Archivio del Tag ‘Il Giornale’
-
Astri e radon, prevenire il sisma? Al business non conviene
Prevenire i terremoti? E’ possibile, probabilmente. Ma è inutile contarci: al business, semplicemente, non conviene. Molto meglio l’affare della ricostruzione: frutta tre volte tanto. Idem, in piccolo, la fornitura dei sismografi, appaltata «a precise “famiglie”, vicine alla protezione civile». La denuncia porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, ospite della trasmissione web-radio “Border Nights” del 1° novembre, insieme a Stefano Gagliardi e Stefano Calandra, due ricercatori “fai da te”, ormai popolarissimi dopo le previsioni – azzeccate – del sisma di Norcia, basate sulla lettura del cielo. Prevedere i terremoti è possibile, sostengono: il rischio si innalza se aumenta l’allineamento dei pianeti. Non è possibile capire dove il terremoto avverrà? Su questo è forse più preciso il fisico Giampaolo Giuliani, celebre per l’allerta (ignorata) sul terremoto dell’Aquila. Giuliani rileva una stretta relazione fra il terremoto in arrivo e l’aumento della presenza di gas radon nel sottosuolo. Emarginato in Italia, Giuliani oggi lavora in California, dove sta monitorando la Faglia di Sant’Andrea, nonché in Giappone e a Taiwan. L’Italia? Niente da fare: da noi si resta all’antico, usando il solo sismografo.«E’ come se, decenni fa, avessimo preteso di debellare la malaria impiegando ottimi termometri», commentano amaramente Gagliardi e Calandra: il sismografo si limita infatti a valutare l’entità del sisma, così come il termometro misura solo la febbre del paziente. «La speranza in un mondo nuovo dove si possono prevedere i terremoti questa volta è da decifrare nelle cifre minime delle congiunzioni più silenziose, in una scienza più affine al popolo Maya che agli umani del terzo millennio», scrive Emanuela Fontana sul “Giornale”, presentando la ricerca di Gagliardi e Calandra. Allineamenti planetari e terremoti: la teoria è allo studio anche in Grecia, e impazza sui social network in Italia dalla sera del 26 ottobre. Nel suo blog, Calandra segnala gli allineamenti dei pianeti e i possibili movimenti delle faglie terrestri. Il post più sconcertante lo ha scritto il 25 ottobre, preceduto da una segnalazione del 18: «26/10 sera-notte. L’affollamento di coincidenze di pianeti in linea a 0 gradi di scarto, ben 10 come numero di eventi, essendo una situazione mai vista, fa pensare ad un potenziale rischio sismico molto alto, quasi massimo, da quel 24/8 del terremoto di Amatrice in poi».Veniva indicata un’area generica, quella «Mediterranea», e una fascia oraria più delicata per il 26, dalle 17.30 alla mezzanotte. Le scosse sono avvenute come scritto il 26 ottobre, a distanza di due ore, con potenza in incremento e nella fascia oraria segnalata. Siamo ancora nel campo delle supposizioni, ammette lo stesso Calandra: «Queste previsioni – scrive – costituiscono solo delle ipotesi pseudoscientifiche, derivanti da un modello teorico troppo giovane per essere comprovato al 100%». Un modello matematico ancora “acerbo”, che va integrato con le mappe sismiche e con gli studi sull’aumento di gas radon nel sottosuolo per circoscrivere le aree di rischio. Importanti conferme stanno comunque giungendo dalla Grecia, aggiunge il “Giornale”: «Su 109 grandi terremoti analizzati dal 2004, 102 sarebbero avvenuti in occasione di un allineamento di almeno tre pianeti». Il problema maggiore, a monte? «In Italia, nessuno prenderà seriamente in considerazioni queste indicazioni», sostiene Carpeoro, che nel 2009 – come direttore editoriale del magazine “Area di Confine”, diretto da Ennio Piccaluga – spedì inviati speciali all’Aquila per seguire il caso-Giuliani.Carpeoro denuncia la presenza di interessi così forti da mettere in pericolo chi cerca di lavorare sulla prevenzione dei terremoti: «E’ stato deciso, da chi “conta”, che l’intera ricerca sui terremoti deve essere fondata sui sismografi – e questo per interessi precisi, aziendali, familiari: ci sono parenti stretti di pezzi grossi della protezione civile che forniscono allo Stato i sismografi e, business ancora più redditizio, ne curano la manutenzione». In Italia gli unici apparecchi di rilevazione sono i sismografi, «perché queste aziende devo prosperare». A questi si aggiungono gli interessi edilizi: i costruttori «hanno bloccato l’investimento di messa in sicurezza delle case, perché la ricostruzione frutta quasi il triplo della ricostruzione». Un «magma, tipicamente italico», a cui si aggiunge «una sorta di arretratezza culturale», anche da parte di chi è in buona fede: «Abbiamo una diffidenza naturale nei confronti di chi si pone in maniera alternativa rispetto alla ricerca: non c’è niente da fare, questo paese è fatto così, non riusciamo a uscire da questo modo di ragionare. Appena uno apre la bocca gli si chiede “ma tu che titoli hai?”, e non si entra nel merito di quello che dice».La ricerca di Gagliardi e Calandra sul rapporto tra astrofisica e terremoto? «Mi può fare solo piacere», conclude Carpeoro, «perché siamo talmente ottusi, nella ricerca ufficiale, che – se non si inserisce una ricerca non-ufficiale – non verrà fatto un passo». Ovvero: «Serve una ricerca non-ufficiale, che faccia fare un po’ di figure di palta a questi paludati tromboni». I giovani ricercatori? Sono «persone di buoma volontà». Devono «tenersi in contatto tra loro e non contare molto su aiuti provenienti dall’esterno, perché – per motivi economici e culturali – non ne avranno». Carpeoro ricorda che, quando Giuliani andò da Giuseppe Zamberletti, il capo della protezione civile, questi lo mise in contatto col geologo Enzo Boschi, il quale «lo prese a pernacchie, deridendolo e offendendolo», nonostante proponesse – attraverso il monitoraggio del radon per mezzo di sonde – la possibilità di prevedere i terremoti. «Questo è il loro modo di comportarsi, e io penso che questi non siano scienziati», aggiunge Carpeoro. «La prima qualità che deve avere uno scienziato è la capacità di dubitare anche di se stesso, se no non è uno scienziato: è il contrario di uno scienziato. Lo scienziato che consideri i suoi risultati quasi definitivi, anziché provvisori, non è uno scienziato».Prevenire i terremoti? E’ possibile, probabilmente. Ma è inutile contarci: al business, semplicemente, non conviene. Molto meglio l’affare della ricostruzione: frutta tre volte tanto. Idem, in piccolo, la fornitura dei sismografi, appaltata «a precise “famiglie”, vicine alla protezione civile». La denuncia porta la firma dell’avvocato Gianfranco Carpeoro, giornalista e scrittore, ospite della trasmissione web-radio “Border Nights” del 1° novembre, insieme a Stefano Gagliardi e Stefano Calandra, due ricercatori “fai da te”, ormai popolarissimi dopo le previsioni – azzeccate – del sisma di Norcia, basate sulla lettura del cielo. Prevedere i terremoti è possibile, sostengono: il rischio si innalza se aumenta l’allineamento dei pianeti. Non è possibile capire dove il terremoto avverrà? Su questo è forse più preciso il fisico Giampaolo Giuliani, celebre per l’allerta (ignorata) sul terremoto dell’Aquila. Giuliani rileva una stretta relazione fra il terremoto in arrivo e l’aumento della presenza di gas radon nel sottosuolo. Emarginato in Italia, Giuliani oggi lavora in California, dove sta monitorando la Faglia di Sant’Andrea, nonché in Giappone e a Taiwan. L’Italia? Niente da fare: da noi si resta all’antico, usando il solo sismografo.
