Archivio del Tag ‘guerriglia’
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Finti sovranisti, innocui: il banco vince sempre, anche in Ue
Il risultato delle elezioni europee ‘migliora’ il quadro politico sia nazionale che continentale, ma solo marginalmente, perché come sempre ha vinto il Banco, cioè la Banca, essendo il gioco truccato. Cattolici, liberali, socialisti, nazionalisti e “sovranisti” si sono tenuti tutti all’interno del perimetro del modello, delle regole e dei meccanismi del capitalismo finanziario mondialista e della sua gerarchia di scopi e poteri, senza metterli in discussione, sebbene sappiano benissimo che sono essi il fomite dei mali sociali, economici ed ecologici che hanno promesso di risolvere – mali che hanno prudentemente imputato ad altre cause. Nessuno di essi è antisistema. Hanno recitato entro il teatrino delle divergenze predisposto per loro, entro il range di posizioni (fintamente) critiche autorizzato dal potere reale. Dietro la facciata di apparente alternatività tra le forze politiche in lizza elettorale, questo dato di fondo le accomuna tutte: tutte hanno cooperato nello spiegare al popolo bue i problemi che lo affliggono, dall’economia all’immigrazione, in termini irrealistici, semplicistici, emotivi – termini fuorvianti, quindi innocui per gli interessi forti. La politica, infatti, è l’arte del possibile, del pragmatismo, che, per raccogliere voti, si fa credere altro.I problemi economici (recessione, disoccupazione, indebitamento) sono stati presentati alla base come frutto di un’errata o avara posizione della cricca eurocratica, e come se si trattasse di conquistare il diritto a fare più deficit, e senza prospettare un piano B per il caso che le cose non cambieranno. Non è stata denunciata la monopolizzazione privatistica del potere monetario e finanziario nelle mani di un cartello sovranazionale, il quale ha da decenni deciso una politica globale di restrizione dello sviluppo reale, di finanziarizzazione della società e della politica, di centralizzazione del potere delle proprie mani, di sottomissione delle istituzioni, dei governi, dei parlamenti, attraverso il loro indebitamento programmato e a strozzo che li rende ricattabili e burattinabili, con enormi incrementi nella diseguaglianza, che hanno portato una minuscola élite al controllo della maggioranza del reddito e della ricchezza, e massacrato i diritti dei lavoratori. E poi li chiamano “populisti”.Neppure si è messo in discussione, prospettando un piano B per il caso di rifiuto dei dovuti correttivi, lo statuto e la gestione delle Bce, né la politica bancaria-monetaria europea che assegna all’Italia metà della liquidità pro capite che dà alla Francia e alla Germania, né il sistematicamente mancato rispetto tedesco dei limiti di surplus commerciale. Il problema dell’immigrazione è stato presentato e travisato in termini di mercanti di esseri umani, di affarismo dell’accoglienza e di abuso da parte degli stessi migranti. Non hanno spiegato, perché non si potevano mettere in urto con Cina, Francia, Belgio e altri paesi, che l’immigrazione sostitutiva di massa, o invasione, è spinta dal fatto che la Cina si sta accaparrandosi le terre africane, e gli occidentali le materie prime; e tutto questo produce le ondate di migranti economici e conflitti che degenerano in croniche guerre e guerriglie locali.Questi due problemi fondamentali, quello economico e quello migratorio, hanno cause e interessi retrostanti così potenti che non si possono nominare al grande pubblico, né li si può additare come avversari da combattere, ma si additano cause e colpevoli abbordabili. I partiti politici “sovranisti” e “populisti” italiani non hanno nemmeno messo in discussione l’impostazione di fondo dell’Unione Europea che, sin dalla sua progettazione, che, sotto la pelle d’agnello di Ventotene, pianifica e sta attuando la concentrazione del potere e delle risorse del continente nelle sue aree più efficienti, ossia in Germania e parte della Francia e dell’Olanda, a spese degli altri paesi. Nessuno ha descritto gli effetti e la funzione dell’Euro a questo disegno strategico, intenzionale. Nessuno ha promesso che porterà l’Italia fuori dall’euro, se l’euro non verrà riformato in modo tale che non abbia più quell’effetto. Nessuno ha fatto un conto oggettivo dei danni e benefici dell’Ue (politica agricola, politica fiscale, politica monetaria): sarebbe stato troppo rivelatore! Dove sono allora il sovranismo e il populismo, all’atto pratico?I partiti creduti sovranisti non sono realmente sovranisti anche perché non hanno messo in luce il problema della posizione appunto subalterna dell’Italia rispetto agli interessi di altri paesi dell’Ue, non hanno proposto una soluzione realistica a questa condizione che ci condanna alla sistematica e progressiva spoliazione e deindustrializzazione e africanizzazione. Si sono limitati a dire che avranno più forza nel Parlamento Europeo, mentre in ogni caso i vari partiti “sovranisti” europei sono e rimangono una minoranza in quel Parlamento, e sono divisi tra loro perché portatori di interessi nazionali in buona parte contrapposti. Non è che Lega e 5 Stelle stiano sprecando le opportunità per mettere in luce e in discussione un sistema di potere contrario agli interessi nazionali: stanno semplicemente evitando di scontrarsi con esso per non essere licenziate. Almeno fino ad oggi.(Marco Della Luna, “Il Banco vince sempre”, dal blog di Della Luna del 27 maggio 2019).Il risultato delle elezioni europee ‘migliora’ il quadro politico sia nazionale che continentale, ma solo marginalmente, perché come sempre ha vinto il Banco, cioè la Banca, essendo il gioco truccato. Cattolici, liberali, socialisti, nazionalisti e “sovranisti” si sono tenuti tutti all’interno del perimetro del modello, delle regole e dei meccanismi del capitalismo finanziario mondialista e della sua gerarchia di scopi e poteri, senza metterli in discussione, sebbene sappiano benissimo che sono essi il fomite dei mali sociali, economici ed ecologici che hanno promesso di risolvere – mali che hanno prudentemente imputato ad altre cause. Nessuno di essi è antisistema. Hanno recitato entro il teatrino delle divergenze predisposto per loro, entro il range di posizioni (fintamente) critiche autorizzato dal potere reale. Dietro la facciata di apparente alternatività tra le forze politiche in lizza elettorale, questo dato di fondo le accomuna tutte: tutte hanno cooperato nello spiegare al popolo bue i problemi che lo affliggono, dall’economia all’immigrazione, in termini irrealistici, semplicistici, emotivi – termini fuorvianti, quindi innocui per gli interessi forti. La politica, infatti, è l’arte del possibile, del pragmatismo, che, per raccogliere voti, si fa credere altro.
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“Bergoglio fa il globalista? Oscura il suo passato fascista”
C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).Evidentemente anche nell’Argentina dei Peron il mito di Codreanu, barbaramente assassinato, e del suo integralismo cristiano, aveva proseliti. Nel ’74, dopo la morte di Peron, il movimento legionario si sciolse. Era un gruppo di 3.500 militanti e 15mila attivisti. Si opponevano ai guerriglieri di sinistra peronisti infiltrati dai castristi, seguaci di Che Guevara; loro erano, per così dire, l’ala di estrema destra del giustizialismo. Il gruppo della Guardia de Hierro era stato fondato da Alejandro Gallego Alvarez. Era un movimento che teneva molto alla formazione culturale dei suoi militanti e alla presenza tra i diseredati e gli ultimi. A Bergoglio fu poi affidata un’istituzione in difficoltà, l’Università del Salvador. Bergoglio la risanò e l’affidò a due ex-camerati della Guardia de Hierro, Francisco José Pinon e Walter Romero. In quegli anni Bergoglio era avversario dichiarato dei gesuiti di sinistra da posizioni nazionaliste e populiste. La sua avversione alla teologia della liberazione gli procurò l’accusa di omertà da parte del Premio Nobel Perez Esqivel e poi di collaborazionismo con la dittatura dei generali argentini, dal 1976 a 1983.Lo storico Osvaldo Bayer dichiarò ai giornali: «Per noi è un’amara sconfitta che Bergoglio sia diventato Papa». E Orlando Yorio, uno dei gesuiti filocastristi catturato e torturato dai servizi segreti del regime militare, accuserà: «Bergoglio non ci avvisò mai del pericolo che correvamo. Sono sicuro che egli stesso dette ai marinai la lista coi nostri nomi». Solo dopo la caduta della dittatura militare Bergoglio iniziò a prendere le distanze dal peronismo nazionalista. Ho tratto fedelmente questa ricostruzione dalle pagine del libro di Emidio Novi, “La riscossa populista”, appena uscito per le edizioni Controcorrente (pp.286, 20 euro). Novi sostiene che la deriva progressista e mondialista di Francesco nasca da questo passato rimosso. Secondo Novi, «Papa Bergoglio vuol farsi perdonare il suo passato “fascista” durato fino al 1980». Per questo non perde occasione di compiacere il politically correct, il partito progressista dell’accoglienza, l’antinazionalismo radicale.Novi, giornalista di lungo corso e senatore di Forza Italia, è morto lo scorso 24 agosto investito da un camion della nettezza urbana in retromarcia mentre era al suo paese natale, S.Agata di Puglia. Il suo libro è uscito postumo, con una prefazione di Amedeo Laboccetta e a cura di suo figlio Vittorio Alfredo. Novi si definiva populista già decenni prima che sorgesse in Italia l’onda populista. Era populista al cubo, perché proveniva dall’ala più “movimentista” dell’Msi ispirata dal fascismo sociale: poi perché proveniva dal sud e da Napoli, ed era un interprete genuino dell’antico populismo meridionale, a cavallo tra la rivolta popolana e la nostalgia borbonica; e infine era populista perché considerava l’oligarchia finanziaria, la dittatura dei banchieri e degli eurocrati, il nemico principale dei popoli nel presente. Perciò amava definirsi nazionalpopulista, e sovranista ante litteram.In questo suo ultimo libro Novi si occupa in più pagine del «papulismo» di Bergoglio, della sua teologia «improvvisata e arruffona», della sua resa all’Islam, della sua ossessione migrazionista fino a definire Gesù, la Madonna e San Giuseppe come una famiglia di immigrati clandestini in fuga. Lo reputa «uno strumento dell’anticristo», funzionale sia al progressismo radical dell’accoglienza che al mondialismo laicista della finanza, mescolando il vecchio terzomondismo, l’internazionalismo socialista con il disegno global che ci vuole nomadi, senza radici, senza patria e senza frontiere. Ma del suo passato argentino, al tempo di Peron, del giustizialismo e poi della dittatura militare, Bergoglio preferisce non parlare. Anche gli estroversi a volte tacciono.(Marcello Veneziani, “Camerata Bergoglio”, da “La Verità” del 31 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).
