francia “perché sostiene Haftar”. Una decisione che semplifica il quadro ma nello stesso tempo lo complica, perché allontana la possibilità di un accordo che fermi lo scontro tra Tripoli e Tobruk. Agli Stati Uniti appartiene la chiave della soluzione: sembrano distanti, ma in realtà la prospettiva di una spaccatura della Libia (in due o tre parti) sarebbe coerente con il progetto che Washington persegue da decenni. Lo afferma Ibrahim Magdud, intellettuale e arabista libico, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”. «Ci sono due volontà in conflitto», premette Magdud: «Una è quella del governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale, l’altra è quella espressa dal Parlamento di Tobruk, eletto regolarmente dal popolo libico». Tutto comincia dall’applicazione degli accordi di Skhirat (Marocco) del 2015. Il Consiglio presidenziale avrebbe dovuto essere di nove membri, ma vi aderirono tre persone soltanto. Attualmente, la comunità internazionale riconosce come unico rappresentante della Libia Fayez al-Serraj e come legittima la Camera di Tobruk, ma non il governo nato da quel Parlamento. Serraj e la Camera di Tobruk sono entrambi legittimati, ma il governo di Tripoli non è espressione del Parlamento eletto. E così, l’appoggio di alcuni paesi esteri all’uno o all’altro dei contendenti ha ulteriormente inasprito la conflittualità fra le parti.
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Sapelli: l’Italia si salva con Roosevelt, fuori dal rigore Ue
La Flat Tax voluta dalla Lega è una misura sensata perché espansiva, ma da sola non basta. Andrebbe fatta insieme alle sburocratizzazione, e su questo punto l’avvocato e premier Conte dovrebbe essere d’accordo. Dopo quello destinato alle partite Iva, adesso Salvini chiede l’introduzione di un secondo modulo: tassa del 15% per i redditi di lavoratori dipendenti e famiglie fino a 50.000 euro. La Flat Tax per le partite Iva è stata un passo avanti importante. Anche questa seconda detassazione mi pare equa, progressiva. Per capirci: i ricchi continuano a pagare le tasse. È quello che preme a Di Maio? Ho letto. In ogni caso, il vecchio vocabolario politico l’avrebbe definita una misura socialdemocratica. È molto significativo dei tempi che corrono. Questo depone a favore della Lega. Con l’economia ferma, può aiutare i consumi e quindi la produzione e il lavoro? Quando c’è una crisi si devono fare misure espansive. Non come fece Hoover, che subito dopo il ’29 aumentò le tasse, ma come fece Roosevelt, che le diminuì e aumentò invece la spesa pubblica. Perché la Flat Tax funzioni, però, ci vuole tempo. Tempo per introdurre altre misure di politica economica che funzionino.Penso per esempio a ciò che occorre perché le famiglie investano di più nell’educazione dei figli. Una famiglia italiana non dovrebbe vedersi precluse delle scuole di qualità perché costano troppo. Serve un disegno più ampio di politica economica, ma non lo vedo. Da un lato perché il pensiero economico non esiste più; a Bruxelles governa quello algoritmico. Dall’altro perché occorrerebbe anche essere favorevoli alle infrastrutture, alle opere pubbliche. E contrari a una commissione parlamentare permanente di inchiesta sulle banche, altrimenti nessuno investirà più in questo paese. Si dice che Mattarella sarebbe pronto a nominare Draghi senatore a vita, come per un Monti-bis? Non voglio nemmeno pensarci. Ho troppa stima del presidente della Repubblica, della sua persona oltre che del suo ruolo istituzionale, per immaginare che possa avere in mente una cosa simile. E mi sembra anche incredibile che qualcuno dotato di buon senso possa pensare che lui lo pensi. Perché vorrebbe dire non avere proprio imparato nulla. Abbandonare il regime parlamentare per instaurare di fatto un sistema neo-presidenziale e tecnocratico ha ridotto l’Italia a un cumulo di macerie. Sarebbe l’epilogo di una deriva sbagliata, iniziata con Carli e proseguita con Ciampi. Un volta, quando i governatori avevano finito il loro mandato, stavano a casa. Magari a scrivere libri, come Paolo Baffi.Di Maio ha scritto una lettera al “Corriere” in cui, da alleato di governo di Salvini, fa professione di europeismo. È solo campagna elettorale? Anche se lo fosse, sarebbe comunque nell’ordine delle cose. Il M5S sta svolgendo lo stesso compito assolto in Grecia da Tsipras e si va sempre più caratterizzando come movimento alla Boulanger. Non mi stupisce: la base è formata dal “popolo degli abissi”, ma la cuspide, il gruppo dirigente, è neoliberista, e come tale incorpora l’ordoliberismo, come Orbán e compagnia. Dicono di fare una battaglia per l’Europa sociale, poi appena possono si adeguano alle regole europee. E pian piano si dimenticano di essere stati eletti per rinegoziare i trattati, se mai ne sono stati consapevoli. Dunque il M5S non è l’alleato giusto per la Lega? Io ho sempre pensato che il rapporto fosse innaturale. La Lega potrebbe e dovrebbe diventare il partito della borghesia nazionale, fatta di piccole-medie imprese e di lavoratori. Per questo Salvini farebbe bene a non andare con Marine Le Pen.Salvini ha riunito a Milano esponenti di partiti “sovranisti” europei come Afd, Finns Party e Dansk Folkeparti. Molti sottolineano le contraddizioni tra la Lega e il rigore sui