Archivio del Tag ‘Hezbollah’
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Blondet: Cane Pazzo fermerà il Cretino della Casa Bianca?
«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».Lo stesso Kelly e il generale James Mattis, il segretario alla difesa, avrebbero discusso fra loro cosa fare se Trump ordinasse il “first strike”, il temutissimo “primo colpo” nucleare. «Gli si opporranno?», si domanda l’anonimo spifferatore della storia a “Vanity Fair”, indicato come ex funzionario della Casa Bianca. Altra indiscrezione: in una riunione dello scorso luglio, Trump avrebbe espresso il desiderio di «decuplicare l’arsenale atomico», salvo poi negare via Twitter, minacciando di «togliere la licenza» alla catena televisiva “Nbc” per quella “fake news”. Ma diverse voci smentiscono il presidente e confermano la notizia, aggiunge Blondet: saputo in quella riunione che gli Usa hanno attualmente 4.000 testate nucleari, contro le 32.000 a loro disposizione nel 1960, Trump avrebbe «espresso il desiderio di riportarle a quel numero, lasciando basiti i generali». Si parla anche di una riunione del consiglio di sicurezza nazionale nella Situation Room, a luglio, in cui Trump avrebbe «ordinato ai capi militari di licenziare il comandante dello forze Usa in Afghanistan», paragonando i loro consigli a quelli di un consulente di sua conoscenza di un ristorante di New York, «i cui suggerimenti sbagliati avevano fatto perdere tempo e denaro».La riunione era stata convocata perché il presidente approvasse la nuova strategia sull’Afghanistan, ma è stata così improduttiva che i consiglieri hanno deciso di continuare la discussione il giorno dopo al Pentagono, con la speranza che in una riunione con meno persone il presidente si sarebbe «concentrato di più». Si interroga Blondet: forse non è il Deep State ad aver messo alle costole di Trump i generali Mattis e Kelly per neutralizzarlo e fargli continuare la politica bellicista di sempre. Forse i “buoni” sono proprio i generali, che provano a frenare un presidente che «gioca a fare il dittatore folle, impartendo ordini pericolosissimi». Ordini «aggravati da una mente sconclusionata, incapace di concentrarsi», nonché «da una furiosa mancanza di conoscenze» specifiche e da «idee da cartone animato». Così almeno scrive il sito “Red State”, politicamente ostile a “The Donald”. Fatto sta che Trump ha apertamente sconfessato il suo segretario di Stato, Tillerson, nei suoi sforzi di aprire (o mantenere aperto) un canale diplomatico con la Corea del Nord, con tweet del tipo: «Risparmiati la fatica, Rex. Serve una sola cosa», la Bomba. Tillerson, aggiunge Blondet, «appare in lotta non solo con il Cretino, ma anche con il Deep State, che quanto a intensità di follia non è certo secondo».Se infatti l’inquilino della Casa Bianca sembra quantomeno in confusione, lo “Stato Profondo” rappresentato dal complesso militare-industriale, Cia e Pentagono più Wall Street, è «sempre più fanaticamente impegnato a portare le relazioni con Mosca ad un punto di non ritorno», come dimostra «l’uccisione del generale Asapov, la bollatura della redazione americana di “Russia Today” come “agenzia straniera”, il bando all’antivirus Kasperski in Usa, accusato dagli israeliani di avere dentro un software spionistico, l’armamento nuovo ai ribelli in Siria». Lo stesso Tillerson, aggiunge Blondet, ha fatto una telefonata cordiale a Lavrov, in cui, secondo il comunicato ufficiale, s’è parlato perfino della «prospettiva di collaborazione Russia-Usa per far funzionare le zone di de-escalation» in Siria. «Una telefonata che ha forse solo il senso di dare un disperato segnale: non è il segretario di Stato la fonte degli attacchi e delle provocazioni», scrive Blondet. Ancor più grave: Tillerson è a favore dell’idea che gli Usa «continuino a mantenere l’accordo nucleare iraniano, che Trump invece sicuramente straccerà, fra l’altro aggravando la rottura con gli europei che invece continuano a sostenerlo». E quindi «cosa farà, imporrà sanzioni agli europei che commerciano con Teheran?».Tillerson, continua Blondet, «ha indetto una conferenza stampa per smentire – non già di aver dato del cretino al suo presidente (su questo ha glissato) – ma di essere sul punto di dare le dimissioni». Anche lui, come Kelly, «per senso del dovere». E pure il generale “Mad Dog” Mattis, nonostante il suo soprannome (“cane pazzo”), «esercita quanto può il ruolo di ragionevole trattenitore» del Folle. «Anche lui davanti al Congresso s’è dichiarato a favore del fatto che gli Usa mantengano fede all’accordo con l’Iran (e gli alleati europei e la Russia) sul nucleare iraniano, che Teheran sta rispettando. Ciò ha fruttato a Mattis la furiosa visita di un altro pazzo, il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman», il quale sostiene la posizione di Trump e ha informato il capo del Pentagono – testualmente – che «il conflitto Israele-Iran in Siria ha raggiunto il punto di non ritorno», e che «siccome Teheran continua ad ignorare gli altolà di Israele all’espansione iraniana nel Medio Oriente, Israele va ad un conflitto con l’Iran» in Siria. Infatti «Israele ha reso chiaro, sia gli iraniani che ai siriani, e anche ai russi, che non consentirà alcuna presenza iraniana in Siria, specialmente aerei da guerra o un molo iraniano nel porto di Tartus».Per adesso, scrive il sito israeliano “Yenet News”, ciò che Lieberman potrà ottenere sarà al massimo l’appoggio del Pentagono per intensificare la guerra contro quello che chiamano «la sovversione dell’Iran in Medio Oriente, dallo Yemen a Gaza al Libano». Già esiste «un piano americano contro Hezbollah come parte della guerra contro l’Iran e i suoi satelliti». Un piano che farebbe parte delle misure contro «l’espansione iraniana nella regione», vale a dire – traduce Blondet – la continuazione della sovversione del governo siriano con il pieno sostegno ai jihadisti e con le uccisioni di russi. Nell’articolo di “Vanity Fair” si racconta che Steve Bannon, quand’era ancora il capo-stratega alla Casa Bianca, ha detto francamente a Trump che, col suo comportamento, non doveva temere l’impeachment, ma il 25° emendamento. Al che, Trump ha risposto: «E che cos’è?». Blondet fa notare «quante personalità disturbate, irresponsabili, pericolosamente instabili o con gravi problemi di sociopatia» siano attualmente al potere, citando anche Netanyahu e Erdogan, «che sta rompendo i rapporti diplomatici con gli Usa, nello sgomento dei suoi ministri». Per Blondet, questo è «un passo apocalittico della storia», che aumenta «il disordine demolitorio ed esplosivo», là dove prima esistea un ordine mondiale fondato su equilibri dinamici.«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».
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Sycamore, Usa-Siria: il più grande traffico d’armi della storia
Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.E se la Bulgaria è stata uno dei principali esportatori di armi in Siria, aggiunge Meyssan, ha beneficiato di una “triangolazione segreta” con l’Azerbaigian, sempre sotto copertura Cia: per esportare armi destinate al terrorismo non solo in Siria, ma anche in Libia, in Afghanistan e persino in India. «Dall’inizio delle primavere arabe – premette Meyssan in un report su “Megachip” – la Cia e il Pentagono hanno organizzato un gigantesco traffico di armi in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Si badi: anche quando società private fanno da paravento, è impossibile esportare “attrezzature sensibili” senza l’autorizzazione dei governi interessati. Qui si tratta di un traffico gigantesco e particolarmente elusivo: gli armamenti trasportati erano infatti di tipo sovietico, per distinguerli da quelli (di fabbricazione Nato) in dotazione alle poche unità non-Isis, ufficialmente inquadrate dal Pentagono. Le altre armi, quelle per i tagliagole dello Stato Islamico, dovevano sembrare sottratte alle truppe di Assad.Forse, in questa ricostruzione, è di aiuto il nome stesso dell’operazione, “Sycamore”, che designa in inglese l’albero di sicomoro. Ancora una volta, le vicende dell’intelligence militare Nato in Medio Oriente sembrano dimostrare l’adozione di nomi tratti da testi antichi e sacre scritture: il sicomoro è l’albero sul quale, secondo il Vangelo, si arrampicò il gabelliere Zaccheo (inviso al popolo) per poter osservare Gesù senza essere visto. Non che fossero tutti ignari, comunque, delle manovre degli “amici del sicomoro”: già si sapeva, dice Meyssan, che la Cia avesse fatto appello proprio alla famigerata Sic di Borisov per produrre urgentemente il Captagon, la nuova “droga dei soldati” destinata agli jihadisti, distribuita in Libia prima ancora che in Siria. Una inchiesta di Maria Petkova, pubblicata dalla rete di segnalazione investigativa balcanica “Brin”, ha rivelato che tra il 2011 e il 2014 la Cia e il Socom (Pentagon Special Operations Command) avevano acquistato armi per 500 milioni di dollari dalla Bulgaria per conto dell’Isis. «Poi, in seguito, abbiamo appreso che altre armi erano state pagate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e trasportate da Saudi Arabian Cargo e Etihad Cargo».Secondo Krešimir Žabec, del quotidiano di Zagabria “Jutarnji List”, alla fine del 2012 la Croazia