-
Se gli americani ora scoprono chi è davvero Hillary Clinton
Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.«Attenzione, si profila uno scenario imprevedibile fino a poche ore fa: il sorpasso di Trump su Hillary nell’ultima settimana della campagna elettorale», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”. «L’emailgate è devastante per l’immagine della Clinton, perché alimenta il sospetto che non sia affidabile, che abbia qualcosa da nascondere, che sia una mentitrice seriale». Ovvero: «Rafforza la diffidenza nei confronti della sua persona, che è stato il suo principale handicap in questi mesi». I contorni della vicenda sono da film: l’Fbi ha trovato le email di Hillary indagando su Anthony Weiner, ex politico emergente del partito democratico ed ex marito della sua assistente personale, la giovane e fidatissima Huma Abedin, il quale «è stato denunciato per molestie nei confronti di ragazzine minorenni, a cui inviava sue foto in costume adamitico». Osserva Foa: «Forse è il karma che colpisce i Clinton: pensavano di aver fatto fuori Trump pubblicando gli audio dei suoi commenti sulle donne e ora proprio uno scandalo sessuale rischia di rovinare la carriera dell’ex first-lady».Ma anche senza il colpo di coda dell’emailgate, aggiunge Foa, Hillary sarebbe stata in difficoltà. Motivo: ormai «la maggior parte degli americani diffida dei cosiddetti media mainstream (grandi tv e grandi giornali) e molti di loro preferiscono informarsi su siti di informazione che sono letteralmente esplosi in quei mesi come “Breitbart”, “Drudge Report”, “Infowars”, quasi tutti filorepubblicani e gli unici ad aver dato conto regolarmente dell’altro enorme scandalo ignorato dai grandi organi di informazione: quello di Wikileaks con la pubblicazione di migliaia di email del capo della campagna democratica, John Podesta, e di altri collaboratori, che sono stati hackerati». Dalla lettura di quelle email «emerge il doppio linguaggio dell’ex first lady su temi fondamentali con evidenti contraddizioni tra quanto promette agli elettori e quel che dice a prete chiuse alle lobby più influenti». Ed emergono «gli “inciuci” con una stampa servile e quella che appare come una corruzione implicita, multimilionaria, tramite la sua Fondazione anche con governi stranieri», come Qatar e Arabia Saudita (Isis e Fondazione Clinton, stessi sponsor). Emerge insomma «il vero volto del mondo della Clinton e, in genere, del potere di Washington, che provoca disgusto e rabbia negli americani».Vuoi vedere che Trump ce la fa? «Se Hillary perderà il merito sarà ovviamente di Trump, ma la colpa principale sarà sua e del suo inqualificabile passato», scrive Marcello Foa, che non ha mai dato per spacciato il candidato repubblicano, nemmeno quando la maggior parte dei sondaggi – ampiamente manipolati, secondo Wikileaks, e diffusi con la massima risonanza dalla grancassa dei media mainstream – attribuiva a Hillary un vantaggio abissale. Sondaggi in ogni caso di dubbia affidabilità: «Pronosticare un risultato su scala nazionale consultando 1.300 persone non è convincente, tanto più dopo il fiasco del Brexit e di altre elezioni». Foa ha seguito dal vivo due campagne presidenziali – nel 2004 e nel 2008 – scoprendo «l’America profonda, quella che di solito decide le presidenziali», dove oggi un candidato come Trump potrebbe essere «molto più popolare di quanto l’establishment, di cui i grandi media sono la voce, sia disposto ad ammettere». Ora persino i sondaggi mainstream ammettono il “crollo” della Clinton, su cui si abbatte anche il nuovo “emailgate” con la riapertura dell’inchiesta da parte dell’Fbi sui messaggi di posta elettronica cancellati da Hillary.
-
I poteri forti voglion sfrattare Renzi. Il motivo? Terrificante
Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene. D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno.Confindustria e De Benedetti ne decantavano le lodi, vedevano nella sua figura l’uomo che avrebbe una volta per tutte infranto quei tabù che tutti i governi precedenti non avevano osato sfidare. È stato così per la riforma dell’articolo 18, un passaggio storico che ha inferto un duro colpo al già provato edificio dello Stato sociale e ha concesso un potere ancora maggiore al grande capitale dell’industria italiana. Nessuno era riuscito in questo, né i vecchi ex compagni di una volta come D’Alema avrebbero potuto riuscirci. Il motivo è apparentemente intuitivo quanto semplice: per approvare delle riforme del genere occorreva costruire un logos di novità, di immagine giovane e fresca di cui la classe dirigente del Pd era del tutto priva. I media hanno contribuito e alimentato quel logos falso e artificiale per permettere di descrivere le riforme renziane come un enorme passo in avanti per la società italiana, quando esse rappresentano un salto all’indietro di 60 anni, azzerando decenni di conquiste e lotte sindacali.Da qui la fiducia in bianco al rottamatore da tutti gli ambienti che contano: dalla finanza anglosassone per mezzo del “Financial Times”, dalla cancelliera Angela Merkel che vedeva in Renzi una garanzia che l’Italia non violasse il teorema dell’austerità e rimanesse ben salda all’euro, fino alle istituzioni europee sicure che il Belpaese nelle mani del governo Renzi non fosse più una minaccia per la stabilità dell’Ue. Ora l’idillio sembra essere finito. La Commissione Europea solamente pochi mesi fa ha descritto Renzi come un personaggio «inaffidabile», l’ingegner De Benedetti si schiera per il No al referendum e il “Financial Times” condanna la riforma costituzionale definendola come «un ponte verso il nulla». Dunque il potere attrattivo dell’uomo nuovo sembra esaurito, gli ambienti un tempo di casa lo considerano ora un ospite indesiderato al quale va mostrata l’uscita per fare spazio ad altri invitati più graditi. Se dunque gli sponsor di Renzi gli voltano le spalle, e preferiscono schierarsi apertamente per il No al referendum, appare evidente che l’intenzione è quella di provocare un cambio nella politica italiana.Sebbene le riforme costituzionali siano state pensate principalmente per dare ancora più potere alle istituzioni europee e abrogare il titolo V (ultimo ostacolo per le privatizzazioni delle municipalizzate ancora in mano agli enti locali) i poteri esteri e italiani preferiscono adesso votare No per favorire così una probabile crisi di governo i cui esiti porteranno a tutto tranne che a elezioni anticipate. Negli anni passati il Quirinale ha sempre rimandato l’opzione delle urne, viste come fonte di instabilità dai mercati, e ha preferito sempre cercare una soluzione per mantenere in vita la legislatura. Da Monti in poi, è stato impedito ai cittadini italiani di potersi esprimere nel nome di logiche sovranazionali che chiedevano la prosecuzione delle legislature, così da mantenere