Archivio del Tag ‘ideologia’
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Noi, disprezzati dall’élite ladra: ecco il ponte che è crollato
Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.Il patto sociale reggeva su un residuo interesse reciproco a tenerlo in piedi, sovraccarico di critiche ma senza romperlo. Già con la Seconda Repubblica la società si era rivoltata contro la politica, ed era nato il berlusconismo; ora si rivolta e inveisce anche contro l’economia, contro tutti i potentati, contro l’intera classe dirigente. Così il ponte è saltato. Cosa frenava la rottura del patto sociale? Un residuo interesse comune, nazionale, generale, reciproco, tra governati e governanti; la sensazione di essere comunque sulla stessa barca, e persino il sottinteso che se la classe dirigente s’arricchiva, sia pure in modi illeciti, i benefici poi si estendevano a cascata un po’ su tutti i cittadini. Poi il flusso clientelare si è interrotto, il Welfare è finito, non solo a causa dell’Europa e della crisi economica. Ma insieme al venir meno di tutto questo, negli ultimi anni, è avvenuto qualcosa di traumatico di cui non si è ancora capita la portata micidiale: il sentire comune, il noi quotidiano, l’alfabeto elementare su cui reggeva la nostra società è stato sconvolto, mortificato, perfino criminalizzato.Nel giro di poco tempo abbiamo appreso che tutto quello in cui credevamo, le parole che usavamo, le cose a cui tenevamo erano infami, segni di arretratezza e di razzismo, di sessismo e di familismo, di xenofobia e di fascismo, perfino. Ogni volta che si poneva l’Italia davanti all’Europa si doveva essere dalla parte dell’Europa e non dell’Italia, altrimenti si era retrivi, isolazionisti e sciovinisti. Ogni volta che si opponeva l’assetto contabile della Finanza alla vita reale dei popoli si doveva dar la precedenza al primo. Ogni volta che sorgevano contrasti tra gli italiani e i migranti clandestini o i rom si doveva parteggiare per i migranti clandestini o per i rom. Ogni volta che si opponevano delinquenti che ti entrano in casa a derubati bisognava preoccuparsi di garantire i ladri, non i derubati. Ogni volta che si ponevano le famiglie naturali e tradizionali, composte da padri, madri e figli, rispetto alle unioni omosessuali, ai transgender, agli uteri in affitto, si doveva parteggiare per questi, e far sparire anche nel lessico i riferimenti “trogloditi” alla famiglia e alla nascita. Ogni volta che si esponevano i simboli religiosi che ci accompagnano da sempre – il crocifisso, il rosario, il presepe, i canti di Natale e i riti di Pasqua – bisognava provare ribrezzo o almeno imbarazzo nel nome dell’ateismo come esperanto universale o delle religioni altrui.Provate a stressare in questo modo e su ogni piano un popolo e insieme a fargli avvertire tutto il disprezzo verso una plebe bollata come razzista, sessista e dentro di sé fascista, fino a produrre una forma di razzismo rovesciato, di apartheid che separa la minoranza dirigente dalla “trascurabile maggioranza degli italiani” e vedete se alla fine non si spezza il ponte. Quando poi a tutto questo aggiungi i privilegi e le scorrerie del capitalismo nostrano che viaggia sotto scorta politico-mediatica della sinistra e si mangia o svende quel che faticosamente ha messo insieme lo Stato italiano, allora la rabbia schiuma e si fa scomposta. Quando senti, per esempio che il presidente dell’Iri sotto cui avvenne, col governo di centro-sinistra guidato da Prodi, la cessione delle autostrade ad Altantia (cioè al gruppo Benetton & C.), diventa poi presidente della stessa società Atlantia (sto parlando di Gros-Pietro, attualmente presidente d’Intesa-San Paolo) beh, allora capisci che il patto sociale è saltato non solo perché si è imbarbarita la società e l’antipolitica che l’esprime, ma anche e soprattutto, perché un ceto dominante, tra potentati e partiti, ha abusato del potere, della società e della gente e l’ha pure disprezzata.I grillini, i populisti, non sono il rimedio al crollo del patto sociale ma non sono nemmeno la causa, piuttosto sono il sintomo e l’effetto. La causa principale è in quei potentati, nelle oligarchie di sinistra, nei poteri giudiziari, nei giornali e tv di servizio. Rispetto a questo blocco, il centrodestra berlusconiano (e finiano) è stato inefficace, consenziente e da ultimo anche connivente. Con quella classe dominante, la società è cresciuta per conto suo, si è inselvatichita, si è imbastardita. Ora tutto questo non ci porta a soffiare sul fuoco della guerra civile e incivile e ad armare il risentimento, né ci porta a elogiare l’ignoranza e l’arroganza delle masse come rimedio all’abuso di potere. Ma ci porta a sognare disperatamente che passata la furia e il dolore del momento, il trauma del crollo, venga fuori un maturo senso dello Stato con un’adeguata classe dirigente e si ricomponga un decente patto sociale. Altrimenti non solo il ponte crollerà, ma anche la terra che sta sotto.(Marcello Veneziani, “Si è rotto il patto sociale”, dal “Tempo” del 19 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Fissavo l’immagine terribile del ponte spezzato sui palazzi evacuati del Polcevera e pensavo all’indecente scannatoio divampato tra i palazzi della politica, i social e i media. Ripensavo a quel ponte durante i funerali di Stato – funerali anch’essi dimezzati come il ponte, perché molti famigliari hanno rifiutato le pubbliche esequie. I simboli sono segni del destino e ci dicono la verità più dei ragionamenti. Un ponte si è spezzato nella nostra società e ormai è irrimediabile e vistosa la frattura. Cosa è successo? Si è rotto il patto sociale su cui reggeva l’Italia. Si è rotto il patto tra governati e governanti, tra cittadini e istituzioni, tra forze politiche, sociali ed economiche in campo, tra Stato e popolo italiano, tra ideologia dominante e comune sentire. Ognuno va per conto suo e si sente in diritto di dire e fare quel che vuole, perché ormai non deve dar conto a nessuno. Il patto sociale era l’accordo sotterraneo che ancora sorreggeva, fino a qualche tempo fa, la nostra democrazia. Fortemente logorato da svariate crisi, passaggi traumatici di governi e di repubblica, reggeva ancora a malapena, evitando che il dissenso, le divergenze, i linguaggi ostili, le posizioni arrivassero alle loro estreme conseguenze e schizzassero come i tiranti del ponte Morandi.