ha consegnato 230 tonnellate di armi a jihadisti siriani per un valore di 6,5 milioni di dollari. «Il trasferimento in Turchia è stato gestito da tre Ilyushin della compagnia Jordan International Air Cargo, e le armi sono state poi paracadute dall’esercito del Qatar». Secondo Eric Schmitt del “New York Times”, l’intero sistema era stato creato dal generale David Petraeus, allora direttore della Cia, agli ordini di Barack Obama. Nel 2012, continua Meyssan, quando la milizia libanese filo-siriana Hezbollah era sulle tracce del traffico Cia-Socom, venne commesso in Bulgaria un attentato contro turisti israeliani all’aeroporto di Burgas, centro nevralgico di quel traffico. «Ignorando l’inchiesta della polizia bulgara e la relazione del medico legale, il governo di Borisov accusò del crimine Hezbollah mentre l’Unione Europea classificò la resistenza libanese come un’organizzazione terroristica». Posizione poi smentita dal nuovo ministro degli esteri, Kristian Vigenin, dopo la caduta provvisoria di Borisov. E non è tutto. Secondo una fonte curda vicina al Pkk, nel maggio-giugno 2014 i servizi segreti turchi hanno noleggiato treni speciali per consegnare armi ucraine a Raqqa, la “capitale” di Daesh. «Le armi ucraine sono state pagate dall’Arabia Saudita, così come un migliaio di veicoli Hilux (pick-up a doppia cabina) appositamente modificati per resistere alle sabbie del deserto».Secondo un’altra fonte, belga, l’acquisto dei veicoli era stato negoziato con la ditta giapponese Toyota dalla società saudita Abdul Latif Jameel. E Andrey Fomin della “Oriental Review” aggiunge che il Qatar, «che non voleva essere tagliato fuori, ha acquistato per i jihadisti la versione più recente del complesso di difesa missilistica Air “Pechora-2D” presso la società statale ucraina UkrOboronProm. La consegna è stata effettuata dalla società cipriota Blessway Ltd». Ancora: secondo Jeremy Binnie e Neil Gibson, della rivista professionale di armamenti “Jane’s”, il comando militare Sealift della Us Navy ha pubblicato due bandi nel 2015 per il trasporto delle armi dal porto rumeno di Costanza fino al porto giordano di Aqaba. Il contratto è stato vinto dalla Transatlantic Lines. Trasporto poi «eseguito il 12 febbraio 2016, subito dopo la firma del cessate il fuoco da parte di Washington, in violazione del suo impegno». Pierre Balanian, di “Asia News”, dichiara che questo sistema è stato esteso nel marzo 2017 con l’apertura di una linea marittima regolare della compagnia statunitense Liberty Global Logistics, che collega il porto italiano di Livorno a quello di Aqaba in Giordania, nonché allo scalo marittimo di Gedda in Arabia Saudita.Secondo il geografo Manlio Dinucci, notista del “Manifesto”, questa linea-fantasma era destinata principalmente alla consegna di blindati in Siria e in Yemen. Stando a due giornalisti turchi, Yörük Işık e Alper Beler, gli ultimi contratti dell’era Obama sono stati eseguiti da Orbital Atk, che ha organizzato, attraverso Chemring e Danish H. Folmer & Co, una linea regolare tra Burgas (Bulgaria) e Gedda. Per la prima volta – precisa Meyssan – stiamo parlando non solo di armi prodotte dalla bulgara Vmz (Vazovski Machine Building Factory), ma anche da Tatra Defense Industrial Ltd, della Repubblica Ceca. «Molte altre operazioni si sono svolte in segreto, come dimostrano gli affari del carico Lutfallah II, ispezionato dalla marina militare libanese il 27 aprile 2012, o il cargo Trader, battente bandiera del Togo, ispezionato dalla Grecia il 1° maggio 2016», aggiunge sempre Meyssan. «Il totale di queste operazioni rappresenta centinaia di tonnellate di armi e munizioni, forse anche migliaia, prevalentemente pagate dalle monarchie assolute del Golfo, con il pretesto di sostenere una “rivoluzione democratica”. In realtà, le petro-dittature intervenivano solo per dispensare l’amministrazione Obama dal rendere conto al Congresso statunitense».In altre parole, il Parlamento Usa doveva restare all’oscuro dell’operazione “Sycamore”. «Tutto questo traffico era sotto il controllo personale del generale Petraeus, dapprima attraverso la Cia, di cui era direttore, poi tramite la società di investimenti finanziari Kkr, per la quale ha lavorato successivamente». Petraeus ovviamente «ha beneficiato dell’assistenza di alti funzionari, occasionalmente sotto la presidenza di Barack Obama e poi – massicciamente – sotto quella di Donald Trump». Gli Usa in cabina di regia, più alleati europei (Belgio, Croazia), nazioni Nato come la Turchia, paesi mediorientali (Giordania) e petro-monarchie del Golfo. E non solo: Meyssan rivela anche il ruolo, fin qui segreto, di uno Stato ex-sovietico come l’Azerbaigian, grande produttore di petrolio attraverso le piattaforme di Baku sul Mar Caspio. Secondo Sibel Edmonds, agente “pentita” dell’Fbi, poi fondatrice della National Security Whistleblowers Coalition (associazione che diffonde notizie riservate e imbarazzanti) l’Azerbaigian vanta un passato estremamente collaborativo, nei confronti del terrorismo Cia: sotto il presidente Heydar Aliyev, dal 1997 al 2001 ha ospitato a Baku nientemeno che la primula rossa di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, già braccio destro di Osama Bin Laden.Al-Zawahiri sarebbe stato nascosto a Baku «su richiesta della Cia». Sebbene fosse ufficialmente ricercato dall’Fbi, aggiunge Meyssan, il super-terrorista «viaggiò regolarmente su aerei della Nato in Afghanistan, Albania, Egitto e Turchia». Di più: avrebbe anche «ricevuto frequenti visite dal principe Bandar Bin Sultan dell’Arabia Saudita». Per i suoi rapporti in materia di sicurezza con Washington e Riad, aggiunge Meyssan, l’Azerbaigian – la cui popolazione è in prevalenza sciita – si è unito alla sunnita Ankara, «che lo sostiene nel suo conflitto con l’Armenia per la secessione della Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh)». L’anziano, storico presidente Heydar Aliyev è morto negli Stati Uniti nel 2003, lasciando il posto al figlio Ilham Aliyev. Dopo la fine dell’Urss, la Camera di Commercio Usa-Azerbaigian è diventata «il retrobottega di Washington», esibendo accanto al presidente Aliyev personaggi del calibro di Richard Armitage, James Baker, Zbigniew Brzezinski, Dick Cheney, Henry Kissinger, Richard Perle, Brent Scowcroft e John Sununu.Secondo la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, nel 2015 il ministro per i trasporti Ziya Mammadov ha messo la compagnia statale Silk Way Airlines a disposizione della Cia, con spese a carico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sotto la copertura di “voli diplomatici”, al riparo dalle ispezioni previste dalla Convenzione di Vienna. «In meno di tre anni – sottolinea Meyssan – oltre 350 voli hanno beneficiato di questo straordinario privilegio». Naturalmente, aggiunge, il “voli diplomatici” non sono autorizzati a trasportare materiale bellico. Ma a chiudere un occhio – oltre agli Stati coinvolti direttamente nel traffico – furono paesi come Germania, Serbia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, più Turchia e Israele. Risultato: «In meno di tre anni, la Silk Way Airlines ha trasportato armamenti per un valore di almeno un miliardo di dollari». Secondo Dilyana Gaytandzhieva, l’organizzazione clandestina ha trafficato armi anche in Pakistan e Congo, sempre a carico di sauditi ed Emirati. Alcune delle armi consegnate in Arabia Saudita sarebbero state “reindirizzate” in Sudafrica e quelle arrivate in Pakistan sarebbero servite a commettere attentati “islamisti” in India, mentre quelle trasportate in Afghanistan «sarebbero pervenute ai Talebani, sotto il controllo degli Stati Uniti, che fingono di combatterli».In questi anni, conclude Meyssan, tra i principali mercanti d’armi figurano le aziende statunitensi Chemring, Culmen International, Orbital Atk e Purple Shovel. Poi i caucasici: «Oltre alle armi di tipo sovietico prodotte dalla Bulgaria, l’Azerbaigian, sotto la responsabilità del ministro dell’industria della difesa Yavar Jamalov, acquistò delle scorte in Serbia, Repubblica Ceca e anche in altri Stati, dichiarando ogni volta che l’Azerbaigian era il destinatario finale di questi acquisti». Per quanto riguarda il materiale elettronico di intelligence, «Israele ha messo a disposizione la ditta Elbit Systems, che ha finto di essere il destinatario finale, in quanto l’Azerbaigian non ha il diritto di acquistare questo tipo di apparecchiature». Israele, che ha finto di essere neutrale lungo tutto il conflitto siriano, ha comunque bombardato più volte l’esercito di Damasco. Ogni volta, Tel Aviv ha accampato «il pretesto di aver distrutto armi destinate agli Hezbollah libanesi». In realtà, oggi sappiamo che Israele ha supervisionato le consegne di armi agli jihadisti, rivestendo quindi un ruolo centrale nella guerra sporca contro la Siria. Per l’Onu, falsificare certificati di consegna per la fornitura di armi a mercenari e terroristi è un crimine internazionale. L’operazione Timber Sycamore, nei suoi vari aspetti, è il caso criminale più importante di traffico di armi nella storia: «Coinvolge almeno 17 Stati e rappresenta diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per svariati miliardi di dollari».Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.