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Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’arco, non la freccia
Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.I Gilets Jaunes si sono spesso radunati in luoghi molto frequentati, dove potevano trovare facilmente visibilità mediatica: gli Champs-Elysées a Parigi, le piazze principali di altre città e le numerose rotte del traffico ai margini delle piccole città. A differenza delle manifestazioni tradizionali, le marce di Parigi erano molto libere e spontanee, spesso le persone passeggiavano e si parlano, senza leader e senza discorsi. L’assenza di leader è inerente al movimento, e questo lo predispone al rischio di facili strumentalizzazioni. Dalla loro apparizione di circa due mesi fa, i giubbotti gialli hanno sventato tutti i canoni della mobilitazione sociale: nessun leader carismatico, nessun intermediario, nessuna organizzazione strutturale, nessuna solida coordinazione delle varie compagini territoriali. Invece, un solo colore improbabile, dipinto sui giubbotti catarifrangenti dei motociclisti. Però la guerra alle oligarchie finanziarie è cosa dura e grave, e se i Gilets Jaunes non si organizzano in tempo per vincere le prossime europee e controllare il Parlamento e la Commissione, vedranno cadere nel vuoto le loro rivendicazioni e le loro manifestazioni, che se pur clamorose e sorprendenti, appariranno come una montagna che ha partorito un topolino.Potrebbero fare la stessa fine di “Occupy Wall Street”, finito nel dimenticatoio di Wikipedia. Il fenomeno Occupy era troppo caotico, pericoloso e destrutturato. Insomma, troppo rivoluzionario. Nei suoi discorsi post-Occupy e nel suo ultimo libro “The end of protest: a new playbook for revolution”, Micah M. White ha deplorato il suo fallimento organizzativo. Dai movimenti anti-globalizzazione a quelli anti-guerra in Iraq, passando per le Primavere Arabe, No-Global, movimenti pacifisti, Black Lives Matter, ecc… tutti hanno mancato quegli obiettivi di cambiamento sociale che si prefiggevano. Il neoliberismo è vivo e vegeto, le oligarchie al potere non hanno perso la loro egemonia, mentre le disparità economiche sono aumentate. Il regime dominante si è evoluto per adattarsi al contesto, come un camaleonte, che cambia pelle e colore per mimetizzarsi e non cadere in balia dei predatori. “Occupy Wall Street” in questo senso ha insegnato comunque qualcosa, che le attuali forme di protesta non funzionano più, perché mentre con Occupy la protesta si era allargata a 82 paesi e dato vita a quasi mille “accampamenti”, eppure il cambiamento sociale non si verificò proprio per nulla.Gli attivisti di oggi hanno solo poche possibilità per conquistare la sovranità: continuare a protestare, vincere le guerre o meglio ancora vincere le elezioni. Infatti l’obiettivo finale dovrebbe essere un movimento che possa vincere le elezioni al fine di poter ottenere dei risultati concreti. Il 1° dicembre l’Arco di Trionfo è stato “vandalizzato” dai Gilets Jaunes che manifestavano a Parigi, e il fatto aveva destato l’immediata reazione di Macron, che dalla vetrina del G20 a Buenos Aires aveva dichiarato: «Nessuna causa può giustificare la brutalità verso l’Arco di Trionfo». Però l’Arco di Trionfo è simbolo della “Grandeur Francese”, della sua politica imperialistica, proiettata verso la conquista di un pezzo d’Africa, che continua a sfruttare e rapinare ancora oggi tramite il franco Cfa, l’eredità coloniale che controlla di fatto le economie di 14 paesi africani, secondo norme stabilite 70 anni fa. Un’area monetaria che ricorda la nostra tragica esperienza dell’euro. Quindi la violenza contro l’Arco assume una sua valenza politica ben precisa: il 99% dei miserabili, diseredati dalle politiche neoliberiste del turbocapitalismo, portano la guerriglia urbana contro il simbolo dell’imperialismo francese, oggi soprattutto finanziario.Voluto da Napoleone I, dopo la battaglia di Austerlitz (strana coincidenza proprio il 2 dicembre 1805), il quale disse rivolto ai suoi soldati: «Si tornerà alle vostre case solo sotto archi di trionfo». Difatti un decreto imperiale datato 18 febbraio 1806 ordinò la costruzione di un arco trionfale dedicato appunto alle vittorie conseguite dall’esercito francese. I manifestanti però hanno saccheggiato anche altri emblemi del potere: il busto di Napoleone e quello di Luigi Filippo, i cui occhi sono stati colorati di rosso. Hanno sfondato un altorilievo allegorico che illustrava la partenza dei volontari del 1792, ribattezzata “la Marsigliese”, e scolpito da François Rude nel 1833, nella parte nord dell’Arco. Hanno cercato anche di distruggere un dipinto che rappresentava l’ingresso del catafalco di Victor Hugo al Pantheon. Perché tutti questi simboli? Forse per attaccare il rifiuto napoleonico alla libertà? Il rifiuto di Louis-Philippe all’uguaglianza? Come mai questi manifestanti, che sventolavano il tricolore, hanno attaccato i Volontaires del 1792? E soprattutto, perché Victor Hugo, l’autore di “Les Misérables”, il politico che, a differenza di tanti altri, andava da destra a sinistra, finendo la sua carriera da repubblicano, rifiutatosi inoltre di condannare i comunardi del 1871?Purtroppo la direzione politica dei Gilets Jaunes è ancora disorganica e incerta, per ora abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia. Cerchiamo di non trascurare oltre la parte del caso, né della provocazione, né di quella stupidità che ha un ruolo molto più importante nella storia di quanto potrebbero ammettere gli stessi storici; tuttavia il senso di un’insurrezione è anche rivelato dai segni che lascia intatti oltre a quelli che distrugge. E il segno rimasto intatto è quello dell’anonimato di questi gialli francesi… chi li guida, chi li organizza, come si sono strutturati, quali programmi hanno pianificato e soprattutto quali obiettivi immediati si sono proposti? Perché se la ‘rivoluzione gialla’ si ferma alla protesta, se le masse che si sono mobilitate, anche con esiti straordinari per caparbietà ed efficacia negli scontri di piazza, non riusciranno a tradursi in un partito politico che influirà profondamente sulle prossime europee, avremo assistito all’ennesima protesta improduttiva e sterile. Se i giubbotti gialli sono i sans-culottes di oggi, come quelli che divennero i partigiani rivoluzionari della Rivoluzione Francese, alla fine avranno bisogno di un club giacobino. Se la storia è maestra di vita, i Gilets Jaunes dovrebbero imparare dal passato, e ascoltare le parole di Lenin: «Non sostenere il degrado del rivoluzionario al livello di un dilettante, ma elevare i dilettanti al livello dei rivoluzionari».(Rosanna Spadini, “Della rivoluzione gialla abbiamo visto l’Arco, ma non la freccia”, da “Come Con Chisciotte” del 14 gennaio 2019).Ho ascoltato con interesse l’incontro tenuto a Roma con Véronique Rouille e Yvan Yonnet dei Gilets Jaunes, presentato da Moreno Pasquinelli di “Programma 101”, con la presenza di Antonio Maria Rinaldi e Mariano Ferro. Ma la conferenza mi ha destato molte perplessità sulla reale efficacia di questo movimento, soprattutto quando Yvan Yonnet ha consigliato di boicottare le elezioni europee con l’astensionismo, sostenendo che se tale astensione raggiungesse il livello dell’80%, il sistema Europa crollerebbe sotto le proprie contraddizioni. Vero che in meno di due mesi il movimento francese ha dato un’ulteriore spallata al governo Macron e alle oligarchie europee, sconvolgendone il panorama politico. Vero anche che per diverse settime consecutive le dimostrazioni sono continuate in tutto il paese anche dopo le deboli concessioni di Macron, mentre ispiravano un’ondata di manifestazioni anche in paesi limitrofi come il Belgio e l’Olanda, e mentre i media corporativi cercavano di demonizzare il movimento nella speranza non si diffondesse altrove. Il fenomeno è nato spontaneamente e i metodi stessi della sua affermazione ne hanno rivelato anche le tante fragilità.