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Bordin: gli oligarchi neoliberisti temono l’Italia, e fan bene
Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.Leggendo la faccenda da parte di chi (noi) euroscettico lo è davvero, e non per convenienza momentanea, la nascita del governo di Conte segnala che la rete liberale euro-atlantica ha perso il controllo politico dell’Italia. Usando una terminologia finanziaria, direi che questo è un “trend” serio, e segue la scofitta dei liberal dell’Europa orientale e isolana: svolta in Austria, la Brexit e, prima fra tutte, la politica illuminante degli islandesi. Poco prima della grande svolta, quella italiana, abbiamo l’occupazione di un certo Donald Trump della Casa Bianca. La “destra” tradizionale non ha nulla a che fare con questo nuovo fenomeno: un movimento in crescita che rifiuta ciò che l’Europa (e il mondo occidentale in generale) è diventato nei decenni successivi alla fine della Guerra Fredda, così come le sue basi ideologiche. Contrariamente a ciò che molti scrivono per dare alla faccenda un tono nostalgico o neopauperistico, l’ondata euroscettica e antiliberista non combatte il pluralismo, il multiculturalismo, ecc, ma l’immigrazione di massa, la globalizzazione economica incontrollata, la repressione delle identità locali e nazionali, l’individualismo estremo, lo sradicamento culturale, l’islamizzazione e la cosiddetta “ideologia di genere”.Quel movimento (noi), variamente chiamato “nazionalista”, “populista”, “rossobruno”, “anti-establishment”, “sovranista”, in realtà contiene una sorprendente varietà di posizioni che spaziano dal comunismo ad Adam Smith e sta indubbiamente cavalcando un’onda storica simile a quella che portò alla fine del blocco sovietico. Se la devono mettere in saccoccia: il panorama della politica occidentale sta cambiando ed anzi ha già causato cambiamenti irreversibili. Occorre però tenere gli occhi bene aperti – spalancati! – perchè non mancano moltissimi agganci tra l’ascesa di questo movimento e liberali “sotto copertura”, nel senso che sembrano keynesiani, ma che in realtà sono liberali disposti a concedere qualche briciola mantenendo però saldamente in mano il potere. Di certo, i conservatori liberali classici, ma sedicenti progressisti, non hanno capito nulla della vicenda dei migranti; e questa incapacità di pensare alla politica è la migliore garanzia della loro scomparsa e dell’aumento dei loro avversari. Finora, questo pare essere il trend.L’Italia era tra i paesi con il più alto sostegno all’integrazione europea. Un decennio fa, i partiti anti-establishment ed euro-critici potevano mirare, tutti insieme, al 10% -15% dei voti. Come è diventato un posto dove possono raggiungere bene oltre il 60%? Dal mio punto di vista ciò è spiegato da una combinazione di fattori sistemici, politiche terribili e terribile comunicazione da parte dell’Ue come istituzione, dalle maggiori figure politiche europee e dai loro rappresentanti italiani. Fondamentalmente, la situazione attuale è stata generata dalla questione delle riforme economiche e dall’immigrazione. Sul primo fronte, è noto che l’Italia sia stata attaccata appositamente (spread), ma ha evitato un collasso finanziario nel 2011-2012, perché la Bce è intervenuta con una massiccia liquidità e, in seguito, acquisti di bond per stabilizzare le sue finanze. Questo tuttavia era basato su un accordo politico tra Roma da una parte e Bruxelles, Francoforte e Berlino dall’altra: l’Italia fu salvata ma dovette promettere una lunga lista di riforme economiche e sociali. L’idea dell’Ue germanica era piuttosto chiara: l’Italia è attualmente un sistema economico insostenibile (balle); mentre la Bce acquista un po’ di tempo, le riforme vengono attuate, riportando il paese su una traiettoria di sostenibilità.Peccato che la serie di riforme draconiane richieste dall’Ue era fondamentalmente impossibile da attuare nel contesto italiano. Ci sono formidabili limiti legali e persino costituzionali a ciò che il governo può fare per affrontare diritti, pensioni, sussidi, contratti stabiliti e così via. L’Italia, piaccia o non piaccia, ha una Costituzione keynesiana. Il tradimento di questa impostazione democratica ha provocato una dolorosa compressione della domanda interna. Tutto il resto, sono balle talmente giganti da non stare nelle mutande. Sul fronte dell’immigrazione, sia il governo di Letta che quello di Renzi hanno creato una situazione di assoluto caos: qualcosa che è stato riconosciuto persino, a suo merito, dal ministro degli interni Marco Minniti (sotto Gentiloni), che ha ammesso gli effetti disastrosi di tali politiche. Il comportamento dell’Ue su questa questione è stato completamente contraddittorio. Da un lato Bruxelles ha insistito su un piano per la redistribuzione dei migranti che nessuno vuole. Il piano appare al meglio assurdo, con possibilità minime di essere mai adottato; dall’altra, tutti i paesi confinanti con l’Italia hanno rafforzato i loro controlli sugli stranieri.Vale la pena ricordare che la crisi migratoria nel Mediterraneo deve essere ricondotta direttamente all’assurda campagna militare del 2012, avviata da Francia e Gran Bretagna, che non solo ha distrutto alcuni degli interessi di sicurezza più vitali dell’Italia (un alleato dell’Ue e della Nato), ma dell’Europa in generale, compresi in definitiva quelli di Francia e Gran Bretagna, accelerando la destabilizzazione della politica europea. Ancora una volta, la posizione della leadership dell’Ue e della sua filiale italiana sembra essere che questa situazione caotica nel Mediterraneo durerà potenzialmente per molti anni e persino decenni, e che gli italiani (come il resto degli europei) dovrebbero semplicemente sopportare… Nessuno sembrava rendersi conto che questo non era possibile – tranne noi. Quello che però gli elettori e i sostenitori dell’attuale governo non hanno ancora capito, e che li rende in parte diversi da noi, è che molti di “noi” non confidano in un grande successo di questo governo. In caso di fallimento, infatti, l’elettorato non si sposterà affatto nella direzione pregressa dei liberal euro-moderati, ma si radicalizzerà sempre di più su posizioni euroscettiche.(Massimo Bordin, “Perché i neoliberisti odiano l’Italia – e fanno benissimo”, dal blog “Micidial” del 13 agosto 2018).Siamo stati noi. Inutile girarci attorno, la crisi del liberismo è partita dall’Italia ed è destinata a durare ancora a lungo. Secondo autorevoli analisti la crisi del liberismo – non del capitalismo, attenzione: del liberismo, che non è la stessa cosa – è partita nel 2008 con la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers. E invece è partita con noi euroscettici targati 2011 e, sissignori, dalla piccola addomesticata Italietta. Alla crisi tecnica in atto, “noi” abbiamo infatti aggiunto l’informazione, ed è per questo che ci odiano. Andatevi a vedere i tweet dei liberisti italiani, in stile Scacciavillani e Boldrin, per farvene un’idea. Sembrano impazziti! Mia nonna in cortile aveva delle galline che facevano meno casino quando giungeva il momento di tirar loro il collo. Molti “di noi” li insultano e rispondono punto su punto alle critiche e alle provocazioni. E invece hanno ragione: la causa del crollo della loro religione ideologica siamo noi. E abbiamo appena cominciato. L’Italia è il primo paese del vecchio continente e il primo membro fondatore dell’Unione Europea a essere governato da una leadership euroscettica. Per essere giusti, tuttavia, “leadership critica verso la Ue” sarebbe una definizione più appropriata, visto che non la smettono di rimarcare ogni santissimo giorno che non vogliono uscire dall’euro e bla bla bla.
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Silenzio stampa sulla droga: la strage non è più di moda
Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.Sono migliaia gli episodi di violenza, di minacce, di ricatti per procacciarsi la “signorina” che scorrono come un fiume quotidiano di sangue e di pazzia, e non ci facciamo più caso. Non c’è giorno che io non senta, magari col passaparola, episodi legati alla droga: infanticidi per alterazione mentale, uccisioni brutali di nonni, genitori, zii che non volevano più finanziare il vizio dei loro nipoti scellerati, aggressioni a donne, ex-conviventi, in stati di allucinazione dovuti alla droga, risse mortali davanti e dentro discoteche tra ragazzi in preda a deliri di droga, e potrei continuare… Certe zone, certi luoghi e certe ore sono off limits in tutte le città italiane perché è in corso la sagra dello spaccio, con relativa brutta umanità al seguito e sciame sismico di violenze e abusi. Si sente ogni tanto, a mezza bocca, notizia di partite di droga sequestrate; ma sono solo una piccola parte e solo il segnale di quale movimento, quale giro colossale vi sia dietro. Di tutto questo arriva poco o nulla alla Fabbrica delle Notizie e ai falsificatori di cui sopra, impegnati a denunciare un solo Male sotto mille vesti, il Razzismo.Perché passa sotto silenzio la droga, o si parla solo di qualche episodio ma senza la grancassa mediatica e intellettuale che ne indaga il fenomeno? Perché nella droga il razzismo o il nazionalismo non c’entra ma emerge piuttosto il suo rovescio, confluiscono due piaghe sconvenienti che si devono tacere: da una parte la manovalanza massiccia di migranti, soprattutto neri, nello spacciare e procurare la droga, dall’altro un modello di società libertaria, radical, trasgressiva, anti-proibizionista, che deriva dai piani alti della nostra società, dal nichilismo diffuso e dal cinismo degli imprenditori di morte. Diciamo che sulla droga s’incontra la libertà psichedelica del “tutto è permesso” di matrice sessantottina dove i diritti sconfinano nei desideri e l’accoglienza illimitata di migranti che, per fame ed estraneità al territorio, sono facilmente reclutabili nel racket. I due fattori, shakerati dall’ideologia radical, disegnano la nuova società verso cui andiamo incontro e che ha perso il senso del limite, personale e territoriale, morale e civile.Masse di espiantati, disperati, privi di tutto a disposizione dei racket e dall’altro masse di consumatori, disperati anch’essi, ma benestanti o comunque in grado di mungere soldi, privi di ogni riferimento. La tratta dei pomodori, lo schiavismo nelle campagne, assume – e giustamente – grande rilievo nei media; la tratta della droga, la vendita di morte, invece va in sordina. I caporali nelle campagne sono una brutta bestia ma impallidiscono in confronto ai caporali della droga e ai loro legami con la criminalità organizzata. Sentite mai parlare di campagne contro la droga, di emergenza droga, di educazione civica contro la droga? Macché, solo razzismo, nazismo, sessismo. L’omertà sulla droga e i mali derivati è una forma di complicità mediatica e politica assai grave. È anche un occultamento di cadavere: muore il senso del limite e della realtà e qui si festeggia il mondo global, senza frontiere tra i popoli, tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito. Un’informazione drogata.(Marcello Veneziani, “Silenzio stampa sulla droga”, dal “Tempo” del 14 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.