inalterato lo status quo e guadagnare terreno sullo smantellamento dello Stato sociale italiano.Ora però per continuare su quel cammino è necessario un altro cambio perché il tempo di Renzi è finito. E il referendum pare quasi diventato lo strumento migliore per dare il benservito a Renzi. In caso di un’eventuale sconfitta al referendum farà di tutto per restare al suo posto ma non ci riuscirà. È molto più probabile l’entrata in scena di un governo tecnico o di larghe intese: in entrambi i casi sarebbero approvate altre “riforme” che il premier precedente governo non aveva la forza di approvare. Il cammino degli ultimi 5 anni è stato così, si designa un premier dall’esterno e si giustifica la sua ascesa con la situazione interna di emergenza indotta. Una volta che lo scopo è stato raggiunto e occorre passare alla fase successiva, gli si dà il benservito e si passa al nuovo personaggio da sostenere, che può essere anche un vecchio riciclato. Monti, Letta e Renzi sono saliti al potere con questo schema. Chi verrà dopo di loro dovrà portare a termine il lavoro iniziato da questi. Svendere completamente gli asset più importanti dello Stato e aggredire il risparmio degli italiani.(Paolo Becchi e Cesare Sacchetti, “Ai poteri forti serve un nuovo governo. Il motivo? Terrificante”, da “Il Giornale” del 7 ottobre 2016).Tutto cominciò cinque anni fa alla Leopolda quando sul palcoscenico della stazione ferroviaria di Firenze si affacciava quello che all’epoca era considerato poco più di un giovanotto rampante e piuttosto arrogante, uno di quelli con la parlata svelta ma che non si preoccupa troppo di quello che dice. Matteo Renzi esordiva così nella politica italiana, parlando della necessità di una rottamazione della vecchia classe dirigente del Pd, incapace di interpretare al meglio i cambiamenti del futuro e ormai troppo legata ad un passato fatto di effigi e simboli che non appartengono più alla sinistra moderna. Dentro il Pd, non fu accolto bene. D’Alema, Marini e Bersani non hanno mai visto con favore l’avvento di questo giovane spregiudicato e arrampicatore, ma hanno ingoiato il rospo della sua ascesa perché così era stato deciso dai piani alti dell’Europa e di Washington. Quando Renzi venne scelto come sostituto di Enrico Letta, l’intera stampa italiana e internazionale si schierò tutta come un sol uomo a favore dell’ex sindaco di Firenze. La presenza del rottamatore nei media era bulimica, e invadeva tutti gli spazi delle principali reti nazionali a ogni ora del giorno.
-
Via dall’euro o è la fine, ormai lo ammette anche Zingales
E’ un’intervista destinata a far scalpore, secondo Marcello Foa, sebbene il quotidiano che l’ha pubblicata, “Repubblica”, abbia cercato di annacquarla. «Il vero titolo era “Via dall’euro, con l’austerità non c’è futuro”», invece «hanno preferito un più neutrale “Quella contro l’austerity è una battaglia persa”». Resta però la sostanza. Luigi Zingales, economista della University of Chicago, stronca i tentativi di Renzi di strappare qualche decimale di flessibilità per la semplice ragione che il vero nodo è strutturale. Le schermaglie non servono a nulla: «Il problema non è qualche punto decimale di flessibilità, ma la vera struttura dell’unione monetaria», dice Zingales. «Senza una politica fiscale comune, l’euro non è sostenibile: o si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi». Cosa dovrebbe fare l’Italia per sbloccare l’austerità di marca tedesca? «Di certo smetterla di elemosinare decimali da spendere a scopi elettorali rendendosi poco credibile. Dovrebbe invece iniziare una battaglia politica a livello europeo. Dire chiaramente che alle condizioni attuali l’euro è insostenibile».«O introduciamo una politica fiscale comune che aiuti i paesi in difficoltà o dobbiamo recuperare la nostra flessibilità di cambio. Tertium non datur», sostiene – oggi – l’economista, che fu tra i più robusti sostenitori del governo Monti, massima espressione dell’euro-rigore imposto all’Italia, senza anestesia, nel 2011. «Il rischio per gli italiani è quello di finire come la rana in pentola: se la temperatura aumenta lentamente non ha la forza per saltare fuori e finisce bollita», continua Zingales su “Repubbica”. «Il nostro paese non cresce da vent’ anni: quanto ancora possiamo andare avanti?». Certo, annota Marcello Foa sul “Giornale”, Zingales continua a credere che una politica fiscale europea potrebbe risolvere i problemi di molti paesi europei. Ma il professore, «realisticamente, sa che la Germania non si scosterà dall’attuale linea». A Berlino, dichiara ancora l’economista, «conviene che questa situazione continui all’infinito». E spiega: «È difficile che qualcuno cambi idea se non gli conviene, a meno che non sia costretto a farlo. I tedeschi temono di pagare il conto delle spese altrui e su questo non hanno tutti i torti».«Dunque, nulla cambierà», conclude Foa. «E l’Italia deve scegliere: se non vuole morire dissanguata lentamente deve trovare altre soluzioni. Ne resta una sola: uscire dall’euro, come sostengono da tempo Alberto Bagnai e gli economisti che gravitano attorno ad “Asimmetrie”». E se Renzi «fosse davvero il premier di rottura che pretende di essere», secondo Foa «coglierebbe l’occasione per avanzare con forza la questione, anzi per porla al primo posto nell’agenda del paese». Altro che Olimpiadi, altro che riforma costituzionale: tutto è inutile se prima non si riesce a riattivare l’economia reale. Cambio di rotta: dire all’Unione Europea che l’Italia, nell’euro, non regge più? Esattamente. «Ma questo coraggio, Renzi non ce l’ha», sottolinea Foa. «Preferisce, al solito, la propaganda e le schermaglie verbali: come se bastasse parlare bene, per salvare un paese».E’ un’intervista destinata a far scalpore, secondo Marcello Foa, sebbene il quotidiano che l’ha pubblicata, “Repubblica”, abbia cercato di annacquarla. «Il vero titolo era “Via dall’euro, con l’austerità non c’è futuro”», invece «hanno preferito un più neutrale “Quella contro l’austerity è una battaglia persa”». Resta però la sostanza. Luigi Zingales, economista della University of Chicago, stronca i tentativi di Renzi di strappare qualche decimale di flessibilità per la semplice ragione che il vero nodo è strutturale. Le schermaglie non servono a nulla: «Il problema non è qualche punto decimale di flessibilità, ma la vera struttura dell’unione monetaria», dice Zingales. «Senza una politica fiscale comune, l’euro non è sostenibile: o si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi». Cosa dovrebbe fare l’Italia per sbloccare l’austerità di marca tedesca? «Di certo smetterla di elemosinare decimali da spendere a scopi elettorali rendendosi poco credibile. Dovrebbe invece iniziare una battaglia politica a livello europeo. Dire chiaramente che alle condizioni attuali l’euro è insostenibile».