parametri che alcuni di questi alleati pretenderebbero dall’Italia dopo il voto? Non uso la parola “sovranismo” perché non vuol dire nulla. Dico però che la Lega è stata l’unico partito a non votare il Fiscal Compact nel 2012. In Europa ci sono contrari al Patto di stabilità a sinistra, al centro e a destra. La Lega deve essere coerente con quello che ha fatto e privilegiare le alleanze con chi è d’accordo su questo punto. Purtroppo non sappiamo cos’avrebbero fatto i 5 Stelle. Cosa dovrebbe fare Salvini? Guardare al Ppe. Se si cambieranno le regole europee, si farà perché lo vuole la Germania. Occorre parlare con i tedeschi. Manfred Weber è bavarese, non prussiano. Mi sembra una persona ragionevole. Ha detto che alleanze con Salvini non ne vuol fare? Non importa. In Parlamento si va per fare politica, non per seguire la “tradizione” di chi rema all’indietro.E il Pse? Il Partito socialista è perduto, è fuori dalla storia. Il socialismo francese è morto, anche se io sono convinto che in qualche modo risorgerà. In giro, però, ci sono uomini più vicini alla Lega di quanto non si creda: Chevènement, Mélenchon… Leghisti in pectore? Difendere la nazione oggi ha senso non per rinchiudersi in un mandato nazionalistico, che non a caso è l’accezione deformante confezionata su misura dagli avversari del “sovranismo”, ma per tornare ad impossessarsi della politica economica. Questo bisogna fare, non affidarsi ad alleati che non si sa dove portano. Un suggerimento a Giovanni Tria? Si ricordi che suoi colleghi come Baldassarri e Paganetto hanno avuto molti dubbi sul Fiscal Compact. Manifesti anche i suoi, di dubbi. Continui a mediare tra le istanze politiche e le esigenze che abbiamo di non spaventare i mercati. E faccia di tutto per impedire una stoltezza come la Commissione parlamentare di inchiesta sulle banche. Il paese uscirebbe dal consesso civile.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Europee 2019: non basta un Def, l’Italia si salva se cambia i trattati Ue”, pubblicata su “Il Sussidiario” il 9 aprile 2019).La Flat Tax voluta dalla Lega è una misura sensata perché espansiva, ma da sola non basta. Andrebbe fatta insieme alle sburocratizzazione, e su questo punto l’avvocato e premier Conte dovrebbe essere d’accordo. Dopo quello destinato alle partite Iva, adesso Salvini chiede l’introduzione di un secondo modulo: tassa del 15% per i redditi di lavoratori dipendenti e famiglie fino a 50.000 euro. La Flat Tax per le partite Iva è stata un passo avanti importante. Anche questa seconda detassazione mi pare equa, progressiva. Per capirci: i ricchi continuano a pagare le tasse. È quello che preme a Di Maio? Ho letto. In ogni caso, il vecchio vocabolario politico l’avrebbe definita una misura socialdemocratica. È molto significativo dei tempi che corrono. Questo depone a favore della Lega. Con l’economia ferma, può aiutare i consumi e quindi la produzione e il lavoro? Quando c’è una crisi si devono fare misure espansive. Non come fece Hoover, che subito dopo il ’29 aumentò le tasse, ma come fece Roosevelt, che le diminuì e aumentò invece la spesa pubblica. Perché la Flat Tax funzioni, però, ci vuole tempo. Tempo per introdurre altre misure di politica economica che funzionino.
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Con Haftar, la Francia riprova a sfrattare l’Italia dalla Libia
La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.«Khalifa Aftar punta ad essere il nuovo Gheddafi», spiega Farina. «Per questo ha preso la rincorsa con le sue troppe mobili per prendersi tutta la Libia». Haftar è partito da Bengasi, capitale della Cirenaica, per occupare la Tripolitania, e sconfiggere «quelli che chiama – non del tutto a torto – “i terroristi”». Sulla carta, a Tripoli siede il governo unitario di tutta la Libia, guidato da Fayez al Serraj. «Costui in effetti è un re travicello, espressione dei Fratelli Musulmani, piazzato dall’Onu e in rapporti di sudditanza con i gruppi islamisti coinvolti con il traffico di migranti, che gli tengono la pistola sulla tempia». Tuttavia, aggiunge Farina, Serraj è anche l’uomo che tutti i recenti governi italiani «hanno accettato, sostenuto, e con cui hanno trattato». Per due ragioni: «Partivano dalle coste della Tripolitania i battelli dei migranti condotti dai trafficanti d’uomini; ed è soprattutto in quel territorio che l’Eni pompa petrolio e gas, e per noi è strategico preservare le forniture d’energia». Il problema? In una Libia frantumata, abbiamo preteso di risolvere le questioni «occupandoci solo dell’ultimo miglio, e da soli». E l’abbiamo fatto «prima con una meritoria opera di salvataggio e accoglienza, poi con una chiusura senza brividi di umanità». In un caso e nell’altro, sostiene Farina, «senza visione geopolitica», ovvero senza la capacità di «mettere al servizio degli ideali la conoscenza del rapporto tra le potenze nella consapevolezza dei fattori in gioco».Certo non è facile, ammette Farina, che però ricorda che l’Italia vanta «un patrimonio storico rappresentato dal filone De Gasperi, Moro, Andreotti, Cossiga, Craxi», ovvero «gente capace di dialogo, uomini che vedevano la collocazione dell’Italia nel Mediterraneo come un’occasione di amicizia e di pace, cerniera positiva tra l’Occidente dalle radici cristiane