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La Stampa: lampi sul ponte prima del crollo, video oscurato
Attentato, sì – ma “alla sicurezza dei trasporti”. Niente terrorismo, dunque, ma “solo” negligenza, per quanto criminale. E’ una delle ipotesi di reato che, secondo “Rai News”, la procura di Genova sarebbe pronta a contestare per il drammatico crollo del viadotto Morandi il 14 agosto. Attentato alla sicurezza dei trasporti, oltre a omicidio colposo plurimo e disastro colposo, per una strage costata 41 morti, 8 feriti e (per ora) una decina di dispersi, insieme a oltre 600 sfollati. «Non è stata una fatalità, ma un errore umano», sottolinea il procuratore genovese Francesco Cozzi, che coordina le indagini con i pm Walter Cotugno e Massimo Terrile. Milioni di italiani hanno visionato, sul web, le drammatiche immagini del crollo, riprese in diretta con lo smartphone da Davide Di Giorgio: mostrano due bagliori che illuminano il ponte un istante prima del rombo che annuncia il collasso della mastodontica infrastruttura autostradale. “La Stampa” pubblica addirittura un video poi rimosso da Autostrade: quei lampi si vedono benissimo. Tanto basta per dare fiato anche agli immancabili sospetti: e se la catastrofe di Genova fosse stata causata da un oscuro attentato terroristico di tipo stragista, come quelli che hanno insanguinato il resto d’Europa a partire dalla mattanza di Charlie Hebdo?Non sono in pochi, nei mesi scorsi, ad aver parlato di massima allerta: come se ci fosse il fondato timore di un “Big One”, un maxi-attentato per colpire finalmente anche l’Italia, finora rimasta al riparo dalle stragi dolose grazie a quello che viene considerato il miglior dispositivo antiterrorismo del mondo. «Al posto di Salvini mi guarderei bene dal sostituire gli attuali vertici dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza che hanno finora sventato decine di attentati, nel nostro paese», ha dichiarato tempo fa l’avvocato Gianfranco Pecoraro, meglio noto con lo pseudonimo di Carpeoro, con il quale ha firmato romanzi e saggi come “Dalla massoneria al terrorismo”. Nel libro, l’autore svela gli inquietanti retroscena degli attentati compiuti in Francia e in Belgio: manovalanza islamista, ma simbologia tipicamente massonica e di ispirazione templare. Più volte, specie dopo l’orrenda strage di Nizza del 14 luglio 2016, lo stesso Carpeoro ha ammonito: c’è il rischio che le stesse “menti raffinatissime” possano colpire anche l’Italia, paese a cui sembra alludere scelta di organizzare proprio a Nizza il massacro compiuto nel giorno dell’anniversario della Presa della Bastiglia, data-simbolo per la massoneria progressista impegnata a contrastare la supermassoneria reazionaria responsabile dell’austerity europea.C’entra qualcosa, tutto questo, anche con la sciagura di Genova? Lo stesso Carpeoro ne parlerà domenica 19 agosto in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” insieme a un altro analista non-allineato come Massimo Mazzucco, autore di documentari che hanno fatto epoca, nei quali si dimostra completamene infondata la verità ufficiale sul maxi-attentato dell’11 Settembre negli Usa. A gettare acqua sul fuoco dei possibili complottismi, per ora, provvedono siti come “Next”, secondo cui i due bagliori ben visibili nel filmato circolato sul web «in tutta evidenza sono lampi, visto che prima del crollo su Genova si era scatenato un nubifragio di grandi dimensioni (c’era l’allerta arancione della protezione civile)». Il primo ad adombrare l’ipotetica presenza di circostanze anomale è stato Valerio Staffelli, uno dei mattatori di “Striscia la notizia”, autore del seguente tweet: «Scusate, ho visto immagini crollo ponte a Genova, per caso avete notato due bagliori prima del crollo? Ero lontano dal monitor ma sembravano una coppia di bagliori». Fa effetto, ovviamente, a neanche due settimane dal disastro sull’A14 a Bologna.Alcuni degli automobilisti che appena dopo il crollo erano corsi al riparo nella vicina galleria, aggiunge “Next”, hanno raccontato di aver visto cedere uno degli “stralli”, i tiranti che reggevano il viadotto. Altri testimoni che si trovavano in auto nelle vicinanze hanno invece visto «un fulmine colpire il ponte». L’ipotesi che il viadotto Morandi sia crollato a causa di un fulmine «non è stata confermata né accertata», spiega Angelo Borrelli, dirigente della protezione civile. “Next” aggiunge che l’ingegner Antonio Brencich, professore associato di costruzioni in cemento armato all’università di Genova, esclude la possibilità che un fulmine abbia causato il crollo del ponte. Per contro, è il quotidiano “La Stampa” a scrivere che un altro video, quello delle telecamere di sicurezza dell’autostrada A10, è stato stranamente rimosso appena dopo il disastro. Il giornale lo ripropone. Ore 11, 36 minuti e 28 secondi: quei lampi, sotto la pioggia battente, sono evidentissimi, proprio al momento del crollo. Inutile affrettare conclusioni, ovviamente, così come sarebbe demenziale scartare pregiudizialmente le ipotesi più scomode.Basti ricordare che la verità su Charlie Hebdo non si saprà mai, avendo la Francia seppellito l’inchiesta col segreto di Stato (segreto militare) dopo che la magistratura di Parigi aveva scoperto un’imbarazzante triangolazione: i Kalashnikov impiegati dal commando dell’Isis erano stati acquistati da un armaiolo belga grazie ai buoni uffici di un funzionario dei servizi segreti francesi, risultato in contatto con la fidanzata di uno degli attentatori. «A volte il complottismo raggiunge l’idiozia pura», avverte Carpeoro: «C’è chi è arrivato a dire che nel teatro Bataclan non sia morto nessuno: e questo genere di “sport” è utilissimo per screditare chiunque si impegni a cercare una verità diversa da quella ufficiale». E’ noto che il terrorismo è un abominevole strumento politico: in Francia, ad esempio, è servito a intimidire Hollande spianando la strada a Macron, già banchiere Rothschild e pupillo dell’oligarchia supermassonica più pericolosamente reazionaria. E’ lo stesso Macron che oggi ha dichiarato guerra all’Italia, definendo “vomitevole” la politica di Salvini e del governo gialloverde, sostenuto da oltre il 60% degli italiani ma fermamente osteggiato dall’élite europeista artefice del rigore (e, secondo Carpeoro, anche della strategia della tensione a colpi di attentati stragistici “false flag”, comodamente targati Isis).Attentato, sì – ma “alla sicurezza dei trasporti”. Niente terrorismo, dunque, ma “solo” negligenza, per quanto criminale. E’ una delle ipotesi di reato che, secondo “Rai News”, la procura di Genova sarebbe pronta a contestare per il drammatico crollo del viadotto Morandi il 14 agosto. Attentato alla sicurezza dei trasporti, oltre a omicidio colposo plurimo e disastro colposo, per una strage costata 41 morti, 8 feriti e (per ora) una decina di dispersi, insieme a oltre 600 sfollati. «Non è stata una fatalità, ma un errore umano», sottolinea il procuratore genovese Francesco Cozzi, che coordina le indagini con i pm Walter Cotugno e Massimo Terrile. E quegli strani lampi? Milioni di italiani hanno visionato, sul web, le drammatiche immagini del crollo, riprese in diretta con lo smartphone da Davide Di Giorgio: mostrano due bagliori che illuminano il ponte un istante prima del rombo che annuncia il collasso della mastodontica infrastruttura autostradale. “La Stampa” pubblica addirittura un video poi rimosso da Autostrade: quei lampi si vedono benissimo. Tanto basta per dare fiato anche agli immancabili sospetti: e se la catastrofe di Genova fosse stata causata da un oscuro attentato terroristico di tipo stragista, come quelli che hanno insanguinato il resto d’Europa a partire dalla mattanza di Charlie Hebdo?