-
La meglio gioventù è questa, che scava tra le macerie
Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.Che la terra abbia tremato o si sia sciolta come il pianto dei disperati, la gioventù d’Italia ha risposto all’appello. Una corsa, vera, che fotografa i tempi. Non c’è colore, né distinzione. Un minimo comune multiplo, una linea di continuità, non esclusivamente tappe di un unico dolore. Tra drammi incredibili che piegano i rami carichi di una quercia stanca in mezzo al Mediterraneo. Tra drammi che sono, però, un segnale che incarna una speranza da non sottovalutare, rappresentano un esempio. Se il divenire storico vuole etichettare i propri eventi per ricordare dove li aveva messi, allora forse, ci siamo. Forse sarà questo che identificherà la “Generazione Duemila”, quella dei millenials – ufficialmente buona a nulla, lobotomizzata su un divano, costretta a pensarla alla stessa maniera, a frequentare vernissage o a fraternizzare con le Ong, a dimenticare davanti alla Playstation, annichilita e vecchia tuffarsi in un tormentone per avere un’overdose di vitalità, costretta a morire intirizzita ancora prima dei vent’anni – che come un milite ignoto, esiste senza un nome, un cognome, un volto. Allora sarà questo agire spontaneo e ripetuto che potrebbe offrirle un appellativo, fornendole una carta d’identità agli occhi della storia, come prima d’essa, ogni blocco generazionale.Tragedie in cui i giovani italiani c’erano, al pieno della loro gioventù, delle loro braccia forti e di un cuore pulsante. Come nel lontano 1966, con l’Inghilterra, per la prima ed unica volta, campione del mondo e Firenze sotto strati d’acqua e miseria, si rivedono i fanti della dignità. Volontari. Ragazzi e ragazze, figli della normalità, con i jeans sporchi ed i calli alle mani, come i loro padri. Con la divisa gialla e blu, con quella rossa. Una cordata che va oltre il senso bigotto e populista di solidarietà, un esercito armato di pala e piccone che supera le mode ed accorre, si scrolla da dosso la muffa da annichilimento ed accorre, lascia a casa fidanzata e genitori, curriculum, portfolio, disoccupazione ed accorre. Nessuna santificazione in un estasi di Gloria, piuttosto un segnale di vita: i giovani d’Italia ci sono. Spicca un ritorno all’origine che ossigena le anime e rinvigorisce la coscienza nazionale. Si torna a vedere esempi puliti tra i pezzi di case venuti giù come un apocalisse di stelle cadenti. Come per L’Aquila, l’Emilia Romagna, Genova, Amatrice e per tante altre ferite, c’erano i volontari della Protezione Civile, della Croce Rossa Italiana, con le proprie divise, le chiamate a casa per rassicurare ed i panini a pranzo e cena tra una tenda da montare e brandelli di muro da buttar via.Dunque occorre necessariamente riflettere. Proprio come i coetanei classe ’66, divisi tra rivoluzioni culturali, pantaloni a zampa e capigliature alla Paul McCartney, anche i nostri, noti alle cronache per essere figli mai liberi della crisi di un’epoca, dei valori, dell’etica e del buon senso, lavoratori a prestazione gratuita, senza speranza, senz’arte né parte, tormentoni o stereotipi, bendati verso il futuro, stanno raggiungendo la redenzione agli occhi della storia? Forse l’emblema della Generazione Duemila potrà essere proprio il cuore grande, che va oltre ogni cosa, oltre il nichilismo, la velocità siderale, la plastica, il denaro, l’ingozzamento dei nostri tempi? Forse l’appellativo di questa generazione sarà “volontaria”. Potremmo pensare di ricordare, prima di sprofondare nell’oblio da Tablet sul divano, la generazione degli anni ’10 come i ragazzi del soccorso, la “Generazione Duemila”, quella dei volontari. E per pietà, non copriate ciò che vuole andare oltre con nessuna passerella elettorale, con nessuna passeggiata mediatica.(Emanuele Ricucci, “La meglio gioventù sta tra le macerie – la Generazione Duemila, quella dei volontari”, dal blog “Contraerea” su “Il Giornale” del 26 agosto 2016).Ero a L’Aquila, come volontario. Pareva il fronte. Un veneto di ventotto anni mi passava le brande da campo, mentre un toscano ed io, le posizionavamo dentro la tenda, qualificati da anni di corsi ed esercitazioni. Eravamo stanchi insieme; nei giorni passati tra le macerie, fusi nel nostro essere italiani. Contrariamente al pensiero comune, fratello è chi parla la mia lingua, riconosce il mio confine e condivide la mia tragedia. Amico è tutto il resto. Sardi, veneti, laziali, toscani. Liceali, universitari, disoccupati, già sposati. Giovanotti già dati per dispersi nelle pagine della storia. L’Aquila, Emilia Romagna, Genova. Amatrice. Centro Italia. La meglio gioventù, spala e scava. La meglio gioventù sta tra fango e macerie, la trovi là, a donare il proprio sangue, non la cercate nelle rivolte di piazza, i tempi cambiano. Non la cercate in un bonifico, è squattrinata, né a chiedere un mutuo o nei parchi, nei villaggi vacanze, tra le tette della donna o negli aeroporti verso l’estate arrembante; neanche nelle sezioni di partito. Non esistono più.