con il mondo musulmano ed ebraico». Tutto questo è stato dimenticato, osserva Farina. Nella Libia del dopo-Gheddafi ci siamo limitati a «guadagnare legami superficiali e spesso ricattatori di convenienza, senza lungimiranza, con chi capitava e poteva garantirci un minimo di tranquillità sui confini». Secondo Farina, dal 2011 in poi il solo Marco Minniti – ministro dell’interno con Gentiloni, ha «provato a spezzare le catene di un minimalismo pragmatico», cercando di «andare con Tripoli ma oltre Tripoli, non riducendo la politica delle migrazioni al tentativo illusorio di tamponare il flusso». Anziché limitarsi alla gestione del “rubinetto”, Minniti avrebbe cercato di stabilire rapporti di fiducia «sia con le tribù che proteggevano gli schiavisti, sia con i governi che si affacciano sul Sahara». La speranza: «Impiantare sia in Italia sia in Europa la consapevolezza che, se abbandoniamo l’Africa, essa morendo ci ucciderà».Oggi, continua Farina, dinanzi all’azione improvvisa di Haftar, «che manda al diavolo tutte le strette di mano e gli accordi con Serraj», l’Italia è si è scoperta «totalmente sprovveduta e balbettante». Haftar, spiega Farina, non è solo il capo della Cirenaica, il generale legato all’Egitto, all’Arabia Saudita e alla Russia. «Haftar è la Francia», sottolinea Farina: «Non un amico della Francia, ma il suo personale Gheddafi». Tanto per capirci: «Il tentativo di Sarkozy, appoggiato dalla Clinton e da Cameron, di prendere il posto dell’Italia come riferimento economico e strategico di Tripoli, può realizzarsi con la sperata vittoria di Haftar, armato da Parigi con il tramite degli Emirati Arabi Uniti». Solo che la guerra-lampo non ha funzionato. «Haftar credeva di schiantare le milizie legate ai Fratelli Musulmani (finanziate dal Qatar e dalla Turchia) in pochi giorni. Si era comprato l’accordo con molte delle 240 milizie all’opera in Libia. Ma sono accordi beduini, scritti appunto sulla sabbia. E il trionfo non gli è riuscito». La Russia, «che in teoria dovrebbe stare con Haftar, e che ha disegni egemonici sul Mediterraneo in sostituzione degli Usa», di fatto «non ha condiviso l’azione frettolosa del generale, la cui formazione è stata nell’Armata Rossa sovietica». E dal suo l’America, com’era prevedibile, «dinanzi al colpo di mano ha alzato la voce». E così «la Francia ha dovuto adeguarsi, chiedendo ai cirenaici di fermarsi e trattare».Buona cosa, osserva Farina, che aggiunge: il ministro degli esteri del governo gialloverde, Enzo Moavero Milanesi, ha conoscenza delle procedure e credibilità internazionale. Le doti ideali, insomma, per poter essere un ottimo mediatore. «Perché la cosa peggiore di tutte, in ogni senso – scrive Farina – è l’esplodere di una guerra civile, con migliaia di morti». La conseguenza immediata sarebbe «la sua tracimazione in Italia con attentati tramite “foreign fighters”, centomila migranti caricati su canotti e mandati allo sbaraglio». Sempre secondo Farina, «è bene che non si premi l’aggressione di Haftar (e della Francia)». Alla vigilia dell’assemblea di concordia nazionale, organizzata dall’Onu a Ghadames a metà aprile (proprio nel giorno in cui il segretario generale Onu era a Tripoli) Haftar «ha fatto come Brenno, ha messo la sua spada sul piatto della bilancia». Comunque vada a finire, conclude Farina, gli equilibri in Libia sono cambiati a suo favore: e non ci possiamo fare niente. «Ma sarebbe un prezzo accettabile, purché gli si imponga ragionevolezza, si ottenga la pace e un percorso elettorale trasparente, sorvegliato con un preminente impegno dell’Italia». Niente guerra civile, insomma, o interventi armati occidentali. Molto meglio «rendere conveniente la pace», tramite «pressioni diplomatiche consapevoli di forze piccole e grandi, implicate nell’ombra dello scacchiere». Soprattutto: «Alziamo lo sguardo, non chiudiamoci nel nostro orto con il filo spinato. Marciremmo, e pure male».La Francia ci sta riprovando: vorrebbe sfrattare l’Italia dalla Libia, come già tentato da Sarkozy all’epoca dell’omicidio di Gheddafi. La nuova pedina francese si chiama Khalifa Aftar, uomo forte della Cirenaica: l’ordine di marciare su Tripoli è partito dall’Eliseo, dove ora a comandare è Macron. Ma la “guerra lampo” per conquistare la Tripolitania è già fallita. Rischi enormi di guerra civile, ovviamente, ed esplosione del caos. Vie d’uscita? Una sola: pazienti pressioni diplomatiche, per rimettere insieme i cocci di una Libia plausibile, che oggi è il vero campo di battaglia di tutte le potenze che si stanno contendendo l’egemonia sul Mediterraneo. L’analisi è firmata da Renato Farina sul “Sussidiario”. Premessa: bisogna «uscire da una meschina restrizione d’animo (e anima) per cui quelli che conterebbero sarebbero solo gli immediati interessi italiani». Più che mai, in questo caso, le chance dell’Italia «coincidono con il bene di questa parte di mondo, il Mediterraneo, ormai terreno di scontro tra le superpotenze, e il retroterra umano: l’Africa e le sue genti». Sconsigliabile limitarsi al “particulare” nazionale, avverte Farina: per servire davvero l’Italia conviene «alzare lo sguardo», oltre l’immediato orticello (petrolio e gas, Eni e migranti). Come? Fungendo da “ponte” credibile tra mondi diversissimi, oggi sul piede di guerra.