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Trump disperato bombarda Assad, ma le vittime siamo noi
Cinquantanove missili Tomahawk contro la base aerea siriana da cui l’Occidente sostiene, senza alcuna prova, che sia partito l’attacco col gas Sarin che il 4 aprile ha ucciso un’ottantina di civili nella città di Idlib. Ancora una volta, annota Giampiero Venturi sul newmagazine “Difesa Online”, l’unica fonte è lo screditatissimo “Osservatorio siriano per i diritti umani”, noto per sfornare “fake news” da un minuscolo ufficio di Coventry, nel Regno Unito, gestito da una sola persona, in contatto con l’intelligence occidentale che, da ormai cinque anni, sta manipolando forze sul terreno siriano per tentare di rovesciare il governo di Bashar Assad. Sulla vicenda dell’attacco con i gas pesa il terribile precedente del 2013, quando Obama fu a un passo dal bombardamento, dopo aver incolpato da Siria per l’attacco chimico a Ghouta, alla periferia di Damasco, che poi l’Onu chiarì che fu scatenato dai miliziani ostili ad Assad. Stavolta, la Casa Bianca non ha atteso indagini e (dopo aver avvertito i russi) il 7 aprile ha bombardato la base di Ash Shayrat, uccidendo militari siriani. Autorevoli analisti americani, come Paul Craig Roberts, già da tempo avvertono che Donald Trump sarebbe caduto nelle mani dell’establishment neocon, cresciuto con Bush ma rimasto saldamente al potere con Obama e la Clinton: è il partito della guerra, che vive di armamenti e maxi-finanziamenti all’intelligence, per i quali è necessario un “nemico” che giustifichi la spesa.La mossa americana sembra originata dalla lucida disperazione di Trump, completamente isolato sul piano della politica interna: demonizzato dalla potentissima lobby Obama-Clinton, incalzato dalle false notizie sui presunti rapporti privilegiati con Mosca e costretto persino a rimangiarsi la solenne promessa di smontare la riforma sanitaria Obamacare. Trump ha l’aria di essere in un vicolo cieco: per cercare di tenere a bada il vero potere, non esita a ricorrere ai missili: non più solo una minaccia, ma ormai un fatto, destinato a intimidire anche la Corea del Nord e l’Iran, paese impegnato – insieme ai russi e ai libanesi di Hezbollah – a sostenere anche militarmente il regime di Assad, contro il quale cospirano incessantemente la Turchia, Israele, gli Emirati come il Qatar e l’Arabia Saudita, con azioni clandestine e illegali – armamento ai miliziani, protezione tattica e logistica – sotto la supervisione della Nato, che ha garantito la supremazia dell’Isis fino all’intervento dell’aviazione russa disposto da Vladimir Putin. L’attacco coi gas, destinato a rovinare Assad preparando il blitz missilistico – secondo lo stesso Venturi aveva due obbiettivi: rimuovere dall’opinione pubblica internazionale l’impatto del devastante attentato terroristico inferto alla Russia a San Pietroburgo e seppellire l’immagine del governo Assad, che – con l’aiuto di Mosca – in Siria sta ormai vincendo la guerra contro i terroristi armati dall’Occidente.Un conferma indiretta dell’entità reale del pericolo viene dai media mainstream, che continuano – in coro – a raccontare il contrario della verità. Nessuno dei grandi giornali e dei maggiori network televisivi ricostruisce l’origine della crisi siriana, emblematizzata da una foto eloquente: quella del senatore John McCain, inviato speciale di Obama, ripreso in Siria in compagnia del “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis, stranamente scarcerato dal centro di detenzione di Camp Bucca, in Iraq, nel 2009. Da allora, il progetto Isis – perfettamente funzionale al “partito della guerra” – ha infettato l’intero Medio Oriente, fino alla Libia, da cui partirono armi chimiche destinate alla “resistenza” siriana per ordine di Hillary Clinton. Contro questo establishment “nero”, Donald Trump giocò una parte importante della sua campagna elettorale: più che Assad mi preoccupa l’Isis, disse. Ma oggi i missili li ha scagliati contro Assad, non contro l’Isis, ben sapendo che non sono gli amici di Assad, ma quelli dell’Isis, a minacciare il suo futuro alla Casa Bianca.A questi “amici”, Trump ha gettato un osso decisivo, il generale Michael Flynn, considerato una “colomba”, fautore della distensione con la Russia, sacrificato per tentare di placare il “partito della guerra”. Errore fatale, secondo Craig Roberts: è un po’ come illudersi di potersi sbarazzare della mafia pagando il pizzo; se cedi anche una sola volta, vieni percepito come “debole” e verrai assediato fino alla capitolazione. In alternativa, sempre secondo questo ragionamento, Trump potrebbe “salvarsi” nel modo più semplice: allineandosi completamente ai neocon e preparandosi ad eseguire i loro diktat. Per esempio, con una grandinata di missili Tomahawk sulla testa dei siriani, sapendo benissimo che non c’è nessuna prova che siano stati loro a colpire la popolazione di Idlib con i gas. Gli osservatori indipendenti più scettici su Trump l’avevano detto quasi subito: il neopresidente non ha la stoffa per difendersi dal nemico interno, in un sistema che appare irrimediabilmente inquinato. Lo dimostra l’esito delle primarie dei democratici: aveva vinto Sanders, ma a è stato tolto di mezzo ricorrendo a brogli. Il “partito della guerra” puntava su Hillary Clinton. Ha perso, ma non sa perdere. E così “costringe” alla guerra Trump. Oggi contro Assad, domani contro Putin, cioè l’uomo che ha demolito l’Isis in Siria, infliggendo una sconfitta bruciante al “partito della guerra”. Siamo tutti in pericolo? A quanto pare, sì: dai media è letteralmente scomparsa la verità, che – come è noto – è la prima vittima di qualsiasi guerra. La cattiva notizia è che quella in corso, fondata sulla menzogna sistematica, è una guerra innanzitutto contro di noi.Cinquantanove missili Tomahawk contro la base aerea siriana da cui l’Occidente sostiene, senza alcuna prova, che sia partito l’attacco col gas Sarin che il 4 aprile ha ucciso un’ottantina di civili nella città di Idlib. Ancora una volta, annota Giampiero Venturi sul newmagazine “Difesa Online”, l’unica fonte è lo screditatissimo “Osservatorio siriano per i diritti umani”, noto per sfornare “fake news” da un minuscolo ufficio di Coventry, nel Regno Unito, gestito da una sola persona, in contatto con l’intelligence occidentale che, da ormai cinque anni, sta manipolando forze sul terreno siriano per tentare di rovesciare il governo di Bashar Assad. Sulla vicenda dell’attacco con i gas pesa il terribile precedente del 2013, quando Obama fu a un passo dal bombardamento, dopo aver incolpato da Siria per l’attacco chimico a Ghouta, alla periferia di Damasco, che poi l’Onu chiarì che fu scatenato dai miliziani ostili ad Assad. Stavolta, la Casa Bianca non ha atteso indagini e (dopo aver avvertito i russi) il 7 aprile ha bombardato la base di Ash Shayrat, uccidendo militari siriani. Autorevoli analisti americani, come Paul Craig Roberts, già da tempo avvertono che Donald Trump sarebbe caduto nelle mani dell’establishment neocon, cresciuto con Bush ma rimasto saldamente al potere con Obama e la Clinton: è il partito della guerra, che vive di armamenti e maxi-finanziamenti all’intelligence, per i quali è necessario un “nemico” che giustifichi la spesa.
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E’ finita: addio Flynn, Trump ridotto a zerbino dai neocon
Meno di un mese fa avevo messo in guardia sul fatto che negli Stati Uniti era in corso una rivoluzione colorata. Il mio primo elemento probatorio era stata la cosiddetta “indagine” che Cia, Fbi, Nsa ed altri stavano conducendo sul candidato che avrebbe dovuto diventare il Consigliere alla Sicurezza Nazionale del presidente Trump, il generale Flynn. Questa notte, il complotto per liberarsi di Flynn ha finalmente avuto successo e il generale Flynn ha offerto le sue dimissioni. Trump le ha accettate. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Flynn non era certo un santo o un uomo di tale saggezza da salvare il mondo con una mano sola. Non lo era. Però la figura di Flynn era la pietra angolare della politica di Trump sulla sicurezza nazionale. Per prima cosa, Flynn aveva osato l’impensabile: aveva osato dichiarare che l’ipertrofica comunità dell’intelligence americana doveva essere riformata. Aveva tentato anche di subordinare la Cia e gli stati maggiori riuniti al presidente attraverso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In altre parole, Flynn aveva cercato di strappare l’autorità e il potere assoluto alla Cia e al Pentagono, per riportarlo sotto il controllo della Casa Bianca.Flynn voleva anche collaborare con la Russia. Non perché fosse un amante della Russia, il solo pensiero che il direttore della Dia sia un fan di Putin è ridicolo, ma Flynn era razionale e aveva capito che la Russia non costituisce nessuna minaccia per gli Stati Uniti o per l’Europa e che la Russia e l’Occidente hanno interessi in comune. Questo è un altro psicoreato assolutamente imperdonabile a Washington Dc. Lo “Stato Profondo” neoconservatore ha ora costretto Flynn alle dimissioni, con lo stupido pretesto di una sua conversazione telefonica, su una linea aperta, non sicura e sicuramente monitorata, con l’ambasciatore russo. E Trump ha accettato queste dimissioni. Fin da quando Trump ha fatto il suo ingresso alla Casa Bianca, non ha fatto altro che ricevere colpi su colpi dai media dei neoconservatori sionisti, dal Congresso, dalle superbenpensanti “stelle” di Hollywood e anche dai politici europei. E Trump ha incassato tutti i colpi senza reagire. Non si è visto neanche una volta il suo famoso «sei licenziato!». Ma avevo ancora qualche speranza. Volevo avere qualche speranza. Credo che fosse mio dovere sperare. Ma ora Trump ci ha traditi tutti quanti.Ricordate che Obama aveva mostrato il suo vero volto quando aveva ipocritamente denunciato il suo amico e pastore reverendo Jeremiah Wright Jr.? Oggi Trump ha mostrato la sua vera faccia. Invece di respingere le dimissioni di Flynn e invece di licenziare quelli che avevano osato fabbricare queste ridicole accuse contro Flynn, Trump ha accettato le dimissioni. Questo non solo è un atto di vile codardia, ma è anche un tradimento, controproducente ed incredibilmente stupido, perché ora Trump rimarrà solo, completamente solo ad affrontare tipi come Mattis e Pence, i duri della guerra fredda, ideologici fino al midollo, gente che vuole la guerra e a cui, semplicemente, non importa nulla della realtà. Ripeto, Flynn non era il mio eroe. Ma, a tutti gli effetti, era l’eroe di Trump. E Trump lo ha tradito. Le conseguenze di una cosa del genere saranno immense. Per prima cosa, Trump è ora chiaramente a terra. Allo “Stato Profondo” ci sono volute solo alcune settimane per castrare Trump e costringerlo ad inchinarsi al vero potere. Quelli che si sarebbero schierati dalla parte di Trump ora sanno che non potranno contare sul suo appoggio e si allontaneranno tutti da lui.I neoconservatori saranno euforici per l’eliminazione del loro peggior nemico, e saranno così ringalluzziti da questa vittoria che continueranno a fare pressione, raddoppiando ogni volta la posta in gioco. E’ finita, gente, lo “Stato Profondo” ha vinto. D’ora in poi Trump sarà uno shabbos-goy, il fattorino per le consegne della lobby israeliana. Hassan Nasrallah aveva ragione a chiamarlo “un idiota”. I cinesi e gli iraniani rideranno apertamente. I russi no, saranno cortesi, sorrideranno e cercheranno di vedere se da questo disastro si potrà salvare un po’ di politica che abbia del buon senso. Qualcosa si potrà fare, ma tutti i sogni di partnership fra Russia e Stati Uniti sono morti stanotte. I leader europei, naturalmente, faranno festa. Trump non era affatto lo spauracchio terrificante che temevano. Viene fuori che è uno zerbino: ottimo per l’Unione Europea. Che cosa ne sarà di noi, dei milioni di anonimi “deplorabili” che cercano, meglio che possono, di resistere all’imperialismo, alla guerra, alla violenza e all’ingiustizia? Penso che avessimo fatto bene ad avere delle speranze, perché le speranze sono tutto quello che abbiamo. Nessuna prospettiva, solo speranze. Ma adesso, obbiettivamente, ci