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Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa
Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?“Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.(Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
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Hezbollah è socialismo: magari l’avessimo noi, caro Salvini
Le reazioni più comuni alla parola “Hezbollah” mi fanno tornare alla memoria le parole che Mario Braga rivolge al figlio hippy Carlo Verdone nel film “Un sacco bello”: «ma che siete? Na tribbbù, ‘na setta, li carbonari, i mas(s)oni, ma che siete, ahò». Ed è meglio così, perchè quei pochi che ne dànno una definizione dimostrano ogni volta di non saperne una cippa. Non ultimo il ministro degli interni italiano che li ha definiti tra mille polemiche “terroristi”. Com’è noto, il fatto di commettere stragi, omicidi, sabotaggi viene definito “terrorismo” a seconda delle fazioni in lotta. Se Garibaldi avesse perso la sua battaglia verrebbe ricordato in tutti i libri di storia come un terrorista; siccome quella battaglia la vinse, allora è unanimamente riconosciuto come un patriota ed eletto deputato del Regno. Meglio allora specificare che l’epiteto “terrorista” non può essere conferito a cuor leggero e che esso va riferito più che altro al metodo di lotta impiegato. La comunità locale in Libano nel 1982 decise di darsi un’organizzazione per combattere lo Stato di Israele e ottemperare alle tante mancanze e inadempienze degli Stati mediorientali nati per volontà coloniale all’indomani della caduta dell’impero ottomano (che cadde nel 1922). Quell’organizzazione della comunità in Libano, ma con prospettive più ampie nell’area, si chiamò Hezbollah.Dunque, detto molto chiaramente, Hezbollah non è riconosciuto dalla comunità internazionale come uno Stato de iure, ma lo è de facto perchè racccoglie milioni di arabi del medioriente. Questa organizzazione non lavora solamente sotto il profilo ideologico, ma è strutturata anche territorialmente, con una sorta di guardia nazionale popolare, da un lato, e con la gestione di infrastrutture civili operative e funzionanti su tutto il territorio, dall’altro. Qualche sprovveduto potrebbe a questo punto pensare che, pur sotto questo profilo di “Stato nello Stato”, Hezbollah non sia poi così diversa dalla mafia in Sicilia o dall’Isis. Seguendo questa linea interpretativa, Hezbollah, mafia e Isis sarebbero strutture statali de facto, non de iure, e qualsiasi istituzione non riconosciuta a livello internazionale può essere considerata terroristica o comunque illegale. Se guardiamo al diritto internazionale il discorso pare ineccepibile, ma è sempre secondo i fatti che le cose non stanno per niente così. E’ impossibile, ad esempio, che un cittadino siciliano ammalato possa rivolgersi ad ospedali della mafia, dove il primario si presenta come un membro di Cosa Nostra e i medici sono picciotti laureatesi all’università del rettore Turi O’Sfreggiato.Hezbollah gestisce alla luce del sole. Ospedali, scuole e strutture rivolte al pubblico sostituendosi in parte a quella nazione ufficiale, il Libano, che nacque per volontà coloniale (accordo Sykes-Picot). Ancora oggi la lingua francese è ampiamente parlata e diffusa a Beirut e seconda solo all’arabo. Va detto, a scanso di equivoci, che Hezbollah si è ampliata nel tempo anche ad altre regioni limitrofe, soprattutto in Siria, e gode dell’appoggio dell’Iran. Tra i suoi obiettivi dichiarati vi è la guerra ad Israele, considerata istituzione illegale e usurpatrice del territorio mediorientale. Strutture con un’amministrazione e una gerarchia come Cosa Nostra, o l’Isis, ma direi perfino i guerriglieri centroamericani del subcomandante Marcos o i Tupac Amaru non giocano affatto a carte scoperte. Molti loro capi sono sconosciuti, indossano passamontagna e si nascondono. Hezbollah no. Hezbollah ha uffici, divise ed un capo riconosciuto – Nasrallah – che si trova al vertice dell’organizzazione da quando il fondatore – Musawi – venne ucciso a seguito di un attentato (ehm) israeliano nel 1992.Il metodo Hezbollah è un metodo esportabile? Vediamo. Riassumendo il tutto potremo dire che (1) Hezbollah ha un’ideologia, come sono ideologie il marxismo, il liberismo, il fascismo, l’Islam, ecc. L’ideologia di Hezbollah si propone di coniugare la religione di Maometto con il socialismo. (2) Possiede un esercito non riconosciuto a livello internazionale e di tipo paramilitare, come lo fu la guardia nazionale francese nata nel 1989 per iniziativa di Lafayette. (3) Opera anche, ma non esclusivamente, attraverso attentati, sabotaggi e rapimenti, esattamente come fanno tutti gli Stati ufficiali dell’area, seppur in misura minore di Israele e dell’Isis. Il caso della morte del leader di Hezbollah Musawi è emblematico: elicotteri israeliani uscirono dai loro confini, entrarono i Libano e spararono su un corteo uccidendo il segretario generale Musawi, sua moglie e 5 figli. (4) Infine, Hezbollah gestisce scuole, ospedali e trasporti, proprio come lo Stato italiano, ma forse meglio del Cardarelli di Napoli, della Salerno-Reggio Calabria e della Bocconi di Milano.Hezbollah gestisce anche un canale televisivo – “Al Manar”. Anche se a quel che so non trasmette il “Grande Fratello Vip” e nemmeno “Report”, non ho memoria di canali televisivi gestiti dalle Brigate Rosse italiane, dalla Mano Nera serba o dall’Eta dei baschi spagnoli. Questo modello è dunque replicabile anche in Italia? Be’, si potrebbe dire che se una cosa esiste essa è possibile ovunque. Gli unici gruppi che hanno provato qualcosa di vagamente simile, prima con le ronde e le monete padane, poi con l’assalto al campanile di San Marco, più recentemente con lo sforamento del deficit, hanno finora deluso. Chissà che prima o dopo qualcun altro non ci riprovi in maniera più efficace. Magari copiando da Hezbollah.(Massimo Bordin, “Metodo Hezbollah, ci vorrebbe anche qua”, dal blog “Micidial” del 13 dicembre 2018).Le reazioni più comuni alla parola “Hezbollah” mi fanno tornare alla memoria le parole che Mario Braga rivolge al figlio hippy Carlo Verdone nel film “Un sacco bello”: «ma che siete? Na tribbbù, ‘na setta, li carbonari, i mas(s)oni, ma che siete, ahò». Ed è meglio così, perchè quei pochi che ne dànno una definizione dimostrano ogni volta di non saperne una cippa. Non ultimo il ministro degli interni italiano che li ha definiti tra mille polemiche “terroristi”. Com’è noto, il fatto di commettere stragi, omicidi, sabotaggi viene definito “terrorismo” a seconda delle fazioni in lotta. Se Garibaldi avesse perso la sua battaglia verrebbe ricordato in tutti i libri di storia come un terrorista; siccome quella battaglia la vinse, allora è unanimemente riconosciuto come un patriota ed eletto deputato del Regno. Meglio allora specificare che l’epiteto “terrorista” non può essere conferito a cuor leggero e che esso va riferito più che altro al metodo di lotta impiegato. La comunità locale in Libano nel 1982 decise di darsi un’organizzazione per combattere lo Stato di Israele e ottemperare alle tante mancanze e inadempienze degli Stati mediorientali nati per volontà coloniale all’indomani della caduta dell’impero ottomano (che cadde nel 1922). Quell’organizzazione della comunità in Libano, ma con prospettive più ampie nell’area, si chiamò Hezbollah.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
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Se Foa viene eletto, Vietnam in Rai. Ma i 5 Stelle lo votano?
Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.La vera fonte del “sogno”? La prestigiosa loggia rosacrociana “Tre Globi” di Berlino, alla quale Carpeoro – a sua volta massone, già a capo del Rito Scozzese italiano – è rimasto legato. La sconcertante esternazione d’inizio estate, osserva Frabetti, è stata taciuta dai media mainstream (con la sola eccezione del quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro), ma non è certo passata inosservata ai piani alti del potere. Ex caporedattore del “Giornale” e allievo di Indro Montanelli, Marcello Foa è l’autore del dirompente saggio “Gli stregoni della notizia”, che mette alla berlina il sistema-media, accusato di fabbricare “fake news”. Ora Foa potrebbe dunque salire finalmente sul gradino più alto della nomenklatura Rai? Nel caso, dice Carpeoro sempre in streaming web con Frabetti, non avrà vita facile: se la “Three Eyes”, foss’anche per colpa dell’imbarazzante “sogno della peperonata”, si vedesse costretta a non ostacolare più l’ascesa di Foa, il neo-presidente sarebbe comunque “assediato”, da subito, dall’ostilità accanita dello stesso establishment che sta “braccando” Salvini, tallonato da vasti settori della magistratura. Ma non è detto che Foa riesca davvero a diventare presidente: tecnicamente, secondo Carpeoro, potrebbe addirittura sbattere contro l’ipotetico veto dei 5 Stelle, in sede di commissione parlamentare di vigilanza.«Chi ha ritenuto che il mio non fosse un sogno ma la verità – dice oggi Carpeoro – può aver pensato che forse, in quel momento, qualcuno lo stesse “sputtanando”». Insomma, la trama della “Three Eyes” era ormai venuta allo scoperto. « Bisogna capire però se l’effetto-sputtanamento è stato solo un modo per guadagnare tempo, per poi vedere di “vendere” in un altro modo il siluramento di Foa, o se invece abbiano proprio deciso di “mollare il colpo”, per poi gestire la faccenda diversamente». Oggi, aggiunge Carperoro, «l’unico modo per silurare ugualmente Foa è premere sui 5 Stelle affinché siano loro a farlo fuori: e quel tipo di potere, questa possibilità ce l’ha». Gli unici che possono affondare la candidatura di Foa, insiste Carpeoro, sono proprio i pentastellati: «Non può più farlo Forza Italia, perché sarebbe una conferma della “peperonata”. Non può farlo Salvini, perché sarebbe una sconfitta troppo grossa, per lui. E non hanno la forza di farlo i vari residui di opposizione». I 5 Stelle, dunque? «Sono gli unici che hanno la possibilità di silurare Foa, ma non so se ne abbiamo la motivazione». Tuttavia potrebbero piegarsi «di fronte a una coercizione grande, da parte di un soggetto come una Ur-Lodge».Attenzione, precisa Carpeoro: «Non dico che lo vogliano fare o che lo faranno, dico solo che – ex ante – gli unici che hanno questa possibilità sono loro: una possibilità concreta, politica, non necessariamente una volontà o un’inclinazione». Morale, il destino di Foa sembra a un bivio: «O viene silurato dai 5 Stelle adesso, o viene eletto. Ma ovviamente, un secondo dopo l’eventuale elezione, entrerebbe in una specie di Vietnam, di Cambogia, dove qualcuno punterà la clessidra e preparerà un conto alla rovescia». Quanto all’affidabilità dei 5 Stelle, non da oggi lo stesso Carpeoro esprime perplessità – soprattutto sul conto di Luigi Di Maio, che considera esser stato ampiamente “sovragestito” proprio da quel genere di poteri forti evocati dal famoso “sogno della peperonata”. Prima