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Orsetti: morire a 33 anni per un ideale, la libertà dei curdi
«Era un forte idealista, affascinato dalla realtà dei curdi: hanno saputo creare uno Stato unico nel Medio Oriente, una democrazia dove le donne hanno pari diritti. Non era lì solo per combattere, il suo desiderio era vivere in questa sorta di realtà inedita». Così Fausto Biloslavo, inviato di guerra del “Giornale”, ricorda Lorenzo Orsetti, il trentatreenne fiorentino ucciso in Siria dall’Isis, contro cui combatteva da quasi due anni come “foreign fighter”. «Abbiamo ucciso un crociato», ha sentenziato Daesh il 18 marzo, diffondendo anche una foto del suo corpo senza vita. Orsetti è morto nella battaglia che dura da settimane a Baghuz, l’ultima roccaforte dello Stato Islamico, dove si concentrano gli ultimi miliziani: una battaglia difficile da chiudere, perché nella zona si trovano anche moltissimi civili. Biloslavo – racconta Paolo Vites, che l’ha intervistato per il “Sussidiario” – aveva conosciuto personalmente Orsetti in Siria: «Era da tempo con i curdi e aveva intenzione di restare molto a lungo, se non addirittura per sempre», racconta Biloslavo.«L’ho incontrato l’ultima volta lo scorso mese, reduce dai combattimenti a Baghuz perché questi combattenti fanno turni di un mese. Faceva parte di questa brigata antifascista internazionale composta da persone di tutto il mondo che si sono innamorate della causa curda». Orsetti era un veterano, non certo un novellino: aveva anche combattuto anche contro i turchi. «Diceva sempre che non era un eroe, preferiva indicare così i curdi». Racconta Biloslavo: «Mi mostrò il proiettile che teneva in tasca, dicendomi che l’avrebbe usato contro se stesso piuttosto che cadere vivo nelle mani dell’Isis». Molti combattenti internazionali sono stati uccisi dai miliziani jihadisti: «I loro corpi fatti a pezzi, tutto messo su Internet, la solita tattica propagandistica dell’orrore». Orsetti «era di sinistra», lo ricorda il reporter del “Giornale”: «Pensava con ragione di combattere dalla parte giusta, contro una minaccia che è contro il mondo intero: e su questo aveva ragione». Laggiù, spiega Bisloslavo, gli italiani come lui sono pochi: sono arrivati in Siria negli ultimi due anni, quando è cominciato l’assedio di Raqqa. Una trentina di persone, tra cui anche delle donne. «Il grosso di questa brigata è fatto da inglesi, francesi e americani».La brigata internazionale filo-curda si è formata all’inizio della grande battaglia di Raqqa, la capitale storica dello Stato Islamico, poi liberata dall’esercito siriano con l’appoggio della Russia, di reparti speciali dell’Iran e dei combattenti libanesi di Hezbollah, anch’essi in prima linea per liberare il Medio Oriente dall’orrore dell’Isis. «Tra gli italiani – racconta Biloslavo – c’erano anarchici e NoTav, e mi raccontavano stupiti di trovarsi gomito a gomito con ex legionari francesi ed ex marines. Tutta gente che pensa che quella dei curdi sia una causa giusta». Erano stupiti, i volontari italiani, di questa strana fratellanza internazionale. «Ma come dicevo – aggiunge Biloslavo – le bandiere nere sono una minaccia per il mondo intero: era questa idea a muoverli». Come si possono definire: degli eroi romantici? «Chiamiamoli foreign fighters dalla parte giusta», risponde Biloslavo. Sicuramente, aggiunge, Lorenzo Orsetti era molto idealista, «uno che ha detto: metto a disposizione anche la vita, oltre alle idee. Non lo faceva certo per i soldi, al massimo queste persone hanno qualche soldo per le sigarette».Da due anni, aggiunge il reporter del “Giornale”, i curdi combattono con l’appoggio americano il loro vero nemico, che è la Turchia. «Orsetti aveva combattuto a Erin contro i turchi e mi diceva che era come il Vietnam, città rase al suolo dai caccia turchi, bombardamenti selvaggi. I turchi a loro volta li considerano dei terroristi perché hanno naturalmente legami con il Pkk». La scelta di Lorenzo Orsetti, aggiunge Biloslavo, non era solo quella di prendere le armi: aveva anche una passione per il mondo che i curdi hanno creato nel nord-est della Siria. «A Lorenzo piaceva la loro democrazia, l’uguaglianza con le donne che combattono e comandano, l’idea un po’ rivoluzionaria di un mondo che i curdi sono riusciti a creare in una zona della Siria anche piuttosto vasta».«Era un forte idealista, affascinato dalla realtà dei curdi: hanno saputo creare uno Stato unico nel Medio Oriente, una democrazia dove le donne hanno pari diritti. Non era lì solo per combattere, il suo desiderio era vivere in questa sorta di realtà inedita». Così Fausto Biloslavo, inviato di guerra del “Giornale”, ricorda Lorenzo Orsetti, il trentatreenne fiorentino ucciso in Siria dall’Isis, contro cui combatteva da quasi due anni come “foreign fighter”. «Abbiamo ucciso un crociato», ha sentenziato Daesh il 18 marzo, diffondendo anche una foto del suo corpo senza vita. Orsetti è morto nella battaglia che dura da settimane a Baghuz, l’ultima roccaforte dello Stato Islamico, dove si concentrano gli ultimi miliziani: una battaglia difficile da chiudere, perché nella zona si trovano anche moltissimi civili. Biloslavo – racconta Paolo Vites, che l’ha intervistato per il “Sussidiario” – aveva conosciuto personalmente Orsetti in Siria: «Era da tempo con i curdi e aveva intenzione di restare molto a lungo, se non addirittura per sempre», racconta Biloslavo.