-
Monti fa ancora danni: 3 miliardi regalati a Morgan Stanley
Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.Simili operazioni, infatti, erano state stipulate anche con Deutsche Bank, Bnp Paribas, Dexia, Unicredit e Intesa Sanpaolo, che contribuì a limitare l’esborso nel 2012 subentrando tramite Banca Imi a Morgan Stanley. A tutte sarebbe stata concessa la clausola di estinzione anticipata. «La controparte non aveva mai esercitato questa clausola, poi, arrivati alla fine del 2011, in quel periodo particolarmente turbolento, fecero presente che dovevano farla valere», spiegò il direttore del debito pubblico Maria Cannata ai magistrati di Trani che indagano sulle agenzie di rating. Mario Monti ha sempre spiegato che l’Italia, in una fase di difficoltà come quella del 2011-12, non avrebbe potuto non onorare i contratti pena la perdita di credibilità. In ogni caso, Morgan Stanley riuscì a liquidare la posizione proprio mentre l’agenzia di rating Standard & Poor’s (di cui detiene una piccolissima quota tramite un fondo di investimento) declassava doppiamente il nostro paese. La tesi di Monti fu accolta anche dalla Procura di Roma con i pm Pignatone e Rossi, che archiviarono la posizione del senatore a vita in un’indagine conclusa senza esito l’anno scorso.La mossa della Corte dei Conti apre, però, uno scenario nuovo: quei contratti derivati hanno prodotto un danno erariale tanto all’apertura quanto alla chiusura. Questo vuol dire che allo stesso modo in cui le grandi banche hanno consentito a Prodi e D’Alema di portare l’Italia nell’euro così hanno avuto un ruolo determinante nella deposizione dell’ultimo premier legittimamente eletto. Basti ricordare il pessimo segnale per i mercati rappresentato nel giugno 2011 dalla vendita di tutti i Btp detenuti da Deutsche Bank. E basti ricordare che i primi due atti politici di Monti furono appunto la riforma delle pensioni chiesta dalla Germania e l’esborso verso Morgan Stanley come prova di affidabilità. Un meccanismo che aveva stritolato Silvio Berlusconi con la crisi da spread e con le pressioni di Francia e Germania al G20 di Cannes affinché l’Italia si mettesse sotto tutela della Troika. Un apparato di potere non estraneo al premier insediato a fine 2011 dall’ex capo dello Stato, Giorgio Napolitano.(Gian Maria De Francesco, “Monti fa ancora danni: ci è costato altri 3 miliardi. Lo Stato li rivuole indietro”, da “Il Giornale” del 5 agosto 2016).Mario Monti sbagliò a pagare 2,567 miliardi di euro a Morgan Stanley che tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, poco dopo il declassamento di Standard & Poor’s e la defenestrazione di Silvio Berlusconi, chiuse i contratti derivati con la Repubblica italiana. La Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti, infatti, lo scorso 11 luglio ha presentato richiesta di risarcimento per 2,879 miliardi alla banca americana. È quanto si legge nella relazione trimestrale dell’istituto Usa pubblicata dalla Sec, l’Authority che vigila su Wall Street. Si tratta di un fatto di notevole importanza dal punto di vista finanziario, politico e giudiziario. Le contestazioni dei magistrati contabili si basano sul fatto che non solo le clausole contrattuali fossero «improprie», ma che fosse «impropria» anche l’azione di Morgan Stanley che aveva chiuso in anticipo quelle posizioni aperte tra il 1999 e il 2005. Vale la pena, perciò, ricordare qualche antefatto. I governi di centrosinistra della seconda metà degli anni ‘90 (con Carlo Azeglio Ciampi ministro e Mario Draghi direttore generale del Tesoro) avevano acceso contratti derivati con varie banche per abbassare gli interessi sul debito, ricevere un flusso finanziario ed entrare nell’euro.
-
Ce l’hai con Matteo? Ti spezzano le gambe, su Internet
Bene, ora lo sappiamo: Matteo Renzi e Filippo Sensi possono contare su un esercito invisibile. Che c’è per loro ma non c’è per il pubblico. Un esercito composto da un numero imprecisato di blogger incaricato di battere il web per sostenere le posizioni del premier e denigrare quelle degli oppositori. Il tutto sotto mentite spoglie. Già perché i guerrieri del web , ma sarebbe meglio chiamarli i “picchiatori del web”, mica dichiarano la propria appartenenza politica. Si presentano come normali internauti, appassionati di politica che passano ore su Facebook, su Twitter, sui blog a duellare con foga, per creare l’onda pro Renzi o spezzare quella anti Renzi. Roba da professionisti. La notizia del “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa, in cui si narra che Filippo Sensi ha invitato a “menare Di Battista sulla Libia” non è un fatto di colore, non è un colpo di sole estivo come è stato trattato dai giornali, che hanno evidenziato come il portavoce si sia sbagliato di chat, scrivendo il messaggio su quella usata per mandare comunicati ufficiali ai giornalisti. E’ ben più grave.Benché Sensi si sia premurato di fornire una spiegazione, che peraltro non ha convinto nessuno, è evidente che pensava di scrivere su un’altra chat, molto riservata, molto verosimilmente quella in cui i finti blogger aspettano il messaggio del giorno per poi colpire sul web. Costruire ma soprattutto distruggere. Senza pietà. Idee, ma anche persone. In questo caso Di Battista. Fino a pochi mesi fa Casaleggio. Da sempre Salvini. E occasionalmente Berlusconi. In ogni caso chi si oppone alla volontà del Narciso di Rignano. Dirige il Maestro Sensi. Ma come, penserete voi, il portavoce di un primo ministro fa queste cose? Non dovrebbe rappresentare tutti gli italiani, nel rispetto di un mandato che è comunque istituzionale? Certo che dovrebbe. Ma quando ci sono di mezzo gli spin doctor tutto diventa relativo e opinabile. Quel che conta è l’obiettivo, che va raggiunto ad ogni costo. Sia chiaro: lo fanno anche altrove, in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, paesi imbevuti di spin, ma dove si cerca di salvaguardare le apparenze, anche solo per tutelare il presidente o il premier.A occuparsi di queste utilissime ma poco presentabili attività non è mai direttamente il portavoce del presidente o del premier, bensì qualcuno che fa da filtro e che, nell’improbabile ipotesi che la stampa se ne accorga, possa essere sacrificato. Quel che colpisce di Renzi e del suo spin doctor Sensi è l’arroganza, è la sfacciataggine, è la certezza di non essere denunciati dai giornalisti. Altrove nessun premier si permetterebbe di minacciare direttori di giornali con frasi del tipo “ti spezzo le gambe”, di inviare sms intimidatori, di occupare la Rai per spegnere qualunque voce di dissenso e, a quanto pare, persino la libertà di satira. Nessun portavoce riuscirebbe a rimediare alla gaffe della chat con una battuta, peraltro poco riuscita e per nulla credibile. In Italia, nell’Italia di Renzi, invece è pratica corrente. Sanno, Matteuccio e il suo abile propagandista, che la maggior parte dei giornalisti, con poche lodevoli eccezioni, preferirà tacere, per convenienza, anziché battere i pugni sul tavolo. Solo dopo, solo quando Renzi, nonostante l’overdose di spin, sarà finito, tuoneranno. Dopo, quando non c’è nulla da rischiare.(Marcello Foa, “Renzi e i picchiatori del web, una verità imbarazzante”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” dell’11 agosto 2016).Bene, ora lo sappiamo: Matteo Renzi e Filippo Sensi possono contare su un esercito invisibile. Che c’è per loro ma non c’è per il pubblico. Un esercito composto da un numero imprecisato di blogger incaricato di battere il web per sostenere le posizioni del premier e denigrare quelle degli oppositori. Il tutto sotto mentite spoglie. Già perché i guerrieri del web , ma sarebbe meglio chiamarli i “picchiatori del web”, mica dichiarano la propria appartenenza politica. Si presentano come normali internauti, appassionati di politica che passano ore su Facebook, su Twitter, sui blog a duellare con foga, per creare l’onda pro Renzi o spezzare quella anti Renzi. Roba da professionisti. La notizia del “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa, in cui si narra che Filippo Sensi ha invitato a “menare Di Battista sulla Libia” non è un fatto di colore, non è un colpo di sole estivo come è stato trattato dai giornali, che hanno evidenziato come il portavoce si sia sbagliato di chat, scrivendo il messaggio su quella usata per mandare comunicati ufficiali ai giornalisti. E’ ben più grave.