restano ben pochi motivi per sperare. Per prima cosa, la “palude di Washington” non verrà prosciugata. Semmai, la palude ha vinto.Possiamo solo trovare un po’ di consolazione in due fatti innegabili: 1. Hillary sarebbe stata molto peggio di qualunque versione della presidenza Trump; 2. Per sconfiggere Trump, lo “Stato Profondo” americano ha dovuto indebolire moltissimo gli Stati Uniti e l’Impero Anglo-Sionista. Proprio come le purghe di Erdogan hanno portato il caos nell’esercito turco, così la “rivoluzione colorata” anti-Trump ha inferto un enorme danno alla reputazione, all’autorità ed anche alla credibilità degli Stati Uniti. Il primo punto è ovvio, lasciatemi perciò chiarire il secondo. Nella loro rabbia piena di odio contro Trump e contro il popolo americano (il famoso “cesto di deplorabili”), i neoconservatori hanno dovuto mostrare la loro vera faccia. Con il loro rigetto del risultato elettorale, con i loro disordini, con la loro demonizzazione di Trump, i neoconservatori hanno fatto vedere due cose importanti: primo, che la democrazia americana è una barzelletta che non fa ridere, e che loro, i neoconservatori, sono un regime di occupazione, che governa contro la volontà del popolo americano.In altre parole, proprio come ad Israele, agli Stati Uniti non è rimasta nessuna legittimità. E, dal momento che gli Stati Uniti, proprio come Israele, sono incapaci di spaventare i loro nemici, a loro non rimane praticamente più nulla, nessuna legittimità, nessuna capacità di coercizione. Perciò sì, i neoconservatori hanno vinto. Ma la loro vittoria sottrae agli Stati Uniti l’unica possibilità di evitare il collasso. Trump, nonostante tutti i suoi difetti, metteva al primo posto gli Stati Uniti, come nazione, invece dell’Impero Globale. Trump era anche ben conscio che “ancora lo stesso” non era un’opzione praticabile. Voleva una politica tagliata sulle attuali capacità degli Stati Uniti. Senza Flynn e con i neoconservatori saldamente al comando, è tutto finito. Ritorneremo ad avere l’ideologia che ha il sopravvento sulla realtà. Trump avrebbe probabilmente potuto rendere l’America, beh, magari non “nuovamente grande”, ma almeno più forte, una grande potenza mondiale che avrebbe potuto negoziare e usare la sua influenza per ottenere dagli altri le migliori condizioni possibili. Ora è tutto finito.Con Trump al tappeto, Russia e Cina ritorneranno sulle loro posizioni ante-Trump: una resistenza ferma, sostenuta dalla volontà e dalla capacità di confrontarsi con gli Stati Uniti e di batterli a tutti i livelli. Sono abbastanza sicuro che oggi al Cremlino non ci sia nessuno che festeggia. Putin, Lavrov e gli altri si rendono sicuramente conto di che cosa è successo. E’ come se Khodorkovsy fosse riuscito a stroncare Putin nel 2003. Devo infatti dar credito agli analisti russi che, già da diverse settimane, paragonavano Trump a Yanukovich, anche lui eletto dalla maggioranza della popolazione, ma che non aveva mostrato la tempra necessaria per fermare la “rivoluzione colorata” scatenata contro di lui. Ma se Trump è il novello Yanukovich, gli Stati Uniti saranno la nuova Ucraina?Flynn era proprio la pietra angolare della così tanto sperata politica estera di Trump. C’era veramente la fondata possibilità che potesse riportare all’ordine le enormi, ipertrofiche e potentissime agenzie dalle tre lettere, e che focalizzasse la forza degli Stati Uniti contro i veri nemici dell’Occidente: i Wahabiti. Senza Flynn, l’intero edificio concettuale ora crolla. A noi rimarranno quelli come Mattis, con le sue dichiarazioni anti-iraniane. Pagliacci che fanno colpo solo su altri pagliacci. Oggi, la vittoria dei neoconservatori è un evento di enorme importanza, e probabilmente verrà completamente travisata dai media ufficiali. Ironicamente, anche i sostenitori di Trump cercheranno assolutamente di minimizzarla. Ma la realtà è che, salvo un miracolo dell’ultimo minuto, è finita per Trump e per le speranze dei milioni di persone che negli Stati Uniti e nel resto del mondo, avevano sperato di poter cacciare i Neoconservatori dal potere per mezzo di pacifiche elezioni. Questo, chiaramente, non succederà. Vedo nubi oscure all’orizzonte.(The Saker, “I neocon e lo Stato Profondo castrano la presidenza Trump, è finita gente!”, da “Saker Italia” del 14 febbraio 2017).Meno di un mese fa avevo messo in guardia sul fatto che negli Stati Uniti era in corso una rivoluzione colorata. Il mio primo elemento probatorio era stata la cosiddetta “indagine” che Cia, Fbi, Nsa ed altri stavano conducendo sul candidato che avrebbe dovuto diventare il Consigliere alla Sicurezza Nazionale del presidente Trump, il generale Flynn. Questa notte, il complotto per liberarsi di Flynn ha finalmente avuto successo e il generale Flynn ha offerto le sue dimissioni. Trump le ha accettate. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Flynn non era certo un santo o un uomo di tale saggezza da salvare il mondo con una mano sola. Non lo era. Però la figura di Flynn era la pietra angolare della politica di Trump sulla sicurezza nazionale. Per prima cosa, Flynn aveva osato l’impensabile: aveva osato dichiarare che l’ipertrofica comunità dell’intelligence americana doveva essere riformata. Aveva tentato anche di subordinare la Cia e gli stati maggiori riuniti al presidente attraverso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In altre parole, Flynn aveva cercato di strappare l’autorità e il potere assoluto alla Cia e al Pentagono, per riportarlo sotto il controllo della Casa Bianca.
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Navi e missili, e se questa guerra ora ci esplode addosso?
Giochi di guerra, sempre più pericolosi, a cui il mondo sembra assistere in modo apatico e distratto. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Washington non fa che alzare la posta, contro Mosca, da quando Putin ha osato opporsi alla demolizione della Siria dopo aver assistito a quella della Libia. La situazione sembra stia rapidamente precipitando, in uno scenario in cui i media russi parlano apertamente del rischio di una guerra nucleare, la Casa Bianca minaccia di colpire la Russia anche con un attacco cibernetico e il Cremlino spedisce nel Mediterraneo la più potente flotta da guerra mai uscita in missione dai tempi dell’Urss. E un grande giornalista come Robert Fisk sospetta che l’improvvisa liberazione di Mosul decisa dagli americani “serva” a trasferire in Siria i miliziani jihadisti: «L’esercito siriano, Hezbollah e gli alleati iraniani si stanno preparando a una a massiccia invasione di migliaia di “Isis fighters” che saranno cacciati dall’Iraq dopo la caduta di Mosul», scrive Fisk sull’“Independent”. «Il sospetto dell’esercito siriano è che il vero scopo, dietro la tanto strombettata “liberazione” della città irachena programmata dagli Usa, sia quello di sommergere la Siria con orde di combattenti Isis che devono abbandonare le loro capitale irachena per raggiungere la loro “mini-capitale” Raqqa all’interno della Siria stessa».E’ come se si stesse rapidamente scivolando verso il baratro: lo si capisce dalla successione degli eventi che affollano la stampa mainstream, e meglio ancora dal preciso monitoraggio offerto dal blog “Come Don Chisciotte”, che presenta lo stesso reportage di Fisk insieme a molti altri retroscena. Su “Zero Hedge”, Tyler Durden rivela che, secondo un diplomatico Nato, la Russia sta schierando nel Mediterraneo orientale la più grande forza navale dalla fine della guerra fredda, capitanata dalla portaerei Admiral Kuznetsov: oltre ai caccia Mig-29 e Sukhoi Su-33, secondo l’agenzia Tass l’ammiraglia imbarca midiciali elicotteri d’attacco come i Ka-52 Alligator, cioè la massima dotazione dell’armamento convenzionale russo, con il quale Putin proverà a chiudere la partita con l’Isis in Siria: «Vedremo un crescendo di attacchi aerei su Aleppo come parte di una strategia della Russia che vuol dichiarare vittoria», secondo la Nato. «Intensificare una campagna aerea su Aleppo orientale, dove sono intrappolate 275 mila persone, potrebbe ulteriormente peggiorare i legami tra Mosca e l’Occidente», secondo la fonte diplomatica. «Questo assalto dovrebbe essere sufficiente per consentire una strategia di uscita della Russia, se Mosca dovesse ritenere che Assad sia ormai abbastanza stabile per sopravvivere da solo».Proprio l’andamento della guerra in Siria, paese largamente riconquistato dalle forze governative dopo la discesa in campo di Mosca, sembra preoccupare i protettori occulti dell’Isis, cioè gli Stati Uniti, che hanno appoggiato sottobanco le milizie “islamiste” soprattutto attraverso l’Arabia Saudita, il Qatar e, fino a ieri, la Turchia. La Russia è sotto pressione, a partire dal golpe in Ucraina con la destabilizzazione dei confini e la rivolta del Donbass. Quello che Obama non perdona a Putin – da qui le sanzioni autolesionistiche che l’Ue è stata costretta ad adottare – è il fatto di aver osato reagire al colpo di Stato a Kiev riappropriandosi della Crimea, strategica per il controllo del Mar Nero. Una partita a scacchi: persa la Crimea, l’Occidente ha puntato tutto sull’Isis in Siria fino a minacciare la sopravvivenza di Assad. E il nuovo intervento difensivo russo, a sostegno di Damasco, è stato ancora una volta coronato dal successo. Nei piani del Cremlino, l’attacco finale su Aleppo dovrebbe disarticolare definitivamente le milizie dell’Isis, mandando all’aria i piani dei “signori della guerra” che, a partire dalla demolizione dell’Iraq, hanno continuamente gettato benzina sul fuoco in tutta la regione, sfruttando il conflitto tra sciiti e sunniti.Il pericolo cresce, quanto più si avvicina la possibile vittoria di Putin – inaccettabile, per Obama, specie alla vigilia delle elezioni, su cui incombe la “minaccia” di Trump, l’outsider che promette di porre fine alla “guerra permanente” in Medio Oriente. Così, “Nbc News” avverte che «la Cia si prepara a un possibile attacco cibernetico contro la Russia». Interrogato in proposito da Chuck Todd a “Meet the press”, il vicepresidente Joe Biden conferma: gli Usa colpiranno. «Ne abbiamo le capacità», ha detto. E l’attacco «avverrà nel momento che riteniamo opportuno e sotto le circostanze che giudichiamo garantire il maggiore impatto», come riferisce Michael Snyder su “The Economic Collapse”. In più, la “Reuters” afferma che Obama sta contemplando l’ipotesi di «un intervento militare americano diretto» contro obiettivi militari siriani, ben sapendo che i russi hanno già messo in chiaro che reagiranno coi loro missili a qualunque aggressione diretta contro le forze di Assad. Nelle televisioni moscovite, intanto, si ricomincia a parlare apertamente di rifugi antiatomici. E il Mediterrano si va riempiendo di navi da guerra, armate con testate di ogni tipo.Giochi di guerra, sempre più pericolosi, a cui il mondo sembra assistere in modo apatico e distratto. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, Washington non fa che alzare la posta, contro Mosca, da quando Putin ha osato opporsi alla demolizione della Siria dopo aver assistito a quella della Libia. La situazione sembra stia rapidamente precipitando, in uno scenario in cui i media russi parlano apertamente del rischio di una guerra nucleare, la Casa Bianca minaccia di colpire la Russia anche con un attacco cibernetico e il Cremlino spedisce nel Mediterraneo la più potente flotta da guerra mai uscita in missione dai tempi dell’Urss. E un grande giornalista come Robert Fisk sospetta che l’improvvisa liberazione di Mosul decisa dagli americani “serva” a trasferire in Siria i miliziani jihadisti: «L’esercito siriano, Hezbollah e gli alleati iraniani si stanno preparando a una massiccia invasione di migliaia di “Isis fighters” che saranno cacciati dall’Iraq dopo la caduta di Mosul», scrive Fisk sull’“Independent”. «Il sospetto dell’esercito siriano è che il vero scopo, dietro la tanto strombettata “liberazione” della città irachena programmata dagli Usa, sia quello di sommergere la Siria con orde di combattenti Isis che devono abbandonare le loro capitale irachena per raggiungere la loro “mini-capitale” Raqqa all’interno della Siria stessa».