ancora delle elezioni, Carpeoro dichiarò ripetutamente che Di Maio entrava e usciva dall’ambasciata Usa di via Veneto a Roma, e che ad accompagnarlo a Washington nei santuari delle Ur-Lodges neo-aristocratiche fosse il politologo Michael Ledeen. Esponente di vertice della supermassoneria sionista, Ledeen è citato da Carpeoro nel suo saggio sui legami fra massoneria e terrorismo islamico targato Isis: lo mette addirittura in relazione all’omicidio del premier svedese Olof Palme, nell’ambito di un opaco circuito di cui facevano parte Licio Gelli e l’allora parlamentare statunitense Philip Guarino.A evocare nuovamente l’ombra delle Ur-Lodges è anche Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, di cui lo stesso Carpeoro è un autorevole esponente. Magaldi ha attaccato direttamente il ministro dell’economia, Giovanni Tria: «Un massone non dichiarato ma presentatosi come progressista, eppure oggi allineato al rigore europeo promosso dal supermassone Draghi, che infatti lo ha apertamente elogiato». Carpeoro invita a fare un passo indietro: «I 5 Stelle – ricorda – hanno subito il siluramento del precedente candidato al ministero dell’economia». Si tratta di Paolo Savona, bloccato dal “niet” di Mattarella. «Quindi – prosegue Carpeoro – Tria è la conseguenza di una scelta di campo che i 5 Stelle hanno condiviso, o sbaglio?». In altre parole: l’accettazione di una linea più morbida con Bruxelles, imposta tramite il Quirinale. «A questo punto – conclude Carpeoro – o cambiano idea, o si tengono Tria. Bisogna capire perché dovrebbero cambiare idea (perché si potrebbero tenere Tria, invece, lo sappiamo già)». Quello di Tria è ovviamente un ruolo di garante: tramite minacce, come l’impennarsi dello spread, «il potere che “sovragestisce” l’Europa ha fatto sapere ai 5 Stelle che, senza la presenza di un suo garante, sarebbe cominciata una specie di guerra totale, contro l’Italia, e quindi è passato Tria». Ora, bisogna vedere se è cambiata la situazione: «I 5 Stelle rivendicheranno una maggiore indipendenza? Io ne dubito». Sarebbe quindi possibile mettere sotto pressione Di Maio e soci, al punto da indurli a boicottare Foa?Nel caso venga eletto presidente della Rai, Marcello Foa dovrà affrontare una guerriglia interna permanente, un vero e proprio Vietnam. Parola di Gianfranco Carpeoro, protagonista all’inizio di agosto di una clamorosa rivelazione: il giornalista, candidato da Salvini, fu stoppato da Berlusconi, che pure aveva già dato il suo ok al leader della Lega. Cos’era accaduto? Un giro di telefonate, innescate da Parigi: il supermassone reazionario Jacques Attali, vicinissimo a Macron, aveva interpellato nientemeno che Giorgio Napolitano, il quale avrebbe consigliato ad Attali – per bloccare l’elezione di Foa – di chiamare il massone Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo e in grado di premere sul Cavaliere, poi chiamato direttamente dallo stesso Attali. Sia Attali che Napolitano, secondo Gioele Magaldi, militano nella stessa potentissima Ur-Lodge, la “Three Eyes”, a lungo dominata da oligarchi come Kissinger, Brzezinski e Rockefeller. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro – avvocato, nonché autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” – aveva sparato la “bomba” in tono semiserio, attribuendo la notizia a “un sogno”, provocato da una “peperonata indigesta”. «Mi risulta che l’effetto l’abbia avuto, quel “sogno”», dice ora Carpeoro, visto che si riparla di Foa come presidente della Rai.
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Pansa: ho paura per l’Italia, golpe in arrivo o guerra civile
Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero: l’apocalisse: il gioverno gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».Ad accogliere le clamorose esternazioni di Pansa, oltre all’attonita Gruber, Antonio Padellaro del “Fatto” e Marco Damilano de “L’Espresso”, il quale ammette che «l’attuale classe dirigente sollecita le frange estremistiche». Padellaro getta acqua sul fuoco, citando Ennio Flaiano: le barricate, gli italiani le fanno “coi mobili degli altri”. «Siamo in Italia: tutte le tensioni che verifichiamo ogni giorno poi si stemperano sempre in qualcosa che assomiglia al melodramma. Non scordiamoci che abbiamo attraversato persino le Brigate Rosse. E a proposito di complotti, abbiamo avuto la P2. Ricordando il passato, forse il presente ci appare meno drammatico». Pansa non concorda: per lui, Padellaro e il Fatto non hanno «gli occhiali giusti per vedere quello che succede davvero». Le Br? Le avremo anche “attraversate”, ma intanto «hanno ammazzato il politico più importante d’Italia, Aldo Moro, dopo averlo tenuto prigioniero per settimane in un “carcere del popolo” che gli apparati dello Stato facevano finta di non trovare». Flaiano? «Bella battuta, la sua, ma da caffè di via Veneto». La verità non è quella, sostiene Pansa: «C’è un odio profondo, che in Italia cova in tutti i ceti, anche in quelli che non consideriamo mai e chiamiamo ceti popolari: pensionati, casalinghe disperate, giovani che non trovano lavoro».Catastrofe imminente? «Io non vedo attorno a me un clima da guerra civile», protesta la Gruber. «Non lo vedi – replica Pansa – perché sei ancora agganciata all’oggi. Anch’io, se sto agganciato all’oggi, non vedo un clima da guerra civile, perché gli italiani pensano alle vacanze, alle donne, al modo di non pagare le tasse. Vorrebbero lavorare poco e guadagnare molto. Questo è un paese che non ha più spina dorsale». L’anziano giornalista, oggi 83enne, vede un odio dilagante e pericolosissimo, alimentato – più che da questo o quel partito – «dallo stato di fatto delle cose». Ammette: «Da un po’ di anni non vado più a votare, perché so che il mio voto verrebbe comunque sprecato: tutti i partiti sono screditati, la casta politica fa schifo». Insiste, Pansa: «Il governo di Di Maio finisce male perché è composto di prepotenti come Salvini o incompetenti che distruggeranno tutto: o finiscono male da soli o li faranno finire male altri». Il futuro è nero, sostiene il giornalista: «Non sono troppo pessimista, ho sempre visto verificarsi delle storie che non immaginavo si sviluppassero in quel modo». E aggiunge: «Quando succederà, la signora Lilli Gruber dirà: quella sera, quel vecchiaccio pessimista del “Giampa” aveva ragione».Fa impressione, ascoltare Giampaolo Pansa nelle vesti di profeta di sventure. Come giornalista fece storia, fin dagli esordi di “Repubblica”: in un’intervista, Enrico Berlinguer consumò il celebre strappo da Mosca (meglio la Nato che il Patto di Varsavia). Nel suo impareggiabile “Bestiario”, rubrica settimanale di Pansa su “L’Espresso”, trovavano posto l’Elefante Rosso e la Balena Bianca, impietosi ritratti del Pci e della Dc, colonne portanti del potere della Prima Repubblica. Ironico e tagliente, irriverente e sempre indipendente, Pansa, fino a dare scandalo con il saggio “Il sangue dei vinti”, bestseller da un milione di copie, vero e proprio tsunami capace di demolire i tabù della Resistenza raccontando le efferate vendette partigiane dell’immediato dopoguerra. Oggi, il vecchio Pansa appare smarrito di fronte ai confusi albori dell’ipotetica Terza Repubblica. Si rivolge a Lilli Gruber in modo affabile: «Tu sei una donna intelligente, una giornalista esperta, hai fatto politica, sei stata pure parlamentare europea». Già, ma la Gruber è anche ospite fissa del Gruppo Bilderberg, dettaglio che Pansa non cita. Gli altri due giornalisti nello studio di “Otto e mezzo” il 18 settembre? Damilano, punta di lancia del gruppo “Espresso-Repubblica”, è impegnato nel cannoneggiamento quotidiano del governo gialloverde, bombardando Salvini con accuse di xenofobia, razzismo e fascismo. Padellaro e il “Fatto”? Più indulgenti con i 5 Stelle, ma rigorosamente allineati all’impostazione neoliberista della narrazione economica: i tagli alla spesa sono sacrosanti, dogmi di fede.Da anziano veggente, come in una tragedia greca, Pansa-Tiresia vede che l’Italia si sta frantumando, ma è come se non sapesse leggere le cause della catastrofe in atto: una rivolta politica generalizzata, classificata comodamente sotto il nome di “populismo”, ma in realtà innescata dall’inaudito sfascio sociale prodotto dall’economia privatizzata “a tradimento” negli anni ruggenti di Pansa e colleghi. Quanti di loro videro davvero quel che si stava preparando? Quanti, tra gli allora fan di Di Pietro e Mani Pulite, si accorsero del summit a bordo del Britannia per la svendita del paese al capitale finanziario globalizzato? In quanti si accorsero del disastroso effetto del divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, che trasformò il debito pubblico in tragedia nazionale? Da eterno battitore libero, oggi Pansa scorge – con angoscia – i sintomi di un malessere che potrebbe anche degenerare in brutalità palese. Ma è come se non avesse ancora metabolizzato la gravità degli eventi maturati nella storia recente, con il “golpe delle élite” che ci ha precipitato nella post-democrazia (ben prima dell’avvento del governo Conte). Se non altro Pansa parla per sé e racconta quello che gli sembra di vedere. Non è impegnato nella fabbricazione quotidiana del consenso, come i propagandisti di “Repubblica” e come la stessa Gruber, che oltre che “donna intelligente” e “giornalista esperta” è anche, di fatto, contigua agli architetti occulti della post-democrazia, gli “sciacalli” che hanno progettato l’attuale sfacelo – che, come dice Pansa, potrebbe anche far saltare in aria il paese.Sarà un golpe a far cadere l’esecutivo Conte, incapace di gestire un’Italia ormai nel caos. Giampaolo Pansa, ovvero l’apocalisse: il governo gialloverde «è pericoloso perché fa solo danni al paese, fa solo annunci e non combina niente: prima o poi verrà abbattuto». Fine della democrazia: «Non si andrà a votare: nessuno andrà a votare, perché le forze armate (che sono le sole ad avere le armi) interverranno. E’ la legge della vita». E’ un fiume in piena, Pansa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, su “La7”. Vede un’Italia sull’orlo della guerra civile: «Qui siamo di fronte a quelli che ti rubano la casa e ti ammazzano la moglie. Siamo in situazione di pre-guerriglia…. e sono peggio del fascismo». Salvini? Imprudente, nel rivolgersi alla “pancia” degli italiani. Di Maio e i 5 Stelle? Drammaticamente inadeguati. «Volete Grillo? Volete una nazione governata da Di Maio? Volete che Grillo decida cosa fare della disoccupazione giovanile in Italia? Che decida come far pagare le tasse a chi non le paga, o come rimettere ordine negli asili, dove i bambini non riescono a trovare posto? Cavoli vostri, provateci. Io cerco di starne lontano. Poi – aggiunge – mi rendo conto che, se qualcuno comincia a usare delle armi diverse da quelle della protesta, e quindi comincia a sparare – cosa che avverrà (lo dico qui, la sera del 18 settembre) – non fingiamo di non sapere che questo è un paese pronto per una nuova guerra civile».