-
Pazzesco, a Nizza si ordina di cancellare le prove della strage
La magistratura francese ha ordinato al Comune di Nizza di distruggere tutte le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza la notte dell’attentato. Come? Non è possibile… E’ stata la mia prima reazione. Ma è tutto vero. Parola del “Figaro”, che ne dà notizia e pubblicando un documento che è autentico è stato confermato dalla magistratura, che ha giustificato il provvedimento sostenendo che si devono evitare diffusioni incontrollate di immagini che possano ledere la dignità delle vittime o che possano essere usate a fini propagandistici dai terroristi. Una giustificazione risibile: quelle immagini non sono pubbliche. Da notare che subito dopo l’attentato la direzione dell’antiterrorismo Sdat aveva inviato inviato dei server supplementari per archiviare le 30mila ore di filmati registrati quel giorno. E’ lo stesso Sdat che però ora ne sollecita la distruzione.Il Figaro scrive che «il giorno dopo il dramma sulla Promenade des Anglais alcuni ufficiali della polizia giudiziaria erano venuti per identificare la posizione delle telecamere. Un primo rapporto era stato inviato al ministero dell’interno. Curiosamente proprio queste telecamere sono oggetto della richiesta dello Sdat». Gli inquirenti sono sconcertati. Cito ancora il “Figaro”: «E’ la prima volta che ci chiedono di distruggere delle prove, precisa una fonte vicina all’inchiesta». Già, stanno distruggendo delle prove. Perché? L’ottimo Pino Cabras su “Gli Occhi della Guerra” ne parla evidenziando anomalie anche riguardo l’inchiesta del Bataclan. Ma rimaniamo a Nizza. Mettete in fila le ultime rivelazioni di stampa: “Paris Match” rivela che in quella zona il divieto di circolazione è assoluto e permanente ma il camion ha potuto girare liberamemte, compiendo anche manovre strane tali da attirare l’attenzione. Nessuno lo ha fermato né multato.“Libèration”, come scritto ieri ha dimostrato le bugie del governo sui posti di controllo all’inizio della zona pedonale. Ora la rivelazione del “Figaro”, la più clamorosa e incomprensibile. Davvero incomprensibile. Troppo incomprensibile. Aggiornamento importante: il quotidiano “Nice Matin” scrive che il Comune di Nizza si rifiuta di cancellare le immagini. L’avvocato del Comune, Philippe Blanchetier, annuncia che il Comune non solo denuncerà il decreto ingiuntivo che ha ricevuto, ma che si appresta anche a chiedere al procuratore di Nizza di sequestrare queste immagini “al fine di non compromettere eventuali altre procedure che possano emergere al di là delle indagini anti-terrorismo attuali”. Una città si rivolta contro lo Stato centrale. Dice no a un’ingiustizia. Senza precedenti!(Marcello Foa, “Sconcertante: a Nizza si distruggono le prove. Su ordine della magistratura”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 22 luglio 2016).La magistratura francese ha ordinato al Comune di Nizza di distruggere tutte le immagini registrate dalle telecamere di sicurezza la notte dell’attentato. Come? Non è possibile… E’ stata la mia prima reazione. Ma è tutto vero. Parola del “Figaro”, che ne dà notizia e pubblicando un documento che è autentico è stato confermato dalla magistratura, che ha giustificato il provvedimento sostenendo che si devono evitare diffusioni incontrollate di immagini che possano ledere la dignità delle vittime o che possano essere usate a fini propagandistici dai terroristi. Una giustificazione risibile: quelle immagini non sono pubbliche. Da notare che subito dopo l’attentato la direzione dell’antiterrorismo Sdat aveva inviato inviato dei server supplementari per archiviare le 30mila ore di filmati registrati quel giorno. E’ lo stesso Sdat che però ora ne sollecita la distruzione.
-
Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe in Turchia
I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.L’abbattimento del velivolo provocò la rottura delle relazioni tra Ankara e Mosca e generò una crisi diplomatica profonda che si è conclusa solo dopo circa otto mesi, nel giugno scorso, quando il Cremlino ha ricevuto le scuse formali per l’abbattimento del jet da parte del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Fino a quel momento, infatti, Ankara aveva sempre rifiutato di assumersi le responsabilità dell’accaduto. Il fatto, però, che i due piloti che obbedirono all’ordine di abbattere il jet russo, figurino ora tra le file dei militari golpisti e oppositori di Erdogan, spinge a ripensare gli eventi del 24 novembre alla luce degli accadimenti dello scorso fine settimana. La spaccatura fra Erdogan ed una parte dei militari, del resto, non è cosa nuova, ma vecchia di almeno dieci anni, e il golpe fallito messo in atto nella giornata di venerdì viene considerato da molti analisti solo l’apice di un processo che va avanti da tempo.C’è quindi chi già pensa che forse, dietro l’abbattimento del caccia di Mosca, impegnato nelle operazioni contro lo Stato Islamico nel nord della Siria, potrebbe non esserci stato un ordine diretto di Erdogan, ma che forse l’iniziativa partì da quegli stessi generali dell’aviazione turca, che risultano, secondo le controverse informazioni a disposizione finora, essere stati alla base dell’organizzazione del tentativo colpo di Stato. «All’epoca dell’incidente fu l’allora premier Ahmet Davutoglu a prendersi la responsabilità di quello che successe e non Erdogan», spiega a “Gli Occhi della Guerra” Alexander Sotnichenko, professore di relazioni internazionali all’Università di San Pietroburgo ed esperto di relazioni russo-turche, «ora Erdogan sta cercando di dimostrare che non fu lui il colpevole di quella vicenda, ma i sostenitori di Gulen».In più, il tentativo di golpe, che avrebbe potuto essere messo in atto in diverse occasioni, ultima quella delle contestate elezioni del 2015, avviene proprio in un momento in cui le relazioni tra Ankara e Washington sono ai minimi storici e mentre è iniziato un percorso di normalizzazione delle relazioni con la Russa. Percorso che ha aperto anche un’ulteriore strada, quella che porta verso una composizione diplomatica della crisi siriana. Le prime tappe di questo percorso sono state la rimozione delle sanzioni, gli incontri al vertice tra i ministri degli esteri dei due paesi e la ripresa del dialogo in diversi settori. Un incontro tra Erdogan e Putin è previsto, inoltre, per la prima settimana di agosto, e secondo alcune indiscrezioni, il bilaterale tra i due leader, che si sarebbe dovuto tenere a settembre, al G20 di Guangzhou, in Cina, sarebbe stato anticipato proprio durante una telefonata tra i due, avvenuta a seguito degli eventi degli ultimi giorni, in cui Mosca si è detta preoccupata della instabilità nell’area, augurando ad Erdogan un «veloce ripristino di un robusto ordine costituzionale e della stabilità».Se le relazioni con la Russia sono tornate buone, quelle tra Washington e Ankara, invece, continuano a precipitare dopo il tentato golpe. La Turchia sta accusando gli Stati Uniti di proteggere l’imam Fethullah Gulen, considerato da Erdogan la mente del golpe fallito in Turchia. Ankara sta chiedendo l’estradizione del dissidente turco che da 15 anni risiede negli Stati Uniti, ma Washington