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Inglesi già in Libia, Turchia e Israele coi terroristi in Siria
Il Regno Unito ha schierato di nascosto forze speciali in Libia, mentre Israele sta chiudendo un occhio su Al-Nusra in Siria. E la Turchia vuole che gli islamisti radicali abbiano la meglio in Medio Oriente ed entrino in Europa: sono le sconvolgenti informazioni che re Abdullah di Giordania ha confidenzialmente condiviso con i parlamentari degli Stati Uniti. Il sovrano giordano, al potere dal 1999, ha dato questa schietta valutazione ai leader del Congresso, tra cui John McCain e Paul Ryan, in un incontro a porte chiuse durante la sua visita negli Stati Uniti a gennaio. Lo si apprende tramite una fuga di notizie finita sul “Guardian”. Nella rivelazione più importante, il reale ha detto che le forze speciali giordane operanti in Libia sono state incorporate in un contingente britannico di unità “Sas” per aiutare i corpi speciali inglesi a superare le barriere culturali e linguistiche. L’agenzia di intelligence Stratfor conferma: le “Sas” inglesi in Libia starebbero «scortando squadre del Mi6», impegnate ad «incontrare i funzionari libici per la fornitura di armi e addestramento all’esercito siriano e alle milizie in lotta contro lo Stato Islamico».
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Armi e droga all’Isis, dai boss mafiosi al governo in Bulgaria
All’Isis sono finite armi di fabbricazione sovietica, per farle sembrare provenienti dalla dotazione storica dell’esercito siriano. Il fornitore occulto? La Bulgaria, paese Nato e membro dell’Ue. O meglio: la dirigenza bulgara guidata da un personaggio che è considerato un gangster. Boyko Borisov, già campione di karate, poi ministro, quindi premier. «Legato ai cartelli della droga». Per Jürgen Roth, specialista tedesco di criminalità organizzata, Borisov è «l’Al Capone bulgaro». Armi e droga, carichi proibiti e finiti prima ai jihadisti in Libia e poi all’Isis in Siria, su ordine della Cia. Una vicenda inquietante, ricostruita da Thierry Meyssan su “Rete Voltaire”, newsmagazine di geopolitica. All’origine del business, una sostanza dopante: la fenetillina, utilizzata negli ambienti sportivi e poi opportunamente tagliata con hashish. «Dei trafficanti bulgari videro in ciò un’opportunità. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sino all’ingresso nell’Unione Europea, cominciarono a produrla e a esportarla illegalmente in Germania con il nome di Captagon». E qui, secondo Meyssan, entra in gioco Borisov.«Due gruppi mafiosi si fecero una forte concorrenza, Vasil Iliev Security (Vis) e Security Insurance Company (Sic), da cui dipendeva il karateka Boyko Borisov». Questo sportivo di alto livello, professore all’Accademia di polizia, creò una società di protezione delle persone altolocate. Borisov, scrive Meyssan, divenne la guardia del corpo di entrambi gli ex presidenti, sia il filosovietico Todor Zhivkov sia il filo-Usa Simeone II di Saxe-Cobourg-Gotha. Quando questi divenne primo ministro, Borisov fu nominato direttore centrale del ministero degli interni, e poi venne eletto sindaco di Sofia. Nel 2006, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Bulgaria (e futuro ambasciatore in Russia) John Beyrle, ne fa un ritratto in un dispaccio confidenziale rivelato da Wikileaks: «Lo presenta come legato a due grandi boss mafiosi, Mladen Mihalev (detto “Madzho”) e Rumen Nikolov (detto “Il Pascià”), i fondatori della Sic». Nel 2007, “Us Congressional Quarterly” cita una compagnia svizzera, secondo la quale Borisov avrebbe «insabbiato parecchie indagini presso il ministero degli interni», trovandosi «lui stesso coinvolto in 28 delitti di mafia».Borisov, continua Meyssan, sarebbe diventato uno stretto collaboratore di John McLaughlin, il vicedirettore della Cia. «Avrebbe installato in Bulgaria una prigione segreta dell’Agenzia e avrebbe contribuito a fornire una base militare nel quadro del progetto d’attacco contro l’Iran». Divenuto lui stesso primo ministro, mentre il suo paese era già membro della Nato e dell’Ue, venne sollecitato dalla Cia affinché desse un aiuto nella guerra segreta contro Muhammar Gheddafi. «Boyko Borisov fornì il Captagon prodotto dalla Sic ai jihadisti di Al-Qaeda in Libia», scrive Meyssan. «La Cia rese questa droga sintetica più attraente e più efficiente mescolandola con una droga naturale, l’hashish, consentendo così di manipolare più facilmente i combattenti e di renderli più terrificanti». In seguito, «Borisov ha esteso il suo mercato alla Siria». Ma la cosa più importante, sempre secondo Meyssan, si è avuta «quando la Cia, utilizzando le peculiarità di un ex Stato membro del Patto di Varsavia che aveva aderito alla Nato, acquistò da esso armamenti di tipo sovietico per un valore di 500 milioni di dollari e li trasportò in Siria».Si trattava principalmente di 18.800 lanciagranate anticarro portatili e di 700 sistemi di missili anti-carro Konkurs, precisa Meyssan. Armi perfette, per sembrare “siriane”, cioè sottratte dai “ribelli” all’esercito regolare di Damasco. Non manca un giallo: la struttura segreta colpì immediatamente la milizia sciita libanese di Hezbollah, scesa in campo per difendere Assad, non appena cercò di far luce sullo strano traffico di armi. «Quando Hezbollah inviò una squadra in Bulgaria per informarsi su questo traffico, un bus di turisti israeliani fu oggetto di un attentato a Burgas, che causò 32 feriti. Immediatamente – scrive Meyssan – Benjamin Netanyahu e Boyko Borisov accusarono la resistenza libanese, mentre i media atlantisti diffusero numerose accuse contro il presunto attentatore suicida di Hezbollah. In ultima analisi, il medico legale, la dottoressa Galina Mileva, si accorse che la sua salma non corrispondeva alle descrizioni dei testimoni; un responsabile del controspionaggio, il colonnello Lubomir Dimitrov, notò che non si trattava di un attentatore suicida, ma di un semplice corriere, e che la bomba era stata attivata a distanza, probabilmente a sua insaputa; mentre la stampa accusava due arabi che avevano cittadinanza canadese e australiana, la “Sofia News Agency” citò un complice statunitense conosciuto con lo pseudonimo di David Jefferson».Così, quando l’Unione Europea «approfittò del caso per classificare Hezbollah come “organizzazione terroristica”», il ministro degli esteri in carica durante il breve periodo in cui Borisov è stato escluso dal potere esecutivo, Kristian Vigenine, ha sottolineato che, in realtà, non ci sono prove per collegare l’attacco alla resistenza libanese. Poi, a partire dalla fine del 2014, la Cia cessò di dare ordini alla Bulgaria e la sostituì con l’Arabia Saudita. L’Isis ha quindi smesso di ottenere armi di tipo sovietico, ricevendo direttamente materiale della Nato, come i missili anticarro Tow. «Ben presto, Riad fu sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti». I due Stati del Golfo, continua Meyssan, assicurarono essi stessi la consegna degli armamenti ad Al-Qaeda e a Daesh tramite la “Saudi Arabian Cargo” e la “Etihad Cargo”, presso Tabuk lungo la frontiera saudita-giordana e anche presso la base comune degli Emirati, della Francia e degli Usa che si trova a Dhafra. Ultimo colpo della Cia, nel giugno 2014: proibire alla Bulgaria di autorizzare il transito del gasdotto russo South Stream, nel quandro delle sanzioni contro Mosca dopo la crisi in Ucraina. Un danno per le casse bulgare, un freno all’Ue. Ma anche un pretesto per sviluppare il gas di scisto in Europa orientale e «mantenere l’interesse a rovesciare la Repubblica araba siriana, possibile grande esportatore di gas».All’Isis sono finite armi di fabbricazione sovietica, per farle sembrare provenienti dalla dotazione storica dell’esercito siriano. Il fornitore occulto? La Bulgaria, paese Nato e membro dell’Ue. O meglio: la dirigenza bulgara guidata da un personaggio che è considerato un gangster. Boyko Borisov, già campione di karate, poi ministro, quindi premier. «Legato ai cartelli della droga». Per Jürgen Roth, specialista tedesco di criminalità organizzata, Borisov è «l’Al Capone bulgaro». Armi e droga, carichi proibiti e finiti prima ai jihadisti in Libia e poi all’Isis in Siria, su ordine della Cia. Una vicenda inquietante, ricostruita da Thierry Meyssan su “Rete Voltaire”, newsmagazine di geopolitica. All’origine del business, una sostanza dopante: la fenetillina, utilizzata negli ambienti sportivi e poi opportunamente tagliata con hashish. «Dei trafficanti bulgari videro in ciò un’opportunità. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sino all’ingresso nell’Unione Europea, cominciarono a produrla e a esportarla illegalmente in Germania con il nome di Captagon». E qui, secondo Meyssan, entra in gioco Borisov.