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Benetton, pedaggio italiano al feroce buonismo globalista
I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.Dietro la facciata “progressista” di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali come le comunità Mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un “regalo” del pubblico al privato, come succede solo in Italia.Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica ammministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo Stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città.Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de “La Repubblica-L’Espesso-La Stampa”, dove si sono incrociati – ma guarda un po’ – i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie “progressiste” appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo.Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei trasporti che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata.A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere “aere perennius”, ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione.In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una “favoletta” il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa…(Marcello Veneziani, “Benetton Maletton”, dal “Tempo” del 17 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell’ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell’americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video “contro tutti i razzismi risorgenti”. Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto.
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E con Genova franano 40 anni di saccheggio neoliberista
Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.Per non parlare di come l’esecutivo si confronti con l’assenza di settori economici previsti dalla lungimiranza di coloro che, come dicevano, furono ridotti al silenzio, affinché i tecnocrati potessero procedere con il saccheggio del capitale nazionale. Casi emblematici delle due categorie? Maltenute sono le infrastrutture di gestione delle acque e disattesi i piani di sviluppo concepiti con le più ampie vedute urbanistiche. Assenti i sistemi di trasporto avveniristici rimasti tra le pagine di fantascienza o al più delle riviste di divulgazione scientifica: il treno a levitazione magnetica, l’aerotreno, gli hovercraft, gli aerei civili supersonici, le navi a propulsione magnetoidrodinamica, ecc.. In gravissimo affanno il settore della ricerca nello sfruttamento per scopi pacifici dell’energia custodita nei nuclei, in primis tramite la fusione nucleare. Quel che si trova alla “fine del ciclo vitale” non è, tuttavia, soltanto il parco composto delle numerosissime infrastrutture (a tal proposito approviamo il riferimento al Piano Marshall nel recente appello del Cnr alla ricostruzione delle opere obsolete), tra le quali i gioielli ingegneristici o di armonizzazione con il paesaggio costruiti anche in anticipo rispetto alle altre grandi potenze occidentali.I candidati sono stati eletti nel “governo del cambiamento” grazie ad animati discorsi sull’urgenza di intaccare la Legge Fornero, di smontare la Buona Scuola, di rivedere il Jobs Act, ma non avrebbero dovuto trascurare che l’inesorabile legge cronologica del “fine vita” vige anche per le opere immateriali: essa si applica ai cicli di vita della società stessa, quelli durante i quali prosperano le nefaste mezze verità dei sofisti. Sotto sforzi eccessivi non sono soltanto le strutture progettate dagli ingegneri, ma anche la capacità demografica della società stessa, che è stata indotta, con la negazione degli appropriati investimenti, a rinunciare di costruire la propria base di futuro progresso dei livelli di vita (lo trovate un caso che la vita media abbia cominciato lievemente a calare?). Altra cosa sarebbe stata, durante la campagna elettorale, se l’attacco alla Fornero fosse stato esteso a tutte le “riforme pensionistiche” risalendo sino a Lamberto Dini; se il male della scuola non fosse stato additato nella sola “riforma” renziana, ma si fosse aperto un dibattito sull’optimum raggiunto nei cento-cinquantanni di scuola pubblica (che in sé sono stati una lunghissima sperimentazione); se sulla questione del lavoro non si fosse sbandierata un’opposizione limitata al Jobs Act, ma fossero stati presentati in modo organico gli argomenti a favore di una rinascita economica, per incidere coordinatamente su altri fattori (moneta unica, parametri non scientifici di Maastricht, pareggio di bilancio in Costituzione, sovranità nella politica economica delle grandi opere, ecc.) anziché perdurare nella dinamica pluridecennale della depressione dei salari.Crollano, assieme ai ponti veri, i castelli fiabeschi di sabbia del sistema venduto come l’unico rimasto a disposizione, quello del liberismo, che in verità è già una concessione chiamare “sistema economico”. Siamo alla fine di un ciclo narrativo di menzogne al servizio degli avvoltoi finanziarii e in questo momento di transizione occorre tener presente che vi è chi ci consegna colpevolmente un paese in più modi fallato (non sono esclusi gli inetti o coloro che hanno preferito credere alla fiabe) e chi rischia di svilire l’impulso degli elettori, non osando essere di radicale cambiamento, ma accontentandosi di far appello alla memoria corta delle masse, invece che alla memoria a lungo termine degli esperti emarginati per decenni. Stiamo parlando di un’epoca che deve andarsene e della necessità di limitare i dolori del travaglio. Non è vero che abbiamo troppe infrastrutture: la rete ferroviaria è poco più di quella di Cavour, mentre la popolazione è nel frattempo triplicata. Ma anche, non fu mai vero che le pensioni fossero insostenibili, quando Dini vi mise mano.Non fu mai vero che la scuola dovesse trasformarsi in bottega e rafforzare la propria deriva con l’autoritarismo sotto la maschera della “autonomia” attenta alle “esigenze del territorio”. Non fu mai vero che il lavoro umano dovesse essere passato nel tritacarne della depressione dei salari. Se questa dolente epoca deve cedere, dobbiamo riconoscere altresì che non fu mai vero che la sovranità monetaria fu mal gestita dal nostro paese. Furono piuttosto certe morti di rilievo politico (Mattei, Moro, ecc.) ad arrestare la nostra corsa verso il progresso materiale e spirituale. Bisogna avere il coraggio di far maturare appieno e in brevissimo tempo il dibattito più strategico, assai mirato sulla necessità di rivedere quei vincoli che hanno determinato il disastro e continuano a legare le mani a chiunque sia chiamato a servire il paese, e non gli speculatori. Questi non staranno a lungo in attesa prima di sferrare qualche colpo.(Flavio Tabanelli, “Ponti, pensioni e altri assetti alla prova del governo del cambiamento”, da “Scenari Economici” del 15 agosto 2018).Mentre i soliti media danno il via al cerimoniale di commenti e manifestazioni di sorpresa o di indignazione per il crollo del Viadotto Polcevera, affermiamo senza mezzi termini che la serie di crolli di infrastrutture degli ultimi anni, cui oggi si aggiunge un tragico e luttuoso disastro, è una naturale conseguenza del loro invecchiamento e della consegna del Bel Paese, ben prima del crac del 2007-2008, anzi da almeno quarant’anni, alla logica dell’austerità, che prevede giocoforza ilsilenziamento degli esperti di progettazione, manutenzione e ammodernamento. Il processo non riguarda soltanto l’Italia, bensì tutta la regione transatlantica, come ricordano i lettori a proposito di ponti e di inondazioni negli Stati Uniti, per esempio. Con il “governo del cambiamento” potrebbe in effetti cessare un trentennio di “inglorioso saccheggio”, l’opposto dei “trenta gloriosi”, come i francesi chiamano la fase storica di ricostruzione postbellica. Potrebbe esservi una svolta, dopo questo lungo periodo successivo al crollo del Muro di Berlino e rispetto a un condizionamento politico frutto dell’orchestrazione di Mani Pulite, ma ancora troppi sembrano stare al gioco di chi cade dalle nuvole, per scoprire che il governo eredita interi ambiti della nostra economica nazionale lasciati al declino.