non vuole concederla se non a fronte di prove legali e dell’apertura di un processo formale. Una figura, quella di Gulen, che divide anche gli stessi vertici statunitensi. All’interno dell’amministrazione Obama, svela infatti il “Wall Street Journal”, c’è chi lo considera un settantenne innocuo, e chi ammette che i “gulenisti” abbiano giocato negli ultimi anni, un ruolo di primo piano nel cercare di indebolire l’esecutivo dell’Akp. Proprio Gulen, intanto, da oltreoceano, esclude di avere a che fare con gli esecutori del colpo di Stato e, al contrario, accusa Erdogan di essersi organizzato il golpe da solo, per operare la tanto attesa svolta islamista ed autocratica, dichiarandosi, quindi, sicuro, che la richiesta di estradizione della Turchia agli Usa non andrà a buon fine. Richiesta che Ankara ha inviato nella giornata di martedì.Forse per questo motivo la Turchia continua ad accusare gli Stati Uniti di aver avuto un ruolo, anche se indiretto nel tentativo da parte dei militari di prendere il potere. Il comandante della base aerea di Incirlik, quella messa a disposizione dalla Turchia agli Stati Uniti per i raid contro lo Stato Islamico, il generale Bekir Ercan Van, ed altri dieci militari sono stati arrestati domenica per complicità nel colpo di Stato, e le autorità turche hanno eseguito delle perquisizioni nella base aerea nei pressi del confine siriano per raccogliere prove dell’utilizzo della base da parte dei militari golpisti. I caccia che si sono alzati in volo su Ankara e Istanbul, infatti, si sono riforniti grazie alle 10 cisterne di carburante presenti nel complesso concesso in uso agli americani, che guidano la coalizione internazionale anti-Isis. La Turchia, paese membro della Nato, ha lanciato così una provocazione neanche troppo velata agli alleati di oltreoceano. Provocazione che si era già concretizzata nell’accusa diretta del ministro del lavoro di Ankara, Suleyman Soylu, il quale aveva dichiarato lo scorso 16 luglio che “gli istigatori di questo colpo di stato sono gli Stati Uniti”. Accuse subito definite “false” e “dannose” dal Dipartimento di Stato.(Alessandra Benignetti, “Quel jet russo abbattuto per anticipare il golpe”, da “Il Giornale” del 19 luglio 2016).I cieli della Turchia, la notte di venerdì, erano affollati di caccia F-16. I jet si rincorrevano a bassa quota sopra Ankara ed Istanbul illuminandosi reciprocamente con i radar d’attacco, senza però arrivare mai ad aprire il fuoco. E tra i piloti che, nella notte di venerdì, a bordo dei jet F-16, inseguivano ad altissima velocità gli stessi caccia guidati dagli uomini rimasti fedeli al presidente Recep Tayyip Erdogan, c’erano anche i due piloti che il 24 novembre del 2015, al confine tra Siria e Turchia, abbatterono in volo il Su-24 Fencer russo, impegnato nelle operazioni anti-Isis nel nord della Siria, che per 17 secondi violò lo spazio aereo turco. Il quotidiano turco “Hurriyet”, infatti, riferisce che i due piloti coinvolti nell’abbattimento del cacciabombardiere russo, sono coinvolti anche nel golpe fallito contro il presidente Erdogan, e che sono stati posti in custodia cautelare per aver preso parte al tentativo di colpo di Stato.
-
La Brexit travolge Renzi, adesso volano i No al referendum
Basta giri di parole e commissariamenti, meglio libertà e democrazia. Da Londra a Roma, l’onda del Brexit rischia di travolgere Matteo Renzi: contro la “rottamazione” della Costituzione voterebbe il 54% degli italiani, incluso il 22% degli elettori del Pd. L’“Huffington Post” ha pubblicato il primo sondaggio sul referendum di ottobre dopo il voto che ha sancito l’addio del Regno Unito all’Unione Europea. E le percentuali non lasciano spazio di vittoria per il premier, che ha investito tutto sul buon esito della consultazione sulla riforma costituzionale, scrive il “Giornale”. Secondo il sondaggio di “ScenariPolitici” realizzato in esclusiva per l’“Huffington Post”, la maggioranza degli italiani oggi sarebbe orientata a votare contro la manomissione della Costituzione e lo smantellamento del Senato elettivo. «Il 54% degli intervistati voterebbe contro la riforma, il 46% a favore», si legge sul sito diretto da Lucia Annunziata, pur consapevole che si tratti di dati ancora «suscettibili di sostanziali modifiche, visto che meno di un italiano su due oggi è certo di andare a votare».Come racconta Adalberto Signore sul “Giornale”, Renzi sarebbe rimasto molto colpito dalle immagini di David Cameron che davanti all’ingresso del numero 10 di Downing Street annuncia le dimissioni da primo ministro. «Il premier – scrive Sergio Rame – inizia a sospettare che aver indetto un referendum sul ddl Boschi possa essere stato un azzardo. Anche perché ha promesso di lasciare la politica nel caso in cui dovesse passare il “no”. Uscire da questo angolo è pressoché impossibile». Secondo “ScenariPolitici”, il 23% degli italiani non ha ancora deciso cosa votare. Il 29%, invece, non andrà a votare. Non solo. Appena il 28% degli intervistati considera la riforma renziana “una priorità per l’Italia”, mentre per il 49% è molto meglio “focalizzarsi su altre tematiche più urgenti”.Nel frattempo, il fronte del “no” si sta muovendo compatto. Le opposizioni hanno già iniziato la campagna per non far passare il ddl Boschi dalle forche referendarie e, quindi, mandare a casa Renzi. Il “no” starebbe addirittura conquistando l’elettorato del Pd: sempre secondo “ScenariPolitici”, il 22% degli elettori “Dem” sarebbe infatti pronto a votare “no”. «Per Renzi, insomma, sembra non esserci scampo». Lo si può capire: tutta la sua politica, finora, è stata orientata in un’unica direzione – assecondare i diktat dell’élite che usa la Germania come kapò europeo, fingendo però di introdurre brillanti (e indolori) innovazioni. Dopo la porta in faccia sbattuta dagli inglesi, sul muso della Merkel innanzitutto, cresce la voglia di emulazione. Perché dare ancora retta ai pigolii di Renzi, quando è possibile dire dei “no” nettissimi? Ed ecco, per il premier, il grande rischio del referendum di ottobre, annunciato anche dal crollo del Pd alle amministrative.Basta giri di parole e commissariamenti, meglio libertà e democrazia. Da Londra a Roma, l’onda del Brexit rischia di travolgere Matteo Renzi: contro la “rottamazione” della Costituzione voterebbe il 54% degli italiani, incluso il 22% degli elettori del Pd. L’“Huffington Post” ha pubblicato il primo sondaggio sul referendum di ottobre dopo il voto che ha sancito l’addio del Regno Unito all’Unione Europea. E le percentuali non lasciano spazio di vittoria per il premier, che ha investito tutto sul buon esito della consultazione sulla riforma costituzionale, scrive il “Giornale”. Secondo il sondaggio di “ScenariPolitici” realizzato in esclusiva per l’“Huffington Post”, la maggioranza degli italiani oggi sarebbe orientata a votare contro la manomissione della Costituzione e lo smantellamento del Senato elettivo. «Il 54% degli intervistati voterebbe contro la riforma, il 46% a favore», si legge sul sito diretto da Lucia Annunziata, pur consapevole che si tratti di dati ancora «suscettibili di sostanziali modifiche, visto che meno di un italiano su due oggi è certo di andare a votare».