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Lo straordinario coraggio del popolo siriano parla a tutti noi
Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dell’Isil nei campi gestiti dalla Nato costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’Occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.Più di due anni fa, la mia ex-videoredattrice indonesiana pretese una risposta in tono alterato: «Così tante persone muoiono in Siria! Ne vale davvero la pena? Non sarebbe più semplice e migliore per i siriani mollare e lasciare che gli Stati Uniti abbiano ciò che esigono?». Cronicamente pietrificata, questa giovane donna era sempre alla ricerca di soluzioni facili per mantenersi al sicuro, e con significativi vantaggi personali. Come tanti altri oggi, di questi tempi, per sopravvivere e andare aventi, hanno sviluppato un sistema contorto che poggia su tradimenti, autodifese e inganni. Come rispondere a una domanda del genere? Era legittima, dopo tutto. Eduardo Galeano mi disse: «La gente sa quando è il momento di combattere. Non abbiamo il diritto di dirglielo… e quando lo decide, è nostro obbligo sostenerla, anche guidandola se ci avvicina». In questo caso, il popolo siriano ha deciso. Alcun governo o forza politica potrebbe imporre a un’intera nazione tale enorme eroismo e sacrificio.I russi l’hanno fatto durante la Seconda Guerra Mondiale, e i siriani lo fanno ora. Due anni fa risposi così: «Ho assistito al crollo totale del Medio Oriente. Non c’era più niente in piedi. I paesi che hanno optato per la propria strada sono stati letteralmente rasi al suolo. I paesi che hanno ceduto ai dettami occidentali hanno perso anima, cultura ed essenza, trasformandosi alcuni nei luoghi più miseri della terra. E i siriani lo sapevano: se si arrendevano, sarebbero divenuti un altro Iraq, Yemen o Libia, perfino Afghanistan». E così la Siria si oppose. Decise di combattere, per sé e per la sua parte nel mondo. Ancora una volta, elesse il suo governo e si appoggiò al suo esercito. Qualunque cosa gli occidentali dicessero, qualsiasi tradimento le Ong scrivessero, la semplice logica lo dimostrava. Questa nazione modesta non ha media così potenti da condividere i propri coraggio e agonia col mondo. Sono sempre gli altri che ne commentano la lotta, spesso in modo del tutto dannoso. Ma è innegabile che, mentre le forze sovietiche fermarono l’avanzata dei nazisti a Stalingrado, i siriani sono riusciti a fermare le forze fasciste alleate degli occidentali nella sua parte del mondo.Naturalmente la Russia ne è direttamente coinvolta. Naturalmente la Cina osserva, anche se spesso nell’ombra. E l’Iran ha dato aiuto. Ed Hezbollah del Libano ha fatto ciò che descrivo spesso, una lotta epica assieme a Damasco contro i mostri estremisti inventati e armati da Occidente, Turchia e Arabia Saudita. Ma il merito principale deve andare al popolo siriano. Sì, ora non c’è più nulla del Medio Oriente. Ora sono più le lacrime che le gocce di pioggia a scendere su questa terra antica. Ma la Siria è in piedi. Bruciata, ferita, ma in piedi. E come è stato ampiamente riportato, dopo che le forze armate russe sono giunte in soccorso della nazione siriana, oltre 1 milione di siriani è potuto reintrare a casa… spesso trovando solo cenere e devastazione, ma a casa. Come le persone tornarono a Stalingrado, oltre 70 anni fa.Quindi quale sarebbe la mia risposta a tale domanda ora: “sarebbe più facile il contrario”, arrendersi all’Impero? Credo qualcosa del genere: «La vita ha un senso, è degna di essere vissuta solo se possono essere soddisfatte certe condizioni di base. Non si tradisce un grande amore, sia esso per un’altra persona o per un paese, l’umanità o gli ideali. Se non lo si fa, sarebbe meglio non nascere affatto. Allora dico: la sopravvivenza del genere umano è l’obiettivo più sacro. Non qualche effimero vantaggio o ‘sicurezza’ personale, ma la sopravvivenza di tutti noi, persone, nonché della sicurezza di tutti noi, esseri umani». Quando la vita stessa è minacciata, la gente tende a opporsi e a combattere, istintivamente. In quei momenti, alcuni dei capitoli più monumentali della storia umana sono stati scritti. Purtroppo, in quei momenti, milioni morirono. Ma la devastazione non è a causata da coloro che difendono la nostra razza umana. E’ causata dai mostri imperialisti e dai loro succubi.La maggior parte di noi sogna un mondo senza guerre, senza violenza. Vogliamo che la vera bontà prevalga sulla Terra. Molti di noi lavorano senza sosta per tale società. Ma fino a quando non sarà costruita, fino a quando ogni egoismo estremo, avidità e brutalità sarà sconfitto, dobbiamo lottare per qualcosa di molto più “modesto”, per la sopravvivenza dei popoli e dell’umanesimo. Il prezzo è spesso orribile. Ma l’alternativa è un grande vuoto. Semplicemente il nulla, alla fine, e nient’altro! A Stalingrado, milioni morirono per farci vivere. Nulla rimase della città, tranne che acciaio fuso, mattoni sparsi e un oceano di cadaveri. Il nazismo fu fermato. L’espansionismo occidentale iniziava la ritirata, all’epoca verso Berlino. Ora la Siria, con calma ma stoicamente ed eroicamente, si oppone ai piani sauditi, qatarioti, israeliani, turchi e occidentali per distruggere il Medio Oriente. E il popolo siriano ha vinto. Per quanto tempo, non lo so. Ma ha dimostrato che un paese arabo può ancora sconfiggere potenti orde assassine.(Andre Vltchek, “La Siria è la Stalingrado del Medio Oriente”, dalla rivista oline “New Eastern Outlook” del 2 gennaio 2016, ripreso dal newsmagazine “Aurora”. Andre Vltchek è un filosofo e scrittore russo, anche regista e giornalista investigativo, ideatore di “World Vltchek”, applicazione per Twitter).Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dell’Isil nei campi gestiti dalla Nato costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’Occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.