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Pagare a vita: il ruolo di Cottarelli nell’agonia della Grecia
Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.Dato che sia Cottarelli che il collega Olivier Blanchard sono «molto restii a rivelare il loro ruolo nella questione greca», e visto che «sembra vogliano ripetere lo stesso frame con l’Italia», Fabio Lugano ha scovato i documenti che comprovano il ruolo di Cottarelli nel “martirio” della Grecia. «Nulla di segreto», premette Lugano su “Scenari Economici”: «Tutta roba ufficiale messa a disposizione del pubblico e già conosciuta». Il documento più interessante sulla questione greca, scrive Lugano, è il report dell’Indipendent Evaluation Office del Fmi, cioè l’ufficio che effettua l’audit sulle operazioni del Fondo Monetario, che insieme a Bce e Commissione Europea faceva parte della Troika incaricata di gestire la crisi finanziaria ellenica. «Abbiamo già specificamente trattato questo tema in precedenza, ma ci torneremo sopra in futuro – avverte Lugano – perchè il tema dei moltiplicatori fiscali viene lì trattato in modo approfondito e specifico, facendo notare come i moltiplicatori utilizzati dal Fmi nella valutazione della politica fiscale fossero completamente errati, pari ad un quinto di quanto verificato in seguito». In altre parole: i tagli inferti alla Grecia hanno prodotto solo il 20% del risultato atteso da Cottarelli e soci, e al prezzo della devastazione sociale di un’intera nazione.Il ruolo “cottarellico” nella vicenda? Lugano lo scova a pagina 23 del report: «Il Fmi – si legge – rimase diviso sulle conseguenze e i rischi legati a una ristrutturazione del debito». Per un pelo non prevalsero i saggi, disposti ad aiutare davvero la Grecia. «Mentre la maggioranza dello staff del Fmi era in modo crescente a supporto della ristrutturazione del debito», quindi del reale salvataggio della Grecia, «alcuni funzionari senior in posizioni chiave continuavano ad affermare che il debito fosse sostenibile», cioè scaricabile sulle spalle di aziende e famiglie, giovani e pensionati. Nel settembre 2010 – continua il rapporto – il Fad pubblicò un paper affermando che, «per le economie avanzate di oggi», incluse quelle «periferiche» dell’area euro, «il default non è nell’interesse dei cittadini». Firmato: “Cottarelli e altri, 2010”. «Il paper in questione lo trovate facilmente nel sito Fmi, ma non aspettatevi molto», dice Lugano: «Le motiviazioni sono deboli, alcune delle quali contestate nel medesimo report dell’Ieo – come ad esempio la sua fobia per i moltiplicatori elevati, o la sopportabilità di avanzi primari enormi». Le scelte di Cottarelli, aggiunge Lugano, influenzarono quelle del Fmi nel non insistere in un maggior taglio immediato del debito, «e lasciarono gravato lo Stato greco di un fardello che non poteva sopportare».Comunque, poi – nonostante le previsioni di Cottarelli – alla fine si dovettero ugualmente effettuare due tagli del debito, e nel 2017 il Fmi richiese addirittura un terzo taglio dei conti, che però non venne concesso. Ma l’immane debito greco, così gravoso solo perché denominato in euro (moneta non sovrana), non doveva essere interamente “sostenibile” fin dall’inizio? «Le affermazioni di Cottarelli si rivelarono completamente erronee – sottolinea Lugano – e impedirono di affrontare in modo immediato la crisi: invece che risolvere il tutto il 12-24 mesi si è proseguito con una specie di lenta agonia che non è ancora terminata». Conclude Lugano: «Considerare l’euro o le economie anche periferiche al di fuori delle regole dell’economia è stato un errore clamoroso, che viene ripetuto anche ora. Il problema non è errare, ma perseverare nell’errore, in una politica che si è dimostrata errata. Questa è la grande colpa dell’economista».Carlo Cottarelli è tra i massimi responsabili delle mostruose sofferenze inflitte alla Grecia, che hanno trasformato il paese in un avanmposto del terzo mondo, con ospedali senza più medicine per curare i bambini e le maggiori infrastrutture – porti, aeroporti – comprate dalla Germania a prezzi di saldo. Lo afferma Fabio Lugano su “Scenari Economici”, citando documenti ufficiali che confermano il ruolo nefasto dell’economista neoliberale, scelto da Sergio Mattarella come candidato premier alternativo a Giuseppe Conte. La colpa di Cottarelli? Fu tra i dirigenti del Fmi che, quando la Grecia era commissariata dalla Troika, non permisero ad Atene di tagliare il debito, accollandone interamente il costo alle aziende e alle famiglie greche. Ragioni ideologiche: Cottarelli, autore della spending review del governo Letta, secondo l’insigne economista keynesiano Nino Galloni rifiuta di ammettere il valore potenziale del deficit, capace di triplicare – in termini di Pil – la spesa pubblica erogata. Nel caso della Grecia, ha invece rifiutato la “ristrutturazione” del debito storico, che avrebbe permesso al paese di tornare a respirare, evitando la catastrofe che non ha ancora finito di travolgerlo.
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Francia cannibale, si mangia l’Africa: il bilancio dell’orrore
Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.Sylvanus Olympio, il primo presidente della Repubblica del Togo, un piccolo paese in Africa occidentale, trovò una soluzione a metà strada con i francesi. Non voleva che il suo paese continuasse ad essere un dominio francese, perciò rifiutò di siglare il patto di continuazione della colonizzazione proposto da de Gaulle, tuttavia si accordò per pagare un debito annuale alla Francia per i cosiddetti benefici ottenuti dal Togo grazie alla colonizzazione francese. Era l’unica condizione affinché i francesi non distruggessero tutto prima di lasciare il paese. Tuttavia, l’ammontare chiesto dalla Francia era talmente elevato che il rimborso del cosiddetto “debito coloniale” si aggirava al 40% del debito del paese nel 1963. La situazione finanziaria del neo-indipendente Togo era veramente instabile; così, per risolvere la situazione, Olympio decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa (il Franco Cfa delle colonie africane francesi), e coniò la moneta del suo paese. Il 13 gennaio 1963, tre giorni dopo aver iniziato a stampare la moneta del suo paese, uno squadrone di soldati analfabeti appoggiati dalla Francia uccise il primo presidente eletto della neo- indipendente Africa.Olympio fu ucciso da un ex sergente della Legione Straniera di nome Etienne Gnassingbe, che si suppone ricevette un compenso di 612 dollari dalla locale ambasciata francese per il lavoro di assassino. Il sogno di Olympio era quello di costruire un paese indipendente e autosufficiente. Tuttavia ai francesi non piaceva l’idea. Il 30 giugno 1962, Modiba Keita, il primo presidente della Repubblica del Mali, decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa imposta a 12 neo-indipendenti paesi africani. Per il presidente maliano, che era più incline ad un’economia socialista, era chiaro che il patto di continuazione della colonizzazione con la Francia era una trappola, un fardello per lo sviluppo del paese. Il 19 novembre 1968, proprio come Olympio, Keita fu vittima di un colpo di stato guidato da un altro ex soldato della Legione Straniera francese, il luogotenente Moussa Traoré. Infatti durante quel turbolento periodo in cui gli africani lottavano per liberarsi dalla colonizzazione europea, la Francia usò ripetutamente molti ex legionari stranieri per guidare colpi di stato contro i presidente eletti.Il 1° gennaio 1966, Jean-Bédel Bokassa, un ex soldato francese della Legione Straniera, guidò un colpo di stato contro David Dacko, il primo presidente della Repubblica Centrafricana. Il 3 gennaio 1966, Maurice Yaméogo, il primo presidente della Repubblica dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, fu vittima di un colpo di stato condotto da Aboubacar Sangoulé Lamizana, un ex legionario francese che combatté con i francesi in Indonesia e Algeria contro le indipendenze di quei paesi. Il 26 ottobre 1972, Mathieu Kérékou (che era una guardia del corpo del presidente Hubert Maga, il primo presidente della Repubblica del Benin) guidò un colpo di Stato contro il presidente, dopo aver frequentato le scuole militari francesi dal 1968 al 1970. Negli ultimi 50 anni, un totale di 67 colpi di Stato si sono susseguiti in 26 paesi africani; 16 di quest’ultimi sono ex colonie francesi, il che significa che il 61% dei colpi di Stato si sono verificati nell’Africa francofona.Cinque i golpe subiti dal Burkina Faso e dalle Comore, quattro i colpi di Stato attuati in Burundi, Repubblica Centrafricana, Niger e Mauritania. Sempre tra le ex colonie francesi, hanno vissuto almeno tre colpi di Stato il Congo e il Ciad – due, invece, l’Algeria e il Mali, la Guinea Konakry e la Repubblica Democratica del Congo. Almeno un violento “regime change” ha poi investito Togo, Tunisia, Costa d’Avorio, Magagascar e Rwanda. Altri paesi africani sottoposti a colpi di Stato sono Egitto, Libia e Guinea Equatoriale (un golpe ciascuno), Guinea Bissau e Liberia (due golpe), Nigeria ed Etiopia (tre colpi di Stato), Uganda (quattro) e Sudan (cinque). In totale 45 golpe nell’Africa ex francese, più 22 in altri paesi africani. Come dimostrano questi numeri, la Francia è abbastanza disperata ma attiva nel tenere sotto controllo le sue colonie, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Nel marzo del 2008, l’ex presidente francese Jacques Chirac disse: «Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo». Il predecessore di Chirac, François Mitterand, già nel 1957 profetizzava che «senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21° secolo».Proprio in questo momento, 14 paesi africani sono costretti dalla Francia, attraverso un patto coloniale, a depositare l’85% delle loro riserve di valute estere nella Banca Centrale Francese controllata dal ministero delle finanze di Parigi. Finora, il Togo e altri 13 paesi africani dovranno pagare un debito coloniale alla Francia. I