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Craxi nel ‘90: soldi ai poveri, e il mondo guarirà entro il 2020
«Proporre ai paesi poveri del mondo un “contratto di solidarietà” che rompa, entro il 2020, il ciclo infernale della miseria e della fame». Così parlava Bettino Craxi a Parigi nel lontanissimo 1990. La proposta: cancellare il debito del Terzo Mondo. Noi cos’abbiamo fatto, in trent’anni, su quel fronte? Meno di zero. Il 2020 è praticamente arrivato, e quei paesi (sempre più poveri) vomitano disperati sulle sponde del Mediterraneo. Rileggere oggi le parole di Craxi – riportate all’epoca dai quotidiani – fa semplicemente piangere: qualcuno ricorda una sola sillaba, di tenore paragonabile, pronunciata negli ultimi decenni da uno qualsiasi dei famosi campioni dell’Unione Europea? Siamo sgovernati da infimi ragionieri e grigi yesmen al servizio del capitale finanziario neoliberista che i tipi come Craxi li ha esiliati in Tunisia, trasformandoli in profughi politici – corsi e ricorsi, nell’amara ironia della storia: importiamo derelitti, dopo aver cacciato leader autorevoli e dotati di visione strategica. Nel ‘90, Craxi intervenne nella capitale francese in qualità di rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per i problemi del debito del Terzo Mondo, dinanzi alla Conferenza parigina dei 41 paesi più poveri del pianeta.Un discorso, scrisse Franco Fabiani su “Repubblica” – nel quale Craxi ha ripercorso quelli che ha definito «i sentieri statistici della povertà che solcano il globo con la loro sfilata di drammatici indici della miseria e del sottosviluppo, dall’America latina all’Asia, dal Medio Oriente all’Africa subsahariana». Circa un miliardo di persone definite povere nelle statistiche ufficiali della Banca Mondiale (senza comprendere la Cina) costrette a fare i conti con risorse inferiori a quelle che occorrono per il minimo vitale. Erano quattro, per Craxi, i maggiori problemi da affrontare: nodi che – ieri come oggi – turbano, in questo contesto drammatico, «la ricerca dell’equilibrio e della prosperità di tutto il nostro pianeta: le guerre, la povertà, il debito, il degrado ecologico e ambientale». Africa e Asia, Medio Oriente, America Latina: aree tormentate negli anni ‘80 da guerre, guerriglie tra Stati e popoli e gruppi di diverse ideologie. Tragedie che hanno prodotto «distruzioni e persecuzioni, ma anche e soprattutto costi economici enormi, che hanno aumentato a dismisura l’indebitamento». Di qui la ricetta di Craxi, proposta alle 150 delegazioni presenti a Parigi: sviluppare una cooperazione con questi paesi per mettere fine ai conflitti e alleviare il debito, cominciando dai paesi che rispettano i diritti umani.In una parola: «Concentrare gli sforzi politici e finanziari per spezzare l’intreccio perverso guerra-povertà». E quindi, innnanzitutto: fare il possibile per evitare nuove guerre. Quella in agenda nel ‘90 era la prima Guerra del Golfo, a cui il “profeta” Craxi si opponeva: un conflitto nel Golfo, sosteneva, «trascinerebbe con sé un carico incalcolabile di distruzioni e di conseguenze tragiche di cui proprio i paesi più poveri sarebbero le prime vittime». Ed ecco la proposta strategica: «Cancellare sino al 90% del debito bilaterale, mentre il restante 10% dovrebbe essere convertito in moneta locale, per farlo affluire ai progetti di sviluppo economico, di formazione di capitale umano e di tutela dell’ambiente». La cancellazione del debito verso i paesi poveri «comporterebbe un onere annuo pari al 10% del Pil dei paesi donatori, cui si dovrebbe aggiungere almeno una percentuale identica di nuovi aiuti». In questo modo, secondo Craxi, «si potrebbe avere una robusta crescita dei paesi più poveri che consentirebbe loro di debellare la fame entro il 2020». Unica condizione: la stabilità del prezzo del petrolio, e quindi la pace. Un simile discorso, oggi, in Europa, avrebbe bisogno di un traduttore specializzato: la lingua di Craxi sembra estinta, come quella dei Sumeri.«Proporre ai paesi poveri del mondo un “contratto di solidarietà” che rompa, entro il 2020, il ciclo infernale della miseria e della fame». Così parlava Bettino Craxi a Parigi nel lontanissimo 1990. La proposta: cancellare il debito del Terzo Mondo. Noi cos’abbiamo fatto, in trent’anni, su quel fronte? Meno di zero. Il 2020 è praticamente arrivato, e quei paesi (sempre più poveri) vomitano disperati sulle sponde del Mediterraneo. Rileggere oggi le parole di Craxi – riportate all’epoca dai quotidiani – fa semplicemente piangere: qualcuno ricorda una sola sillaba, di tenore paragonabile, pronunciata negli ultimi decenni da uno qualsiasi dei famosi campioni dell’Unione Europea? Siamo sgovernati da infimi ragionieri e grigi yesmen al servizio del capitale finanziario neoliberista che i tipi come Craxi li ha esiliati in Tunisia, trasformandoli in profughi politici – corsi e ricorsi, nell’amara ironia della storia: importiamo derelitti, dopo aver cacciato leader autorevoli e dotati di visione strategica. Nel ‘90, Craxi intervenne nella capitale francese in qualità di rappresentante personale del segretario generale dell’Onu per i problemi del debito del Terzo Mondo, dinanzi alla Conferenza parigina dei 41 paesi più poveri del pianeta.
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Carotenuto: Iran-Israele, gli oligarchi della prossima guerra
La cattiva notizia? Vogliono trascinarci in guerra, provocando l’Iran. L’altra notizia è altrettanto deprimente: nessuno ha ragione, nessuno racconta tutta la verità. Già analista internazionale per conto dell’intelligence, Fausto Carotenuto offre una visione lucida sull’ennesimo, pericoloso smottamento geopolitico in Medio Oriente: Israele cerca la rissa col presunto nemico di turno, il regime degli ayatollah, confidando nell’appoggio della potente lobby ebraica americana e nel presidente Trump, che ha appena trasferito l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, provocando la reazione dei palestinesi di Gaza guidati dagli sciiti di Hamas, vicini a Teheran. In più, Netanyahu ha esibito un dossier del Mossad che dimostra la progressione nucleare dell’Iran, preparando lo strappo della Casa Bianca, ritiratasi dall’accordo siglato da Obama. Tutto vero, dice Carotenuto in web-streaming per “Coscienze in Rete”, ma la realtà è un’altra. Non ci sono buoni e cattivi, ognuno recita la sua parte. E il film dell’orrore prosegue imperterrito, verso esiti particolarmente rischiosi, essenzialmente per un motivo: il rifiuto, da parte della destra reazionaria che oggi governa Israele, di fare la pace con i palestinesi. Cosa che metterebbe fine a tutte le altre guerre parallele già in corso, in cui ogni attore fa leva sull’alibi irrisolto della Palestina per alimentare il vortice artificioso della tensione.Ognuno ha una parte di ragione, ma nessuno la racconta giusta: la destra israeliana investe sulla paura ben sapendo che Israele «dispone di un territorio così piccolo che, in caso di guerra, potrebbe essere invaso in mezza giornata». Al tempo stesso, Tel Aviv – che denuncia il pericolo del nucleare iraniano – finge di non sapere di disporre di 230 testate atomiche: «Un potenziale pari almeno a quello della Francia e probabilmente della Gran Bretagna, tale da mettere Israele in grado di colpire anche le capitali europee, con missili o almeno con aerei». Sul fronte opposto, non è che l’Iran sia un modello tranquillizzante: «E’ un paese imperialista, fautore di un Islam ostile all’Occidente, e che persegue un suo cinico disegno di potenza regionale». La Russia? «In tanti vedono in Putin una sorta di pacificatore». Ma, al di là dell’effettivo ruolo di stabilizzazione attualmente svolto, il Cremlino «non fa altro che gli interessi della potenza russa». A sua volta, il fronte islamico è spaccato: e gli sciiti iraniani sono quelli che più si sono avvantaggiati dall’aggressione occidentale contro paesi sunniti come l’Iraq. Per l’Occidente, una sequenza di autogol a catena: oggi i soldati di Teheran combattono in Siria al fianco di Assad, il presidente che Obama voleva rovesciare. E in Siria si sono saldati con la potente milizia sciita di Hezbollah, proveniente dal Libano.Gli apprendisti stregoni che dopo l’11 Settembre hanno dato alle fiamme il Medio Oriente devastando l’intera regione, dall’Iraq alla Siria, dalla Libia allo Yemen, oggi vedono Israele accerchiato da nemici filo-iraniani. A sua volta, lo Stato ebraico enfatizza il pericolo per invocare come sempre il supporto degli Usa, senza il quale Tel Aviv non potrebbe disporre del temibile apparato militare che ne fa la principale potenza dell’area. Facile profeta, anni fa, il generale americano Wesley Clark: rivelò che i neocon firmatari del Pnac, il Piano per un Nuovo Secolo Americano, prima ancora del Duemila avevano messo nel mirino tutti i paesi – dall’Afghanistan alla Siria – poi effettivamente colpiti dalle guerre “per conto terzi” a cui stiamo assistendo, con strascichi grottechi che si estendono alla Somalia, dove miliziani filo-sauditi combattono contro guerriglieri armati dal rivale Qatar. Smisurate follie innescate dalla Cia e dal Mossad, che hanno regalato consenso e influenza territoriale proprio all’Iran, l’unico paese – della famosa lista nera – non ancora attaccato direttamente. Succederà a breve? Il rischio è concreto, ammette Carotenuto: ma in caso di guerra, aggiunge, Teheran si rivelerà un osso durissimo. E in ogni caso, prima o poi, avrà l’atomica: raggiungerà cioè una parità strategica con Israle, che già oggi potrebbe cancellare l’Iran a suon di bombe.Carotenuto invita a leggere la situazione evitando semplificazioni o, peggio, l’errore tipico delle tifoserie che parteggiano per gli ipotetici buoni contro gli altrettanto ipotetici cattivi. Si fa presto a dire “Israele”, “l’Iran”, “gli Usa”, come se in guerra fossero intere nazioni. Si tratta di élite pericolose, di oligarchie nascoste. La guerra la fanno davvero, ma il più delle volte sotto falsa bandiera – utilizzando il terrorismo – e comunque agitando retoriche patriottiche che non corrispondono mai alle vere intenzioni degli oligarchi che intessono trame dinamitarde, ogni giorno più pericolose. Da decenni il Medio Oriente petrolifero è la polveriera del mondo: possono cambiare gli attori e il copione può subire variazioni, ma la sostanza non cambia. L’uomo che volle fermare una volta per tutte questa follia – Yitzhak Rabin – fu assassinato nel ‘95 a Tel Aviv: non da palestinesi, ma da un estremista ebraico. Da allora, la situazione è preciptata: l’11 Settembre, le guerre “americane”, l’orrore dell’Isis e l’affermarsi della potenza iraniana, a sua volta – sostiene Carotenuto – controllata da un gruppo di