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Zingaretti pro-Tav: s’incunea tra i 5 Stelle, Salvini e Maroni
L’elezione plebiscitaria di Nicola Zingaretti alla guida del Pd inaugura una nuova stagione per il governo Conte: «Quella del tiro alla fune, con in mezzo una banderuola chiamata Movimento 5 Stelle». La scelta di Torino come prima tappa del “nuovo” Pd è simbolica, scrive Antonio Fanna sul “Sussidiario”: puntando sul Tav Torino-Lione, Zingaretti prova a dare «uno strattone alla fune per accentuare lo sfilacciamento nella maggioranza». In questo modo, il neo-segretario Pd s’incunea tra Lega e 5 Stelle, gettando sale sulla ferita: bruciano «le differenze tra i contraenti del contratto di governo, che nel braccio di ferro sulla Tav stanno giocando una partita molto rischiosa». Il calo elettorale, spiega Fanna, non consente ai 5 Stelle di cedere altro terreno a Salvini. E dal canto suo, il leader leghista «deve tenere duro sul fronte degli investimenti al Nord», dal momento che «non può permettersi che un ex di lusso come Roberto Maroni arrivi a ipotizzare un nuovo partito del Nord, autonomista e rappresentativo dei ceti produttivi che si sentono sempre più trascurati». Brinda il cartello trasversale pro-Tav: la grande opera inutile, doppione della ferrovia attuale, ottiene una nuova chance grazie alle debolezze dei gialloverdi.La svolta alla segreteria Pd, sottolinea Fanna, segna l’apertura della caccia al voto grillino, «un movimento che oggi sembra composto più da delusi che da militanti convinti». Torino è pur sempre la città in cui il Movimento 5 Stelle ha mandato a casa un dinosauro come Piero Fassino. Ora però i pentastellati «potrebbero subire una nuova batosta alle regionali, dopo quelle rimediate in Abruzzo e Sardegna». Molti delusi, aggiunge Fanna, «sono andati a ingrossare l’esercito dell’astensionismo, che in Sardegna ha toccato quasi il 50%». Rappresentano quindi un vasto bacino elettorale da riconquistare, e il Pd zingarettiano «sembra non volere più lasciare campo libero alla Lega, che in questo momento fa man bassa di consensi». I sondaggi dicono che il Pd sta recuperando, e che il voto delle ultime due regionali – con i 5 Stelle che scivolano al terzo posto, rilanciando l’antico “bipolarismo apparente” tra centrodestra e centrosinistra – indica una tendenza che investe tutto il paese. Ma non è tutto, aggiunge Fanna: «Luigi Di Maio teme poi di venire scavalcato dai duri e puri del suo movimento guidati dal presidente della Camera Roberto Fico, che ha molti punti di contatto con il Pd».Così, conclude l’analista, il “tiro alla fune” di Zingaretti potrebbe allargarsi e strattonare non solo il governo, per ottenere elezioni anticipate al momento poco ipotizzabili, ma soprattutto i grillini. «Questo invece è un obiettivo che, a partire dalle prossime elezioni regionali piemontesi, è già più a portata di mano». Paradigmatica la partita del Tav: a premere per l’infrastruttura più contestata d’Europa sono Zingaretti e l’eterno Chiamparino, portavoce di Confindustria. Con loro Salvini, tallonato da Maroni, più il solito Berlusconi e persino la Meloni. Operazione preliminare: tiro al piccione sul ministro grillino Toninelli, presentato come un minus habens nonostante abbia affidato la commissione sulla Torino-Lione (verdetto: negativo) al più prestigioso trasportista d’Europa, il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, già consulente della Banca Mondiale. La grande opera non servirebbe a nulla? Pazienza: non è cosa che turbi la Lega e Forza Italia, perfettamente allineate al Pd, nonostante la recita politica che opporrebbe virtualmente l’ex centrodestra all’ex centrosinistra. La farsa crolla, davanti alla prospettiva miliardaria degli appalti Tav.L’elezione plebiscitaria di Nicola Zingaretti alla guida del Pd inaugura una nuova stagione per il governo Conte: «Quella del tiro alla fune, con in mezzo una banderuola chiamata Movimento 5 Stelle». La scelta di Torino come prima tappa del “nuovo” Pd è simbolica, scrive Antonio Fanna sul “Sussidiario”: puntando sul Tav Torino-Lione, Zingaretti prova a dare «uno strattone alla fune per accentuare lo sfilacciamento nella maggioranza». In questo modo, il neo-segretario Pd s’incunea tra Lega e 5 Stelle, gettando sale sulla ferita: bruciano «le differenze tra i contraenti del contratto di governo, che nel braccio di ferro sulla Tav stanno giocando una partita molto rischiosa». Il calo elettorale, spiega Fanna, non consente ai 5 Stelle di cedere altro terreno a Salvini. E dal canto suo, il leader leghista «deve tenere duro sul fronte degli investimenti al Nord», dal momento che «non può permettersi che un ex di lusso come Roberto Maroni arrivi a ipotizzare un nuovo partito del Nord, autonomista e rappresentativo dei ceti produttivi che si sentono sempre più trascurati». Brinda il cartello trasversale pro-Tav: la grande opera inutile, doppione della ferrovia attuale, ottiene una nuova chance grazie alle debolezze dei gialloverdi.