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Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
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Putin: Isis, la recita è finita. Erdogan gli compra il petrolio
«La coalizione guidata dagli Usa ha iniziato a sorvolare i cieli di Iraq e Siria un anno prima dell’inizio delle nostre operazioni militari: sono convinto che abbiano visto tutto», dice il ministro degli esteri russo, Sergeij Lavrov. Hanno “visto tutto” (il traffico di petrolio dal territorio controllato dall’Isis alla Turchia) ma «non hanno fatto nulla, per qualche ragione sconosciuta». E’ un colpo da ko quello sferrato da Putin il 2 dicembre 2015: la Russia esibisce prove, anche fotografiche e satellitari, del traffico di petrolio che l’Isis trafuga e rivende in Turchia per finanziarsi. E al vertice del business inconfessabile c’è la famiglia Erdogan, l’oligarca alla guida di Ankara (paese Nato) e il figlio, Bilal. Entrambi, accusa Mosca, fanno lucrosi affari coi tagliagole del Califfato, come sostiene il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov. Per la prima volta, viene strappato il velo sui “misteri” dell’Isis: quello che già si sapeva diventa verità ufficiale: non solo la Cia ha sempre sostenuto lo Stato Islamico insieme alla Francia e agli alleati del Golfo, sauditi e Qatar in primis, ma l’altro grande alleato, la Turchia, vede coinvolta la famiglia presidenziale nello scandalo del contrabbando di greggio.E’ la prima risposta, devastante, che la Russia rivolge alla Turchia dopo l’abbattimento del bombardiere Sukhoi-24 sul confine con la Siria. “Incidente” non seguito da scuse ufficiali di Ankara, che ha evidentemente cercato la rissa per sparigliare le carte sul terreno, dopo l’energica azione militare di Mosca che ha radicalmente cambiato lo scenario, mettendo in fuga l’invincibile Califfato sostenuto sottobanco da sunniti e occidentali. Mentre ora i bombardieri di Mosca volano scortati dai caccia, equipaggiati con missili aria-aria, e i cieli sono stati sigillati dallo scudo missilistico allestito dall’esercito russo (batterie di S-400 e sorveglianza speciale da parte della Flotta del Mar Nero), la Russia reagisce con misure durissime contro Ankara: bando su frutta e verdura, stop ai voli charter e ai pacchetti turistici, ripristino dei visti e divieto di assumere manodopera turca. E’ solo il primo passo, avvisa Mosca, perché la lista può essere estesa. Per ora il Cremlino evita di colpire i prodotti manifatturieri. E nulla trapela sui grandi progetti a rischio, come la prima centrale nucleare turca e il gasdotto Turkish Stream, che avrebbero ripercussioni anche sull’economia e sugli interessi geopolitici russi.Una bastonata mirata, dunque, senza danneggiare troppo l’economia. La stampa russa ipotizza contromisure turche che spaziano dal boicottaggio del Turkish Stream, che costringerebbe Mosca a rivedere la propria strategia energetica verso l’Europa, alla chiusura del Bosforo e dello stretto dei Dardanelli alle navi da guerra russe dirette in Siria, sfruttando le differenti interpretazioni della controversa legislazione marittima. Malgrado tutto, Ankara sembra però voler tentare il disgelo, non avendo percepito il sostegno dei leader occidentali dopo l’annuncio delle sanzioni russe. Evidente l’imbarazzo nell’area Nato: così come ha colpito la Turchia, l’informazione russa sul sostegno all’Isis (con dossier anche fotografici) potrebbe colpire anche gli altri sostenitori occulti del Califfato, che ora si affannano a inseguire i russi sulla via dei bombardamenti, dopo aver sostenuto per anni, sottobanco, la guerra del Califfo per rovesciare Assad e ridurre la Siria come la Libia. Qualcosa è cambiato, dopo lo storico accordo tra Obama e l’altro grande sponsor della Siria, l’Iran. Licenziato il generale Allen, che dirigeva il sostegno americano all’Isis, Obama ha dato il suo ok all’intervento militare di Putin.Nessuno, peraltro, si aspettava che Mosca mettesse in campo una tale potenza di fuoco, e con tanta celerità. Tutti spiazzati, gli ex “amici” dell’Isis, a cominciare da Israele, che ha regolarmente bombardato le milizie libanesi di Hezbollah impegnate in Siria contro il Califfato. Secondo svariati osservatori, proprio il progressivo venir meno del sostegno occulto allo Stato Islamico può aver generato tensioni e ricatti, dalla strage di Parigi contro la Francia di Hollande alle possibili minacce contro Erdogan, grande “padrino” dell’Isis attraverso la frontiera-colabrodo fra Siria e Turchia, comodamente utilizzata dai jihadisti per trovare ripario, ottenere armamenti e finanziarsi attraverso il traffico di petrolio. Ora, l’ennesima svolta di Mosca – l’offensiva mediatica, dopo quella militare – mette a nudo la farsa che ha finora tenuto in piedi l’Isis, che utilizza vasta manovalanza da paesi portati alla disperazione dalle guerre occidentali ma è stato lasciato crescere impunemente solo per un cinico calcolo. Il sacrificio del jet russo abbattuto (dopo quello dell’altro aereo, il volo di linea fatto esplodere sul Sinai, con più morti di quelli nelle strade di Parigi) ha indotto Mosca a cambiare passo. La recita è finita. Chi ha organizzato e sostenuto l’Isis, d’ora in poi, dovrà aspettarsi di tutto.«La coalizione guidata dagli Usa ha iniziato a sorvolare i cieli di Iraq e Siria un anno prima dell’inizio delle nostre operazioni militari: sono convinto che abbiano visto tutto», dice il ministro degli esteri russo, Sergeij Lavrov. Hanno “visto tutto” (il traffico di petrolio dal territorio controllato dall’Isis alla Turchia) ma «non hanno fatto nulla, per qualche ragione sconosciuta». E’ un colpo da ko quello sferrato da Putin il 2 dicembre 2015: la Russia esibisce prove, anche fotografiche e satellitari, del traffico di petrolio che l’Isis trafuga e rivende in Turchia per finanziarsi. E al vertice del business inconfessabile c’è la famiglia Erdogan, l’oligarca alla guida di Ankara (paese Nato) e il figlio, Bilal. Entrambi, accusa Mosca, fanno lucrosi affari coi tagliagole del Califfato, come sostiene il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov. Per la prima volta, viene strappato il velo sui “misteri” dell’Isis: quello che già si sapeva diventa verità ufficiale: non solo la Cia ha sempre sostenuto lo Stato Islamico insieme alla Francia e agli alleati del Golfo, sauditi e Qatar in primis, ma l’altro grande alleato, la Turchia, vede coinvolta la famiglia presidenziale nello scandalo del contrabbando di greggio.
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L’Onu: Israele collabora con l’Isis. Vuole il petrolio del Golan
Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa. Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al “Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe «partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014 il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite «largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti dell’Isis.La missione Undof, cioè la forza di peacekeeping dell’Onu stanziata al confini tra Israele e Siria presso le Alture del Golan dal 1974, ha rivelato che «Israele ha collaborato strettamente con le forze terroriste di opposizione siriane», incluso il fronte Al-Nusra (Al-Qaeda) e lo Stato Islamico, «mantenendo stretti contatti negli ultimi 18 mesi». In un servizio su “Journal-Neo” tradotto da “Come Don Chisciotte”, Engdhal scrive che diventa sempre più chiaro che almeno una fazione dell’amministrazione Obama ha “fabbricato” e usato l’Isis per cacciare Assad e demolire la Siria, riducendola come la Libia. Sulla lista nera, «i neocon che ruotano attorno all’ex direttore della Cia, nonché boia della resistenza irachena, il generale David Petraeus», e il generale John Allen, già inviato speciale di Obama per la coalizione anti-Isis, nonché l’ex segretario di Stato Hillary Clinton. Il generale Allen, sostenitore della “no-fly zone” tra Siria e Turchia (che Obama ha respinto) è stato significativamente rimosso il 23 ottobre, dopo l’avvio dei bombardamenti russi. Ma è altrettanto importante il ruolo di Israele: «E’ ormai consolidato che il Likud di Netanyahu e le forze armate israeliane lavorino a fianco ai guerrafondai neocon, così come lo è l’opposizione del primo ministro Benjamin Netanyahu all’accordo di Obama sul nucleare iraniano», scrive Engdhal.«Israele considera Hezbollah, il partito islamico sciita appoggiato dall’Iran, con sede nel Libano, come il nemico principale». Alleato dell’Iran (e di Hamas a Gaza), Hezbollah combatte a fianco all’esercito siriano contro l’Isis in Siria. Fino a ieri, il Califfato ha potuto espandere il suo controllo proprio grazie al generale Allen. E non solo: accanto all’Isis c’era sempre anche Israele. «Almeno dal 2013 – continua Engdhal – le forze armate israeliane hanno apertamente bombardato quelli che ritenevano fossero gli obiettivi di Hezbollah in Siria. Un’indagine ha infatti rivelato come Israele stesse colpendo le forze armate siriane e alcuni obiettivi di Hezbollah che stavano efficacemente contrastando l’Isis e altri gruppi terroristi. In questo modo Israele sta attualmente aiutando di fatto l’Isis», così come i bombardamenti anti-Isis del generale Allen, protratti per un anno. «Che una fazione del Pentagono abbia lavorato in segreto per addestrare, armare e finanziare quella che oggi chiamiamo Isis (o Is) in Siria, è oggi provato nero su bianco», spiega Engdhal. Nell’agosto del 2012, un documento del Pentagono classificato come “segreto”, poi successivamente desecretato sotto la pressione dell’Ong “Judicial Watch”, ha descritto con precisione la nascita di quello che è diventato in seguito l’Isis, sorto dallo Stato Islamico dell’Iraq, quindi affiliato ad Al-Qaeda.Il documento del Pentagono riportava che «c’è la possibilità di impiantare un’entità statale salafita nella Siria orientale (Hasaka e Der Zor), e questo è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione ad Assad, al fine di isolare il regime siriano, considerato l’avamposto strategico dell’espansione sciita». Sul banco degli imputati, insieme agli Usa, anche il Qatar, la Turchia, l’Arabia Saudita. E, dietro le quinte, Israele. «La creazione di “un’entità salafita nella Siria orientale,” oggi territorio dell’Isis, era nell’agenda di Petraeus, del generale Allen e di altri al fine di distruggere Assad», prosegue Engdhal. «E’ questo che porta l’amministrazione Obama in stallo con la Russia, la Cina e l’Iran, riguardo alla bizzarra richiesta Usa di rimuovere Assad prima che venga distrutto l’Isis». Questo gioco, continua l’analista, è oggi alla luce del sole. «E mostra al mondo la doppiezza di Washington nell’appoggiare quelli che la Russia definisce correttamente “terroristi moderati” contro un Assad regolarmente eletto». E lo Stato ebraico? «Che Israele si trovi inoltre in mezzo alla tana di ratti delle forze di opposizione terroristiche in Siria è stato confermato nel recente rapporto dell’Onu. Ciò che il rapporto non menzionava era invece il perché Israele avesse un interesse così forte per la Siria, specialmente per le alture del Golan»Già: perché Israele vuole rimuovere Assad? I documenti Onu, di cui il mainstream continua a non parlare, mostrano come le forze armate israeliane abbiano tenuto contatti regolari con membri del cosiddetto Stato Islamico fin dal maggio 2013. L’Idf, l’esercito israeliano, ha dichiarato che simili contatti ci sono stati “solo per