potere “oscuro” che non finirà mai in televisione. Tutti si guardano in cagnesco, col dito sul grilletto. Il pericolo di un’esplosione cresce. Ma i popoli della regione non hanno mai avuto una sola occasione per parlarsi e chiarirsi, in modo trasparente. A dominare, più che mai, è il vecchio copione della guerra, fondato sulla menzogna di chi agita bandiere ma pensa soprattutto ai soldi, sapendo che in ogni caso il “vortice della tensione” è l’alimento perfetto per rendere eterna la logica aberrante del conflitto, che pare destinata a non finire mai. Fino a quando?La cattiva notizia? Vogliono trascinarci in guerra, provocando l’Iran. L’altra notizia è altrettanto deprimente: nessuno ha ragione, nessuno racconta tutta la verità. Già analista internazionale per conto dell’intelligence, Fausto Carotenuto offre una visione lucida sull’ennesimo, pericoloso smottamento geopolitico in Medio Oriente: Israele cerca la rissa col presunto nemico di turno, il regime degli ayatollah, confidando nell’appoggio della potente lobby ebraica americana e nel presidente Trump, che ha appena trasferito l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, provocando la reazione dei palestinesi di Gaza guidati dagli sciiti di Hamas, vicini a Teheran. In più, Netanyahu ha esibito un dossier del Mossad che dimostra la progressione nucleare dell’Iran, preparando lo strappo della Casa Bianca, ritiratasi dall’accordo siglato da Obama. Tutto vero, dice Carotenuto in web-streaming per “Coscienze in Rete”, ma la realtà è un’altra. Non ci sono buoni e cattivi, ognuno recita la sua parte. E il film dell’orrore prosegue imperterrito, verso esiti particolarmente rischiosi, essenzialmente per un motivo: il rifiuto, da parte della destra reazionaria che oggi governa Israele, di fare la pace con i palestinesi. Cosa che metterebbe fine a tutte le altre guerre parallele già in corso, in cui ogni attore fa leva sull’alibi irrisolto della Palestina per alimentare il vortice artificioso della tensione.
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Il vero motivo della morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova
Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.Missione compiuta, si direbbe: dopo Seattle, Praga e altre fiammate, a Genova nel luglio del 2001 è stato letteralmente soppresso «il primo movimento di protesta, nella storia dell’Occidente, capace di mobilitarsi in modo disinteressato, cioè senza più difendere singole cause territoriali, nazionali o di categoria, ma schierandosi in modo permanente a tutela dei diritti dell’umanità, in ogni continente». Lasciata l’intelligence Usa (l’agenzia resa tristemente celebre dallo scandaloso “datagate” spionistico del governo Obama), Madsen è divenuto un fiero accusatore di un sistema manipolatorio che a Genova, dice, richiedeva un preciso tributo di sangue: la morte di Carlo Giuliani, la “macelleria messicana” dei ragazzi inermi nella scuola Diaz (col pretesto di bombe molotov introdotte dagli stessi agenti) e poi l’incubo delle torture inflitte ai “prigionieri” nella caserma di Bolzaneto. Tutta quella violenza barbarica sembra portare la stessa “firma” della mano segreta che, di lì a un paio di mesi, avrebbe pilotato l’immane attentato delle Torri Gemelle a New York, dando inizio alla “guerra infinita” contro il “terrorismo”. Un nome? Il massone “controiniziato” George W. Bush. Esponente, secondo Gioele Magaldi, della “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”. La costola più nera e tenebrosa dell’élite globalista, formata da “signori della guerra” che «non hanno esitato a reclutare, tra i loro affiliati, prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi».Da Al-Qaeda all’Isis, stesso copione (opaco) del terrore, scatenato contro civili, polizia e militari – ma non all’insaputa di precisi settori dell’intelligence. Prove? «Dispongo di 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi, autore del saggio “Massoni”. «Entro due anni certe carte verranno rese pubbliche», afferma Gianfranco Carpeoro, che ha firmato il volume “Dalla massoneria al terrorismo”, fornendo anche – insieme allo stesso Magaldi – un’accurata lettura della simbologia non certo islamica, ma “templare”, del recentissimo terrorismo targato Isis che ha insanguinato l’Europa a cominciare dalla Francia. Identico lo stile degli attentati: colpire nel mucchio, sparare sulla folla per terrorizzare tutti (e rendere accettabili le leggi d’emergenza, sul modello del Patriot Act statunitense disegnato per confiscare libertà e diritti). Genova? Una pietra miliare: il Rubicone varcato da un potere globalista “medievale”, neo-feudale, smisuratamente avido e bugiardo, estremamente feroce. Lo sostiene Madsen, intervistato da Franco Fracassi nel saggio “G8 Gate”. Una vera e propria confessione: «Mesi prima, per la tragica “riuscita” di quel G8 – dice – la Nsa mise a disposizione 1.500 funzionari, e a Genova (oltre alla polizia italiana) c’erano 700 agenti dell’Fbi».Nessuno lo sapeva, all’epoca, ma tutti videro lo stesso spettacolo: i reparti antisommossa si accanivano contro manifestanti inermi, ignorando deliberatamente i famosi “black bloc” spuntati dal nulla, liberi di devastare impunemente la città. I “neri” colpivano i loro obiettivi e poi si disperdevano rapidamente tra i vicoli. «E’ una tattica di guerriglia insegnata nelle scuole Nato: si chiama “swarming”», afferma – sempre nel libro di Fracassi – il generale dei paracadutisti Fabio Mini, già comandante della missione atlantica Kfor in Kosovo. «Esistono precise strutture – rivela Mini – in grado di far affluire in piena sicurezza centinaia di persone, da tutta Europa, senza il rischio di subire controlli alle frontiere, neppure dopo l’evento». Lo strascico del G8 di Genova è ancora fatto essenzialmente di rabbia e di dolore: le vittime denunciano omissioni e indulgenze, il nuovo capo della polizia (che ha preso le distanze da De Gennaro) giura che, oggi, simili episodi non potrebbero più ripetersi. Carlo Giuliani, intanto, a piazza Alimonda è morto. E la meccanica delle ricostruzioni difficilmente va oltre i dettagli del crimine. Una coltre di silenzio protegge ancora gli aspetti più decisivi: il movente e i mandanti.Per questo è importante la voce di un uomo come Madsen. «I mandanti sono le multinazionali – dice – che erano letteralmente terrorizzate dal crescente consenso di quei ragazzi: il movimento NoGlobal andava stroncato. E il loro uomo, Bush, ha semplicemente eseguito gli ordini». Com’era, il mondo, nel 2001? Stava molto meglio di adesso, secondo tutti gli indicatori. Archiviata la storica sfida con l’Urss, la guerra era praticamente assente. Anche per gli italiani, all’epoca, l’Unione Europea poteva sembrare un’istituzione amica. Si pagava ancora in lire: l’euro avrebbe iniziato a circolare solo l’anno seguente. In Afghanistan c’erano già i Talebani, ai quali si opponeva solo un leader laico e nazionalista come Ahmad Shah Massud: quando l’Alleanza del Nord entrò in azione, per prima cosa fu assassinato l’ingombrante Massud, autorevole interprete della sovranità afghana. Ucciso da un certo Hekmathyar, collegato ai servizi del Pakistan addestrati dalla Cia. «Il governo di Islamabad ha sostenuto Al-Qaeda in accordo con Bush», denunciò Benazir Bhutto, a sua volta assassinata nel 2007 per impedirle di vincere le elezioni e smascherare le trame che legavano Bush e Bin Laden al generale Musharraf, dittatore “americano” del Pakistan. Da anni, ormai, la “guerra infinita” era diventata la nuova normalità fondata su bombe e menzogne, fino all’attuale conflitto siriano.Un film dell’orrore, sostiene Madsen, grazie al quale nessuno si è più sognato di contestare frontalmente lo strapotere delle corporation e dell’oligarchia finanziaria, che in Europa è riuscita a ridurre alla fame un paese come la Grecia, senza più medicinali per i bambini, e a destituire con un golpe bianco il governo italiano democraticamente eletto. Si arrivò a insediare a Palazzo Chigi uno spettro come Mario Monti, cioè l’essere umano più lontano possibile dall’antropologia di una rockstar come Manu Chao, eroe del “social forum” che a Genova nel 2001 sognava una fratellanza universale capace di opporsi alle diseguaglianze create dalla rapina sistematica del mondo, quella che oggi spinge verso l’Europa milioni di migranti in fuga dalle loro economie sapientemente disastrate dal nostro apparato economico e politico, finanziario e militare. Un mondo migliore è possibile, recitava lo slogan dei ragazzi che guardavano al mito del “subcomandante” Marcos, esotico e mediatico custode di una biodiversità civile fondata sui diritti. Oggi, il dibattito pubblico è precipitato sotto terra, tra le rovine dell’Ue e della Bce: si parla al massimo di soldi, di Flat Tax e reddito di cittadinanza. Siamo caduti in basso? Il primo passo, sostiene Wayne Madsen, è stato il corpo esanime del militante che i grandi poteri economici, dai loro palazzi, volevano morto. E’ toccato a Carlo Giuliani. Forse, riletta così, può sembrare meno oscura la ragione (mostruosa) di quella fine così atroce.(Giorgio Cattaneo, “G8 Genova, il vero motivo della morte di Carlo Giuliani”, dal blog “Petali di Loto” del 17 aprile 2018).Non sparate a casaccio sulla polizia, si raccomanda Franco Gabrielli dalle pagine del “Manifesto”, ripercorrendo l’inferno del G8 di Genova rievocato dal “quotidiano comunista”, secondo cui «la credibilità della polizia è da ricostruire». A stretto giro, la risposta – durissima – del padre di Carlo Giuliani, affidata al blog “Contropiano” dopo che, scrive, il “Manifesto” ha rifiutato di pubblicargliela. La tesi del capo della polizia: c’erano anche i carabinieri, a Genova, insieme ad altri organi dello Stato; per questo non è giusto criminalizzare un’istituzione che, assicura Gabrielli, si è ampiamente emendata dai gravi errori commessi. Giuliano Giuliani concorda solo in parte: è oggi questore di Pesaro, scrive, il funzionario che a piazza Alimonda accusò un manifestante di aver ucciso suo figlio, «completando così l’indegna azione di un carabiniere che con una pietra ha spaccato la fronte di Carlo agonizzante». Paura e odio, furore, guerriglia: sotto i riflettori, per anni, gli attori di quella spaventosa pagina italiana, per la quale si è parlato di “sospensione della democrazia”. D’accordo, ma il movente? Perché trasformare Genova nel teatro di una carneficina? Lo spiega un ex dirigente della Nsa, Wayne Madsen. L’intelligence Usa, rivela, ha piegato le forze dell’ordine italiane a un disegno oscuro: quel sangue doveva servire a seppellire per sempre il movimento NoGlobal, di cui le multinazionali avevano il terrore, all’alba del nuovo millennio.