leader africani che rifiutano vengono uccisi o restano vittime di colpi di Stato. Coloro che obbediscono sono sostenuti e ricompensati dalla Francia con stili di vita faraonici, mentre le loro popolazioni vivono in estrema povertà e disperazione. E’ un sistema malvagio, denunciato dall’Unione Europea; ma la Francia non è pronta a spostarsi da quel sistema coloniale che muove 500 miliardi di dollari dall’Africa al suo ministero del Tesoro ogni anno. Spesso accusiamo i leader africani di corruzione e di servire gli interessi delle nazioni occidentali, ma c’è una chiara spiegazione per questo comportamento. Si comportano così perché hanno paura di essere uccisi o di restare vittime di un colpo di Stato. Vogliono una nazione potente che li difenda in caso di aggressione o di tumulti. Ma, contrariamente alla protezione di una nazione amica, la protezione dell’Occidente spesso viene offerta in cambio della rinuncia, da parte di quei leader, di servire il loro stesso popolo e i suoi interessi.I leader africani lavorerebbero nell’interesse dei loro popoli se non fossero continuamente inseguiti e provocati dai paesi colonialisti. Nel 1958, spaventato dalle conseguenze di scegliere l’indipendenza dalla Francia, Leopold Sédar Senghor dichiarò: «La scelta del popolo senegalese è l’indipendenza; vogliono che ciò accada in amicizia con la Francia, non in disaccordo». Da quel momento in poi la Francia accettò soltanto un’ “indipendenza sulla carta” per le sue colonie, siglando “Accordi di Cooperazione”, specificando la natura delle loro relazioni con la Francia, in particolare i legami con la moneta coloniale francese (il franco), il sistema educativo francese, le preferenze militari e commerciali. Qui sotto ci sono le 11 principali componenti del patto di continuazione della colonizzazione dagli anni ‘50.#1. Debito coloniale a vantaggio della colonizzazione francese. I neo “indipendenti” paesi dovrebbero pagare per l’infrastruttura costruita dalla Francia nel paese durante la colonizzazione. #2. Confisca automatica delle riserve nazionali. I paesi africani devono depositare le loro riserve monetarie nazionali nella banca centrale francese. La Francia detiene le riserve nazionali di 14 paesi africani dal 1961: Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon. La politica monetaria che governa un gruppo di paesi così diversi non è complicato perché, di fatto, è decisa dal ministero del Tesoro francese senza rendere conto a nessuna autorità fiscale di qualsiasi paese che sia della Cedeao (la Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale) o del Cemac (Comunità degli Stati dell’Africa Centrale). In base alle clausole dell’accordo che ha fondato queste banche e il Cfa, la banca centrale di ogni paese africano è obbligata a detenere almeno il 65% delle proprie riserve valutarie estere in un “operations account” registrato presso il ministero del Tesoro francese, più un altro 20% per coprire le passività finanziarie.Le banche centrali del Cfa impongono anche un tappo sul credito esteso ad ogni paese membro equivalente al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Anche se la Beac e la Bceao hanno un fido bancario col Tesoro francese, i prelievi da quel fido sono soggetti al consenso dello stesso ministero del Tesoro. L’ultima parola spetta al Tesoro francese, che ha investito le riserve estere degli Stati africani alla Borsa di Parigi a proprio nome. In breve, più dell’ 80% delle riserve valutarie straniere di questi paesi africani sono depositate in “operations accounts” controllati dal Tesoro francese. Le due banche Cfa sono africane di nome, ma non hanno una politica monetaria propria. Gli stessi paesi non sanno, né viene detto loro, quanto del bacino delle riserve valutarie estere detenute presso il ministero del Tesoro a Parigi appartiene a loro come gruppo o individualmente. Gli introiti degli investimenti di questi fondi presso il Tesoro francese dovrebbero essere aggiunti al conteggio, ma non c’è nessuna notizia che venga fornita al riguardo né alle banche né ai paesi circa i dettagli di questi scambi. Al ristretto gruppo di alti ufficiali del ministero del Tesoro francese che conoscono le cifre detenute negli “operations accounts”, sanno dove vengono investiti questi fondi e se esiste un profitto a partire da quegli investimenti, viene impedito di parlare per comunicare queste informazioni alle banche Cfa o alle banche centrali degli stati africani, scrive il dottor Gary K. Busch (economista, docente universitario a Londra).Si stima che la Francia detenga all’incirca 500 miliardi di monete provenienti dagli Stati africani, e farebbe qualsiasi cosa per combattere chiunque voglia fare luce su questo lato oscuro del vecchio impero. Gli stati africani non hanno accesso a quel denaro. La Francia permette loro di accedere soltanto al 15% di quel denaro all’anno. Se avessero bisogno di più, dovrebbero chiedere in prestito una cifra extra dal loro stesso 65% da Tesoro francese a tariffe commerciali. Per rendere le cose ancora peggiori, la Francia impone un cappio sull’ammontare di denaro che i paesi possono chiedere in prestito da quella riserva. Il cappio è fissato al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Se i paesi volessero prestare più del 20% dei loro stessi soldi, la Francia ha diritto di veto. L’ex presidente francese Jacques Chirac ha detto recentemente qualcosa circa i soldi delle nazioni africane detenuti nelle banche francesi. In un VIDEO parla dello schema di sfruttamento francese. Parla in francese, ma questo è un piccolo sunto: «Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano».#3. Diritto di primo rifiuto su qualsiasi materia prima o risorsa naturale scoperta nel paese. La Francia ha il primo diritto di comprare qualsiasi risorsa naturale trovate nella terra delle sue ex colonie. Solo dopo un “Non sono interessata” della Francia, i paesi africani hanno il permesso di cercare altri partners. #4. Priorità agli interessi francesi e alle società negli appalti pubblici. Nei contratti governativi, le società francesi devono essere prese in considerazione per prime e, solo dopo, questi paesi possono guardare altrove. Non importa se i paesi africani possono ottenere un miglior servizio ad un prezzo migliore altrove. Di conseguenza, in molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura. Infine, come ho scritto in un precedente articolo, “gli africani ora vivono in un continente di proprietà degli europei”.#5. Diritto esclusivo a fornire equipaggiamento militare e formazione ai quadri militari del paese. Attraverso un sofisticato schema di borse di studio e “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, gli africani devono inviare i loro quadri militari per la formazione in Francia o in strutture gestite dai francesi. La situazione nel continente adesso è che la Francia ha formato centinaia, anche migliaia di traditori e li foraggia. Restano dormienti quando non c’è bisogno di loro, e vengono riattivati quando è necessario un colpo di Stato o per qualsiasi altro scopo! #6. Diritto della Francia di inviare le proprie truppe e intervenire militarmente nel paese per difendere i propri interessi. In base a qualcosa chiamato “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, la Francia ha il diritto di intervenire militarmente negli Stati africani e anche di stazionare truppe permanentemente nelle basi e nei presidi militari in quei paesi, gestiti interamente dai francesi.Poi ci sono le basi militari francesi in Africa. Quando il presidente Laurent Gbagbo della Costa d’Avorio cercò di porre fine allo sfruttamento francese del paese, la Francia organizzò un colpo di Stato. Durante il lungo processo per estromettere Gbagbo, i carri armati francesi, gli elicotteri d’attacco e le forze speciali intervennero direttamente nel conflitto sparando sui civili e uccidendone molti. Per aggiungere gli insulti alle ingiurie, la Francia stima che la “business community” francese abbia perso diversi milioni di dollari quando, nella fretta di abbandonare Abidjan nel 2006, l’esercito francese massacrò 65 civili disarmati, ferendone altri 1.200. Dopo il successo della Francia con il colpo di Stato, e il trasferimento di poteri ad Alassane Outtara, la Francia ha chiesto al governo Ouattara di pagare un compenso alla “business community” francese per le perdite durante la guerra civile. Il governo Ouattara, infatti, pagò il doppio delle perdite dichiarate mentre scappavano.#7. Obbligo di dichiarare il francese lingua ufficiale del paese e lingua del sistema educativo. “Oui, Monsieur. Vous devez parlez français, la langue de Molière!” (sì, signore. Dovete parlare francese, la lingua di Molière!). Un’organizzazione per la diffusione della lingua e della cultura francese chiamata “Francophonie” è stata creata con diverse organizzazioni satellite e affiliati supervisionati dal ministero degli esteri francese. Come dimostrato in quest’articolo, se il francese è l’unica lingua che parli, hai accesso al solo 4% dell’umanità, del sapere e delle idee. Molto limitante.#8. Obbligo di usare la moneta coloniale francese Fcfa. Questa è la vera mucca d’oro della Francia, tuttavia è un sistema talmente malefico che finanche l’Unione Europea lo ha denunciato. La Francia però non è pronta a lasciar perdere il sistema coloniale che inietta all’incirca 500 miliardi di dollari africani nelle sue casse. Durante l’introduzione dell’euro in Europa, altri paesi europei scoprirono il sistema di sfruttamento francese. Molti, soprattutto i paesi nordici, furono disgustati e suggerirono che la Francia abbandonasse quel sistema. Senza successo. #9. Obbligo di inviare in Francia il budget annuale e il report sulle riserve. Senza report, niente soldi. In ogni caso il ministero delle banche centrali delle ex colonie, e il ministero dell’incontro biennale dei ministri delle finanze delle ex colonie è controllato dalla banca centrale francese e dal ministero del Tesoro.