fornire cure mediche a civili”, ma l’inganno «è stato svelato quando gli osservatori dell’Undof hanno accertato contatti diretti tra forze dell’Idf e soldati dell’Isis, fornendo anche assistenza medica a combattenti dello Stato Islamico». Il rapporto delle Nazioni Unite identifica ciò che i siriani hanno definito un “crocevia di movimenti di truppe tra l’Idf e l’Isis”, argomento che l’Undof – 1.200 osservatori sul campo – ha portato davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A partire dal 2013 e dall’escalation di attacchi israeliani contro la Siria lungo le Alture, ufficialmente per ricercare “terroristi di Hezbollah”, la stessa Undof è soggetta a massicci attacchi da parte dei terroristi dell’Isis e di Al-Nusra. Si registrano anche rapimenti, omicidi, furti di materiale e munizioni Onu, di veicoli e di altri beni, nonché il saccheggio e la distruzione delle varie strutture.Il Golan – ricco di giaciementi di petrolio – pare sia l’obiettivo a cui punta Netanyahu, che ha chiesto a Obama «di riconsiderare il fatto che Israele ha illegalmente occupato una parte delle alture», a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 tra Israele e i paesi arabi. Il 9 novembre Nethanyahu ha chiesto a Obama, apparentemente senza successo, di appoggiare formalmente l’annessione israeliana delle Alture del Golan illegalmente occupate, sostenendo che l’assenza di un governo siriano funzionante “dà luogo a diverse valutazioni” riguardo al futuro di quell’area così strategicamente importante. «Certamente – aggiunge Engdhal – Netanyahu non ha dato nessuna spiegazione plausibile sul fatto che le forze israeliane, assieme ad altre, sono state responsabili dell’assenza di un governo siriano funzionante a causa del loro supporto all’Isis ed al fronte qaedista Al-Nusra». Quando l’Undof ha iniziato a documentare nel 2013 i contatti sempre più frequenti tra l’esercito di Israele da una parte e l’Isis ed Al-Qaeda dall’altra lungo le Alture del Golan, la Genie Energy, una semi-sconosciuta compagnia petrolifera di Newark, nel New Jersey, assieme ad una sua controllata isreliana, la Afek Oil e Gas, iniziò a muoversi nelle Alture per delle esplorazioni petrolifere, col permesso del governo Netanyahu.Quello stesso anno, continua Engdhal, gli ingegneri dell’esercito di Israele sostituirono la recinzione di confine con la Siria, rimpiazzandola con una barriera dotata di filo spinato, sensori, radar e telecamere a infrarossi, come quelle del muro costruito da Israele lungo la West Bank palestinese. Yuval Bartov, geologo capo della controllata israeliana della Genie Energy, l’Afek Oil e Gas, ha annunciato alla Tv israeliana “Channel 2” che la sua compagnia ha scoperto un consistente giacimento petrolifero sulle Alture del Golan, profondo 350 metri: «A livello mondiale, i giacimenti hanno in media lo spessore di 20 o 30 metri, mentre questo è 10 volte più spesso», ha dichiarato Bartov. «Parliamo quindi di una quantità rilevante». Attenzione: nel vertice della Genie Energy siedono personaggi come Dick Cheney, ex vicepresidente Usa, e James Woosley, già direttore della Cia e famigerato neo-con. Con loro anche altre personalità di spicco, come quella di Lord Jacob Rothschild. «Nessuna persona sana di mente suggerirebbe che vi sia un legame tra i rapporti dell’esercito di Israele con l’Isis ed altri terroristi anti-Assad in Siria, specialmente lungo le alture del Golan, e la scoperta dei giacimenti da parte della Genie Energy nello stesso posto, o con i recenti appelli di Netanyahu al “ripensamento” sulle Alture del Golan ad Obama», conclude Engdhal. «Questo suonerebbe troppo simile ad una “teoria della cospirazione”, mentre tutte le persone ragionevoli sanno bene che non esistono cospirazioni ma solo coincidenze».Un colonnello israeliano catturato in Iraq con miliziani dell’Isis, e un dossier ufficiale dell’Onu che denuncia il ruolo di Israele nel supporto al Califfato. Motivo? Mettere le mani sul petrolio siriano, dopo che la società Genie Energy, in cui figura anche Dick Cheney, ha scoperto nel Golan un immenso giacimento. Ma nulla di tutto ciò affiora sui media mainstream, protesta il professor William Engdhal, consulente strategico e docente universitario negli Usa. Clamorosa la cattura dell’ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, sorpreso “a brache calate assieme all’Isis” dall’esercito iracheno. Secondo l’agenzia iraniana “Fars”, l’ufficiale era legato al “Battaglione Golani” dell’Isis, insieme a cui l’ufficiale avrebbe «partecipato alle operazioni terroristiche della fazione takfirita» dei miliziani jihadisti. Dal 30 settembre, cioè «da quando sono iniziati gli efficaci bombardamenti russi», scrive Engdhal, sono emersi dettagli sempre più imbarazzanti sul «ruolo alquanto sporco» giocato da Washington, dalla Turchia di Erdogan e anche da Israele. Già a fine 2014 il “Jerusalem Post” aveva scoperto un rapporto delle Nazioni Unite «largamente ignorato e politicamente esplosivo», che descrive come l’esercito israeliano sia stato visto cooperare con i combattenti dell’Isis.
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Giulietto Chiesa: perché Erdogan non avrà quello che voleva
L’obiettivo primario di Erdoğan è stato, ed è, quello di abbattere Bashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di compiacere i neo-con americani (che sono alleati di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia Saudita e Qatar. Da non dimenticare il “presidential order” con cui Obama, in fotocopia con l’analogo “order” che costituiva la dichiarazione di morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una minaccia per gli interessi americani nell’area. Erdoğan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli interessi strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq. Quale avrebbe potuto essere il regime che veniva dopo Assad non gli importava molto. In primo luogo perché, con ogni probabilità, la caduta di Assad avrebbe coinciso con il crollo dello Stato siriano, con il massacro degli alauiti-sciiti, e lo smembramento del suo territorio. Cosa che sarebbe stata oltremodo gradita anche a Israele e all’Arabia Saudita. Insomma una ripetizione (ma in grande) della demolizione della Libia.A quel punto ci sarebbe stato solo il problema di tenere a bada gli agenti occidentali di Al Nusra / Al Qaeda. E di competere con Israele nella conquista dei territori rimasti. In primo luogo nel dare un colpo cruciale a Hezbollah e nel prendere il Libano sotto controllo. Erdoğan non è uno sciocco. Sapeva che, nei suoi calcoli, sarebbe entrato anche un altro problema. Quello dei curdi. Il suo secondo obiettivo, parallelo al primo, era quello di impedire la creazione di uno Stato curdo. La distruzione dello Stato siriano avrebbe aperto infatti, come non mai prima d’ora, una tale prospettiva. Per cui, quando – a luglio di quest’anno – decise di entrare apertamente in guerra in Siria con la sua aviazione, spiegò a Obama che lo faceva per combattere lo Stato Islamico. In realtà la mossa gli servì per andare a bombardare i kurdi turchi del Pkk (che avevano rispettato la tregua con il governo curdo negli ultimi quattro anni) e per annichilire i kurdi di Siria (quelli che puntano alla creazione dello Stato curdo, una prima parte, in attesa delle altre) su un pezzo del territorio siriano a ridosso della Turchia. Ma questo stato kurdo di Siria già esiste in embrione. Si chiama Royava ed è stato costruito, pezzo per pezzo, anche con l’aiuto americano, lungo il confine turco.Washington ha contribuito all’operazione perché serviva a smantellare lo Stato siriano, un pezzo per volta. I kurdi siriani, del resto, erano e sono l’unica forza sul campo che agiva simultaneamente contro Assad e contro lo Stato Islamico. E, su questo unico punto, gli interessi di Ankara e quelli di Washington non coincidevano. Poi la Russia è arrivata a guastare il brodo. Putin si è mosso in modo molto pragmatico. Non soltanto per preservare il regime di Damasco, ma per difendere i propri interessi strategici (dare a tutto il Medio Oriente il segnale che la Russia è di nuovo interamente in campo) e anche quelli nazionali (colpire e sradicare sul nascere l’estremismo islamico di origine russa o dei territori ex sovietici). La Russia ha messo in atto una strategia a largo raggio, i cui effetti sarebbero stati tutti negativi per i piani turchi. Obiettivo: impedire il crollo dello Stato siriano e portare Assad al tavolo negoziale per una soluzione futura dopo un cessate il fuoco. Liquidare definitivamente lo Stato Islamico, senza mettere un solo piede russo a terra in Siria. A quel punto i curdi siriani sarebbero un ottimo interlocutore per una pace duratura. In cambio verrebbe data loro quella parte del territorio siriano che si sono guadagnata. Certo, questa parte del ragionamento russo non piacerà ad Assad, ma questi avrà avuto salva la vita e il potere, e potrà accontentarsi.Erdoğan, da quasi vincitore, si trova ora nella posizione di chi ha quasi perduto tutto (salvo i soldi del petrolio trafugato). E nessuno dei suoi alleati ha potuto impedire che avvenisse. Ha pensato che poteva rilanciare, come in una partita a poker, abbattendo il Sukhoi russo e trascinando la Nato ad uno scontro con la Russia. Il fatto è che Putin non sta giocando a poker, ma a scacchi. E “punire” la Russia non è faccenda tanto semplice. Adesso dovrà pagare un prezzo economico molto alto (perché Putin ha di fatto chiuso le frontiere al turismo russo e ai lavoratori turchi e ai capitali turchi in Russia). E un prezzo politico non meno alto. Perfino molti alleati della Nato hanno capito di avere a che fare con un tipo poco affidabile. Erdoğan sarà piaciuto a Varsavia e a Tallinn, Riga e Vilnius, ma certamente non è piaciuto a Parigi e a Berlino.(Giulietto Chiesa, “Erdoğan, cosa vuole – e perché non lo avrà”, da “Il Fatto Quotidiano” del 30 novembre 2015).L’obiettivo primario di Erdoğan è stato, ed è, quello di abbattere Bashar al-Assad. Lo spingono le sue ambizioni neo-ottomane, il suo islamismo sunnita ma anche capitalista, comunque anti-sciita. Lo spinge il calcolo tattico di compiacere i neo-con americani (che sono alleati di Israele e, quindi, puntano a liquidare la Siria, ostacolo principale alla costruzione della Grande Israele, dal Sinai fino all’Eufrate). Lo spinge la convergenza di interessi anti sciiti tra Israele, Arabia Saudita e Qatar. Da non dimenticare il “presidential order” con cui Obama, in fotocopia con l’analogo “order” che costituiva la dichiarazione di morte di Gheddafi, affermò nel 2011 che il governo di Damasco costituiva una minaccia per gli interessi americani nell’area. Erdoğan sa di essere nella Nato con lo scopo di difendere quegli interessi strategici, in attesa di costruirsene di propri. La fine di Bashar era il punto di convergenza di tutti questi disegni. Si aggiunga a questo che la Turchia è l’unico paese che può svolgere il ruolo (molto proficuo) di compratore del petrolio che lo Stato Islamico preleva in Siria e Iraq. Quale avrebbe potuto essere il regime che veniva dopo Assad non gli importava molto. In primo luogo perché, con ogni probabilità, la caduta di Assad avrebbe coinciso con il crollo dello Stato siriano, con il massacro degli alauiti-sciiti, e lo smembramento del suo territorio. Cosa che sarebbe stata oltremodo gradita anche a Israele e all’Arabia Saudita. Insomma una ripetizione (ma in grande) della demolizione della Libia.