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Pantani ucciso dai boss del doping che lanciarono Armstrong?
Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio. La sua fine? Un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa. Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava puntito e infangato con la pena del contrappasso. Hai denunciato il doping? Bene, morirai disonorato: spacciato per cocainomane.Sono in tanti, a livello internazionale, ad aver ormai capito che il delitto Pantani era a doppio fondo. Lo sostiene la Pavanetto, autrice di originali ricerche storiche. Sul suo blog cita due giornalisti: il francese Pierre Ballester, già inviato de “L’Equipe”, e l’inglese David Walsh, del “Sunday Times”. Nel loro libro “L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong”, avanzavano già nel 2004 pesanti sospetti sulle sei vittorie consecutive di Armstrong al Tour, dal 1999 al 2004, dopo il primo campionato del mondo vinto nel ‘92. Successi strabilianti, quelli del Tour, che avevano sollevato pesanti dubbi, dopo la gravissima malattia che aveva tolto Armstrong dalle corse per un paio d’anni, dalla fine del ‘96 a metà del ‘98. Tumore: asportazione di un testicolo, intervento chirurgico su gravi metastasi ai polmoni e al cervello, pesantissime cure chemioterapiche. Vengono in mente le parole del Pirata, citate nel libro del giornalista francese Philippe Brunel, “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” (Bur, 2008): «Non hai fatto il corridore? Tu lo sai cosa vuol dire scalare una montagna, correre sotto il caldo. Credi davvero che si possa vincere il Tour dopo aver battuto il cancro?». Con il loro libro, annota Pavanetto, Ballester e Walsh avevano anticipato un’inchiesta pubblicata nel 2001 dallo stesso Walsh sul “Sunday Times”, dal titolo “Suspicion”. Il giornalista era partito dalla denuncia di un ex corridore junior, Greg Strock: secondo i suoi allenatori, Armstrong «aveva valori biologici eccezionali che non si trovavano in Usa dai tempi di Lemond».Nel 2000, ricorda Lara Pavenetto, Strock si era laureato in medicina. Grazie alle competenze acquisite, aveva denunciato la Federazione americana per averlo sottoposto a un doping sistematico che lo aveva fatto ammalare, fino a costringerlo allo stop dell’attività. Anche Armstrong, nota Walsh, era in nazionale in quel periodo. Strock chiamava in causa due tecnici della nazionale, uno dei quali, Chris Carmichael, era uno dei personaggi più vicini ad Armstrong da sempre. Nell’inchiesta si parlava anche del licenziamento improvviso dalla Us Postal (la squadra di Armstrong sponsorizzata dal ministero delle Poste statunitense) nel 1996. Fu licenziato anche il medico Steffen Prentice, che secondo Strock si era rifiutato di dopare dei ciclisti della squadra. Walsh raccolse anche la dichiarazione di un ex professionista, compagno di Armstrong alla Motorola dal 1992 al 1996, che sotto anonimato dichiarò: «Passammo all’epo nel 1995 perché non si vinceva, e avevamo avuto un 1994 nero». In “L.A. Confidencial”, Ballester e Wash hanno ricostruito anche il caso del litigio fra Armstrong e Greg Lemond a proposito di Michele Ferrari, il medico italiano coinvolto in numerosi processi di doping in Italia e difeso a spada tratta dal corridore texano. Ma la parte più interessante del racconto, scrive Lara Pavanetto, riguarda la testimonianza di Emma O’Really, massaggiatrice per tre anni (a partire dal 1998) dell’Us Postal, la squadra del trionfatrice al Tour.Nel giugno del 1999, la O’Really registra sul suo diario un colloquio con Lance. L’americano le dice che, con l’ematocrito basso, non si possono fare grosse performace. Lei allora gli chiede cosa intenda fare: «Quello che fanno tutti gli altri», ribatte lui, che più tardi, durante il Tour, le chiederà anche di coprire con fondotinta i segni delle iniezioni sulle braccia. L’americano fu trovato positivo ai corticoidi ad un controllo al Tour de France del 1999, ma fu discolpato dall’Uci (Unione ciclismo internazionale) dopo aver spiegato di aver «utilizzato una pomata contenente una sostanza vietata per curare una ferita procuratagli dal sellino della bicicletta». Armstrong affermò sempre di non avere mai assunto prodotti vietati, neppure a causa del suo tumore, che gli provocava una carente produzione fisiologica di testosterone, con la necessità dunque di assumerlo. Il libro riporta anche i pareri di scienziati illustri, i quali ritenevano umanamente impossibile – dopo un tumore, metastasi, operazioni, chemioterapie – andare forte come Armstrong, e vincere sei Tour de France.A Philippe Brunel, per il libro uscito nel 2002, Marco Pantani confida: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione. Io, in ogni caso non ci credo. E non ci crederò mai. È un personaggio finto, una specie di eroe dei fumetti – guarda, è Spiderman. Ora, chi l’ha creato? Chi lo ha voluto così? Non ne so nulla. Ma sono troppo realista per credere alla sua storia». Ma Lance Armstrong in quegli anni poteva fare e dire di tutto, e – come diceva Pantani – nessuno sembrava vedere nulla. Era “invicibile”, Armstrong. «L’amico dei repubblicani, l’amico di George W. Bush. L’amico di tanti politici e tante star di Hollywood. Armstrong sognava di correre un giorno per la poltrona di governatore del Texas e magari in seguito puntare anche alla Casa Bianca», scrive Pavanetto. Le sue perfomance “aliene” «avevano accelerato la mondializzazione di uno sport che storicamente era di matrice europea: grazie a lui, nel mondo del ciclismo la lingua inglese soppiantò il francese». Con Lance Armstrong diventarono volti abituali quelli dei cronisti del “New York Times”, del “Financial Times”, del “Wall Street Journal”, e quelli degli inviati di reti televisive come la “Cnn” o la “Cbs”, «che non perdevano una tappa se targata Armstrong: il re assoluto e incontrastato del ciclismo, temuto e idolatrato».Armstrong fu anche «l’amico di tanti potenti dello sport mondiale», e donò all’Uci centomila dollari nel 2000 per comprare dei macchinari antidoping. «Tutto quello che ha fatto Armstrong è stato possibile perché qualcuno gliel’ha permesso». Parafransando le parole di Pantani: «Chi lo ha creato? Chi l’ha voluto così?». Il doping serve a vincere, ma soprattutto a fare moltissimi soldi, ricorda Lara Pavanetto. «In due decenni di attività come ciclista professionista, grazie alle sponsorizzazioni, Lance Armstrong ha accumulato un patrimonio stimato attorno ai 125 milioni di dollari». Ma anche gli sponsor fanno fiumi di soldi col doping, «per cui la diffusione del fenomeno non è attribuibile solo ad atleti, allenatori, medici o direttori sportivi, ma anche a chi alimenta l’ingranaggio». Come l’Us Postal Service: «Fu lo sponsor di Armstrong tra il 2001 e il 2004, spese 32,27 milioni di dollari per sponsorizzare il team di Armstrong e ricevette benefici di immagine e marketing per 103,63 milioni». Come sottolineò l’avvocato di Armstrong, Tim Herman, a scandalo doping ormai scoppiato, «il ritorno per il ministero delle Poste statunitensi fu del 320% in quattro anni».I guai di Pantani, ricorda Pavanetto, iniziano il 5 giugno 1999 subito dopo l’arrivo a Madonna di Campiglio, penultima tappa di un Giro d’Italia che il Pirata aveva dominato e praticamente già vinto. «Sottoposto a un controllo del sangue, il suo ematocrito fu trovato fuori norma e, da regolamento, gli fu vietato di gareggiare per i seguenti 15 giorni. Il Giro dunque era perso». Anche le sue vittorie passate, a questo punto, vengono messe in discussione. «Tutta la sua carriera è messa in dubbio», tanto che Pantani non partecipò al Tour de France un mese dopo. «In quel momento era un campione nella sua fase di massimo rendimento: l’anno prima, il 1998, aveva vinto sia il Giro che il Tour. La sua popolarità era enorme e internazionale». Nel 2000, Pantani riuscì a prepararsi per partecipare al Tour e ne fu ancora un protagonista. Ma nel 2001 al Giro d’Italia ci fu la vicenda della siringa di insulina trovata nell’albergo dei ciclisti e attribuita a lui, che fu condannato. «Per questo episodio Leblanc, l’organizzatore del Tour, rifiutò l’iscrizione di Pantani all’edizione di quell’anno». Nel Giro del 2003, Pantani arrivò quattordicesimo, un risultato normale considerata la preparazione per forza scadente. «Quando Leblanc rifiutò nuovamente la sua iscrizione al Tour di quell’anno, Pantani gettò la spugna». Pochi mesi dopo, il 14 febbraio 2004, fu trovato morto nel residence “Le Rose” di Rimini, dove aveva soggiornato per una settimana, confermando l’alloggio giorno per