#10. Rinuncia a siglare alleanze militari con qualsiasi paese se non autorizzati dalla Francia. I paesi africani in genere sono quelli che hanno il minor numero di alleanze militari regionali. La maggior parte dei paesi ha solo alleanze militari con gli ex colonizzatori (divertente, ma si può fare di meglio!). Nel caso delle ex colonie francesi, la Francia proibisce loro di cercare altre alleanze militari eccetto quelle che vengono offerte loro. #11. Obbligo di allearsi con la Francia in caso di guerre o crisi globali. Più di un milione di soldati africani hanno combattuto per sconfiggere il nazismo e il fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il loro contributo è spesso ignorato o minimizzato, ma se si pensa che alla Germania furono sufficienti solo 6 settimane per sconfiggere la Francia nel 1940, quest’ultima sa che gli africani potrebbero essere utili per combattere per la “Grandeur de la France” in futuro.C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa. Primo, la Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’élite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione. Infine, la Francia ha due istituzioni che sono completamente congelate nel passato, abitate da “haut fonctionnaires” paranoici e psicopatici che diffondono la paura dell’apocalisse se la Francia cambiasse, e il cui riferimento ideologico deriva dal romanticismo del 19° secolo: sono il ministero delle finanze e del bilancio e il ministero degli affari esteri. Queste due istituzioni non solo sono una minaccia per l’Africa ma anche per gli stessi francesi. Tocca a noi africani liberarci, senza chiedere permesso, perché ancora non riesco a capire, per esempio, come possano 450 soldati francesi in Costa d’Avorio controllare una popolazione di 20 milioni di persone. La prima reazione della gente, subito dopo aver saputo della tassa coloniale francese, consiste in una domanda: “Fino a quando?”. Per paragone storico, la Francia ha costretto Haiti a pagare l’equivalente odierno di 21 miliardi di dollari dal 1804 al 1947 (quasi un secolo e mezzo) per le perdite subite dai commercianti di schiavi francesi dall’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi haitiani. I paesi africani stanno pagando la tassa coloniale solo negli ultimi 50 anni, perciò penso che manchi ancora un secolo di pagamenti!(Mawuna Remarque Koutonin, “Quattordici paesi africani costretti a pagare la tassa coloniale francese”, da “Africa News” dell’8 febbraio 2014).Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.
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Migranti, il business dei predoni globalisti condanna l’Africa
Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.Esiste poi la Ong francese Positive Planete (prima Planet Finance), fondata dal francese Jacques Attali – colui che ha scoperto Macron – e dal bengalese Yunus, padre del microcredito, che si prefigge di “combattere la povertà in Africa attraverso lo sviluppo della microfinanza”. Un sodalizio, quello tra finanza, Ong ed emigrazione, molto redditizio e ben occultato. Tutti i paesi che si sono sviluppati l’hanno fatto avviando un piano di sviluppo economico basato sulla protezione dell’industria locale nascente e su politiche pubbliche di tipo keynesiano. Nell’Africa postcoloniale questo non è stato possibile, poiché le forze economiche internazionali hanno imposto il loro modello neoliberista, fatto di massima apertura al commercio estero, liberalizzazioni, privatizzazioni dei servizi pubblici e tagli alla spesa dello Stato. Ciò ha impedito qualsiasi possibilità di sviluppo dell’economia africana. Ogni tentativo in tale direzione è stato represso nel sangue, come nel caso di Lumumba in Congo e di Sankara in Burkina Faso. Questo è esattamente il modus operandi dell’attuale modello unico economico su scala globale: “keynesismo per i ricchi e neoliberismo per i poveri”, utilizzato come strumento di depredazione dei paesi.Mentre sappiamo molto della storia coloniale, quello che è accaduto in Africa con la decolonizzazione è poco conosciuto ai più e distorto da una narrazione mistificatrice che imputa ai vecchi imperi coloniali la causa dell’attuale e persistente stato di sottosviluppo del Continente Nero. Con la nascita degli Stati indipendenti in Africa, come in gran parte del Terzo Mondo, si stava avviando un percorso di crescita economica e di sviluppo locale. I paesi africani avevano adottato la cosiddetta politica di “industrializzazione per sostituzione”, secondo la quale le merci importate venivano sostituite con la produzione interna per tutelare le economie e le industrie nascenti dalla concorrenza internazionale. Questa politica, in aggiunta al riconoscimento da parte del Gatt del “diritto alla protezione asimmetrica” per i paesi in via di sviluppo (1964), generò in molti paesi dell’Africa subsahariana un periodo di crescita e relativo benessere. Ma le ingerenze esterne non tardarono a farsi sentire da parte dei grandi interessi economici internazionali.Con lo scoppiare della crisi del debito del Terzo Mondo nel 1982, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale imposero definitivamente le loro politiche macroeconomiche, che non favorivano lo sviluppo locale, non prevedevano alcun investimento nell’economia nazionale, ma incentivavano gli Stati a importare ingenti quantità di beni di consumo e a destinare la propria produzione all’esportazione per il pagamento del debito. Attraverso la previsione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si venne a realizzare una nuova forma di imperialismo globale, il colonialismo del debito, da cui banche e prestatori di denaro hanno tratto enormi profitti, congiuntamente alle grandi multinazionali, che hanno depredato il Continente del suo ricco patrimonio di risorse naturali, inibendo ogni possibilità di sviluppo economico locale.La chiusura che incontro è più ideologica che scientifica. Purtroppo non si può parlare di neoliberismo e del fenomeno migratorio senza incorrere in divisioni ideologiche e pregiudizi. Dimostrare che il modello economico imposto dalle grandi istituzioni internazionali in Africa, che è lo stesso a distanza di decenni attuato ora in Italia, sia la causa del suo sottosviluppo lascia sconcertati. Sostenere poi che l’emigrazione non è una soluzione, ma anzi aggrava i problemi del continente africano, arricchendo solo chi specula sulla mercificazione degli esseri umani, suscita contrarietà da parte dei fautori acritici dell’accoglienza illimitata. Rompere dei tabù e dei luoghi comuni non è mai semplice, ma sto riscontrando anche molto interesse e consenso da parte di chi conosce e vive in prima persona la realtà africana. Da parte dei media sapevo, quando ho intrapreso questo percorso, iniziato col mio primo libro sottotitolato “Storia di una bocconiana redenta”, che non sarebbe stato per nulla facile rompere il muro nel mainstream. Tuttavia, l’interesse mostrato nei miei confronti da alcuni programmi televisivi e radiofonici è andato oltre le mie aspettative.Credo che, seppur con grande difficoltà, ci sia un piccolo spiraglio per chi affronta temi scomodi in modo serio e supportato da evidenze scientifiche. Il Decreto Dignità proposto da Di Maio? L’attuale modello economico è basato sulla precarizzazione del lavoro e, di conseguenza, della vita umana. Il Decreto Dignità ha il grosso merito di riportare al centro il lavoratore e i suoi diritti. Mettere un limite alla durata e al numero di rinnovi dei contratti a termine, aumentare la tutela e l’indennità del lavoratore nei casi di licenziamento, sanzionare le imprese che delocalizzano dopo aver usufruito di aiuti di Stato, nonché avviare una dura lotta alla ludopatia sono tutte misure che operano in questa direzione. Lo Stato in questo modo torna a occuparsi del cittadino e del lavoratore, ripudiando il ruolo di servitore dei mercati e degli interessi transnazionali, come vorrebbe il modello neoliberista universale, perfettamente rappresentato dall’attuale Unione Europea.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a Marina Simeone per l’intervista “I coloni dell’austerity” pubblicata da “Il Pensiero Forte” il 25 luglio 2018. Economista attiva anche sul proprio seguitissimo blog, laureata alla Bocconi, scrittrice di libri coraggiosi e di successo sul neoliberismo, dopo la risonanza ottenuta dal primo lavoro “Neoliberismo e manipolazione di massa (storia di una Bocconiana redenta)”, Ilaria Bifarini ha presentato “I coloni dell’Austerity. Africa, neoliberismo e immigrazioni di massa”).Esiste un nesso fra crescita demografica, povertà ed emigrazione? La popolazione africana sta subendo una vera e propria esplosione demografica: mentre, infatti, nel 1960 si attestava intorno ai 300 milioni di abitanti, oggi è di circa 1,2 miliardi e raggiungerà i 2 miliardi e mezzo entro il 2050. L’Africa si trova intrappolata in una spirale nefasta, nota come “trappola malthusiana”, che rende impossibile adeguare l’aumento della produzione e delle risorse alimentari in modo da compensare il forte incremento della domanda legato a una crescita esponenziale della popolazione. L’emigrazione viene percepita dagli africani come unica opportunità per migliorare le proprie condizioni di vita e uscire dallo stato di miseria. Essa in realtà non fa che peggiorare i problemi economici del Continente, che viene privato così della sua forza lavoro più giovane e intraprendente. Il vaso di Pandora delle Ong è molto difficile da scoperchiare, a causa della fitta trama di interessi economici, politici e finanziari. In particolare esiste una grossa Ong, la più grande al mondo ma poco conosciuta dai media, di nome Brac, che svolge attività di “microcredito per l’emigrazione”. Essa è nata ed è particolarmente attiva in Bangladesh, dove ha finanziato l’imponente emigrazione dei cittadini verso altri paesi ma, come dichiara esplicitamente nel suo sito, fornisce prestiti per l’emigrazione (migration loans) anche in altri paesi, in particolare quelli dell’Africa.