-
Foa: battuta l’élite, ora sappiamo che dall’Ue si può evadere
E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.La tempra di un paese ha prevalso sull’emozione e sul cordoglio. La Gran Bretagna fiera della propria autonomia, convinta della propria unicità, capace di scegliere da sola nei momenti topici della propria storia è risorta, dando ragione a Nigel Farage – un ex uomo d’affari che dal nulla ha creato un partito e trascinato un paese a una svolta storica – e a Boris Johnson, il sindaco di Londra uscente, che non ha esitato a schierarsi contro l’establishment del proprio Paese, dando forza e autorevolezza al movimento anti-Ue. Molti diranno che nei britannici ha prevalso la paura di un’immigrazione ed è innegabile che questo sia stato uno dei temi forti della campagna, ma non è stato un voto razzista; semmai la prova che l’immigrazione è salutare e bene accetta se regolata, ma provoca comprensibili reazioni di rigetto quando diventa impetuosa e di massa.C’era di più, però, in questo referendum: c’era la volontà di difendere l’autenticità delle proprie istituzioni, della sovranità del voto popolare e dunque della propria democrazia. Di dire basta a un’Unione Europea i cui meccanismi decisionali sono opachi, in cui il processo di integrazione viene portato avanti da un’élite transnazionale, vero potere dominante dell’Europa e non solo, tramite un processo caratterizzato da un persistente “deficit democratico”, che li ha portati ad ignorare o ad aggirare la volontà dei popoli, ogni volta che si è opposta ai loro disegni. Talvolta persino a calpestare, come accadde un anno fa, quando la Troika costrinse Atene a rinnegare l’esito schiacciante di un referendum. Lo stesso potrebbe avvenire oggi a Londra, considerato che il referendum era consultivo, ma sarebbe una scelta gravissima, al momento improbabile.Ora si apre una fase di incertezza: i mercati la faranno pagare alla Gran Bretagna, e quell’establishment non si arrenderà facilmente. Vedremo. Quella di ieri è stata, però, una giornata davvero storica. E’ la rivincita della sovranità nazionale. Per la prima volta un paese ha dimostrato che il processo di unificazione europea non è ineluttabile, che dalla Ue si può uscire, rendendo concreta la possibilità che altri paesi seguano l’esempio britannico. Un voto che costringerà l’Unione Europea a gettare la maschera di fronte a un’Europa diversa, autentica, che molti pensavano defunta e che invece è forte e vitale, quella dei popoli. Alla faccia delle élite.(Marcello Foa, “Incredibili britannici, rinasce l’Europa dei popoli”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 24 giugno 2016).E ora cambia, davvero, tutto. La decisione degli elettori britannici di lasciare l’Unione Europea è storica innanzitutto per il contesto elettorale in cui è maturata. Tutto, ma proprio tutto, lasciava presagire una vittoria del fronte europeista, soprattutto dopo l’uccisione della deputata Jo Cox, che aveva cambiato la dinamica e il clima della campagna elettorale a sette giorni dal voto. L’ondata del cordoglio è stata enorme. E infatti i sondaggi, i mercati, gli scommettitori davano il sì praticamente scontato. Ci voleva un miracolo per ricambiare il corso della campagna elettorale. E miracolo c’è stato. Forse quel miracolo ha un nome e un volto. Quello della Regina Elisabetta. O meglio del quotidiano popolare più influente del mondo, il “Sun”, che mercoledì ha fatto lo scoop, lasciando intendere che Sua Maestà era favorevole all’uscita dalla Ue, rivitalizzando così le corde di un patriottismo che si pensava fosse diventato marginale e che invece vibra ancora nel cuore del popolo.
-
Siamo pronti a morire per Erdogan? Ce lo chiede la Nato
So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile.Qualche mese fa la Turchia si è spinta a un passo dalla guerra con la Russia, scongiurata solo dal sangue freddo di Putin, mentre negli ultimi tempi l’ambiguo attivismo di Ankara in Siria fa aumentare le possibilità di una nuova escalation militare nella regione. Non è assurdo ipotizzare che la Turchia entri in guerra e, presentandosi (naturalmente) quale vittima, invochi la solidarietà atlantica. Dunque i soldati italiani, così come quelli francesi o spagnoli, potrebbero essere chiamati a morire per Erdogan. Ne deduco due riflessioni, anzi due domande. La prima: è accettabile che la Nato abbia tra i suoi membri un leader come Erdogan, che promuove l’islamizzazione della Turchia, ha sostenuto l’Isis e sta trasformando il suo paese in una dittatura? La mia risposta potete facilmente intuirla. La seconda riguarda la natura stessa della Nato. Di solito a interrogarsi sulla necessità del Patto Atlantico sono pensatori o partiti di sinistra, ma da qualche tempo anche alcuni osservatori liberali davvero indipendenti, avanzano più di un dubbio.In tal senso mi ha colpito la riflessione di Michele Moor, che nella Confederazione elvetica ha i gradi di colonnello ed è ex presidente della Società Svizzera degli Ufficiali. Un conservatore, insomma; il quale in un articolo pubblicato qualche giorno fa sul “Corriere del Ticino” affermava: «A 67 anni dalla sua fondazione (4 aprile 1949), il patto militare che aveva l’obiettivo di arrestare l’avanzata del comunismo sovietico e di garantire la difesa dei paesi aderenti, ha progressivamente mutato la propria strategia, rendendola sempre più aggressiva e offensiva. Non è un caso che gli Stati Uniti detengano la sovranità assoluta dell’organizzazione – le più alte cariche militari della Nato sono sempre riservate a ufficiali statunitensi – e che i cosiddetti paesi alleati offrano supinamente le proprie basi territoriali, nel Mediterraneo e nell’Est europeo, agli interessi strategici della superpotenza».E ancora: «Nello scacchiere geopolitico del Sud, la guerra contro l’Isis è diventata lo specchietto per le allodole, destinato a garantire agli Usa l’espansione nell’Egeo e sulla Libia, territorio nel quale si è pensato di avviare un’operazione militare, ufficialmente guidata dall’Italia. Questa avanzata potrebbe coinvolgere prima o poi anche i paesi dell’asse asiatico, in primis la Cina, per evitare che diventino partner economici della Russia. Dietro l’intenzione, più volte dichiarata, di voler difendere l’Europa dalle aggressioni della Russia, si cela in realtà la volontà di espansionismo interventista che ha provocato la crisi in Ucraina». Parole durissime che vanno dritto al punto. La Nato ha cambiato pelle e da quando intervenne in Kosovo da associazione prettamente difensiva è diventata anche offensiva – vedi Afghanistan e Libia – assecondando i disegni strategici di Washington. Da qui la seconda domanda: la Nato ha ancora senso? Questa Nato è davvero nell’interesse degli europei?(Marcello Foa, “Italiani, siete disposti a morire per Erdogan? Ve lo chiede la Nato”, dal blog “Il Cuore del Mondo” su “Il Giornale” del 1° maggio 2016).So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini: “Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”. Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile.