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Se anche Salvini si piega ai padroni del Tav Torino-Lione
Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che non farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.Il maledetto Tav valsusino è ormai materia di umorismo anche televisivo: per Enrico Mentana, direttore del Tg de La7, si tratterebbe di una linea “ad alta velocità per le merci”. E’ noto a tutti – forse non a Mentana, né al suo pubblico – che si tratta di un ossimoro piuttosto comico: le merci, per definizione, non possono viaggiare ad alta velcità. Negli Usa, cioè il miglior sistema logistico del pianeta, transitato a 60 miglia orarie: oltre quella soglia si mette a rischio la sicurezza dei convogli. Le merci hanno bisogno di puntualità, non di velocità, ma non c’è caso che i media mainstream – stranamente ignorantissimi, su questo aspetto – ne facciamo menzione. La favola della Torino-Lione come segmento strategico per “merci veloci” è nata quando il progetto iniziale, costruito per trasportare passeggeri, è stato reso obsoleto dall’avvento dei voli low cost. Quanto alle merci, sulla tratta Torino-Lione sono praticamente estinte: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già collega l’Italia alla Francia attraverso la valle di Susa via Traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro) ospita appena il 10% dei convogli che potrebbe veicolare: la sua capacità potrebbe aumentare del 900%.Non ci sono più merci, nel trasporto regionale fra Piemonte e Rhône-Alpes, né ve ne saranno secondo tutte le stime. Ma, anziché sfruttare la linea esistente, si pensa a costruire un inutile doppione, per giunta devastante sul piano finanziario e ambientale. Un boccone ricchissimo, però, per i consorzi che lo costruirebbero. Semplicemente sconcertante, anche se non sorprendente, il tenore della dichiarazioni a reti unificate trasmesse dai media all’indomani del ventilato stop ai cantieri da parte dei 5 Stelle. «Imprenditori sulle barricate», secondo la “Stampa”: gli industriali di Torino, con il presidente Dario Gallina, si dicono «allibiti» perché «bloccare la Tav sarebbe un gesto autolesionistico, una disgrazia». E per quale motivo? Mistero: il giornale, all’allibito Gallina, non lo domanda. Per il presidente di Confindustria Piemonte, Fabio Ravanelli, «le contraddittorie e irrituali dichiarazioni sul futuro della nuova linea Torino-Lione sorprendono e creano estrema inquietudine». Di nuovo: se la sente, l’esimio Ravanelli, di spiegare – ai lettori della “Stampa” – quale sarebbe il motivo di tanta inquietudine?Al quasi-lutto per la quasi-rinuncia all’alta velocità transalpina si associa il presidente di Api Torino, Corrado Alberto, che definisce «assurda, inaccettabile e demenziale» l’ipotesi dello stop ai cantieri. Spiegazioni? Nemmeno l’ombra. E i sindacati? Eccoli: contrari alla rinuncia alla Torino-Lione anche Cisl e Uil, che si schierano con i segretari Annamaria Furlan («Sarebbe una sciagura») e Carmelo Barbagallo («Non possiamo rinunciare»). Tace Susanna Camusso, ma si schierano contro il blocco dei cantieri anche gli edili della Fillea-Cgil. Qualcuno lo trova, il coraggio di spiegare a chi mai servirebbe, davvero, la linea Tav Torino-Lione? Macché. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino (già a capo della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria) chiede ai leghisti «di insorgere e bloccare questa deriva anti-piemontese, contraria agli interessi del Nord-Ovest e dell’intero paese». Il semi-segretario Pd, Maurizio Martina, parla di «follia che pagherà il paese intero». E Forza Italia? Con Mara Carfagna accusa il Movimento 5 Stelle di «buttare i soldi degli italiani». E per Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la rinuncia alla Torino-Lione sarebbe «un passo indietro».Questa è l’Italia: un establishment che non ha esitato a criminalizzare la protesta contro la grande opera progettata in valle di Susa, senza mai degnarsi di fornire uno straccio di spiegazione credibile, capace di giustificare tanta tenacia nell’insistere su un maxi-progetto così controverso, ingombrante, costoso e doloroso, per il bilancio nazionale prima ancora che per il territorio. Passi l’insigne statista berlusconiana Mara Carfagna, passino la Meloni e l’ectoplama Maartina; passino i sindacalisti del 2018 di cui nessuno ricorda neppure i nomi; passino i ferrivecchi della Prima Repubblica come Chiamparino, miracolato dalla Seconda Repubblica come sindaco-fenomeno di Torino in mezzo allo sfacelo della partitocrazia di allora; ma il sovranista Salvini non doveva essere un politico di tutt’altra pasta, cioè schierato dalla parte del popolo? Nel suo piccolo, la valle di Susa è diventata un simbolo possibile per un’altra Italia, quella che – ad esempio – ha licenziato il fantasma di Monti e il suo ultimo erede, Matteo Renzi. Proconsoli deboli, agli ordini di poteri fortissimi (come quelli che hanno finora imposto, senza mai spiegazioni, l’afflizione antidemocratica dell’ecomostro Tav). L’Italia che ha tifato per il governo gialloverde ora assiste a uno spettacolo allarmante: davvero anche il nuovo esecutivo si piegherà, come i precedenti, al diktat dei padrini della grande opera, ancora una volta imposta senza motivazioni documentate?Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.
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I 5 Stelle: rassegnatevi, la Tav Torino-Lione non si farà più
«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».Anche dalla valle di Susa si è alzata la protesta che ha investito Toninelli, appena ha solo accennato alla volontà di «migliorare» la Tav invece di confermare la rinuncia al tunnel. «Luigi Di Maio non può permettersi di liquidare entrambe le promesse elettorali, figlie di campagne identitarie per i grillini», sostiene Lombardo. Il post in cui tre giorni fa Toninelli annunciava un veto su qualsiasi ulteriore firma «ai fini dell’avanzamento dell’opera» è stato un avvertimento e un primo segnale. Rivolto anche all’alleato di governo, la Lega, che invece è stata una grande sostenitrice della Tav. Conte, aggiunge “La Stampa”, sarebbe ormai pronto ad abbracciare il piano di Di Maio e Toninelli, che ha un obiettivo chiaro: «La chiusura della tratta piemontese dell’alta velocità, nascosto dietro a una dichiarazione di intenti più fumosa che parla di “ridiscutere integralmente l’infrastruttura”, esattamente quello che c’è scritto nel contratto di governo, e che per i grillini può essere interpretato anche in maniera radicale». Lo stesso Toninelli, sul “Blog delle Stelle”, non usa però mezzi termini, riguardo al progetto Torino-Lione: «E’ stato enorme lo sperpero di danaro pubblico per favorire i soliti potentati, certe cricche politico-economiche e persino la criminalità organizzata».Impietosa l’analisi del ministro: la parte internazionale della Torino-Lione in teoria dovrebbe costare 9,6 miliardi (il 40% a carico dell’Ue, il 35% a spese Italia e il 25% della Francia), ma già nel 2007 era emerso che il costo vero arriverebbe a 20 miliardi di euro, o addirittura 26 secondo la Corte dei Conti francese, sulla base delle stime del Tesoro di Parigi aggiornate al 2012. Costi folli, per un’opera giudicata inutile: è infatti ormai semi-deserta la linea Torino-Modane che già collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, nonostante il recente ammodernamento del Traforo del Fréjus, costato 400 milioni. Peggio: nel caso della Torino-Lione sarebbero davvero eccessivi gli oneri gravanti sull’Italia, nonostante il nostro paese sia interessato solo da 12,5 chilometri dell’ipotetico traforo internazionale da scavare per 57,5 chilometri sotto il Moncenisio. «Uno degli aspetti più scandalosi sta proprio lì», sottolinea Toninelli: «I nostri governanti del tempo, stiamo parlando dei primissimi anni Duemila, decisero di accollarsi la parte maggiore delle spese per convincere la Francia, che era giustamente riluttante rispetto alla costruzione dell’opera. Anche perché negli ultimi venti anni lo scambio di merci tra Italia e Francia ha avuto una discesa costante». Da neo-ministro, Toninelli accusa: «Mi son trovato a mettere le mani in un verminaio di sprechi, connivenze corruttive, appalti pilotati, varianti in corso d’opera che hanno fatto esplodere i costi negli anni. E’ difficile raddrizzare la barra, ma dobbiamo farlo. Lo dobbiamo ai nostri concittadini e soprattutto alle generazioni future».Scandalosa la gestione dell’alta velocità ferroviaria in Italia: ci costa in media 28 milioni di euro a chilometro contro i 12 milioni della Spagna, i 13 della Germania e i 15 della Francia. Cifra che sale a 33 milioni di euro a chilometro con le linee in via di costruzione. «E’ per questo che abbiamo avviato una seria revisione progettuale su queste infrastrutture», spiega Toninelli: «Non si può più fare a meno di una rigorosa analisi costi-benefici». Rifarsi al “contratto” di governo, scrive il ministro, pensando soprattutto a Salvini, significa «voler ridiscutere integralmente l’infrastruttura, senza preclusioni ideologiche ma senza subire il ricatto che ci piove in testa e che scaturisce dalle scandalose scelte precedenti». Di qui l’intimazione ai tecnocrati: «Nessuno deve azzardarsi a firmare nulla ai fini dell’avanzamento dell’opera, lo considereremmo come un atto ostile: le opere si fanno se servono ai cittadini, non a chi le costruisce». Il progetto Tav Torino-Lione (tuttora solo cartaceo) è nato da un accordo con la Francia ratificato dal Parlamento. Un’intesa che però, secondo Palazzo Chigi e il ministero dei trasporti, può essere stracciato attraverso una legge e un altro voto alle Camere, sempre che la maggioranza regga e la Lega non si sfili.A oltre 15 anni dal tentativo di avvio del primo cantiere a Venaus, letteralmente fermato dalla protesta popolare, i lavori – sul versante italiano – sono ancora limitati alla sola galleria esplorativa di Chiomonte. Secondo i ministri grillini, scrive la “Stampa”, si tratterebbe semplicemente di restituire i fondi all’Europa (800 milioni di euro) senza penali. «I contatti con i francesi sono continui, ma la parte grillina del governo è decisa ad andare avanti anche a costo di scontri diplomatici con Parigi, con conseguente richiesta di risarcimenti». Il “no” definitivo è previsto per il prossimo autunno, tra ottobre e novembre, quando si concluderà l’analisi costi-benefici, inclusi quelli ambientali. «Ma il destino dell’alta velocità piemontese si incrocia anche con la partita delle nomine in corso in queste ore», aggiunge Lombardo sul quotidiano torinese. «Telt, la società responsabile della realizzazione della Torino-Lione, è per il 50% in mano allo Stato francese e per il restante 50% controllata da Ferrovie, i cui vertici sono stati azzerati da Toninelli l’altro ieri». Tra i valsusini prevale la prudenza: riusciranno davvero, i 5 Stelle, a fermare l’inutile ecomostro che ha finora attratto potentissimi interessi economici, politici e finanziari, al punto da apparire impossibile da fermare?«Quando studio dossier come quello della Tav Torino-Lione, non posso che provare rabbia e disgusto per come sono stati sprecati i soldi dei cittadini italiani». Le parole di Danilo Toninelli, ministro delle infrastrutture, suonano come campane a morto per il progetto che ha fatto letteralmente impazzire la valle di Susa, scatenando una protesta che si è conquistata un posto importante nell’agenda politica italiana. Sulla scrivania di Giuseppe Conte, scrive la “Stampa”, ora c’è una relazione che il premier ha letto e riletto, «prima di caricarsi anche pubblicamente una decisione che ormai è presa: la Tav non si farà più». Secondo il quotidiano torinese sarebbe scelta quasi obbligata, per il Movimento 5 Stelle, votato in massa dai NoTav. «Erano l’avanguardia territoriale dei grillini contro le grandi opere», scrive Ilario Lombardo, e ora si sentirebbero traditi dalle voci di un possibile ripensamento sulla maxi-opera più controversa d’Europa. Secondo un sondaggio piovuto sul tavolo dei vertici dei 5 Stelle, aggiunge Lombardo sulla “Stampa”, impegni come l’Ilva, la Tav e il Tap potrebbero costare una buona fetta di consenso. «Così, l’alta velocità Torino-Lione verrebbe sacrificata anche per indorare l’ok al Tap, il gasdotto che dovrebbe adagiarsi sulle spiagge pugliesi che è già costato dolenti ferite alla ministra del Sud, la grillina Barbara Lezzi per le forti contestazioni subite».
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Le verità di Marchionne, il silenzio della politica neoliberista
Agganciando il mercato americano con lo sbarco negli Usa attraverso la Chrysler, ha evitato che il tramonto storico della Fiat si trasformasse in una catastrofe. Ha impedito quindi che l’Italia uscisse dal club dei produttori di auto, cioè da quella che nei decenni passati è stata anche un’aristocrazia operaia e sindacale, avanguardia di importanti diritti sociali. Il super-manager improvvisamente scomparso a 66 anni ha saputo guardare oltre l’orizzonte, lo piange Sergio Mattarella, trascurando lo scontro con la Fiom di Landini che a Marchionne contestò il drastico, brutale smantellamento dei diritti del lavoro, il prezzo (salatissimo) per rilanciare un marchio come l’Alfa Romeo da opporre al dominio tedesco, e per paracadutare la Jeep nel mercato cinese. Ma il problema di fondo – ripeteva Marchionne – è il declino della classe media: chi se la compra più, la Panda, se crolla il potere d’acquisto delle famiglie italiane? Interamente neoliberista il credo globale del salvatore provvisorio dell’ex Fiat: al mercato non si comanda, il lavoro sparisce e deve necessariamente emigrare là dove ci sono compratori. L’alternativa sarebbe una sola, la politica: e proprio la scomparsa della politica, fondata sull’investimento pubblico, ha scolpito la grandezza di Marchionne in un Occidente desolatamente solo e impoverito, esposto al ricatto finanziario dello spread – quello che decreta, anche, il tracollo delle vendite di auto in Europa e in Italia.
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Barnard: la Chiesa è marcia, con che faccia accusa Salvini?
La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.Nel 2014 il ministro delle finanze vaticane, cardinale George Pell, disse che «abbiamo scoperto centinaia di milioni di euro nascosti in conti dimenticati di cui non avevamo rendicontazione». E questi sono solo gli spiccioli di Papa Bergoglio. Secondo l’“International Business Times”, il Vaticano gestisce strumenti d’investimento per 6 miliardi di euro; ha 700 milioni investiti sulle Borse; tiene 20 milioni di dollari in oro alla Federal Reserve in Usa. Il gioielliere Bulgari a Londra paga l’affitto alla Chiesa di Roma in uno dei palazzi meglio prezzati del mondo a New Bond Street. L’investment bank Altium Capital idem, nella prestigiosa St James’s Square. Secondo il Consiglio d’Europa il merchant banker dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (Aps), Paolo Mennini, nel 2012 da solo gestiva 680 milioni di euro per i cardinali, i quali solamente dallo Ior ricevono dividendi per 60 milioni annui. I valori delle proprietà immobiliari usate per profitto commerciale e speculativo dalla Santa Sede sono impossibili da calcolare, ma ecco un’idea: il “Sole 24 Ore” ha stimato che la sola ‘agenzia immobiliare’ vaticana chiamata Apsa, diretta fino al 2016 dal cardinale Domenico Calcagno, gestisce 10 miliardi di euro in immobili commerciali (esclusi quindi chiese, canoniche, seminari, ecc.) che, si ribadisce, è solo una vaga idea del totale in mano alla Santa Sede nel mondo.Allora, è accettabile che le “belle anime” cattoliche italiane, di cui l’innominabile catto-sinistra è pregna, si permettano di tuonare dalle pagine ad esempio di “Famiglia Cristiana” contro Salvini perché «ha mosso critiche al mondo cattolico che accoglie i migranti»? Accoglie i migranti? Ah, davvero? E come li accoglie? Con quanti denari concretamente sborsati fra i sopraccitati miliardi che tengono in speculazioni finanziarie e di Borsa? Può la Santa Sede mostrarci le cifre? In quanti immobili milionari che posseggono li hanno accolti, quanti sono stati allestiti per loro? Può la Santa Sede, che millanta di “accogliere”, fornirci le mappe? Ma con che inguardabile faccia questi ipocriti intimidiscono con l’abietta superstizione del senso di colpa il Salvini e i suoi elettori? Allora, Papa Bergoglio, prima di condannare i peccatori, veda di mettere le gabbane dei suoi preti, i miliardi delle vostre speculazioni e le migliaia di proprietà dove stanno le vostre parole. E se proprio dovete sdoganare la politica leghista sulla tragedia dei migranti come politica criminale contro gli innocenti – c he non è, perché al peggio è gretta insensibilità dettata da meschina ignoranza personale o da vere difficoltà economiche – ecco chi davvero ha fatto in epoca contemporanea una politica criminale di massa contro gli innocenti, col crocifisso al collo.Da un mio articolo di 2 anni fa: “Nel 2012 persino Jp Morgan ha dovuto prendere le distanze dallo Ior per sospetti di riciclaggio in armi. “Vatileaks”, scatenato da Gianluigi Nuzzi, già 3 anni fa rivelava il marciume criminale delle finanza vaticana. Mentre l’adorato Papa Francesco scalava in diligente silenzio i ranghi della Chiesa in Argentina, la P2 con lo Ior e Calvi erano i maggiori canali di forniture di missili Exocet proprio alla Giunta di Buenos Aires (30.000 morti), oltre ad armare criminali di massa e torturatori in Guatemala, Perù, Ecuador e Nicaragua. E scrive Vittorio Cotesta nel libro “Global Society, Cosmopolitanism and Human Rights”: «Uno dei maggiori obiettivi di questo network (Ior ecc.)… è di sostenere i golpisti che gli Stati Uniti e il Vaticano usano per schiacciare la Teologia della Liberazione». Papa Francesco ne fu complice ideologico e, in due casi, anche fisico fino al 2013”. Sono l’ultimo a sostenere Matteo Salvini in Italia, ma odio gli ipocriti. Creano molta più sofferenza dei razzisti, perché sono loro che al temine di epoche di disgustoso finto buonismo (vero, Pd?) tradiscono i popoli sui diritti fondamentali e li spingono all’aspetto più deteriore del populismo, quello di rabbia cieca e poi infine anche disumana.(Paolo Barnard, “La Chiesa condanna Salvini, ma con che faccia?”, dal blog di Barnard del 20 luglio 2018).La Chiesa di Bergoglio si cucia la bocca prima di condannare Salvini, ipocriti. E’ facile sparare su Matteo Salvini il “razzista”, il “sorridente sui cadaveri color scuro”, perché Matteo Salvini è in effetti colpevole di ambiguità umanitaria. Primo, non ha mai preso chiare distanze dal razzismo becero e disumano a cui il suo trionfo ha dato la stura in Italia. Chi non vive sui social non immagina l’orda di bruti e soprattutto brute fasci-nazi-razzisti che dilaga là fuori al grido “Non toccate Salvini” e il porcile agghiacciante che arrivano a pronunciare su quella che è una tragedia storica. Secondo, il leader leghista si contenta di risbattere il problema là dove si è originato, e non ha neppure l’ombra di un disegno politico sistemico di cui l’Italia si faccia portavoce nel G7 per fermare gli immensi flussi (fra 12 anni 1,3 miliardi d’indiani avranno la metà dell’acqua per vivere, e dove vanno?). Questo è meno che umano nel momento in cui Salvini non dice che i migranti, soprattutto quelli economici, hanno crediti di trilioni di dollari e di centinaia di milioni di vittime verso le nostre società, perché sulle loro risorse è stato creato tutto ciò che abbiamo, e ancora accade. Sarebbe gradito che un Paolo Becchi suggerisse a Matteo Salvini di rimediare con urgenza a entrambi i punti, mentre giustamente ferma gli arrivi caotici in Italia. Ma che a crocifiggere il leghista sia la Chiesa è molto oltre l’inaccettabile.
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Asse Trump-Putin: che paura, un mondo senza più nemici
Il mondo ha sempre bisogno di un nemico. È questo il duro insegnamento della nostra storia. Ed è su questa base che si fonda gran parte della politica estera delle potenze, che senza un avversario esistenziale rischiano di veder fallire un’intera strategia costruita per decenni. Per molti, questa situazione è un pericolo. Ma per molti altri, specialmente nei grandi apparati militari, avere un nemico, soprattutto se tradizionalmente tale, è una garanzia. Serve per mettere a frutto la propria politica di alleanze. Perché avere un nemico comune aiuta più che avere interessi in comune. Serve a trovare fondi utili ai segmenti politici e della difesa più interessati a un determinato fronte. Ma serve anche come assicurazione che tutto resti immutato. Ogni Stato ha un suo nemico. E per molti decenni le potenze hanno costruito un sistema internazionale basato su solide alleanze, ma anche su storiche inimicizie. Conflitti freddi o meno freddi all’apparenza interminabili. Nemici esistenziali che hanno reso impossibile sganciare la politica estera di uno Stato dal suo avversario, che ne è diventata la nemesi.Le grandi crisi internazionali della nostra epoca si fondano su rivalità strategiche risalenti negli anni e che hanno superato cambi di governi ma anche grandi mutamenti politici. E se la volontà politica c’era, è mancata la volontà di molti apparati che ruotano intorno a quelle scelte. Perché avere un nemico aiuta anche a legittimare se stessi. Prova ne è il vertice fra Donald Trump e Vladimir Putin che ha visto molti, soprattutto in America, tremare di fronte alla possibilità che i due leader si incontrassero. Perché il vertice di Helsinki pone tutti di fronte a un interrogativo. Ed è un interrogativo che preoccupa: se tutto questo finisse? Se Washington e Mosca appianassero le divergenze, cosa avremmo di fronte a noi? Una frase di Putin, durante la conferenza stampa finale, è emblematica: «Dobbiamo lasciare alle spalle il clima da guerra fredda e le vestigia del passato». Un passato che però rappresenta il motivo per cui esistono tutti i grandi apparati militari creati nel Novecento così come le loro strategie. Trump, più di Putin, sta rappresentando per certi versi la fine di un’epoca. È un presidente diverso che, con metodi bruschi, sta realizzando una politica estera diversa dal solito.Non è un rivoluzionario, ma il frutto di una particolare teoria politica americana, che già da anni teorizza un’America diversa, meno invasiva, meno attenta all’Europa, desiderosa anche di rapportarsi in maniera positiva alla Russia. Ed è per certi versi la stessa teoria che ha portato Trump a incontrare Kim Jong-un a Singapore: trovare una via per fermare conflitti che trovano radici solo nel passato. Questo non significa che Trump sia un pacifista. Il presidente degli Stati Uniti sta però cambiando i suoi nemici. La Russia non interessa perché ora il problema è la Cina, con uno sguardo sempre molto attento sull’obiettivo Iran. E questo, per molti, implica non solo la fine di un’epoca, ma anche la fine di un mondo. Se Trump e Putin appianano le divergenze sul fronte orientale, che senso ha per Trump mantenere in vita, ad esempio, la Nato, quando il suo solo scopo cessa di esistere?E se per Trump l’Unione europea è un problema, come giustificare o anche sostenere la presenza di truppe al confine con la Russia quando i suoi nemici sono dentro la stessa Europa? E si torna di nuovo a parlare di nemici. Questo chiaramente implica dei cambiamenti radicali. Che molti non sono disposti ad accettare. Per ideologie, per convinzione, per semplice pragmatismo ma anche per puro calcolo personale, esistono strategia quasi intoccabili. Al Pentagono, a Mosca, ma anche nelle varie sedi in cui si decidono le strategie militari a medio e lungo termine di un paese. Cosa si fa senza un nemico? Sembra paradossale, ma molte strutture si reggono sull’esistenza di un avversario. E Trump rischia di modificare parametri che da decenni sostengono la politica strategica americana.(Lorenzo Vita, “Il mondo ha bisogno di nemici, ecco perché Trump e Putin fanno paura”, dal blog “Gli occhi della guerra” su “Il Giornale” del 16 luglio 2018).Il mondo ha sempre bisogno di un nemico. È questo il duro insegnamento della nostra storia. Ed è su questa base che si fonda gran parte della politica estera delle potenze, che senza un avversario esistenziale rischiano di veder fallire un’intera strategia costruita per decenni. Per molti, questa situazione è un pericolo. Ma per molti altri, specialmente nei grandi apparati militari, avere un nemico, soprattutto se tradizionalmente tale, è una garanzia. Serve per mettere a frutto la propria politica di alleanze. Perché avere un nemico comune aiuta più che avere interessi in comune. Serve a trovare fondi utili ai segmenti politici e della difesa più interessati a un determinato fronte. Ma serve anche come assicurazione che tutto resti immutato. Ogni Stato ha un suo nemico. E per molti decenni le potenze hanno costruito un sistema internazionale basato su solide alleanze, ma anche su storiche inimicizie. Conflitti freddi o meno freddi all’apparenza interminabili. Nemici esistenziali che hanno reso impossibile sganciare la politica estera di uno Stato dal suo avversario, che ne è diventata la nemesi.
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Galloni: più deficit ‘guarisce’ il debito, spiegatelo a Cottarelli
Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.Quindi, se io aumento la spesa pubblica del 2%, avrò un aumento del Pil e, a parità di pressione fiscale, del gettito, del 3% (secondo le stime pessimistiche del Fmi, del 4 o 5% secondo le altre): “quindi”, la inutile e dannosa spending review ha impedito non solo al Pil, ma anche alle entrate, di aumentare. Ecco perché il rapporto peggiora a prescindere dal livello assoluto del debito che, in condizioni di spesa pubblica espansiva, diminuisce in percentuale del Pil. Allo stesso modo, le relazioni tecniche sul “decreto dignità” (che, spero sia solo un inizio di quanto serve al paese da tempo, vale a dire la riqualificazione dell’occupazione) riescono a discernere tra gli effetti espansivi – sulla domanda di lavoro, l’andamento dell’economia internazionale, su un orizzonte temporale di dieci anni: bravi! Risultato eccezionale! Veramente! Come? Non sappiamo che fine faremo tra un anno, quando si sentiranno gli effetti del termine del Quantitative Easing, cosa succederà tra Trump e la Cina, la Merkel che strizza l’occhietto a Putin (e vorrebbe affossare l’euro senza prendersene la responsabilità) e gli esperti sanno discernere di una misura che induce un ostacolo al proseguimento dei contratti a termine oltre i due anni?Finora, le imprese italiane, prevalentemente, avevano usato contratti a termine di pochi mesi ed un elevato turn over dei collaboratori: poco pagati, poco affezionati, poco motivati e si lamentavano se la professionalizzazione non era abbastanza elevata. Così, si domanda un cameriere qualificato dal venerdì sera alla domenica mattina per pagarlo 100 euro a we: non si trovano camerieri? E’ logico. Invece, proviamo a pagarli di più e a cercarli più professionalizzati e stai sicuro che ti faranno guadagnare di più. Pagali poco, trattali male, sostituiscili continuamente, lamentati che i “nostri” rifiutano i lavori e vedrai che guadagnerai di meno. Queste sono le due sfide che abbiamo di fronte: aumentare la spesa pubblica (anche con moneta parallela non a debito, mini bonds e certificati di credito fiscale) per ridurre il rapporto debito/Pil; migliorare la qualità della domanda e dell’offerta di lavoro per far crescere occupazione, paghe e profitti.(Nino Galloni, “Dai grafici di Cottarelli ai tecnici di Di Maio”, dal blog “Scenari Economici” del 15 luglio 2018. Tra i più autorevoli economisti italiani, il professor Galloni – docente universitario e già allievo di Federico Caffè – è vicepresidente del Movimento Roosevelt nonché fautore di una rinascita dell’economia italiana su base keynesiana, fondata cioè sul recupero di sovranità finanziaria da parte di uno Stato che torni finalmente a investire sulla piena occupazione, mettendo fine alla piaga sociale dell’austerity provocata a colpi di crisi dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice).Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.
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Magaldi: ma non ha vinto Macron, e il mondo sta rinascendo
Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio di Mosca, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».“The times they are a-changing”, sostiene Magaldi nella sua narrazione a puntate, ogni lunedì ai microfoni di “Colors Radio”. Trump e Putin? Appunto: come ampiamente previsto dal presidente del Movimento Roosevelt, l’istrionico Maverick della Casa Bianca sta facendo piazza pulita degli antichi pregiudizi su cui si è fondato il “partito della guerra”, più mercenario che patriottico. Lo Zar del Cremlino? «Non privo di una sua grandezza», riconobbe Magaldi, quando Putin rifiutò di espellere diplomatici americani dopo la cacciata dei funzionari dell’ambasciata russa disposta da Obama. Tutto sta davvero cambiando, giorno per giorno: e infatti ad essere “en marche”, oggi, non è la Francia imbrigliata da Macron, ma l’Italia di Conte: «Il nostro paese – dice Magaldi – potrà tornare a rivestire il suo storico ruolo di “ponte”, con la Russia ma anche con l’Africa e il Medio Oriente: è tempo infatti che vengano archiviate le storiche clausole segrete, connesse a Yalta e ad altri trattati del dopoguerra, che limitavano la nostra libertà d’azione – trattati comunque aggirati, a suo tempo, dalla politica mediterranea dei Mattei e dei Moro».Lo ricorda Giovanni Fasanella in “Colonia Italia”: le superpotenze ci “affidarono” al controllo britannico, a limitare la nostra sovranità. Ora basta, però: «E’ è venuto il tempo di dare all’Italia piena indipendenza e autonomia politica, consentendole di recitare un ruolo di “cerniera di pace” e prima promotrice di un Piano Marshall per l’Africa», dice Magaldi, che – insieme a Patrizia Scanu, neo-segretaria del Movimento Roosevelt – ne riparlerà in autunno a Milano, in un evento dedicato anche all’eredità politica del leader sovranista africano Thomas Sankara. Grande la confusione, intanto, sotto le stelle: restano le sanzioni contro Mosca innescate dalla crisi ucraina, mentre l’Europa «non si capisce cosa voglia e non esiste come soggetto geopolitico». Iperboli: «Trump accusato in casa di “intelligenza col nemico russo” poi rimprovera la Merkel di eccessiva familiarità e connivenza con alcuni interessi russi». E non mancano intrecci personali: «Il “fratello” Putin e la “sorella” Merkel – ricorda Magaldi – furono iniziati già molti anni fa nella stessa Ur-Lodge», la Golden Eurasia. Massoni, appunto: il problema, insiste Magaldi, non è il grembiulino che indossano, ma l’orientamento politico che promuovono.L’ipocrita massonofobia di Di Maio, estesa alla Lega nel “contratto” di governo? I vertici “gialloverdi”, dice Magaldi, temono che i loro elettori (non informati sulla storia patria) scambino la massoneria per un’associazione a delinquere. Magaldi punta il dito contro Elio Lannutti, esponente 5 Stelle, «in passato protagonista di battaglie meritorie». Ora vorrebbe una legge che vietasse ai massoni l’accesso alle cariche statali, sbarrando loro le porte di polizia e magistratura: «Siamo alla follia liberticida, queste cose le hanno fatte i regimi comunisti e fascisti», protesta Magaldi. E attenzione: il tema massoneria (compresa l’avversione ai “grembiulini”) va maneggiato con cura: «Nel 1800 negli Usa sorse un Anti-Masonic Party fondato però da massoni: spesso le campagne antimassoniche, nella storia, sono state progettate da massoni di altro segno, per colpire circuiti massonici opposti ai loro». Non è il caso dell’Italia, dove secondo Magaldi si sconta una semplice ignoranza della materia: si confonde la libera muratoria democratica degli eredi di Garibaldi, Mazzini e Cavour con la P2 di Gelli, braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, di natura pericolosamente oligarchica e spesso eversiva. In massoneria, ricorda Magaldi, non possono entrare pregiudicati né possono restarvi soggetti che non rispettino la Costituzione e le leggi. «Aiuteremo gli amici “gialloverdi” a chiarirsi le idee, ma se il pregiudizio antimassonico perdurerà – avverte il gran maestro – faremo i nomi dei massoni progressisti, leghisti e penstastellati, che siedono nel governo Conte e nelle altre istituzioni».Comunque, a parte gli ultimi «untori del culturame antimassonico», nella narrazione magaldiana – massonico-progressista, avversa al lungo dominio della supermassoneria neo-aristocratica – all’indomani dei Mondiali di calcio (e del vertice di Helsinki) c’è posto solo per un cauto ma tenace ottimismo nella riscossa democratica di un mondo globalizzato in modo autoritario. Lo si può vedere, sostiene il presidente del Movimento Roosevelt, a partire dalla cruciale trincea italiana. Al netto delle pretattiche, dice Magaldi, vedrete che arriveranno cambiamenti sostanziali: «E’ vero, in molti sono allarmati perché il ministro Tria insiste troppo sul contenimento del debito pubblico, sul rigore dei conti e sulla rassicurazione dei mercati. Ma si tratta di non fare il gioco degli strumentalizzatori, che a suo tempo hanno infierito su Savona per cercare di impedire la nascita del governo “gialloverde”. Quando però arriveranno misure importanti – pronostica Magaldi – allora sarà chiaro quale paradigma economico si adotterà, rispetto all’Europa e alle voci di spesa. Il povero Tria? E’ stato chiamato per un ruolo in copione che è quello del rassicuratore, ma poi le decisioni non saranno nel senso della continuità. Tant’è che proprio alcune esternazioni di Savona fanno capire qual è la vera sceneggiatura», con un’Italia non più prona ai diktat di Bruxelles.Idem sul capitolo vaccini: non brilla per chiarezza, Giulia Grillo, che infatti non ha sconfessato la legge Lorenzin. «E’ però un passo avanti notevolissimo l’aver eliminato l’odiosa costrizione in stile Gestapo che privava i bambini non vaccinati del diritto all’istruzione». Insomma, si respira un’altra aria, pur in un terreno minato da troppi dogmi – che non la scienza non dovrebbero aver nulla a che fare. Può anche funzionare il concetto dell’immunità di gregge (più vaccinati, meno possibilità di contrarre malattie) ma occorrerebbe un’indagine scientifica molto seria su quanti e quali vaccini vadano somministrati, e se l’eccesso di vaccini non produca effetti controproducenti, come nel caso dei vaccini militari cui il Movimento Roosevelt ha dedicato un convegno a Torino con il vicepresidente della commissione difesa. Non possono mancare libertà e confronto critico, aggiunge Magaldi: «Bisogna denunciare ad alta voce, anzitutto sul piano metodologico, che in Italia – durante il clima plumbeo del governo Gentiloni – chiunque della comunuità scientifica osasse discutere l’idea che andassero propinati 12 vaccini veniva escluso, ghettizzato, calunniato e demonizzato (e parlo di medici anche di grande spessore). Chi osava contrapporsi a quel clima veniva emarginato, se non sanzionato. Sono cose da paese del quarto mondo».Libertà scientifica: chi sostiene la bontà dell’attuale sistema vaccinale, insiste Magaldi, abbia il coraggio e l’onestà di confrontarsi con chi è scettico. «E c’è un problema di mancata sperimentazione: di troppi vaccini non si conoscono gli effetti. Sono tanti gli interrogativi, e solo nell’orizzonte del dubbio (in cui dovrebbe essere connaturata la scienza) il problema si può risolvere». Invece, scontiamo «l’indottrinamento disdicevole da parte di divulgatori come Piero Angela, secondo cui la scienza non è democratica e ha sempre ragione». Per Magaldi, sono «vistosi casi di insipienza storica e ignoranza profonda sulla genesi del metodo scientifico, fondato proprio sul dubbio: la scienza moderna, da cui nasce la nostra tecnologia, è fondata sulla messa in discussione del principio di autorità – che appartiene invece al mondo pre-moderno». Una cosa è vera solo perché lo dicono i detentori di quel sapere? Concezione antica: «Nella comunità scientifica moderna ci devono essere posizioni dissonanti: nessuna ipotesi può essere vera a prescindere». Il nostro paese, aggiunge Magaldi, «è ostaggio anche di cattivi divulgatori di un’idea della scienza che è inconsistente e contraria ai principi della contemporaneità». Ma attenzione: neppure questo “muro” dogmatico resisterà per sempre. Verrà il giorno in cui avremo finalmente «un confronto pacato», che riconosca il ruolo storico di alcuni vaccini per la nostra salute ma, al tempo stesso, valuti – seriamente – l’opportunità e la sicurezza di altri vaccini, nient’affatto scontate.«L’affermazione della democrazia – ricorda Magaldi – è coeva dell’affermazione della scienza moderna: è essenziale la libertà nel valutare le opzioni terapeutiche». Vale per tutto: se si applica il “filtro” della democrazia anche al contesto scientifico, finiscono per crollare miti e verità di fede. Lo stesso principio funziona ovunque si guardi, persino nella polveriera del Medio Oriente: «Credo che verrà il tempo per una pacifica soluzione del conflitto israelo-palestinese», auspica Magaldi, osservando la scena con lucidità: «In fondo l’estremismo di Hamas e quello di Netanyahu si sostengono a vicenda, sono due facce della stessa medaglia: si reggono sull’ostilità reciproca e quindi hanno bisogno l’uno dell’altro. Non a caso ad essere assassinato fu Yitzhak Rabin, il massone progressista che voleva davvero la pace e quindi uno Stato palestinese». Se la ride, Magaldi, pendando agli amici che il 15 luglio davanti al televisore hanno trepidato per la Croazia per avversione nei confronti di Macron. Il capo dell’Eliseo? «Si è reso odioso: è un cicisbeo politico, continuatore delle politiche di Hollande e rappresentante di questo establishment puzzolente dell’attuale Disunione Europea. Con rara ipocrisia e faccia di bronzo ha detto parole inammissibili nei confronti del governo italiano e dell’Italia, nel corso di questa crisi sui migranti». Ma Macron non è la Francia, così come Bush non era l’America: «Guardiamo con amore a questi paesi – chiosa Magaldi – perché tantissimi francesi (come tantissimi statunitensi) insieme a noi cittadini del mondo – italiani, europei, cinesi, giapponesi – dovranno costruire un pianeta più equo, che abbia come faro la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: diritti non solo civili ma, finalmente, anche economici e sociali».Neppure la vittoria ai mondiali di calcio salverà il povero Macron? «Non scherziamo: nella finale di Mosca non ha vinto Macron, ma la Francia del 14 luglio: per questo ho festeggiato, cantando la Marsigliese». Gioele Magaldi, ovvero: l’ottimismo della volontà, persino in salsa calcistica. “The times they are a-changing”, cantava Bob Dylan. Era il 1964 e alla Casa Bianca sedeva Lyndon Johnson, fautore della Great Society di ispirazione kennediana, aperta alle minoranze e improntata all’estensione dei diritti. Poi è scesa la grande notte del neoliberismo, che ha deturpato il “nuovo mondo” che sarebbe potuto fiorire dopo il crollo dell’Urss, fino a proporre gli orrori di Bush e la nuova guerra fredda di Obama contro Putin. Ma ora le cose – di nuovo – stanno per cambiare, a quanto pare, su tutti i fronti: basta vedere il feeling che avvicina, a Helsinki, il presidente russo (fresco di Mondiali) e il collega americano Trump, reduce dalla storica pace con la Corea del Nord. Gran maestro del Grande Oriente Democratico nonché presidente del Movimento Roosevelt e autore del bestseller “Massoni” che mette in piazza le malefatte dell’oligarchia supermassonica reazionaria, il progressista Magaldi esulta per il trionfo dei “bleus” allo stadio moscovita, nonostante gli italiani tifassero Croazia. E spiega: «A Parigi come a Washington c’è un humus, un’ideologia che ha dato al mondo democrazia, diritti e libertà, incluso il diritto alla felicità. Sono valori che trasformeranno il pianeta, rendendolo migliore e più giusto».
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Veneziani: addio sinistra, lobby di potere senza più popolo
Lo psicodramma collettivo sulla fine della sinistra continua imperterrito da settimane, mesi o meglio ancora anni, ma c’è qualcosa di esagerato – scrive Marcello Veneziani – nel piangere e denunciare il collasso del Pd: non successe la stessa cosa quando sparì il partito-paese, la Dc, dopo mezzo secolo ininterrotto di potere. Ma la tragedia della sinistra, scrive Veneziani sul “Tempo”, tocca direttamente le fabbriche dell’opinione pubblica, gli influencer – dalla Rai all’Istat, dai giornali agli intellettuali – perché alla fine i due mondi coincidono. A volte sembra di vedere due tragedie umanitarie trasmesse in contemporanea: i barconi dei migranti che arrivano, e i politici morenti – sindaci, ministri – che sloggiano. E sorgono problemi di approdo per i migranti «in quanto non ci sono più i demosinistri e i cattoumanitari al potere». In tanti, aggiunge Veneziani, «hanno dato consigli alla sinistra per riprendersi il potere smettendo di essere sinistra». Un consiglio «doppiamente assurdo, perché sottintende una considerazione inaccettabile: che la sinistra può rinunciare alle sue idee ma non al potere a cui per diritto divino è destinata». Meglio rassegnarsi a constatarne il decesso, o comunque «il male incurabile, il declino irreversibile».«Se evaporò in poco tempo la Dc, riducendosi a pochi reduci – aggiunge Veneziani – non vedo perché non possa sparire la sinistra e se ne debba fare una malattia. Tanto più che il declino è mondiale, come ben si vede, e a furor di popolo». Lo stesso Veneziani trova «grottesca» quella che definisce «la sfilata dei maestrini che hanno rimproverato alla sinistra di essersi allontanata dalla realtà, dal popolo, dai suoi disagi e dal suo sentire». E lo dicono mentre, dappertutto, proprio loro, cioè «i maestrini, i loro giornaloni, le loro Tv, continuano a somministrare al paese la stessa pappa che ha portato al disastro la sinistra: pro-migranti, prima loro poi gli italiani, pro-Rom e pro-gay come se fossero temi di priorità epocale, antifascisti e antirazzisti». Protesta Veneziani: «Ma non avete capito che la sinistra è crollata proprio perché si è identificata col messaggio ossessivo che i suoi mass media, i suoi agenti, funzionari, ideologi propinano ogni giorno, disertando la realtà e i suoi disagi?».A questo punto, continua Veneziani, è inutile arrovellarsi su chi sarà il miracoloso resuscitatore della sinistra: sfilano in tanti, da Zingaretti a Calenda, «che è entrato tre mesi fa nel Pd e ora vuole già seppellirlo per collocarlo all’incrocio pigliatutto», senza contare «il coro delle prefiche piangenti della sinistra perduta o della cattosinistra, appena usciti disfatti dalle esperienze di governo». Chiosa Veneziani: «Sullo sfondo dal sarcofago di D’Alema si sentono risate sataniche». Scherzi a parte, sostiene il politologo, la sinistra che verrà non sarà più radical chic o proveniente dalla Ditta, come Bersani chiamava la filiera dell’ex Pci. «Il prossimo leader della sinistra, come il suo popolo del resto, sarà un Papa straniero», scrive Veneziani, tra il serio e il faceto. «Sarà negro. Sarà venuto dai barconi o avrà trovato nei barconi il suo elettorato maggiore e la sua base militante. Sarà pop, e non snob. Che saranno poi i milioni di migranti che la sinistra, il Papa, i mattarelli umanitari, avranno agevolato a far entrare nel paese e in Europa. Riprenderà, come è giusto, la bandiera del proletariato e farà la concorrenza ai grillini pauperisti».Ragiona Veneziani: «Non ha senso, per la marea di migranti, avere tutori che parlano in loro nome pur vivendo da agiatissimi borghesi, lontani dai sobborghi e dagli spazi pubblici affollati dai migranti. Lo faranno direttamente loro». Seriamente: «Finché dominerà il populismo, la sinistra continuerà ad essere quella che è stata, un centro di potere mediatico, culturale, bioetico, giudiziario; una fabbrica di influenze, codici e sentenze, una lobby trasversale che raggruppa al suo interno tante altre lobby che fanno setta, business o potere sui temi sensibili». Sempre secondo Veneziani, la cosiddetta sinistra smetterà pure di essere un partito, «perché è un’oligarchia capace di orientare le opinioni ma non di prevalere nel voto». E aggiunge: Fino a che ci saranno democrazia, sovranità e libertà, «la sinistra sarà minoritaria, perché avvertita non dalla parte del suo popolo ma fuori, sopra e contro di esso». Renzi? Gli è stata attribuita «una disfatta molto più grande e molto più radicale di lui». Come già Veltroni, ora si darà alla Tv, dimostrandosi essenzialmente un animatore, più che un politico. «Sono piccoli esempi vistosi di un processo più grande: la sinistra proletaria e sudata la faranno i neri, magari islamici; la sinistra da passeggio e da salotto sarà nei poteri che non passano dal consenso popolare».Lo psicodramma collettivo sulla fine della sinistra continua imperterrito da settimane, mesi o meglio ancora anni, ma c’è qualcosa di esagerato – scrive Marcello Veneziani – nel piangere e denunciare il collasso del Pd: non successe la stessa cosa quando sparì il partito-paese, la Dc, dopo mezzo secolo ininterrotto di potere. Ma la tragedia della sinistra, scrive Veneziani sul “Tempo”, tocca direttamente le fabbriche dell’opinione pubblica, gli influencer – dalla Rai all’Istat, dai giornali agli intellettuali – perché alla fine i due mondi coincidono. A volte sembra di vedere due tragedie umanitarie trasmesse in contemporanea: i barconi dei migranti che arrivano, e i politici morenti – sindaci, ministri – che sloggiano. E sorgono problemi di approdo per i migranti «in quanto non ci sono più i demosinistri e i cattoumanitari al potere». In tanti, aggiunge Veneziani, «hanno dato consigli alla sinistra per riprendersi il potere smettendo di essere sinistra». Un consiglio «doppiamente assurdo, perché sottintende una considerazione inaccettabile: che la sinistra può rinunciare alle sue idee ma non al potere a cui per diritto divino è destinata». Meglio rassegnarsi a constatarne il decesso, o comunque «il male incurabile, il declino irreversibile».
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Il Pd è finito perché ha scelto la finanza archiviando Keynes
L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.Tra i tanti peccati che ha da scontare, scrive Da Rold, l’ex sinistra italiana «deve fare i conti con l’accettazione quasi acritica del “pensiero unico” neoliberista, scambiato per modernità». Nei dettagli, deve scontare il via libera alla nuova funzione della banca dopo l’abbandono del Glass-Steagall Act voluto da Roosevelt per separare nettamente il credito produttivo dalla finanza speculativa. L’ex sinistra, aggiunge l’analista, «non può dimenticarsi della concezione di un capitalismo basato su un’impresa responsabile, che cura innovazione, investimenti e occupazione». Tantomeno la sinistra poi dimenticarsi «del welfare, dei diritti dei lavoratori conquistati in anni di lotte sindacali», all’epoca in cui si puntava alla piena occupazione. «Il capitalismo che ha conosciuto e con cui si è confrontata la sinistra europea, dopo l’ultimo conflitto mondiale, era il capitalismo già corretto da Keynes, dal welfare di Lord Beveridge, dalla lezione della grande crisi del 1929 risolta da Roosevelt», scrive Da Rold. «E’ vero che la sinistra italiana, unica in Occidente, straparlava di Lenin più ancora che di Marx e conosceva poco Keynes. Ma nella sostanza, il boom e il benessere vennero proprio dalle dottrine e dalle pratiche keynesiane».Quello che è avvenuto negli ultimi anni era impensabile solo trent’anni fa, aggiunge Da Rold sul “Sussidiario”. «Mentre la sinistra socialdemocratica europea si ingolfava in sperimentazioni di sempre maggiore apertura neoliberista, la sinistra italiana abbandonava addirittura di colpo il marxismo post-classico per abbracciare il neoliberismo in versione monetarista. Un delirio». E non capiva, il centrosinistra, che «anche se Keynes avrebbe potuto essere superato e aggiornato, era lui il vero bersaglio della nuova destra rampante, non Lenin o Marx». Parole al vento: il risultato sono state «privatizzazioni forzate e, in molti casi, demenziali». Tutto questo, senza contare «le tappe forzate della globalizzazione, la crisi del 2007, l’assetto istituzionale italiano che non è mai stato aggiornato, con le procure interventiste nel campo politico che si muovono come feudi indipendenti e spesso in aperta opposizione all’esecutivo». Che cosa ha fatto, di fronte a tutto questo, la sedicente sinistra? «E’ stata a guardare, passivamente, godendo di una rendita di egemonia spesso usurpata».Poi, nel momento in cui questa egemonia si è frantumata, «la sinistra non si è neppure scomposta a ricercare le cause di una crisi storica, a rivedere e correggere alcune concezioni, a cercare di comprendere le nuove ragioni di un potenziale e molto ampio popolo di sinistra, che si è moltiplicato per l’aumento delle povertà, delle diseguaglianze sociali e della disoccupazione». La sedicente sinistra italiana «si è fermata a crogiolarsi nella subordinazione al potere dettata dalla grande finanza internazionale e da alcuni poteri istituzionali del paese», accusa Da Rold. Lo spettacolo dell’ultima assemblea Pd? Penoso. «E’ proprio impossibile che si possa avviare, anche con ritardo, una autocritica collettiva, non distruttiva, affrontando i nuovi problemi sociali, nazionali e internazionali? Si è ancora in grado di fare un congresso a tesi, come si è sempre fatto?». Se non si ripensa al passato, non si guarda al presente e non si pensa il futuro – conclude Da Rold – si è destinati a restare al palo. «E’ questa l’impressione che oggi comunica il Partito Democratico. E sembra che resti poco tempo per rimediare».L’ultima assemblea nazionale del Pd consegna alla storia della sinistra italiana una fotografia drammatica e al tempo stesso quasi patetica, dopo il ko del 4 marzo e poi quello delle amministrative. Quello che addirittura lascia esterrefatti, scrive Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, è che il partito è privo di qualsiasi strategia: ci si trova di fronte all’ennesimo ed effimero rinvio del nulla, del vuoto pneumatico. C’è il fantasma di Renzi, il Re degli Sconfitti, che arriva a contestare tutti, da Gentiloni a Martina, preoccupato solo di galleggiare ancora tra le macerie di un partito dal quale non si salva nessuno. Da Rold segnala la retromarcia di Bersani, che definisce «uomo di sinistra, magari anche di modeste ma oneste visioni politiche», che ha invitato i dirigenti Pd a fare un passo indietro per tornare ad ascoltare la società italiana. E poi c’è il lamento del leghista Giancarlo Giorgetti, navigato sottosegretario alla presidenza del Consiglio: è preoccupato, Giorgetti, che il governo gialloverde non abbia una vera opposizione, cosa che rende ancora più desolante la già fragile democrazia italiana. Velo pietoso sugli scenari da “fronte antipopulista” evocando Macron, cioè il politico francese che odia l’Italia. La realtà della sinistra italiana sarebbe lampante, dice Da Rold, se solo il Pd si decidesse a vederla: il centrosinistra è tale solo di nome, perché di fatto ha svolto una politica neoliberista, tipica della destra antisociale.
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Magaldi: i falsi amici dei migranti che hanno piegato l’Italia
Se ci sarà la possibilità che possa finire, un giorno, la tragedia dell’immigrazione nel Mediterraneo, lo si dovrà a Matteo Salvini – non certo ai finti progressisti che oggi lo contestano in modo violento e squadristico, pretendendo che ad accogliere i migranti sia la sola Italia, cioè il paese che il sedicente centrosinistra ha ridotto in bolletta, piegandosi ai signori europei del rigore e dello spread. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e battistrada del cantiere politico per il “partito che serve all’Italia” (tavola rotonda a Roma il 14 luglio), difende a spada tratta il neo-ministro dell’interno. Tutte le polemiche pretestuose contro Salvini, premette Magaldi a “Colors Radio”, finiscono per portare acqua al suo mulino. «Se si è intellettualmente onesti, non si possono attribuire a Salvini aggettivi come xenofobo, razzista o fascistoide. Cos’ha fatto, Salvini? Quale sarebbe la sua grave colpa? Ha semplicemente costretto l’Europa a farsi carico, finalmente, di un problema che è europeo, prima che italiano». Tra parentesi: cos’hanno fatto, i governi precedenti, per il benessere dei derelitti, dei torturati e degli oppressi del continente africano? Assolutamente nulla: «Non c’è stata nessuna preoccupazione per la condizione di vita di queste persone, nemmeno quando dimoravano nel loro paese prima di essere costrette a fuggire». Diritti umani, questi sconosciuti: i finti progressisti vorrebbero che se ne facesse carico il solo Salvini, dopo che loro hanno ignorato per decenni il dramma dell’Africa?
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Da Usa e Italia un’altra Europa, malgrado Macron (e il Papa)
La stampa mainstream fatica ad ammettere quello che invece Francia e Germania hanno già capito: cominciando dal problema migranti, oggi l’Europa è costretta ad ascoltare l’Italia, il cui governo è chiaramente sorretto, a distanza, dall’amministrazione Trump. Lo sostiene un analista come Giulio Sapelli, storico ed economista, osservando il mini-accordo raggiunto in sede europea a fine giugno. «Gli Stati nazionali continuano a essere rilevanti appena si esce dal recinto della circolazione della moneta per entrare in quello della circolazione delle persone, contraddicendo la filosofia stessa dei sostenitori di una eurofilia che si sta sciogliendo come neve al sole appena incontra il paradigma della diversità», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. Ma il grande protagonista dell’ultimo vertice, aggiunge, è stata poprio l’Italia, rappresentata da Giuseppe Conte: ha dimostrato che ciò che si è raggiunto a Bruxelles, sul controllo dei flussi migratori, lo si sarebbe potuto raggiungere anche prima, «se buona parte della nostra classe politica italiana non parlasse in italiano pensando contemporaneamente in francese o in tedesco». Sapelli accusa i grandi media di essere «controllati dalla borghesia “compradora”, dipendente dalle istituzioni europee e dai due Stati che lottano per controllarle».Giornali e televisioni diranno che l’Italia “esce sconfitta”, perché i cosiddetti centri di accoglienza sono sottoposti alla volontarietà degli Stati componenti l’Unione? «Ma questo non è un fallimento del governo Conte, semmai è la dimostrazione che questo governo ha cominciato a porre un problema politico che non è risolvibile oggi, perché l’unico punto archetipale su cui si fonda il costrutto dell’Ue è economicistico, fondato non su un potere stabile, ma fortemente instabile a seconda che prevalgano interessi francesi o interessi tedeschi». Ma ci sono anche (e soprattutto, ormai) gli interessi degli Usa, preoccupati «per la crescita della potenza tedesca e per il neogaullismo francese». Senza scordare poi i britannici, «attraverso il ruolo che l’Olanda e le città anseatiche della Germania esercitano sulle istituzioni europee». Ciò che conta, insiste Sapelli, è che si è iniziata una discussione sul Trattato di Dublino: «E il fatto che non si sia trovato un accordo sulla sua riforma non deve nascondere che se ne discute, e che il problema è reale ed è cruciale». Non si riesce subito a riformarlo, quel trattato? Un problema che «disvela a tutti quanto sia inesistente la cosiddetta cultura europea e quanto sia inesistente la immaginifica “condivisione di sovranità”, che non esiste per nulla».In questo senso però, si intravede una direzione di marcia nel punto 3 del comunicato finale del vertice: “Tutte le navi operanti nel Mediterraneo – si afferma – devono rispettare le leggi applicabili e non interferire con le operazioni della guardia costiera libica”, aspetto che per Sapelli è un punto essenziale, «che consente di porre sotto controllo le rotti migratorie marittime e inaugura una discussione politica sui porti di attracco e sull’accoglienza, e non solo sui salvataggi in mare». Quindi, sottolinea l’analista, «bisogna valutare il fatto che finalmente l’Italia ha fatto sentire la sua voce». Si tratta ora con determinazione, passo dopo passo, per «conquistare quella condivisione di destino che risiede non solo sui respingimenti ma anche sulla condivisione delle quote di migranti che l’Europa non può ostinarsi a non condividere». In altre parole: «Chi arriva in Italia arriva in Europa, e su questo – per la prima volta, dopo le crisi migratorie – l’Italia ha segnato un punto». Certo, aggiunge Sapelli, «è sconcertante che la retorica europeista non riesca a rassegnarsi a un’operazione di verità e a comprendere che il gioco di specchi ideologico e non solo di potenza in cui è immersa, sta esso stesso — e non le forze euroscettiche — indebolendo il ruolo dell’Europa nel mondo».Il ministro statunitense della difesa, James Mattis, ha appena incontrato Xi Jinping, mentre Putin e lo stesso Trump hanno rivelato che si incontreranno a Helsinki, prossimamente. «E Trump ha annunciato che quando si recherà in Europa per il summit prossimo della Nato si fermerà a Roma per colloqui con il governo italiano». Gli Usa, insomma, secondo Sapelli «stanno uscendo dall’unipolarismo delle tre precedenti presidenze – Clinton, Bush secondo e Obama – e si sforzano di dar vita a un nuovo sistema internazionale, fatto di pesi e contrappesi e della riaffermazione della necessità che questo nuovo sistema internazionale abbia di nuovo per protagonisti gli storici Stati dominanti la storia del vecchio continente, Germania e Francia, e in misura subalterna, ma geostrategicamente decisiva per la sua collocazione mediterranea, l’Italia». Sempre secondo Sapelli, «non è un caso che, come una bomba nella notte in cui si discutevano i passi più delicati del comunicato, con un professor Conte che rispondeva educatamente a un Macron arrogante, in quella notte sia giunta la notizia che la Deutsche Bank non aveva superato la seconda serie di stress test della Federal Reserve nordamericana».In politica estera «bisogna muoversi con un alto rispetto istituzionale, ed è quello che è mancato al presidente Macron poche ora prima che iniziassero i colloqui di Bruxelles». Macron infatti si è recato in visita dal Papa e, «come i re francesi della Francia cattolicissima, è stato insignito di quella onorificenza sacrale di Protocanonico d’onore della Basilica di San Giovanni in Laterano, così come fece Enrico IV, primo protocanonico d’onore». Aggiunge Sapelli: «Dispiace che quest’onorificenza sia stata consegnata al presidente della Repubblica francese senza che questi si sia recato a rendere omaggio al nostro presidente della Repubblica, che oltre a essere il più alto rappresentante delle istituzioni italiane è anche un cattolico praticante. Di questo sfregio istituzionale – chiosa Sapelli – i mass media della borghesia “compradora” non hanno fatto alcun cenno. Anche per questo l’azione del governo Conte merita il plauso di tutti gli uomini di buona volontà».La stampa mainstream fatica ad ammettere quello che invece Francia e Germania hanno già capito: cominciando dal problema migranti, oggi l’Europa è costretta ad ascoltare l’Italia, il cui governo è chiaramente sorretto, a distanza, dall’amministrazione Trump. Lo sostiene un analista come Giulio Sapelli, storico ed economista, osservando il mini-accordo raggiunto in sede europea a fine giugno. «Gli Stati nazionali continuano a essere rilevanti appena si esce dal recinto della circolazione della moneta per entrare in quello della circolazione delle persone, contraddicendo la filosofia stessa dei sostenitori di una eurofilia che si sta sciogliendo come neve al sole appena incontra il paradigma della diversità», scrive Sapelli sul “Sussidiario”. Ma il grande protagonista dell’ultimo vertice, aggiunge, è stata poprio l’Italia, rappresentata da Giuseppe Conte: ha dimostrato che ciò che si è raggiunto a Bruxelles, sul controllo dei flussi migratori, lo si sarebbe potuto raggiungere anche prima, «se buona parte della nostra classe politica italiana non parlasse in italiano pensando contemporaneamente in francese o in tedesco». Sapelli accusa i grandi media di essere «controllati dalla borghesia “compradora”, dipendente dalle istituzioni europee e dai due Stati che lottano per controllarle».
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Dugin: Italia, l’inizio della rivoluzione che cambierà il mondo
Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini. Quelle fanno i colpi di Stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz. Destra o sinistra, non conta più. È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze. Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace. In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro. È il punto simbolico più grande. I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile: l’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.E allora il popolo ha una reazione: sarà pure viscerale, sarà organica, ma va al punto perché ha una sua origine politica, ideologica, metafisica. Resiste, anzi combatte questa ideologia. E allora succede che il semplice migrante, la semplice nave che li trasporta – elementi che di per sé non avrebbero alcun interesse sociale – diventano in questo campo di battaglia qualcosa di più grande: il segno della grande scelta di radicalità di questa civiltà. I liberali insistono in questa ideologia di forte ostilità al popolo. Per loro il popolo è una cosa negativa, perché è rischioso e incontrollabile e, se male indirizzato, potrebbe portare all’instaurarsi della dittatura o al governo di un leader forte. Allora la lotta che oggi viene fatta dalle élite contro Salvini, Di Maio e Orban altro non è che la lotta contro l’idea che l’identità sia una cosa positiva. Per i liberali difendere il valore dell’identità di un cittadino o difendere l’identità nazionale costituisce il peggior male possibile, una cosa da distruggere. Ma distruggere l’identità significa distruggere il popolo: e da qui nasce il populismo, che altro non è che l’accusa fatta al popolo di essere popolo.Noi stiamo vedendo, di fronte a questa repressione, la reazione dei sovranisti: ebbene, questo è l’inizio della grande rivoluzione anti-liberale. Non è una correzione del liberalismo, no: è l’inizio della grande lotta sistematica dei popoli contro le élite liberali, contro le ideologie portate avanti dai Clinton, da Obama, da Soros, contro la promozione della globalizzazione sociale e politica. Non – e sia chiaro – non contro il controllo dell’immigrazione. E’ il popolo o è l’élite a governare? Si può dire che ci siano, in realtà, due governi: quello del popolo, rappresentato legittimamente in Italia, in Ungheria e in Austria, e quello europeo, che decide ogni volta in senso opposto. Questo è interessante. È l’inizio della lotta politica della nuova generazione, anzi della politica stessa della nuova generazione che – secondo me – dovrà portare alla creazione del populismo integrale. Un populismo che non sia né di destra né di sinistra, ma rappresentativo del popolo.Oggi in Italia assistiamo a una novità politica importante, un primo passo, cioè un’alleanza tra destra e sinistra. Già questo è notevole: cosa sarebbe successo se Marine Le Pen si fosse alleata con Jean-Luc Mélénchon? Il caos. O Donald Trump con Bernie Sanders? Sarebbe scoppiato tutto il sistema. O se Syriza si fosse unita ad Alba Dorata? Avrebbero cacciato la Grecia da tutto, sia dall’euro che dall’Unione Europea. E invece, ecco: in Italia è successo. Per la prima volta si supera la divisione destra-sinistra. Ha vinto Salvini, che con le sue felpe e le sue magliette ha contribuito a far smetter di demonizzare il populismo, e anche Di Maio. Insieme a loro ha vinto anche il popolo, in questa nuova lotta contro le élite per ritrovare la propria identità. Ma dove si trova l’identità di un popolo? Nella sua cultura. È una questione aperta. Per me il Rinascimento italiano è la forma culturale assoluta. Ha avuto effetti grandissimi su tutti gli altri popoli, anche su noi russi. Io adoro il Rinascimento e credo che l’identità italiana (poi magari mi sbaglio) sia nella sua radice un’identità rinascimentale, non medievale. Credo anche che il Risorgimento sia la continuazione del Rinascimento in un altro ciclo storico.(Alexander Dugin, dichiarazioni rilasciate a Dario Ronzoni per l’intervista “L’Italia è l’inizio della grande rivoluzione populista che cambierà il mondo”, pubblicata da “Linkiesta” il 23 giugno 2018. Filosofo, Dugin è presentato come “controverso ma notevole personaggio dell’estrema destra russa”).Oggi la democrazia liberale si definisce come il potere delle minoranze non elette sulla maggioranza dei cittadini. Quelle fanno i colpi di Stato contro la Costituzione, le maggioranze reagiscono allora votando i Salvini, i Di Maio, le Marine Le Pen, o i Kurz. Destra o sinistra, non conta più. È una rivolta di popolo contro le élite, cioè contro le minoranze che vogliono difendere apertamente gli interessi delle minoranze. Se questa è la nuova forma della democrazia, ecco, al popolo non piace. In tutto questo però ci sono anche i migranti, spesso al centro di questo scontro. È il punto simbolico più grande. I migranti sono il caso in cui una questione tecnica e marginale, cioè la gestione dell’immigrazione, rivela un contrasto ideologico insanabile: l’ideologia liberale dominante si fonda sull’assimilazione dell’uomo con il cittadino. È, in altre parole, l’effetto dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Secondo questa visione, ogni essere umano gode di particolari diritti universali. Questa posizione ideologica ha come conseguenza che gli Stati siano obbligati a trattare tutti, anche gli stranieri e gli immigrati, come se fossero loro cittadini. Ma questa è solo l’applicazione pratica di un’ideologia più ampia, che invece vuole distruggere e assimilare le tradizioni, le culture e le storie dei popoli.