giorno.Il motivo della morte fu fissato dal medico legale in overdose di cocaina, e ancora ad oggi questa è la versione ufficiale. «Nel frattempo c’erano anche stati i procedimenti giudiziari aperti contro di lui dalla giustizia ordinaria italiana, sempre per illecito uso di sostanze dopanti», scrive Pavanetto. «Alla fine Pantani era stato assolto da ogni reato, ma intanto sette Procure lo avevano portato a giudizio e le sue spese legali erano ammontate in totale a un miliardo e mezzo di lire». Nel frattempo comincia a brillare la stella di Lance Armstrong, che proprio a partire dal 1999 inizia a vincere “facile”: cinque Tour de France di fila (dal 1999 al 2003). «Ogni volta succede qualcosa che gli toglie di mezzo l’avversario più forte, cioè Marco Pantani: nell’edizione del ‘99 Pantani era assente per la vicenda di Madonna di Campiglio; in quella del 2000 era presente ma psicologicamente sotto pressione, il 2 marzo si era ritirato dalla Vuelta de Murcia per “stato acuto di stress”; al Giro aveva subito gli umilianti controlli medici a sorpresa dell’Uci; nelle successive gare Pantani era assente perché la sua iscrizione era stata respinta». Lara Pavanetto fa notare che nel 2000, pur nelle condizioni in cui era, il Pirata era stato l’unico ad attentare alla leadership di Armstrong: «Vinse due importanti tappe di montagna, una scalando il Mont Ventoux e l’altra a Courchevel». E’ indubbio che l’assenza di Pantani spianò la strada ad Armstrong.Alcuni mesi dopo la conclusione del Giro del 1999, continua Pavanetto, emerse l’ipotesi che Pantani fosse stato boicottato dall’ambiente delle scommesse clandestine italiane. Un’ipotesi che è ritornata prepotentemente in auge con due libri usciti di recente: “Pantani è tornato. Il complotto, il delitto, l’onore”, di Davide de Zan (Piemme, 2014), e “Il caso pantani. Doveva morire”, di Luca Steffenoni (Chiarelettere, 2017). Quella delle scommesse clandestine «resta sempre sullo sfondo ormai come unica ipotesi, quasi unico movente, assieme alla cocaina, della carriera rovinata del campione e poi della sua morte». Ma se lo scopo era quello di far perdere a Pantani, a due giornate dalla fine, un Giro che aveva già vinto per guadagnare sulle puntate, perché poi – si domanda Pavanetto – continuare il complotto negli anni successivi e nei vari livelli in Italia e in Francia, e presso l’Unione Ciclistica Internazionale? «E chi mai, nell’ambiente delle scommesse clandestine italiane, avrebbe avuto tali poteri di manipolazione a livello mondiale?». Ancora: «Il fatto che il ministero delle Poste americano sponsorizzasse uno squadrone ciclistico che, si può ben dire, andò all’attacco del ciclismo europeo, non è mai sembrato strano a nessuno?».Soltanto dopo la morte di Pantani si seppe che la “prodigiosa” ascesa di Lance Armstrong «fu viziata da un uso criminale del doping, per vincere a tutti i costi». Ma, appunto: «Nessuno all’epoca vide nulla?». Come disse Pantani: «E’ strano, ogni volta che si parla di Armstrong tutti stanno zitti, come se nessuno avesse un’opinione». Forse, conclude Lara Pavanetto, «era molto pericoloso avere un’opinione sullo squadrone e sulla star della Us Postal Service». E a quanto sembra, «ancora oggi è meno pericoloso avere un’opinione sulle scommesse della criminalità organizzata, che sulla storia dell’Us Postal Service». Si può parlare con una certa tranquillità delle scommesse clandestine gestite dalla mafia attorno al ciclismo delle gare truccate, mentre resta estremamente rischioso, ancora oggi, aprir bocca «sulla strana sincronicità degli eventi che videro tramontare la stella del Pirata e sorgere, luminosa e prepotente, quella di Lance Armstrong».Sulla misteriosa morte di Pantani, dice Pavanetto, resta fondamentale l’analisi offerta da Paolo Franceschetti sul suo blog: un delitto “rituale”, firmato Rosa Rossa nel residence “Le Rose” con quel sibillino biglietto: “Oggi le rose sono contente, la rosa rossa è la più contata”. In realtà, sottolinea la ricercatrice ricorda che nessun esame grafologico ha finora attestato che quelle frasi – su carta intestata dell’hotel – siano state scritte proprio da Pantani. «Io ne dubito fortemente – dice – anche perché secondo me in quelle poche, apparenti sconnesse righe potrebbero esserci la firma e il movente dell’assassino, seppure espresso in un modo allegorico e per certi versi burlesco, quasi si trattasse di un macabro gioco». A parte il passaggio sulle “rose”, il libro di Philippe Brunel sostiene che, in quel foglio, Pantani (o chi per lui) parla di «coincidenze saline» e di «una strana alchimia, dove si mette in relazione il fosforo con il potassio, la linfa, la “clorofilla di sangue”», e si legge: «Tutto passa come il mare». L’alchimia è la prima cosa che salta all’occhio, conferma Pavanetto. «Queste parole sembrano descrivere una trasmutazione alchemica. Il fosforo, simbolo dell’illuminazione spirituale; il potassio, la linfa; e soprattutto la “clorofilla di sangue”, e infine quel “tutto passa con il mare”».La clorofilla è chiamata anche “sangue vegetale” e può essere considerata un vero rigeneratore per le cellule, in quanto apporta ossigeno. «Può essere utile in varie forme di anemia, migliora la contrazione cardiaca e si rivela utile soprattutto per gli sportivi poiché ne aumenta la resistenza». E’ chiamata “sangue vegetale”, spiega Pavanetto, perché la sua struttura chimica è simile a quella dell’emoglobina, con la sola differenza che la clorofilla contiene magnesio anziché ferro. «Sin dal 1936 fu studiata come fattore per la rigenerazione del sangue, soprattutto in relazione all’emofilia». Studi che poi «servirono molto nel mondo del doping, dove appunto si “esercita” la rigenerazione del sangue». Sembra un macabro gioco di specchi e scatole cinesi, continua Lara Pavanetto: sapete qual è il simbolo alchemico del magnesio? La lettera D. E Pantani soggiornava (e morì) nella camera D5.Attenzione: il numero 5, «essenza del Pentacolo, è ricondotto al numero degli elementi, la quintessenza spirituale e i quattro elementi abituali: Acqua, Fuoco, Terra e Aria». I quattro elementi alchemici. “E tutto passa come il mare”: il mare «fu per gli alchimisti l’acqua mercuriale, l’elisir, l’oceano increato dove la materia prima subì il processo di trasformazione e di maturazione fino allo stato di perfezione». E, a proposito di “contrappasso” dantesco, Lara Pavanetto ricorda il canto primo del Purgatorio, nella “Divina Commedia”, in cui Virgilio lava Dante dalla “nerezza” dell’Inferno: «Con le mani bagnate dalla rugiada del mattino, Virgilio rimuove dalle guance lacrimose di Dante quella nerezza che l’Inferno gli aveva lasciato. Poi lo cinge con un giunco sottile che cresce nel limo del mare, giunco che nasce miracolosamente là dove viene reciso. E’ un nuovo battesimo, una nuova purificazione eseguita questa volta con la rugiada, cioè acqua che viene dal cielo, simbolo di doni spirituali». Recita quel fatidico biglietto: “E tutto passa come il mare”. Firma e chiave “rituale”, con spiegazione simbolica, dell’omicidio del campione ribelle che doveva essere punito in modo esemplare?Vuoi vedere che Pantani è stato distrutto e poi eliminato anche per evitare che facesse ombra a Lance Armstrong, il super-campione (artificiale) vicino ai Bush? Doping, ciclismo e morte: secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’industria segreta del doping usa i ciclisti come cavie per sperimentare nuove, micidiali droghe “performanti”, destinate a soldati e guerriglieri: un business colossale, realizzato con la copertura di case farmaceutiche e gestito da poteri “supermassonici” pronti a eliminare fisicamente chiunque osi ribellarsi. Come Pantani, per esempio? La sua fine: un monito, per qualsiasi altro ciclista che avesse provato a rifiutare la siringa? Supermassoni reazionari i Bush, “padrini” di Armstrong. Esoteristi, probabilmente, anche i killer di Pantani: lo afferma Lara Pavanetto, analizzando lo strano messaggio “alchemico” rinvenuto nella stanza in cui il campione romagnolo morì. Per Paolo Franceschetti, avvocato per lunghi anni, quel delitto è “firmato” Rosa Rossa, potente associazione occultistica all’origine di svariati crimini eccellenti, come quello del Mostro di Firenze: il delitto rituale come pratica “magica”, e il clamore mediatico come utile mezzo per spaventare l’opinione pubblica, rendendola più docile verso l’autorità costituita. Il ribelle Pantani? Andava punito e infangato con la pena del contrappasso. Aveva evocato lo spettro del doping? Bene, sarebbe morto disonorato: spacciato per cocainomane.