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Giannuli: Salvini mollerebbe i 5 Stelle, ma non per Silvio
Codice degli appalti, nomine, Tav, autonomia, recessione e assenza di investimenti sono i nodi sui quali si misura quotidianamente la distanza tra M5S e Lega. Tanto che il Quirinale, preoccupato per lo stallo del paese, starebbe lavorando attivamente alla rottura del patto di maggioranza, favorendo una ricomposizione del centrodestra (cui non mancherebbe un’interlocuzione col Pd). Una trappola che Salvini ha fiutato: lo dimostrano le garanzie di fedeltà fatte a Di Maio e il lavoro di “protezione” discreta del leader 5 Stelle che il ministro dell’interno ha raccomandato ai suoi. Salvini ha un problema di tempo: vuole liberarsi dei 5 Stelle, però non può farlo prima di avere normalizzato la destra, togliendosi dai piedi Berlusconi. Due le strade: o tenendo a bagnomaria Forza Italia e prendendosene un pezzetto ogni tanto, vedi le ultime elezioni, o aspettando che il Cavaliere tolga il disturbo. A quel punto si va al voto e Salvini si candida come capo di tutta la destra, con l’obiettivo di fare un governo suo. Questa situazione di stallo corre il rischio di durare troppo, e non è detto che il vento continui a soffiare nelle vele di Salvini. In realtà un poco sta calando, e Salvini se n’è accorto. In Sardegna non ha stravinto, e in Abruzzo è andato bene ma non benissimo. Può anche succedere che le tensioni nel governo esplodano tra una settimana. Ma è meno probabile.Quali sono i fattori più destabilizzanti? Ce ne sono diversi. La crisi economica, le pressioni dell’Unione Europea, la manovra d’autunno. Ancor prima le elezioni in Basilicata (il 24 marzo). Non è la Lombardia, è vero, però una terza sconfitta di seguito dei 5 Stelle anticiperebbe il risultato delle europee, condizionandole. Per quanto Salvini non abbia interesse a esasperare la situazione, i 5 Stelle potrebbero essere tentati di puntare i piedi su tutto. A cominciare dalla Tav e dall’autonomia differenziata, proprio per far vedere che non è Salvini a comandare. Sulla Tav, Tria ha ragione. Anche ammettendo che l’opera è sbagliata (e io sono tra quelli che l’hanno sempre pensato), non si possono firmare accordi internazionali, accettare i finanziamenti dell’Ue e poi tirarsi indietro perché è cambiato il governo. Più dei soldi vale la parola del paese. Venir meno ai patti vuol dire scoraggiare tutti gli investitori, anche coloro che potrebbero acquistare il nostro debito pubblico, con buona pace delle missioni di Giorgetti a Londra e negli Stati Uniti.Gli Usa vedono nell’Italia un grimaldello per scardinare l’Unione Europea, l’Ue è pronta a giocare in Italia con Mario Draghi la sua ultima carta. Come andrà a finire? E’ presto per dirlo. Occorre innanzitutto vedere quale sarà il risultato delle europee, che secondo me ci daranno un Europarlamento ingovernabile, per quello che conta il Parlamento Europeo. Io non sono affatto sicuro che socialdemocratici e popolari insieme avranno ancora la maggioranza, e ci metto anche i liberali. Si prospetta il caos? E’ molto probabile. Senza contare la stagione delle elezioni nazionali che si aprono dopo le europee. Se i partiti antieuropeisti hanno successo, l’Unione Europea rischia di perdere i paesi uno alla volta. Previsioni sul risultato italiano? Non sappiamo nemmeno quali saranno le liste. De Magistris si candida? Pizzarotti fa l’accordo con la Bonino? Si fa il listone di Calenda oppure no? Le variabili sono ancora troppe. Scissione 5 Stelle? Secondo me prima delle europee è difficile, a meno che non si mettano a fare espulsioni. Dopotutto, è possibile.(Aldo Giannuli, dichriarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Salvini vuole mollare M5S ma Berlusconi non glielo permette”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 1° marzo 2013).Codice degli appalti, nomine, Tav, autonomia, recessione e assenza di investimenti sono i nodi sui quali si misura quotidianamente la distanza tra M5S e Lega. Tanto che il Quirinale, preoccupato per lo stallo del paese, starebbe lavorando attivamente alla rottura del patto di maggioranza, favorendo una ricomposizione del centrodestra (cui non mancherebbe un’interlocuzione col Pd). Una trappola che Salvini ha fiutato: lo dimostrano le garanzie di fedeltà fatte a Di Maio e il lavoro di “protezione” discreta del leader 5 Stelle che il ministro dell’interno ha raccomandato ai suoi. Salvini ha un problema di tempo: vuole liberarsi dei 5 Stelle, però non può farlo prima di avere normalizzato la destra, togliendosi dai piedi Berlusconi. Due le strade: o tenendo a bagnomaria Forza Italia e prendendosene un pezzetto ogni tanto, vedi le ultime elezioni, o aspettando che il Cavaliere tolga il disturbo. A quel punto si va al voto e Salvini si candida come capo di tutta la destra, con l’obiettivo di fare un governo suo. Questa situazione di stallo corre il rischio di durare troppo, e non è detto che il vento continui a soffiare nelle vele di Salvini. In realtà un poco sta calando, e Salvini se n’è accorto. In Sardegna non ha stravinto, e in Abruzzo è andato bene ma non benissimo. Può anche succedere che le tensioni nel governo esplodano tra una settimana. Ma è meno probabile.
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Software manipolabile e affari privati, l’imbroglio Rousseau
Si scrive Movimento 5 Stelle, ma si legge “sistema Casaleggio”. Ovvero: come si tradisce una rivoluzione. Non perché al governo c’è Di Maio piuttosto che Di Battista, ma perché «il calcolo e l’inganno hanno dato il benservito al desiderio di rinnovamento e alla passione politica». A dirlo è Marco Canestrari, sviluppatore e blogger. Oggi vive e lavora a Londra, ma un tempo seguiva Grillo ovunque, scrive sul “Sussidiario” Federico Ferraù, che lo ha intervistato. Il tecnico ha visto nascere, per avervi collaborato e lavorato, la macchina organizzativa del M5S. Quello che sa lo ha scritto con Nicola Biondo in “Supernova”. La piattaforma Rousseu? «Il voto ha valore zero, non è certificato da nessuno e si svolge attraverso un software manipolabile, insicuro e privato», dice Canestrari. Alla vigilia della votazione sull’autorizzazione a procedere contro Savini, ha detto: «Quale sarà il modo in cui questa volta prenderanno in giro i propri elettori lo sanno solo loro». Dopo il voto in Abruzzo – tra Tav, riforme e caso Diciotti – i 5 Stelle appaiono incerti e frastornati, annota Ferraù. Per Canestrari «c’è una cosa che spiega tutto», e cioè «i due giorni di assenza di Di Maio dopo il voto in Abruzzo, l’incertezza, il cambio di marcia, l’idea di una struttura più tradizionale». Il problema? «Siamo ancora abituati all’idea del movimento che aveva Casaleggio: Gianroberto, intendo». Ormai il capo è il figlio Davide, e secondo Canestrari il movimento «non è più l’evoluzione dei MeetUp, ma il ramo d’azienda politico di un’entità più grande che io chiamo “sistema Casaleggio”».«Mentre Gianroberto voleva mettere alla prova nella realtà le sue teorie sulla rete – sostiene Canestrari – a Davide interessa solo mantenere e sviluppare il controllo del sistema. E lo fa attraverso la piattaforma Rousseau, con cui conosce tutto, ma proprio tutto, di iscritti ed eletti a M5S». L’accusa: è il sistema-Casaleggio ad avere al suo interno il M5S. «Il movimento, l’associazione Rousseau, la piattaforma: si tratta di vere e proprie unità organizzative aziendali». Qualche giorno fa, aggiunge Canestrari, l’edizione americana di “Wired” ha rilanciato una notizia interessante: la conferma di un incontro tra Steve Bannon e Davide Casaleggio in Italia ai primi di giugno 2018. «Perché gli aderenti al movimento e gli eletti non l’hanno saputo? Di cos’hanno parlato i due? La verità – dice Canestrari – è che ad avere in mano il pallino è Davide, non altri. Lo fa come presidente della Casaleggio Associati e dell’Associazione Rousseau, seguendo un’agenda sconosciuta a tutti gli altri». Quindi la piattaforma Rousseau è la vera la leva dell’ingranaggio? Soltanto in apparenza, dice Canestrari: «Nella sostanza è solo uno specchietto per le allodole che serve a profilare gli utenti, siano essi iscritti, candidati o parlamentari».La sua gestione, prosegue il tecnico, è segnata da episodi controversi: «E’ stato il Garante della privacy a dire che i gestori sapevano come votavano gli iscritti alla piattaforma perché i dati erano conservati “in chiaro”». Aggiunge Canestrari: «Davide Casaleggio sa tutto, è questo il segreto del suo “soft power”, che in M5S non è paragonabile a quello di nessun altro, nemmeno Di Maio, figuriamoci Grillo». Come sono oggi i rapporti tra Casaleggio e Di Maio? «Sono ottimi – risponde Canestrari – per il semplice motivo che gli interessi sono convergenti». Quello di Davide è «mantenere il controllo della struttura», e Canestrari ricorda che l’associazione Rousseau «incassa quasi 9 milioni di euro a legislatura dai parlamentari e dalle donazioni al M5S». Ma se i grillini volessero liberarsi di Rousseau non potrebbero farlo, sostiene sempre Canestrari, «perché nessuno può rimuovere Casaleggio dal suo ruolo: la sua carica nell’associazione non è elettiva, la può occupare solo un socio fondatore e Davide è l’unico rimasto dopo la morte del padre». E alla luce di tutto questo – domanda Ferraù – Di Maio che ruolo ha? «E’ l’amministratore delegato del ramo d’azienda politico del sistema-Casaleggio». E’ evidente che le dispute sulle correnti di Fico, Di Battista e via dicendo «sono solo accademia», teatro. «Ciò che conta è chi resta e chi se ne va. E a restare sarà Davide Casaleggio».Nel suo blog, Canestrari parla di evidenti conflitti d’interesse: proprio mentre Di Maio annunciava il riconoscimento legale alla tecnologia blockchain (ad uso del Made in Italy), la Casaleggio Associati presentava un rapporto sulla tecnologia blockchain ad uso delle imprese. «In platea c’erano gli imprenditori che stavano aspettando di capire come accedere a quei fondi: indovinate chi gli farà le consulenze». Sempre secondo Canestrari, il “sistema-Casaleggio” viene prima di qualsiasi nodo politico sul tappeto, come il Tav Torino-Lione che oppone i 5 Stelle alla Lega. «Io penso che il governo regga – dice l’informatico – per il semplice motivo che il 70% dei parlamentari sono di prima nomina e nel settembre del 2022 matureranno il diritto alla pensione». Poi ci sono ragioni anche politiche: «Nel febbraio del ’22 si elegge il presidente della Repubblica: dubito che Di Maio e Salvini vogliano lasciarsi sfuggire l’opportunità di decidere chi va al Colle». Nel frattempo potranno esserci, al massimo, «dei rimescolamenti di poltrone». E sul Tav valsusino, domanda Ferraù, alla fine i 5 Stelle cosa faranno? «Andiamo a vedere cos’è successo quando hanno affrontato un problema del genere: il Tap si è fatto, il Muos anche, lo stesso dicasi per il Terzo Valico».«Tutte le battaglie che in questi anni il movimento ha appoggiato non sono mai state battaglie sue, ma di altri che il M5S appoggiava», sottolinea Canestrari. «Alla fin fine non sono mai stati in grado di rispondere in modo decisivo alle esigenze di chi manifestava. E poi, in un’opera che muove interessi così grandi, non vedo speranze per il M5S». Si può immaginare che, al massimo, sulla Torino-Lione «trovino un compromesso». E se in Italia i consensi sono in calo, per l’ex consulente di Grillo il vero problema sono le elezioni europee: «Il Movimento è alla disperata ricerca di compagni di strada per formare un gruppo e potrebbe non farcela. Significherebbe dire addio ai fondi e alle cariche». Canestrari non esclude una possibile intesa con il gruppo di Salvini, «magari con altro nome», che consenta ai grillini «di portare a casa i soldi e qualche carica», cedendo «alla destra europea». Nel periodo che ha condotto alla formazione del governo gialloverde, ricorda Ferraù, Mattarella ha certamente favorito i 5 Stelle. Sarà ancora così? Canestrari ne dubita: «Penso che il Quirinale abbia capito che il M5S si muove secondo logiche in parte sconosciute e in parte non riconducibili a obiettivi politici tradizionali, e che quindi il suo giudizio sia molto più cauto».Si scrive Movimento 5 Stelle, ma si legge “sistema Casaleggio”. Ovvero: come si tradisce una rivoluzione. Non perché al governo c’è Di Maio piuttosto che Di Battista, ma perché «il calcolo e l’inganno hanno dato il benservito al desiderio di rinnovamento e alla passione politica». A dirlo è Marco Canestrari, sviluppatore e blogger. Oggi vive e lavora a Londra, ma un tempo seguiva Grillo ovunque, scrive sul “Sussidiario” Federico Ferraù, che lo ha intervistato. Il tecnico ha visto nascere, per avervi collaborato e lavorato, la macchina organizzativa del M5S. Quello che sa lo ha scritto con Nicola Biondo in “Supernova”. La piattaforma Rousseu? «Il voto ha valore zero, non è certificato da nessuno e si svolge attraverso un software manipolabile, insicuro e privato», dice Canestrari. Alla vigilia della votazione sull’autorizzazione a procedere contro Savini, ha detto: «Quale sarà il modo in cui questa volta prenderanno in giro i propri elettori lo sanno solo loro». Dopo il voto in Abruzzo – tra Tav, riforme e caso Diciotti – i 5 Stelle appaiono incerti e frastornati, annota Ferraù. Per Canestrari «c’è una cosa che spiega tutto», e cioè «i due giorni di assenza di Di Maio dopo il voto in Abruzzo, l’incertezza, il cambio di marcia, l’idea di una struttura più tradizionale». Il problema? «Siamo ancora abituati all’idea del movimento che aveva Casaleggio: Gianroberto, intendo». Ormai il capo è il figlio Davide, e secondo Canestrari il movimento «non è più l’evoluzione dei MeetUp, ma il ramo d’azienda politico di un’entità più grande che io chiamo “sistema Casaleggio”».
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Abruzzo, Caporetto 5 Stelle: più vicina la fine del governo
«Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».Secondo il “Sussidiario”, la sconfitta in Abruzzo potrebbe avviare la resa dei conti dentro il Movimento 5 Stelle, con Di Maio sul banco degli imputati. «E una seconda solenne sconfitta in terra sarda potrebbe costituire per la sua leadership il colpo di grazia». Del resto, annota Del Duca, l’elenco dei fronti caldi per i grillini si allunga giorno dopo giorno: la Tav, la Francia e da ultimi la polemica di Di Battista contro Napolitano e quella contro la Banca d’Italia. «Per di più, solo in quest’ultimo caso si è registrata una perfetta identità di vedute con l’alleato leghista. Per il resto la distanza è siderale». Si pensi alla crisi venezuelana, all’autonomia delle Regioni del Nord, alla legittima difesa o all’autorizzazione a procedere contro Salvini per il caso Diciotti. «Unica speranza di invertire il trend, il reddito di cittadinanza». Il Movimento 5 Stelle «vive con apprensione l’isolamento crescente che verifica intorno a sé, compreso il crescente pressing del Quirinale, che ormai non perdona passi falsi. «Alla Lega, al contrario, si rivolgono in tanti, ad esempio sindacati e imprenditori, come l’unica forza ragionevole, in grado di stoppare le leggerezze di un governo giudicato del tutto inadeguato».Finora, prosegue Del Duca, il rapporto personale fra Salvini e Di Maio ha puntellato il traballante governo Conte. Presto però potrebbe non bastare, «se l’ala dura dei grillini dovesse pretendere di più». Allo stesso modo, Salvini «potrebbe non riuscire più a resistere alle sirene di chi gli chiede di staccare la spina». Per prendere una decisione sul futuro il tempo stringe: a fine maggio ci sono le europee, ma soprattutto – in prospettiva – si preannuncia «una legge di bilancio drammatica, con la necessità di trovare una cifra enorme, 23 miliardi, solo per evitare l’aumento automatico dell’Iva». Sarà quindi una manovra “lacrime e sangue”, «di quelle che si possono fare solo in una fase immediatamente successiva a un turno elettorale, non subito prima». Secondo Del Duca, infatti, “zoppica” l’ipotesi che questo governo possa arrivare a fine anno, e poi portare il paese alle elezioni a inizio 2020. Mattarella si convincerà che il voto è il male minore per il paese? «Dall’Abruzzo però potrebbe davvero essere partita una valanga in grado di travolgere l’esecutivo gialloverde».«Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».