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L’Ocse: sorpresa, 6 americani su 10 non possiedono niente
Anche quest’estate in televisione è arrivato l’immancabile ciclo dei film di “Rocky”. Pur essendo ogni produzione sostanzialmente uguale all’altra, Sylvester Stallone riesce sempre a catturare l’attenzione di chi ha un briciolo d’ambizione. Come fa? Non certo per i muscoli o la capacità di stare davanti ad una telecamera, se è vero che ieri come oggi ci sono attori ben più atletici e bravi a recitare. Nessuno però ha saputo incarnare il sogno americano meglio di lui. Balboa è un uomo di umili origini e “solo” che contro ogni previsione riesce ad affermarsi in un mondo difficile e competitivo come quello americano. Un sogno alla portata di tutti: basta impegnarsi. Questo messaggio è affascinante; tutto l’Occidente ne è stato contagiato e sognare è gratis. A soli 40 anni dall’uscita del primo “Rocky”, gli americani si svegliano però dai sogni hollywoodiani e cominciano a fare due conti. Per capire se una società sta progredendo o meno occorre infatti paragonarla con altre simili per sistema produttivo, servizi, cultura, religione, nonchè col proprio passato. E’ ovvio che non possiamo mettere a confronto il tenore di vita dell’americano medio con quello di un pakistano, anche se c’è sempre qualche imbecille ideologizzato che lo fa. Fatta questa doverosa premessa, vediamo.Negli Usa la disoccupazione si aggira oggi al 4% rispetto a una media europea doppia (9%). Quindi gli Usa hanno visto migliorare questo dato rispetto a qualche anno fa, durante il periodo della crisi dei mutui subprime, ma i salari minimi negli Stati Uniti sono scesi di un terzo in termini reali rispetto agli anni Settanta mentre in un paese come la Francia sono saliti di quattro volte. Inoltre, chi rimane senza lavoro in America non gode di ammortizzatori sociali, in buona sostanza, mentre negli altri paesi occidentali gli amministratori e l’opinione pubblica sono stati più bravi a tenere sotto controllo le disuguaglianze resistendo all’idea di convertire l’economia di mercato in una società di mercato. In poche parole, settori chiave come l’educazione, la sanità e la sicurezza sono stati sottratti alla deregulation più becera. La minaccia esiste e si fa sempre più grande, sia chiaro, ma rispetto agli Stati Uniti sono ancora rose e fiori. Come ripeto sempre fino alla nausea, la povertà e la ricchezza sono concetti, e non situazioni oggettive. Lo so che a molti questo ragionamento sembra ostico e controintuitivo, ma se nel mondo tutti morissero di fame mediamente attorno ai 30 anni, nessuno di costoro direbbe che è “povero”. Povertà e ricchezza, insomma, sono due facce della stessa medaglia: non può esserci la ricchezza se non c’è la povertà, e viceversa.La situazione più intelligente, sic stantibus rebus, è quella di appianare il più possibile le disuguaglianze, perchè sono queste che rendono orrenda la povertà. Oggi davanti ai supermercati possiamo trovare un barbone che dichiara di fare 3 pasti al giorno ed è in sovrappeso, ma nessuno sano di mente si azzarderebbe a sostenere che egli non sia povero. Completamente rovesciata era la situazione nell’immediato dopoguerra italiano, ad esempio, quando essere in sovrappeso e mangiare tre volte al giorno era un lusso riservato a pochi fortunati. Ma vediamoli questi americani – impiegati al 96% – che razza di esistenza conducono. I dati Ocse sulla disuguaglianza ci dicono che il paese dove è in condizioni più radicali è l’America (Usa) e quelli dove è minore sono il Giappone e poi l’Italia. Ciò puo anche destare sorpresa, ma è nei numeri e accade per il semplice fatto che Giappone e Italia hanno molto debito pubblico, ma poco debito privato. A rendere povere le persone è il debito privato e non il debito pubblico. A meno che, come sta accadendo in Italia, non si decida a tavolino che anche il debito pubblico diventi un problema cedendone la gestione a speculatori, banchieri privati ed economisti rimasti fermi alle ricette ottocentesche.Nello studio dell’Ocse, si vede chiaramente come la concentrazione della ricchezza non sia in mano alla classe media, che ne detiene appena il 30%. Il grosso degli americani è povero, nel senso che ha un lavoro magari, ma non ha beni nella propria disponibilità, al netto dei debiti contratti. Un altro studio del 2015 della Google Consumer Survey ha infine rivelato che 6 americani su 10 hanno meno di mille dollari sul conto corrente e che 1 su 5 il conto proprio non ce l’ha. A possedere un immobile (quasi sempre preso a debito con mutuo) sono solo il 63,5% degli statunitensi, contro il 74% per cento degli italiani. Insomma, se per le multinazionali americane la pacchia continua ed anzi aumenta, per l’americano medio le scelte economiche degli ultimi decenni, da Ronald Reagan in poi, sono state un autentico disastro che rivela, attraverso i dati sul debito privato, la reale possibilità per Rocky di comprare villa con piscina ad Adriana. In questo modello, pur caratterizzato oggi da alta occupazione, non è possibile affrontare con serenità nessun tipo di spesa imprevista né, in particolare, pensare di accumulare fortuna attraverso risparmi e investimenti.(Massimo Bordin, “Il 60% degli americani non possiede nulla”, dal blog “Micidial” del 25 luglio 2018).Anche quest’estate in televisione è arrivato l’immancabile ciclo dei film di “Rocky”. Pur essendo ogni produzione sostanzialmente uguale all’altra, Sylvester Stallone riesce sempre a catturare l’attenzione di chi ha un briciolo d’ambizione. Come fa? Non certo per i muscoli o la capacità di stare davanti ad una telecamera, se è vero che ieri come oggi ci sono attori ben più atletici e bravi a recitare. Nessuno però ha saputo incarnare il sogno americano meglio di lui. Balboa è un uomo di umili origini e “solo” che contro ogni previsione riesce ad affermarsi in un mondo difficile e competitivo come quello americano. Un sogno alla portata di tutti: basta impegnarsi. Questo messaggio è affascinante; tutto l’Occidente ne è stato contagiato e sognare è gratis. A soli 40 anni dall’uscita del primo “Rocky”, gli americani si svegliano però dai sogni hollywoodiani e cominciano a fare due conti. Per capire se una società sta progredendo o meno occorre infatti paragonarla con altre simili per sistema produttivo, servizi, cultura, religione, nonchè col proprio passato. E’ ovvio che non possiamo mettere a confronto il tenore di vita dell’americano medio con quello di un pakistano, anche se c’è sempre qualche imbecille ideologizzato che lo fa. Fatta questa doverosa premessa, vediamo.
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Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera
La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato.Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni. Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento.In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano. Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori.Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.(Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).