Archivio del Tag ‘guerriglia’
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Botte da orbi: la guerra di Pompeo contro il Papa “cinese”
Wojtyla sì, che era un campione: altro che Bergoglio. Scene mai viste: volano ceffoni tra Usa e Vaticano. Le ostilità erano state clamorosamente aperte dal segretario di Stato, Mike Pompeo, con la sua “strigliata” a mezzo stampa contro Papa Francesco: la Santa Sede «metterebbe a rischio la propria autorità morale» se dovesse rinnovare l’accordo che consente al governo di Pechino di designare i vescovi cattolici in Cina, aveva scritto Pompeo su “First Things”, influente mensile religioso conservatore. Gli sberloni sono continuati dopo lo sbarco di Pompeo a Roma. «Aveva chiesto di vedere il Papa», ha rivelato il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ma Pompeo non sarà ricevuto da Francesco: «Non si ricevono personalità politiche durante la campagna elettorale. E d’altra parte – ha aggiunto – un segretario di Stato incontra il suo omologo, appunto il segretario di Stato». Durissima, a stretto giro, la replica di Pompeo: il vice di Trump ha “strapazzato” monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati e quindi “ministro degli esteri” della Santa Sede, costretto a intervenire solo per pochissimi minuti nel convegno sulla libertà religiosa tenutosi all’ambasciata americana, in cui Pompeo ha citato Giovanni Paolo II come modello di paladino della libertà, facendo sbiadire l’immagine di Bergoglio, che tratta (anche sottobanco) con un regime che opprime i cittadini e perseguita i cattolici.
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Se al Popolo delle Mascherine resta il piacere di votare No
Il minimo che ci potesse capitare, dopo aver dato retta a Greta Thunberg, era di finire confinati in casa per mesi, e poi guardati a vista come pericolosi bricconi, irresponsabili diffusori del Virus della Paura. Milioni di sguardi imbambolati davanti all’epifania scandinava della minuscola fiammiferaia, venuta a raccontarci – insieme ai tecno-narratori dell’Onu – che siamo noi, proprio noi, a surriscaldare pericolosamente il globo. Per la cronaca: è lo stesso pianeta che, solo dodicimila anni fa, passò in un battibaleno dall’inferno dei vulcani alla notte artica dei ghiacci, superando il Grande Diluvio, per poi arrivare alle temperature – più alte di quelle di oggi – dell’epoca dell’Impero Romano, quando cioè non esistevano plastiche né carbone né acciaierie. Tutti a sentire i profetici ammonimenti della piccina, mentre la Terra si riempiva di strane antenne, i cieli erano rigati da strane scie, e dai laboratori fuggivano strani virus. Antenne, scie e virus: tre vocaboli complemanente assenti, nel lessico della maestrina svedese, i cui ricchissimi impresari (dalla Bank of England in giù) erano riusciti a distoglierci dal vero problema, l’avvelenamento ottuso e criminale del suolo, dell’aria e delle acque. E’ colpa vostra, cioè nostra: il Vangelo secondo Greta è lo stesso degli arconti che stabiliscono, da sempre, quanto e come crescere, quanto e come soffrire, e quando infine decrescere, impoverirsi, possibilmente sparire.Sono sempre loro a decidere quale canzone cantare, a seconda dei momenti: il guaio, semmai, è che poi la cantiamo tutti, o quasi tutti, lasciando che siano i medesimi sceneggiatori a scegliere per noi lo spartito del giorno. I pessimisti parlano apertamente di zootecnia, sia pure evolutissima e sapientemente truccata da politica, da informazione, da entertainment culturale. E’ ancora possibile cantare fuori dal coro, entro certi limiti; al momento giusto, però, non manca mai un Vasco Rossi che sappia richiamare all’ordine, da par suo, gli eventuali indisciplinati. Di tanto in tanto, al Popolo delle Mascherine è ancora concesso l’antico lusso della celebrazione democratica, elettorale, a condizione – beninteso – che dal voto non dipenda niente di importante. Bazzecole, piccole faide tra nano-leader, guerriglie tra clan. Da Greta Thunberg a Beppe Grillo, il passo è brevissimo: ci si ritrova con Luigi Di Maio ministro degli esteri, e Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. L’unico campionato vinto dal Fratello di Montalbano, per ora, è quello della vaccinazione obbligatoria più inutile del pianeta, il siero contro l’influenza, mentre i suoi fieri oppositori – il barbaro Salvini (l’energumeno al citofono) e la piccola Giorgia («sono italiana, sono cristiana») – si stringono attorno al redivivo Nonno Silvio, che spedisce in aula un fenomeno indimenticabile come Mariastella Gelmini ad aprire ufficialmente la stagione della Vaccinazione Universale Obbligatoria.Al Popolo delle Mascherine è consentito celebrare il rito solenne delle elezioni regionali, tra gossip e sondaggi, già pregustando l’esiziale bilancio che proporrà vincitori e vinti, come se davvero i cambi di casacca e di poltrona portassero in dote un qualche lume capace di rischiarare la lunga notte polare nella quale i sudditi sono stati abbandonati, costretti a subire eventi non spiegati, letteralmente incomprensibili, se non protetti dal segreto. «Questo governo non lavora col favore delle tenebre», ha detto l’umorista Conte, l’ometto che ha proibito la circolazione di ogni possibile notizia giungendo a imporre la supervisione di un Ministero della Verità, abilitato a vigilare e censurare, nemmeno fossimo in Corea del Nord. Un atto d’imperio madornale, scandaloso, contro il quale però non s’è levata alcuna voce, dalle redazioni: non un fiato, né dai telegiornali né dai sindacati; non una sillaba dal mitologico Ordine dei Giornalisti, sempre che esista ancora. Anzi, al contrario: tutti i cantori si sono esercitati nello stesso coro, giungendo a ostracizzare e ridicolizzare anche i Premi Nobel che avessero avuto l’impudenza di esprimere un loro libero pensiero. L’aria che tira è scurissima, nel paese delle Sardine e dei magistrati formato Palamara: forse persino Primo Levi, oggi, rischierebbe di beccarsi del negazionista.Si dirà che è scontato anche questo, presso i sudditi che vivono sui social e si muovono soltanto se hanno in tasca il dispositivo telefonico di tracciamento volontario personale. Tutto ovvio e normalissimo, per chi ha creduto che Barack Obama fosse una specie di Babbo Natale in versione gospel. Normale, per chi ha accolto con un bell’applauso il macellaio Mario Monti, per chi crede ancora che Romano Prodi sia una sorta di filantropo bonario, per chi pensa che la truce Angela Merkel sia meglio dell’aborrita Maggie Thatcher, la Strega del Nord (che almeno ha rovinato solo gli inglesi, lasciando in pace il resto dell’Europa). Normale, per chi ancora crede alla leggenda nera del Debito Pubblico, e pensa che la sbalorditiva solidità italiana – case, risparmi – possa andare benissimo per gli avvoltoi che sognano l’eterna patrimoniale, mentre non valga nulla per il rating dell’Ue (che tratta l’Italia come un pezzente da mettere alla porta, un povero paesucolo insolvente). Tutto normale, per chi riesce addirittura a fare il tifo per i nazi-terroristi prezzolati che portano la guerra nelle strade americane, usurpando senza ritegno persino il nome e le bandiere dell’antifascismo.E in fondo al tunnel, naturalmente, c’è pure un referendum. Anche questo è concesso, ai cittadini in libertà provvisoria: votare per tagliare quel poco di democrazia formale che ancora sopravvive. Massacrare il Parlamento, volontariamente: un harakiri magistrale. Poltrone oggi tristemente inutili, scavalcate da poteri decisivi, eppure ancora temute: per quello che potrebbero diventare, domani, se a occuparle fosse gente d’altra razza. Come – per dire – quel coraggioso Kennedy, capace di scuotere i dormienti con il suo appello berlinese al bene più prezioso, l’orgoglio di sentirsi liberi. I saggi dicono che non serve frugare tra i complotti, per fare l’inventario del disastro: basta e avanza lo spettacolo di un corpo elettorale rassegnato a votare ogni volta con odio, contro qualcuno, anziché per qualcosa. Accadde con Matteo Renzi, nell’improvvida chiamata alle urne che gli costò il posto. Votarono in massa, gli italiani, per zittire il fanfarone (ma nessuna alternativa era in cantiere: dopo di lui lo zombie Gentiloni, e ora addirittura Conte). Cosa farà, stavolta, il Popolo delle Mascherine? Assalterà i seggi, per punire il grottesco ducetto del Distanziamento, l’omino che ha imposto il bavaglio alla nazione? Oppure resterà a casa, davanti alla partita? O peggio: voterà convintamente per suicidare il Parlamento? L’elettore, oggi, sa di essere considerato meno di niente. Gli resta quel miniscolo potere, soltanto per un giorno: dire No. E’ poco, ma è qualcosa. La franchezza di un messaggio: non ci piace, quello che ci avete fatto.(Giorgio Cattaneo, “Al Popolo delle Mascherine resta una possibilità: il piacere di dire No”, dal blog del Movimento Roosevelt del 17 settembre 2020).Il minimo che ci potesse capitare, dopo aver dato retta a Greta Thunberg, era di finire confinati in casa per mesi, e poi guardati a vista come pericolosi bricconi, irresponsabili diffusori del Virus della Paura. Milioni di sguardi imbambolati davanti all’epifania scandinava della minuscola fiammiferaia, venuta a raccontarci – insieme ai tecno-narratori dell’Onu – che siamo noi, proprio noi, a surriscaldare pericolosamente il globo. Per la cronaca: è lo stesso pianeta che, solo dodicimila anni fa, passò in un battibaleno dall’inferno dei vulcani alla notte artica dei ghiacci, superando il Grande Diluvio, per poi arrivare alle temperature – più alte di quelle di oggi – dell’epoca dell’Impero Romano, quando cioè non esistevano plastiche né carbone né acciaierie. Tutti a sentire i profetici ammonimenti della piccina, mentre la Terra si riempiva di strane antenne, i cieli erano rigati da strane scie, e dai laboratori fuggivano strani virus. Antenne, scie e virus: tre vocaboli completamente assenti, nel lessico della maestrina svedese, i cui ricchissimi impresari (dalla Bank of England in giù) erano riusciti a distoglierci dal vero problema, l’avvelenamento ottuso e criminale del suolo, dell’aria e delle acque. E’ colpa vostra, cioè nostra: il Vangelo secondo Greta è lo stesso degli arconti che stabiliscono, da sempre, quanto e come crescere, quanto e come soffrire, e quando infine decrescere, impoverirsi, possibilmente sparire.
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La prima regola: mai lasciarsi imporre l’agenda del nemico
La prima regola per difendere la propria libertà, probabilmente, sta nel cercare di non farsi imporre l’altrui agenda. Nel libro-capolavoro “La guerra dei poveri” (Einaudi), Nuto Revelli traduce il concetto declinandolo nel contesto storico dell’estrema precarietà della guerra partigiana: mai accettare lo scontro, men che meno in campo aperto. Al rastrellamento non ci si oppone: ci si sottrae, dileguandosi sui monti. Per colpirla, una soverchiante forza di occupazione, non c’è che una strada: tendere agguati, con iniziative inattese e rapidissime, senza lasciare all’avversario il tempo di reagire. La tattica della guerriglia non pretende certo di ottenere la sconfitta militare del nemico; però contribuisce a innervosirlo, destabilizzarlo e infine fiaccarlo. Presuppone una strategia lucidamente pianificata, e il concorso sincronizzato di svariate unità, ben addestrate e distribuite sul territorio. Armi leggere, o leggerissime, contro carri armati e obici: ha senso? La risposta è sì, conferma lo storico Alessandro Barbero: i comandi alleati si complimentarono con il comandante Revelli per essere riuscito a rallentare per 10 lunghissimi giorni l’avanzata, sulle Alpi cuneesi, di una potente divisione corazzata nazista, diretta in Provenza attraverso il Colle della Maddalena per ostacolare gli angloamericani appena sbarcati fra Tolone e Cannes.La chiave di quel successo tattico? Rinunciare alle artigliere partigiane schierate in linea e optare per agili azioni di commando sui fianchi della vallata, con solo qualche mortaio e poche mitragliatrici. In altre parole: sfuggire all’agenda imposta del nemico. Ora, occorre un discreto “salto quantico” per lasciare di colpo l’agosto del 1944 e piombare nella fatale primavera 2020. Domanda a bruciapelo: quand’è l’ultima volta che abbiamo rifiutato l’agenda altrui, cioè la logica dello scontro? Certo, fortunatamente oggi non siamo in guerra; ma l’inaudito stato d’assedio “cinese” imposto all’Italia in nome del coronavirus, il quasi-coprifuoco dello stato d’emergenza, ha fatto sobbalzare più d’un costituzionalista. Come se il maledetto Covid-19, tuttora ampiamente misterioso, avesse finito per rendere drammaticamente evidente, esplosivo (e pure luttuoso) un male che in realtà si era insinuato da lunghissimo tempo, nella nostra società: l’eterodirezione, palese e occulta, degli stati d’animo connessi con la vita sociale e politica. Vecchia storia, probabilmente, cominciata in tempo di guerra con l’infernale propaganda hitleriana (”tutta colpa degli ebrei”) e proseguita in tempo di pace coi giochetti del mago Edward Bernays, nipote di Freud, per lanciare anche tra le donne il consumo di sigarette. Psicologia, innanzitutto: è l’arma vincente di qualsiasi agenda ostile, pericolosa per la salute della democrazia.Magie: il complottismo (quello vero, affidato ai Travaglio, agli Scanzi) oggi difende a spada tratta l’increscioso Conte, l’ex Signor Nessuno che – da semplice comparsa – è riuscito a diventare protagonista assoluto, primattore della più grave catastrofe socio-economica che abbia travolto l’Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il complottismo di regime aveva frastornato il pubblico, per decenni, elencando i presunti grandi mali nazionali, in quest’ordine: Berlusconi, corruzione, evasione fiscale, mafia. Erano gli anni d’oro di Di Pietro e dei girotondi, poi di Grillo. Non una parola – mai – sulla natura pericolosamente oligarchica della governance europea, sempre sorretta dall’establishment nazionale che vede nel Pd il suo stabile riferimento strumentale operativo. La consegna è sempre la stessa: lasciare in mano alla finanza speculativa le grandi decisioni, semplicemente ratificate dalla politica. Stesero il tappeto rosso, i cantori del rigore, ai piedi del commissario Monti che provvide immediatamente a disabilitare l’economia italiana e neutralizzare (col pareggio di bilancio in Costituzione) le residue possibilità finanziarie, ancorché virtuali, di uno Stato comunque intrappolato da Maastricht e Lisbona, reso incapace di intervenire in modo immediato (oggi lo si vede benissimo) persino se si tratta di salvare vite umane e famiglie ridotte sul lastrico. La barzelletta dei 600 euro a scoppio ritardato, con tanto di default del server dell’Inps, ha fatto il giro del mondo, in paesi che invece hanno subito accreditato mensilità direttamente sui conti correnti dei cittadini costretti a restare a casa.La politica come semplice paravento pubblico dell’establishment privatistico ha assunto toni ulteriormente spettacolari con la meteora Renzi e il suo vaniloquio immaginifico, per poi cedere il testimone al suo alter ego populista, il grillismo (che oggi infatti è al governo proprio con Renzi). Specularità assoluta: abissale distanza tra le parole e i fatti, e senza mai affrontare il vero problema – quello che oggi il funesto Covid mette in mostra impietosamente: a causa dell’euro-sistema non si mette mano al denaro, centinaia di miliardi, indispensabile per fronteggiare la catastrofe. Altra presenza poco più che meteorica, lo stesso Salvini: per oltre un anno, dopo aver incassato il “niet” dell’Ue sul deficit, il leader della Lega ha raccontato agli italiani che il loro vero problema erano gli sbarchi dei migranti. Salvini però – prima di venir costretto a gettare la spugna – è stato letteralmente surclassato dal chiasso degli avversari: sono riusciti a dargli persino del nazista, raccontando a loro volta agli italiani l’ennesima fiaba, e cioè che il vero problema nazionale fosse proprio lui, la Bestia. Tutto questo, mentre la narrazione della tragedia del surriscaldamento climatico terrestre era affidata alla sedicenne Greta, e mentre le eroiche Sardine prodiane formulavano la loro ricetta per la democrazia italiana: impedire ai ministri di esprimersi liberamente, sui social.Questa nuova moda della censura, in realtà antichissima, sta letteralmente tracimando: l’Agcom raccomanda di diffondere solo notizie “accreditate” (non si sa da chi), e lo stesso governo addirittura mette in campo una task force per imbavagliare il web (istituita da Andrea Martella – Pd, ovviamente), mentre si continua a dare la parola, a reti unificate, a un signore come il virologo Roberto Burioni, che si è permesso – nell’Italia nel 2020 – di chiedere alla magistratura di spegnere “ByoBlu”, il video-blog più seguito dagli italiani, cioè il popolo che Conte non ha protetto tempestivamente dalla pandemia, salvo poi chiuderlo in casa (e senza neppure uno straccio di assistenza economica). Tutto questo è semplicemente esorbitante, anomalo, mostruoso quanto le previsioni di economisti e sociologi: il paese rischia letteralmente di crollare, con conseguenze incalcolabili, anche grazie all’inerzia del suo non-governo scandaloso, imbelle ma improvvisamente autoritario. Nel frattempo, il cielo è scosso dal rombo di temporali vicini e lontani: Trump taglia i fondi all’Oms, accusandola di essere complice della diffusione del virus, mentre il figlio di Bob Kennedy accusa Bill Gates (grande sponsor della stessa Oms) di voler imporre il suo vaccino anti-coronavirus, probabilmente inutile e forse rischioso.Alla stragrande maggioranza degli italiani, stanchi di cantare l’inno nazionale dai balconi, sempre il coronavirus oggi consente finalmente di vedere di che pasta è fatta questa sedicente Unione Europea, convalidata pochi mesi fa dal solito Pd con l’aggiunta dell’ormai altrettanto impresentabile Movimento 5 Stelle, recentissimo interprete (con la sua sub-agenda locale) della grande agenda neoliberista, quella che dal 1971 con il Memorandum Powell si diede una vera e propria road map per la riduzione progressiva della democrazia. Tappa fondamentale, il golpe cileno del 1973 che segnò l’avvento del neoliberismo al potere. Due anni dopo, il manifesto “La crisi della democrazia” (commissionato dalla Trilaterale) preparò la capitolazione dell’economia sociale europea, sinistramente sigillata nel sangue nel 1986 con l’omicidio del premier socialista svedese Olof Palme, campione del welfare, fino poi all’estinzione della sinistra italiana. L’agenda ostile ha lavorato in modo perfetto per destrutturare minuziosamente qualsiasi difesa, usando i media come armi letali e riducendo l’offerta politica a puro folkore. Se si scorrono i nomi dei cosiddetti leader a disposizione degli italiani, si capisce al volo il boom storico dell’astensionismo (che lascia comunque campo libero ai veri decisori, quelli che scelgono chi farà il ministro e con quali compiti).Pur nel devastante caos planetario che ha causato, incrinando le certezze commerciali della globalizzazione, il micidiale Covid mette a fuoco un altro punto cardinale dell’agenda ostile: la scelta, dolorosa, tra sicurezza e libertà. Da una parte svetta il modulo-Wuhan raccomandato dall’Oms e prontamente adottato dall’Italia, dall’altra si registra l’insofferenza della Casa Bianca (che, tra le righe, sospetta l’Oms di essere il vero strumento dell’agenda-Covid, interpretata come piano di dominazione, affidato alla nuovissima polizia sanitaria capace di dettare lo stato d’emergenza sostituendosi ai governi). Niente sarà più come prima, ripetono tutti, ripiegando sull’incerta protezione delle mascherine. Una certezza negativa riguarda l’Italia: il nostro paese – crocevia strategico tra Usa e Cina, Mediterraneo e Ue – sta subendo danni incalcolabili, da cui non si sa come potrà risollevarsi, in che tempi e con quali costi sociali. Gli ottimisti invitano a riflettere sulle opportunità che il coprifuoco starebbe offrendo: cioè la riscoperta dell’autenticità dei valori umani. Per la riscoperta dei valori politici, invece, quanto ancora bisognerà attendere? O meglio: quali vettori impiegare, per tradurre sul piano pubblico le migliori istanze individuali?In un regime come l’attuale, sostanzialmente post-democratico e sempre meno libero, la domanda non è oziosa. La drammatica criticità della situazione sociale ripropone in modo automatico la consueta logica, perdente, dello scontro frontale. E’ forse il massimo risultato dell’agenda ostile: coltivare l’odio per il presunto nemico di turno. E’ il modo migliore per cancellare la buona politica, senza che nessuno se ne accorga, se il pubblico è impegnato a tifare solo e sempre “contro”, a fischiare qualcuno, a maledire qualcosa. Tutte battaglie di carta, fuochi di paglia. Cade il nemico apparente, ma ce n’è già pronto un altro. L’avversario vero – non altrettanto visibile – pare si diverta, a far combattere i suoi galletti, senza che nessuno di loro abbia mai la minima possibilità di cambiare veramente qualcosa. Se non teme i leader di cartone (promossi e bocciati a comando) cosa teme, davvero, l’agenda ostile? Il pensiero? La libertà? La capacità di strutturare proposte serie? A questo è servito, l’effimero leaderismo mediatico degli ultimi decenni: a far sparire i programmi, rottamati insieme ai diritti sociali, a partire dalla grande privatizzazione universale degli anni Novanta, affidata in Italia a Romano Prodi, Mario Draghi, Massimo D’Alema. A seguire, vent’anni di stupidaggini assordanti, fino alla demolizione di Berlusconi via gossip a mano armata, con tanto di spread.Una delle qualità che alla Resistenza gli storici riconobbero in modo unanime fu la sua capacità sinergica, trasversale, di unire forze eterogenee: comunisti, socialisti, azionisti, cattolici, liberali, persino monarchici. Le lezione: smettere di ragionare per schemi, in modo etnico, e ridiventare laici, riconoscendo pari dignità a chiunque (qualunque errore possa aver commesso, in passato). Ieri, il patto era basato sull’opposizione patriottica di fronte alla spaventosa calamità dell’occupazione nazista, esito finale di una dittatura che aveva risolto subito, a modo suo, la dicotomia sicurezza-libertà, e senza nemmeno bisogno di mascherine. Nel 1943, sul piano militare, il nemico era pressoché inaffrontabile. Lo si poteva solo infastidire seriamente, in attesa dell’arrivo decisivo degli alleati (che esistono sempre, e hanno sempre bisogno di partigiani intelligenti). Nell’agosto del 1944, Nuto Revelli cominciò la sua battaglia in Valle Stura rimuovendo i suoi cannoni controcarro schierati a Vinadio, in campo aperto: non sarebbero mai riusciti a fermare i panzer. Fucile in spalla, diresse i suoi verso le alture. Seguirono giorni difficilissimi, nei quali però la divisione tedesca rimaste ferma, imbottigliata nel fondovalle a fare da bersaglio.Gli alleati di allora, intanto, stavano finendo di sbarcare in Costa Azzurra. Quelli di oggi dove sono? Meglio: chi sono? Si nascondono dietro al ciuffo di Trump, che ha promesso di impedire il collasso socio-economico dell’Italia, contrastando sia l’Europa “matrigna” che il “partito cinese” che collega Wuhan a personaggi come Bill Gates, attraverso network opachi come l’Oms? Anche fosse, dove sarebbero i “partigiani” italiani? Forse affilano le armi ultraleggere del web, non a caso preso di mira dai nuovi censori? Domina il caos, in ogni caso: alle gravissime reticenze del mainstream, i social rispondono con un festival parossistico in cui si può leggere di tutto, solenni verità e bufale spaziali, grandi quanto quelle dei virologi televisivi. Servirebbe una piattaforma autorevole e plurale, inclusiva, per coordinare idee traducibili e spendibili. Primo passo: costruire finalmente un’agenda autonoma, alternativa a quella ostile, a disposizione della politica (nessuno escluso). Secondo step, appunto: smettere di spararsi addosso a vicenda, mettere da parte il tifo e imporsi un pensiero costruttivo. Volendo, l’occasione è ghiotta: mai, prima d’ora, la governance eurocratica (vera responsabile del declino italiano, ben prima dell’esplosione pandemica) aveva mostrato il suo vero volto.In frangenti come quello presente, forse, l’autentico eroismo consiste nella capacità di cambiare idea, riconoscendo i propri errori. E’ spesso citato ad esempio il caso, più unico che raro, del Sudafrica. Rovesciato l’apartheid, anziché procedere con operazioni di giustizia sommaria, Nelson Mandela preferì offrire agli ex aguzzini bianchi una possibilità di riabilitazione, consentendo anche ai peggiori di chiedere perdono ai familiari delle loro vittime. Tanti anni prima, fu capace di cambiare idea lo stesso Nuto Revelli, ufficiale degli alpini imbevuto di militarismo fascista. Spettacolare, la sua trasformazione – lacerante, dolorosissima – cominciata proprio sul fronte russo, in prima linea. Non difettava di coraggio, Nuto Revelli: fu l’ultimo uomo a chiudere la sterminata colonna in ritirata, nel ‘43. Dietro di lui, c’era solo il Don. E oltre il Don, l’Armata Rossa. Una volta a Udine, attraversato l’inferno bianco dello sfacelo dell’Armir, si spedì a casa i suoi mitra: sentiva che, di lì a poco, gli sarebbero serviti. Dopo aver fatto a pezzi il suo fascismo giovanile, si sarebbe deciso a sparare direttamente ai fascisti. Quanto è difficile, oggi, saper cambiare idea? Quanto è tenace, l’invisibile “psico-dittatura” del neoliberismo? Se a imporsi sarà sempre il consueto tifo contrapposto e televisivo, tra opzioni irrisorie, allora addio: ancora una volta, a vincere sarà l’agenda ostile.(Giorgio Cattaneo, “Prima regola, mai farsi imporre l’agenda del nemico”, dal blog del Movimento Roosevelt del 18 aprile 2020).La prima regola per difendere la propria libertà, probabilmente, sta nel cercare di non farsi imporre l’altrui agenda. Nel libro-capolavoro “La guerra dei poveri” (Einaudi), Nuto Revelli traduce il concetto declinandolo nel contesto storico dell’estrema precarietà della guerra partigiana: mai accettare lo scontro, men che meno in campo aperto. Al rastrellamento non ci si oppone: ci si sottrae, dileguandosi sui monti. Per colpirla, una soverchiante forza di occupazione, non c’è che una strada: tendere agguati, con iniziative inattese e rapidissime, senza lasciare all’avversario il tempo di reagire. La tattica della guerriglia non pretende certo di ottenere la sconfitta militare del nemico; però contribuisce a innervosirlo, destabilizzarlo e infine fiaccarlo. Presuppone una strategia lucidamente pianificata, e il concorso sincronizzato di svariate unità, ben addestrate e distribuite sul territorio. Armi leggere, o leggerissime, contro carri armati e obici: ha senso? La risposta è sì, conferma lo storico Alessandro Barbero: i comandi alleati si complimentarono con il comandante Revelli per essere riuscito a rallentare per 10 lunghissimi giorni l’avanzata, sulle Alpi cuneesi, di una potente divisione corazzata nazista, diretta in Provenza attraverso il Colle della Maddalena per ostacolare gli angloamericani appena sbarcati fra Tolone e Cannes.
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Dylan, atto secondo: guerra al potere oscuro del Covid-19
«Ho un cuore rivelatore, come il signor Poe. Ho scheletri nei muri delle persone che conosci». Attenti: è Bob Dylan, che parla. A tre settimane da “Murder Most Foul”, che mette in relazione l’omicidio di John Kennedy con la minaccia del coronavirus (evocata nelle righe che accompagnano il brano, sul sito ufficiale del cantautore), il Premio Nobel 2016 per la Letteratura torna a farsi vivo, con la struggente “I Contain Multitudes”: altro giro, altro regalo. In soli 21 giorni, dopo otto anni di quasi-silenzio se non per bootleg sontuosi e cover di lusso, tra cui quelle dei brani di Frank Sinatra, il grande artista di Duluth scodella – gratis, sul web – una seconda strenna. E per lanciarla stavolta sceglie Twitter, il canale social preferito dal Donald Trump che ha appena dichiarato guerra all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un network opaco, che la Casa Bianca sospetta – per usare un eufemismo – di non aver vigilato sull’origine del male oscuro che sta devastando il pianeta. Una conferma esplosiva viene dal francese Luc Montagnier, altro Nobel (per la Medicina, avendo scoperto il virus che dà origine all’Aids): il Covid-19, dice, è sicuramente “scappato” da un laboratorio come quello di Wuhan, ben noto all’Oms. Il virus è stato “progettato”, ingegnerizzato: non è di origine naturale. L’hanno fabbricato proprio bene, dice Montagnier. Chi? Qualcuno che lavorava a un possibile vaccino anti-Hiv.In attesa che la comunità scientifica decodifichi la “bomba” lanciata dal luminare francese (secondo cui sarà la natura stessa, col tempo, a “disarmare” il Covid, rendendo completamente inutile qualsiasi vaccino), è Bob Dylan a occupare il centro della scena. Per sganciare la sua, di bomba, ha atteso la mezzanotte di venerdì 17 aprile. Sembra un rimando diretto a “Murder Most Foul”, in cui descrive Kennedy come “the king on the harp”, evocando il biblico Davide – sovrano predestinato, unico a “conoscere l’ora della mezzanotte” per l’apparire, appunto, di una presenza angelica intenta a suonare l’arpa. Un topos tipicamente rosacrociano, caro all’elusiva tradizione inziatica di cui faceva parte Freddie Mercury, dei Queen (gruppo citato nel brano). Valori guida: fede, speranza e carità – traducibili nello stesso tricolore italiano, e nelle “virtù teologali” cristiane. «Scendo all’incrocio dove morirono fede, speranza e carità», recita Dylan, pensando a Kennedy come a un David assassinato. Per inciso: il presidente della New Frontier era anche strettamente connesso alla tradizione templare, rivela Luca Monti, che spiega che un antenato di Kennedy (Gherarduccio dei Gherardini) ereditò da Dante Alighieri la guida segreta dell’Ordine del Tempio, dopo la morte sul rogo dell’ultimo gran maestro ufficiale, Jacques de Molay.Non solo: Kennedy faceva parte anche dell’antica comunità eleusina. Lo sostiene Nicola Bizzi, “eleusino” lui stesso, autore di una suggestiva ricostruzione (”Da Eleusi a Firenze”, Aurora Boreale) sul ruolo della leggendaria comunità misterica pre-cristiana nell’ispirazione culturale del Rinascimento italiano. “Da Eleusi a Washington” è invece il titolo del “sequel”, che Bizzi sta per dare alle stampe, nelle prossime settimane, per rivelare “le origini occulte e misteriche degli Stati Uniti d’America e il ruolo fondamentale di alcune famiglie iniziatiche eleusine nella scoperta e nella costruzione del nuovo mondo”. Kennedy, esoterismo, Dylan. C’è un nesso? Eccome: lo si potrà leggere nei prossimi mesi, nero su bianco, direttamente tra le pagine di “Globalizzazione e massoneria”, atto secondo del fragoroso “coming out” avviato da Gioele Magaldi con il dirompente saggio “Massoni”, uscito nel 2014. «Se qualcuno l’aveva intuito, posso confermarlo ufficialmente: Bob Dylan è un massone ultra-progressista che milita nel mio stesso circuito», dice Magaldi, già iniziato alla superloggia “Thomas Paine” e ora leader del Grande Oriente Democratico. Un’esternazione clamorosa, espressamente autorizzata. E un invito: «Leggete bene, tra le righe di “I Contain Multitudes”: attraverso il suo splendido contenuto poetico, il brano rappresenta la continuazione di “Murder Most Foul”», atto d’accusa contro un potere criminale che Dylan mette in relazione sia con l’omicidio Kennedy che con la minacciosa comparsa dell’oscuro coronavirus.«Berrò alla verità e alle cose che abbiamo detto», annuncia l’autore di “Blowin’ in the wind”: allusione frontale – a doppio taglio, nell’enigmatico stile dylaniano – alla comunità di voci che ora si sono decise a venire allo scoperto, denunciando dettagli indicibili, come se fossimo giunti a un punto in cui non è più possibile tacere. Trattandosi di Dylan, poeta e letterato finissimo, è il grande Edgar Allan Poe, massone anche lui, a fornirgli l’elegante uscita di sicurezza: gli “scheletri negli armadi” (anzi, nei “muri”) richiamano quelli di cui la “fratellanza bianca” saprebbe praticamente tutto, e che ora si appresta – a rate, inesorabilmente – a riesumare, uno dopo l’altro. Un avvertimento più che esplicito: «Ho un cuore rivelatore», come quello che – nella novella di Poe – rivelerà il crimine e quindi l’assassino. Siamo a questo? A quanto pare, sì. E se qualcuno ancora dubita dell’intento di Dylan e della sua appartenenza, “I Contain Multitudes” fornisce indizi eloquenti: «Vado dove tutte le cose perse vengono rimesse a nuovo», dichiara, facendo risuonare quel “radunare ciò che è sparso” che è uno degli obiettivi dichiarati del percorso iniziatico massonico. A proposito: si intitola “Bringing it all back home” (riportando tutto a casa) uno degli album più celebri di Dylan. Un programma – politico, e non solo – enunciato tra le righe già nel 1965, da “Mr. Tambourine Man”.Naturalmente non passa inosservata, un’uscita pubblica di Dylan, nemmeno tra le redazioni italiane, puntualissime nel rilevare i riferimenti squisitamente culturali di cui trabocca l’ultima creazione dylaniana. Spiega Carlo Moretti, su “Repubblica”: stavolta l’ispirazione viene da uno dei più grandi poeti americani, Walt Whitman, che nel poema “Song on myself”, considerato il centro della sua poetica e pubblicato nel 1855 nella raccolta “Leaves of Grass”, si domanda ad un certo punto: “Mi contraddico? Mi sto contraddicendo? Molto bene, allora io mi contraddico (sono ampio, contengo moltitudini)”. A un certo punto, aggiunge Moretti, Dylan si paragona a William Blake, nel cantare le stesse “songs of experience” (citando così «la raccolta di poesie che Blake pubblicò nel 1794, nella quale raccontava la perdita dell’innocenza e l’ingresso, insieme alla caduta, nell’età adulta»). Tra i giornali italiani, il “Messaggero” scorge «un omaggio a David Bowie», altro massone, facendo rimare “all the young dudes” con il titolo del celebre brano dell’artista inglese. Sul “Corriere della Sera”, lo scrittore Sandro Veronesi si emoziona: «L’ha rifatto. Tre settimane dopo “Murder Most Foul”, Bob Dylan ha pubblicato un’altra canzone inedita sul suo sito – cioè ce l’ha regalata». Beninteso: «E’ bellissima».«Come “Knocking on Heaven’s Door” – scrive l’autore di “Caos calmo” – anche “I Contain Multitudes” è una ballata classica, con strofe di 6 versi stretti a due a due da rime perfette, mesmeriche – ed è, sì, il secondo capitolo di un testamento». Infatti: «Se “Murder Most Foul” era la mareggiata che riporta a riva i frammenti della nostra civiltà naufragata, “I Contain Multitudes” è una struggente appendice al discorso che Dylan ha consegnato all’Accademia di Svezia nel luglio del 2017», dieci mesi dopo avere ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura. «Una confessione (”I’m a man of contraddictions/ I’m a man of many moods/ I Contain Multitudes”); un ringraziamento a chi lo ha ispirato (Walt Whitman, citato direttamente nel titolo, ma anche Edgar Allan Poe, William Blake, Jack London); ma soprattutto è un inno incoercibile alla musica e alla bellezza – di oggi, di ieri e anche di domani». Impressionante, nel nuovo brano, l’archetipo della specularità: il tema esoterico dello specchio, direttamente evocato nel richiamo ad Amleto in “Murder Most Foul”, diventa l’architettura portante delle tante “moltitudini”, specchianti, in cui si riflette la voce di Dylan.Essere o non essere? Dopo Shakespeare, è stato un altro grande iniziato come Oscar Wilde a mettere al centro della scena proprio la funzione cruciale dello “speculum”, in un capolavoro come “Il ritratto di Dorian Gray”. E ora, davanti allo specchio compare Bob Dylan. «Oggi, domani e anche ieri», premette, come rianimando la testa girevole della statua di Giano, usata dai romani per ricordare che le “moltitudini” di cui siamo fatti possono anche essere lette in senso orizzontale, in uno scorrere di cronologie apparenti, in cui il tempo – la “divinità” che ci governa – esiste anche come nozione interiore. «Metà della mia anima, piccola, ti appartiene» (quella riflessa, che solo lo specchio può mostrarci: l’altra metà di noi). Lo specchio, cioè la complementarità degli opposti: «Io, reliquia, gioco con tutti i giovani». Oppure: «Tutte le belle cameriere e tutte le vecchie regine». Ancora: «Ti mostrerò il mio cuore. Ma non tutto, solo la parte odiosa». Non fa sconti, il Giano parlante: «Non ho scuse da presentare», precisa, già sapendo che il suo discorsetto potrebbe non piacere. A chi? Al «vecchio lupo avaro», lo spettro che ricompare a stretto giro (in “Murder Most Foul” era «l’uomo-lupo»). Con chi ce l’ha, Bob Dylan? «Combatto le faide di sangue», annuncia. C’è un potere abominevole, nel mirino?Certo colpiscono le concomitanze: Robert Kennedy Junior, altro massone progressista (figlio di Bob, nipote di John) ha appena caricato a testa bassa il quasi onnipotente Bill Gates («massone non certo progressista», secondo Magaldi), per la sua impazienza di lanciare sul mercato l’ipotetico super-vaccino contro il Covid, non ancora adeguatamente testato. Tant’è vero, accusa Kennedy, che Bill Gates pretende un’impunità assoluta: lo distribuirebbe solo se gli Stati gli garantissero di non fargli causa, nel caso qualcosa dovesse andare storto. Kennedy, Dylan, virus, massoni. Cos’è questo intreccio? Bob Dylan parla di «anelli sulle dita che luccicano e lampeggiano». E avverte: «Vado fino al limite, vado fino alla fine». Come dire: farete i conti anche con me? Farò la mia parte, per denunciare quello che so? In fondo, è quello che sta già facendo: sulla sua nave, omai, sventola la bandiera pirata. Uno studioso come Gianfranco Carpeoro, già a capo di un’antica obbedienza massonica “scozzese”, fa notare che a dare vita alla pirateria furono proprio i massoni libertari, delusi dalla monarchia britannica. «Pirati e corsari: l’Olonese, il Corsaro Nero, il Corsaro Rosso. Erano tutti massoni. Sempre ritratti nell’atto di nasconderlo, il tesoro: mai di riesumarlo. Messaggio: far sparire l’oro, ritenuto fonte di corruzione». Pirati guerriglieri, ribelli ante litteram? Dettagli in arrivo, nel libro che Carpeoro sta scrivendo. Nel frattempo, non resta che godersi il massonico pirata Dylan. Che infatti, a scanso di equivoci, ora canta: «Porto quattro pistole e due grandi coltelli».(Giorgio Cattaneo, 19 aprile 2020).«Ho un cuore rivelatore, come il signor Poe. Ho scheletri nei muri delle persone che conosci». Attenti: è Bob Dylan, che parla. A tre settimane da “Murder Most Foul”, che mette in relazione l’omicidio di John Kennedy con la minaccia del coronavirus (evocata nelle righe che accompagnano il brano, sul sito ufficiale del cantautore), il Premio Nobel 2016 per la Letteratura torna a farsi vivo, con la struggente “I Contain Multitudes“: altro giro, altro regalo. In soli 21 giorni, dopo otto anni di quasi-silenzio se non per bootleg sontuosi e cover di lusso, tra cui quelle dei brani di Frank Sinatra, il grande artista di Duluth scodella – gratis, sul web – una seconda strenna. E per lanciarla stavolta sceglie Twitter, il canale social preferito dal Donald Trump che ha appena dichiarato guerra all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Un network opaco: la Casa Bianca sospetta – per usare un eufemismo – che non abbia vigilato sull’origine del male oscuro che sta devastando il pianeta. Una conferma esplosiva viene dal francese Luc Montagnier, altro Nobel (per la Medicina, avendo scoperto il virus che dà origine all’Aids): il SarsCov2, dice, è sicuramente “scappato” da un laboratorio come quello di Wuhan, ben noto all’Oms. Il virus è stato “progettato”, ingegnerizzato: non è di origine naturale. L’hanno fabbricato proprio bene, dice Montagnier. Chi? Qualcuno che lavorava a un possibile vaccino anti-Hiv.
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L’Iran e la Guerra di Israele, cui Rabin avrebbe posto fine
Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa, infatti: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.Due anni prima, a Oslo, il progressista Rabin si era accordato con Arafat per gettare le basi, per la prima volta, di un patto che avrebbe portato alla nascita dello Stato di Palestina. Sarebbe stato la fine dell’alibi che per mezzo secolo aveva sorretto le peggiori oligarchie musulmane, sotterraneamente alleate delle oligarchie ebraiche del sionismo: la tensione permanente, per giustificare il rispettivo potere. Neutralizzato l’Egitto come paese leader del panarabismo storico, letteralmente distrutto l’Iraq di Saddam e invasa la Siria degli Assad, sono emerse in modo sempre più vistoso le due nuove potenze regionali, Ankara e Teheran. La Turchia di Erdogan salì alla ribalta nel 2010 denunciando il martirio di Gaza e l’aggressione alla Freedom Flotilla, carica di aiuti umanitari. L’Iran degli ayatollah si è proteso verso la maggioranza sciita degli iracheni, ben deciso a fortificare gli altri suoi caposaldi attorno a Israele, Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza. Ancora una volta, il fronte che si proclama anti-israeliano ha giocato in difesa: e proprio il generale Soleimani si era appena distinto, in Siria, accanto ai russi e ai libanesi di Hezbollah, per liberare il paese dalle milizie terroriste protette dall’Occidente. Quando infine la coalizione anti-Isis (iraniani e russi, siriani e curdi) ha sconfitto sul campo l’esercito dei tagliagole, lo stesso Trump si è preso il lusso di eliminare la pedina dell’intelligence atlantica, il “califfo” Al-Bahdadi, anch’esso (ufficialmente, almeno) ucciso con un raid dal cielo.La tragedia si colora di farsa non appena si dà un’occhiata all’Italia, dove la Rai si è rifiutata di trasmettere l’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar Assad, la prima dopo un decennio di guerra. La notizia stava nelle accuse di Assad verso i protettori occulti dell’Isis, le potenze occidentali (Francia in primis) e i loro satelliti mediorientali, incluso Israele. Nel 2015, Matteo Renzi non osò schierare truppe italiane in Libia, nonostante la protezione promessa da Obama. Oggi, assente l’Italia, sarà la Turchia a dislocare 9.000 soldati a guardia di Tripoli, a due passi dai terminali strategici dell’Eni. Silenzio di tomba da Conte e Di Maio, stavolta persino battuti – se possibile – da Salvini, che non trova di meglio che esultare per l’assassinio del generale Soleimani, impegnato a sollevare gli iracheni contro il governo coloniale della superpotenza che ha distrutto l’Iraq, facendone il vivaio dell’Isis. Il film dell’orrore che stiamo vivendo, letteralmente esploso insieme alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001, non sarebbe nemmeno cominciato se, nell’autunno del ‘95, non fossero andati a segno i colpi del fanatico sionista Yigal Amir, colono ebreo di estrema destra, terrorizzato dall’idea che Israele potesse convivere, alla pari, con gli “scarafaggi” palestinesi. Con la sua Beretta, Amir esplose due colpi calibro 380: sparò alla schiena di Rabin, e di milioni di persone che speravano davvero nel miracolo della pace.Dieci anni prima, in una capitale del Nord Europa – la remotissima Stoccolma – aveva fatto la stessa fine il grande leader socialdemocratico Olof Palme, grande sostenitore della causa palestinese. Quei colpi di pistola – dalla Svezia a Tel Aviv – è come se avessero centrato il cuore del mondo, paralizzandolo per decenni. Fino ad allora, il terrorismo era stato qualcosa di vagamente collegabile a una guerra tra oppressi e oppressori: i Fedayin palestinesi colpivano obiettivi precisi, entità ritenute responsabili di crimini. Non erano stragisti mercenari come l’oscura manovalanza di Al-Qaeda e dell’Isis. Erano guerriglieri spesso orfani, con alle spalle una catena di sofferenze e lutti famigliari. Sia pure in modo sanguinoso, avevano contribuito a mobilitare la comunità internazionale verso una soluzione storica, che mettesse fine al disastro innescato da confini di carta, disegnati nel deserto dopo il crollo dell’Impero Ottomano e poi con la creazione in Palestina del solo Stato ebraico. La stessa popolazione di Israele è stata costretta a convivere con l’incubo permanente della strage. Oggi, gli impresari del terrore sono tornati all’opera: finito il lavoro in Siria, ricominciano dall’Iraq e dalla Libia mettendo nel mirino l’Iran. Rispetto a ieri, se non altro, nel Medio Oriente è ricomparsa la forza stabilizzatrice della Russia. Dove porteranno, ora, i nuovissimi incendi innescati nella regione? Sembra continuare un gioco antico: opposti estremismi, nemici apparenti e alleati sotterranei. Dalla politica, buio pesto. Solo ipocrisia, e sangue.Che intenzioni hanno, esattamente, le divinità della guerra? Dove porterà l’assassinio dell’eroe nazionale iraniano Qasem Soleimani, trucidato dai droni di Trump il 2 gennaio del fatidico 2020? “Terremoto” è forse la parola più adatta a rappresentare il sanguinoso caos che ha come epicentro ancora una volta Israele, infiammando i suoi i vicini di casa. A essere colpito è il più potente di essi, la Persia, ma l’agguato mortale contro il leggendario capo dei Pasdaran – stratega della guerra di liberazione contro l’Isis in Siria – potrebbe giovare al regime di Teheran: la carta dell’orgoglio nazionale sarà usata per silenziare le proteste degli iraniani che invocano democrazia, esasperati anche dalla crisi economica prodotta dall’embargo filo-sionista americano. Speculazione politica spicciola anche negli Usa: il ricorso al patriottismo militarista è sventolato da un Trump in difficoltà, assediato dall’impeachment e proiettato verso le cruciali elezioni di novembre. Calcoli paralleli, fra Teheran e Washington, sulla pelle del generale Soleimani? Il raid terroristico statunitense, destinato a rinfocolare l’odio dei musulmani verso la superpotenza atlantica protettrice di Israele, ricorda in modo sinistro un altro fatale omicidio, lontano nel tempo: quello di Yitzhak Rabin, freddato il 4 novembre 1995 a Tel Aviv per aver finalmente stretto un vero accordo di pace coi palestinesi, destinato a disinnescare per sempre il Medio Oriente.
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Formica: si torna a votare tra poco, lo sa anche Mattarella
L’esperimento dell’alleanza Pd-M5S è fallito ancora prima di nascere. Questo complica i piani di Zingaretti, Di Maio, Renzi. Sono tutti rottamati o rottamabili. Qualsiasi cosa dovesse nascere, da domani in poi, nascerà senza e contro di loro. L’assenza di pensiero ha reso le classi dirigenti burocrati di nomenklature in estinzione. Mattarella ha un giusto orientamento: dopo questo governo non c’è un altro incarico di governo sostitutivo. Ci sono le elezioni, che sono inevitabili in caso di crisi del Conte-2, che può ancora galleggiare qualche mese al massimo. Poi, i problemi interni e internazionali imporranno una guida politica che non sia carente di pensiero politico. Il problema è che il presidente della Repubblica, cioè la massima istituzione garante (che ha anche la forza morale per poterlo fare), deve decidersi a fare un quadro dello stato di salute del paese davanti al Parlamento. È il suo dovere costituzionale, non è una richiesta alla persona. Nel caso decidesse in tal senso, il paese sarà scosso; ma forze vitali nel paese ci sono, ciò che manca è il pensiero organizzato. Il Movimento 5 Stelle è nato morto, perché è nato senza pensiero politico, anche se apparentemente, con le elezioni del marzo 2018, aveva avuto una ventata favorevole.Quel risultato faceva leva sugli istinti anti-sistema che attraversavano il paese. Se il M5S era anti-sistema, vuol dire che non aveva il pensiero per sostituire il sistema con un altro sistema, perché nelle società moderne non si può essere anti-ordine per il disordine. Nessuna società moderna può accettare il disordine; tutt’al più un diverso ordine. La debolezza di questo governo non è che si fonda su una forza parlamentare del 33% che oggi non è più tale perché indebolita dalle urne; finalmente si è scoperto che non esisteva, come pensiero politico nel paese. È stata un’illusione. L’alleanza con una forza di sistema come il Pd? Il Pd si è trovato ad aver accettato dal 1994 in poi di nascondere il proprio pensiero, di non aggiornarlo; e non poteva non seguire la sorte delle forze che vedevano esaurirsi il proprio pensiero politico. Pensate al paradosso: dove il Pd sopravvive con una certa vivacità è legato al fatto che prende motivazioni esistenziali della destra reazionaria. Prendiamo il caso dell’immigrazione. Vi sembra che fosse pensabile, anche solo pochissimo tempo fa, che la Ocean Viking venisse tenuta 10 giorni in mare in attesa che ci fossero le elezioni in Umbria per poi farla attraccare a Pozzallo? È una cosa che non avrebbe fatto nessuna sinistra.Le forze vitali sono dovunque e in nessun luogo. Dovunque, dove c’è una persona pensante, e ce ne sono tante; in nessun luogo, perché non ci sono luoghi di coagulo. Ma il Big Bang crea il punto di aggregazione. È evidente a tutti questa necessità di un’operazione-verità, e le forze politiche non possono non cogliere questa esigenza di avere respiro sulle grandi questioni di politica economica, sociale, estera. Dov’è la politica economica di questo paese, che è un obbligo costituzionale avere, come prevede l’articolo 41 della nostra Carta? Ci si domanda: che ruolo potrebbe giocare Draghi? Noi abbiamo già una posizione istituzionale europea importante, di presidio e di osservazione, con Gentiloni nella Commissione Ue. Poi abbiamo una persona che ha guadagnato grande prestigio internazionale e ora è libero di esprimere giudizi di ordine sistemico. Il problema non è andare a ricercare una collocazione funzionale a Draghi, ma utilizzare un arbitraggio morale: può essere interrogato ed esprimere un parere su quello che si fa o non si fa per la costruzione dell’area geopolitica europea, visto che nei suoi 8 anni alla Bce ha cercato di mantenere l’essenziale della coesione europea.Il ruolo viene dopo, se si presenta la necessità. Ma il primo passo è rianimare il pensiero politico, visionario, di un paese: qual è la funzione dell’Italia nel mondo, piccola o grande non importa? Noi abbiamo avuto una funzione nel mondo fino a 20 anni fa. Oggi no, abbiamo cessato di produrre posizioni di iniziativa autonoma; lavoriamo solo sugli interstizi, sugli spazi residuali. Anziché avere una posizione autonoma attiva di costruzione di una linea europea, ci si è immiseriti nel tentativo di utilizzare gli spazi che i litigi altrui creano. Dombrovskis ha manifestato serie preoccupazioni sulla manovra del governo Conte-2. Dobbiamo aspettarci da qui a dicembre un pesante condizionamento della Ue? No. L’Italia ha scelto con questo governo una linea disciplinata alle decisioni dell’Europa. Il vero prodotto della mancanza di pensiero politico è che si sceglie di non avere margini di autonomia nel contrastare situazioni non favorevoli. È la nostra debolezza. Quando non si hanno una politica industriale, una politica economica, una politica estera e di difesa, giocando solo di rimessa su tutto, se la palla arriva, va bene, altrimenti si sta in mezzo al campo come un broccolo. Ma non è un problema solo di questo governo o di quello passato. È una situazione che dura da almeno vent’anni.Siamo al punto terminale di una lunga fase che ha visto l’istinto prevalere sul pensiero, la reazione sulla riflessione. È agli sgoccioli tutto quello che poteva produrre un sistema senza pensiero politico e di carattere generale, che da 25 anni si è riversato sulle istituzioni e sull’intero equilibrio del sistema politico italiano. Con quali effetti? Il disperdersi sugli aspetti più minuti di ciò che sta avvenendo, sia nell’attività di governo che nell’attività dei partiti, è fuorviante. C’è un distacco impressionante tra la valutazione delle questioni quotidiane minori nelle quali siamo immersi e le questioni di carattere generale, interne e internazionali. È successo qualcosa di politica estera molto più importante che stabilire se in Umbria si è spostato un gruppo sociale a favore di un altro gruppo sociale. In Gran Bretagna, dopo tre anni di guerriglia parlamentare in un paese investito dallo stesso male del populismo che ha colpito l’Europa, il Parlamento si è riappropriato della sua funzione e ha detto: andiamo alle urne e chiediamo al popolo se noi abbiamo forza politica nazionale tale da poter essere presenti nella nuova prospettiva che rende necessaria la ricomposizione di un ordine mondiale.Ciò che avverrà in Gran Bretagna, da oggi al 12 dicembre, interessa o non interessa l’Italia e l’Europa? In Gran Bretagna si voterà anche per il futuro non solo del nostro paese, ma dell’Europa. Le nostre forze politiche e le nostre istituzioni, invece di occuparsi del dettaglio se si dovranno tassare le sigarette o lo zucchero, seguiranno da vicino il dibattito politico e le elezioni inglesi? In Italia siamo al dettaglio di ciò che residua della nostra possibilità di influire sugli equilibri economico-sociali e ci dimentichiamo che il 90% delle nostre decisioni dipenderanno da ciò che succede fuori dal nostro paese. Siamo in presenza di una decadenza e di un immiserimento della nostra classe dirigente da paura. Il problema non è se noi giochiamo un ruolo di secondo o di terzo piano sulla scena mondiale, il problema è: abbiamo un nostro pensiero sul futuro dell’Europa? Le nostre istituzioni, sfornite del pensiero politico, sono diventate sterili. Non pulsa il cuore, non funziona il cervello; come possono funzionare le gambe e le braccia?(Rino Formica, dichiarazioni rilasciate a Marco Biscella per l’intervista “Qualche mese e poi si vota, lo sa anche Mattarella”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 31 ottobre 2019. Spirito indipendente, socialista e più volte ministro nella cosiddetta Prima Repubblica, Formica è noto per l’acutezza delle sue analisi e per le previsioni regolarmente confermate dai fatti).L’esperimento dell’alleanza Pd-M5S è fallito ancora prima di nascere. Questo complica i piani di Zingaretti, Di Maio, Renzi. Sono tutti rottamati o rottamabili. Qualsiasi cosa dovesse nascere, da domani in poi, nascerà senza e contro di loro. L’assenza di pensiero ha reso le classi dirigenti burocrati di nomenklature in estinzione. Mattarella ha un giusto orientamento: dopo questo governo non c’è un altro incarico di governo sostitutivo. Ci sono le elezioni, che sono inevitabili in caso di crisi del Conte-2, che può ancora galleggiare qualche mese al massimo. Poi, i problemi interni e internazionali imporranno una guida politica che non sia carente di pensiero politico. Il problema è che il presidente della Repubblica, cioè la massima istituzione garante (che ha anche la forza morale per poterlo fare), deve decidersi a fare un quadro dello stato di salute del paese davanti al Parlamento. È il suo dovere costituzionale, non è una richiesta alla persona. Nel caso decidesse in tal senso, il paese sarà scosso; ma forze vitali nel paese ci sono, ciò che manca è il pensiero organizzato. Il Movimento 5 Stelle è nato morto, perché è nato senza pensiero politico, anche se apparentemente, con le elezioni del marzo 2018, aveva avuto una ventata favorevole.
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E’ la Cina a finanziare Erdogan che schiaccia i curdi in Siria
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno più volte richiamato all’ordine la Turchia. Per essere più convincenti, Washington e Bruxelles sono arrivate a minacciare Ankara di una guerra commerciale, tra possibili dazi, tariffe e sanzioni. Tutte armi, queste, capaci teoricamente di fare a pezzi la fragile economia turca. Eppure, nonostante il rischio di vedere il proprio paese in ginocchio, Recep Tayyip Erdogan non intende fermarsi sul più bello: l’operazione militare in Siria del nord deve proseguire a qualunque costo. Che Erdogan sia solo un incosciente è fuori discussione, perché il Sultano ha in realtà fatto i suoi conti e sa bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a fare il bullo di quartiere. Il presidente turco ha lanciato la missione “Fonte di pace” da poche settimane ma i preparativi, in realtà, sono iniziati molti mesi fa. Nel bel mezzo della crisi che stava strozzando la lira turca, diplomatici e tecnici di Ankara si sono rimboccati le maniche per dotare il governo di una sorta di paracadute capace di limitare i danni a una Turchia in caduta libera. E in effetti, senza alcuna protezione, la discesa del paese verso il baratro sarebbe stata rapidissima, sommando la crisi economica alle conseguenze della recente guerriglia contro i curdi.L’assicurazione alla vita della Turchia si chiama Cina. Se la scorsa estate Pechino non avesse effettuato un vero e proprio bailout per salvare la Turchia dal default, oggi Erdogan non avrebbe la forza per muovere neanche un soldato. Secondo quanto riportato da “Bloomberg”, a giugno la Banca Centrale cinese ha trasferito fondi nel paese turco per un valore complessivo di 1 miliardo di dollari, rinsaldando il rapporto lira turca-yuan. Ma non è finita qui, perché Erdogan ha sfruttato al meglio la relazione con Xi Jinping per convincerlo a sborsare 3,6 miliardi di dollari da spendere in vari progetti infrastrutturali. E Xi, considerando la posizione geografica della Turchia, perfetto ponte tra Oriente e Occidente, ha subito accettato, immaginando di potenziare la Nuova Via della Seta. La Cina è insomma riuscita in un colpo solo a rendere vana l’azione economica degli Stati Uniti e rafforzare il progetto della Belt and Road; dall’altra parte, Erdogan si è risollevato e ha potuto organizzare il piano d’invasione della Siria. Il risultato dell’avvicinamento turco alla Cina è che oggi Ankara non si fa impressionare da ipotetiche guerre commerciali. I finanziamenti e i prestiti cinesi consentono alla Turchia di infischiarsene delle minacce statunitensi, almeno per quello che riguarda il breve periodo.Ma Erdogan ha in mente di costruire un ponte stabile che porta dritto nel cuore della Città Proibita di Pechino, perché il Sultano, lo scorso 11 agosto, ha dichiarato di essere pronto a commerciare con la Cina attraverso valute nazionali aggirando il dollaro. Quando gli Stati Uniti hanno minacciato di cancellare l’economia turca, la moneta di Ankara e i rispettivi tassi di interesse locali non hanno battuto ciglio, scendendo di pochissimo. E questo, sottolinea “Asia Times”, è «notevole, data la fragilità della valuta turca all’inizio del 2019». La Cina è un vero e proprio bancomat per Erdogan; ma attenzione, perché il Sultano sta giocando con il fuoco: Pechino sta sì riempiendo la Turchia di soldi, ma il rischio è che il Dragone la inghiotta in un sol boccone non appena lo riterrà necessario. Giusto per rimarcare i rapporti di forza tra Cina e Turchia, vale la pena analizzare il comportamento di Ankara nei confronti degli uiguri. Prima del salvataggio cinese, Erdogan aveva tuonato contro il trattamento cinese riservato alla minoranza turcofona situata nello Xinjiang; dopo il salvataggio, il Sultano si è corretto dicendo che «gli uiguri vivono felici in Cina». Non solo: Ankara ha pure accettato di cooperare con le autorità cinesi per rispedire oltre la Muraglia gli uiguri che si nascondono in Turchia.(Federico Giuliani, “Dietro la Turchia si nasconde la Cina”, dall’inserto “InsideOver” de “Il Giornale” del 22 ottobre 2019).Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno più volte richiamato all’ordine la Turchia. Per essere più convincenti, Washington e Bruxelles sono arrivate a minacciare Ankara di una guerra commerciale, tra possibili dazi, tariffe e sanzioni. Tutte armi, queste, capaci teoricamente di fare a pezzi la fragile economia turca. Eppure, nonostante il rischio di vedere il proprio paese in ginocchio, Recep Tayyip Erdogan non intende fermarsi sul più bello: l’operazione militare in Siria del nord deve proseguire a qualunque costo. Che Erdogan sia solo un incosciente è fuori discussione, perché il Sultano ha in realtà fatto i suoi conti e sa bene quali sono i vantaggi e gli svantaggi nel continuare a fare il bullo di quartiere. Il presidente turco ha lanciato la missione “Fonte di pace” da poche settimane ma i preparativi, in realtà, sono iniziati molti mesi fa. Nel bel mezzo della crisi che stava strozzando la lira turca, diplomatici e tecnici di Ankara si sono rimboccati le maniche per dotare il governo di una sorta di paracadute capace di limitare i danni a una Turchia in caduta libera. E in effetti, senza alcuna protezione, la discesa del paese verso il baratro sarebbe stata rapidissima, sommando la crisi economica alle conseguenze della recente guerriglia contro i curdi.
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Giannuli: Renzi (e Cairo) per creare un’alternativa a Salvini
Renzi, Berlusconi e Cairo? «La cosa complicata è mettere insieme tre pavoni come quelli: con la ruota che si ritrovano, non entrano in un solo ascensore». Aldo Giannuli però li vedrebbe bene, insieme, almeno stando agli elettorati potenziali di riferimento: il neo-rottamatore del Pd, nonno Silvio e il suo quasi-erede, patron de “La7” e della corazzata cartacea italiana, il “Corriere della Sera”. La notizia? Tutto è in movimento. Anche se il politologo dell’ateneo milanese non lo dice (considera uno scivolone la rottura estiva di Salvini), a terremotare la palude italiana – dopo il congelamento del governo gialloverde, commissariato dall’Ue tramite Conte, Tria e Mattarella – è stato proprio lo strappo del leader della Lega, con il suo “a queste condizioni non ci sto più”. Solo a quel punto, Renzi ha deciso di giocare la sua nuova partita, inducendo Zingaretti a ingoiare l’accordo-horror coi 5 Stelle, a loro volta “sinistrati” dall’inciucio. Obiettivo del fiorentino: oggi controllare il Conte-bis, ricattandolo, e domani gestire la partita delle super-nomine, fino alla rielezione del presidente della Repubblica nel 2022. Giannuli si limita a un’analisi tattico-elettorale senza tener conto delle voci sui contatti tra Renzi e il super-potere massonico, resi evidenti dalla passerella al meeting 2019 del Bilderberg.«Gli hanno promesso di farlo entrare finalmente nel salotto che conta, se fosse riuscito a fermare i gialloverdi», sostiene Gianfranco Carpeoro, saggista, legato a importanti ambienti massonici europei. Stando a Carpeoro – progressista, da sempre socialista – oggi Renzi può vantare una grande vittoria da esibire sui tavoli dei suoi veri mandanti: e potrebbe quindi anche alzare la posta, per chiedere per sé qualcosa di importante, con la minaccia di far cadere il Conte-bis. Semplici indiscrezioni, ma preziose: perché concorrono a delineare un quadro coerente, ben ancorato allo scenario internazionale da cui – come tutti hanno capito – dipendono le crisi italiane, compresa quella in corso. Giannuli invece preferisce attenersi al panorama di casa, articolando un’analisi ravvicinata sulle possibili mosse dei vari attori sul terreno. Renzi? Per ora è accreditato di pochi voti: dal 3 al 5% al massimo. «Ma sono convinto che si tratti solo di una base di partenza che, se il fiorentino ci saprà fare, è destinata a crescere, e non di poco», scrive Giannuli sul suo blog. Inutile negarlo: «Il sistema dei partiti esistente è tutto in crisi e c’è un diffuso malcontento dei cittadini per l’offerta politica: Forza Italia si sta liquefacendo, il M5S ha avuto una batosta alle europee dalla quale è difficile che si rimetta».Quanto al Pd, «la batosta l’ha presa alle politiche, e alle europee ha recuperato percentualmente solo per l’altissimo numero di astenuti, ma ha perso altri 100.000 voti reali)». Sinistra, +Europa e Fratelli d’Italia «non riescono a sfondare» e, di fatto, «galleggiano». Solo la Lega era esplosa: al 34% delle europee erano seguiti sondaggi che la davano prossima al 40%. «Ma la gestione scellerata della crisi di governo ha fatto crollare la credibilità di Salvini», sostiene Giannuli. «E se ancora questo non si riflette pienamente nei sondaggi, è lecito aspettarsi un calo lento ma costante, a meno che i giallorossi non ne facciano talmente tante da resuscitare la Lega e andare al voto in primavera». Dunque Renzi non sbaglia, quando dice che “c’è spazio”. La sua formazione, in primo luogo, «ha ancora da risucchiare al Pd: ci sono ancora renziani che non sono usciti, parecchi indecisi, e poi Zingaretti praticamente non esiste: Renzi non avrà difficoltà ad oscurarlo». Poi, se dovessse ingranare, «avrebbe da beccare molto nel pollaio di centro (da +Europa a Calenda, fino ai rimasugli di Dc»).Ma è soprattutto Forza Italia, col suo striminzito 6% residuo, che può dare un po’ di sangue alla neonata creatura renziana: anzi, non è neppure da escludere che i berlusconiani possano confluire nel nuovo soggetto renziano. «Insomma, un traguardo dell’11-12% potrebbe essere a portata di mano». E a quel punto, continua Giannuli, «potrebbe funzionare la sirena del fiorentino sia sul fianco della Lega che su quello dell’astensionismo». In concreto: «Non sono immaginabili particolari sfracelli, ma l’elettorato potenziale del nuovo partito potrebbe crescere sino al 15-18%», addirittura. Tornando alla realtà: «Bisognerà vedere molte cose: che farà il governo, che mosse farà Renzi, quali Salvini». Soprattutto, occorrerà valutare «se la mossa renziana di oggi sarà imitata da altri». In quel caso, alla fine ci sarebbe «un gran rimescolamento di carte che cambierà il volto del sistema dei partiti». Prima tappa, scontata, il pallido Pd: potrebbero rientrare quelli di Leu (Bersani e compagni), inducendo le ultime “sentinelle” renziane ad uscirne. Poi c’è il caso particolare di Conte: i sondaggi danno un modestissimo recupero al M5S dopo la soluzione della crisi di governo, ma un altissimo indice di consenso personale per il presidente del Consiglio. E c’è chi si spinge a ipotizzare che un suo partito possa raccogliere sino al 21%.«Certo i sondaggi vanno presi con le molle», premette Giannuli, però vanno monitorati con attenzione. «E qui la domanda sorge spontanea: che farà “Giuseppi” alle elezioni? Potrebbe ritirarsi a vita privata, come ha ripetutamente assicurato (e questo è una conferma che non si ritirerà affatto: tutti quelli che vogliono restare in campo dicono di star facendo le valide per ritirarsi). Oppure potrebbe presentarsi con il M5S, magari come candidato presidente del Consiglio». O ancora – terza opzione – potrebbe fare una sua lista, «più o meno apparentata coi 5 Stelle: dipenderà dal sistema elettorale». Secondo Giannuli, una “lista Conte” potrebbe attingere voti tanto al M5S quanto al Pd e persino all’area di centro (e quindi sottrarre voti a Renzi), ma potrebbe anche dare credibilità al partito di Renzi come possibile alleato. Altri sconvolgimenti, sempre secondo Giannuli, potrebbero investire la Lega: se si votasse tra un anno, il monte voti del Carroccio «potrebbe precipitare anche verso il 20%, e a quel punto non è detto che il partito resti integro». Ad esempio, Maroni «potrebbe uscire per fare altro». Oppure i maggiorenti della Lega (Giorgetti in testa) potrebbero «pensare a una qualche congiura per cacciare il “rais”».Se questo è lo scenario dell’attuale palazzo, poi ci sono quelli che premono da fuori: in primo luogo i Verdi, che «senza aver attaccato un solo manifesto, con pochissime apparizioni televisive e con una manciata di euro per la campagna elettorale, hanno preso il 2%», ovvero «un po’ di più della “Sinistra”, che pure aveva parlamentari, più spazi televisivi e decisamente più soldi». I Verdi avrebbero dalla loro «la simpatia dei giovani “gretisti”, il mutamento climatico che ormai non è più una previsione ma una realtà in atto, e di conseguenza una certa attenzione dei mass media». Gli ultimi eredi del “Sole che ride” potrebbero anche «fare liste comuni con quel che resta della sinistra o assorbirne un po’ di voti». Giannuli non prende nemmeno in considerazione il piccolo fronte rosso-bruno apertosi con “Vox Italia”, il sovranismo “socialista” capitanato da Diego Fusaro (che sembra autoemarginarsi da subito, peraltro, chiedendo l’uscita dall’euro, dall’Ue e dalla Nato). Una galassia, quella del voto-contro, che nel 2018 diede largamente fiducia ai 5 Stelle: milioni di voti che poi, di fronte al fallimento gialloverde incarnato da Di Maio, sono tornati a gonfiare l’oceano dell’astensionismo già alle europee, tornata in cui ha votato poco più di un italiano su due (un elettore su tre, invece, ha scommesso ancora su Salvini).Tornando a Renzi, Giannuli punta i riflettori sul grande centro: l’altra grande incognita esterna è l’editore Urbano Cairo, che recentemente ha concesso «un’intervista di due ettari» al “Foglio” «per spiegare che non ha intenzione di candidarsi», e che però, «se fosse costretto a farlo, avrebbe un programma fatto così e così». Tradotto: «La smentita, al solito, vale la conferma delle intenzioni di esserci». Su che seguito elettorale potrebbe contare, Cairo? «Impossibile a dirsi, allo stato attuale», che è quello di una intenzione «molto futura». E poi, candidarsi per fare che? «Un partito suo? Entrare in Forza Italia e rivitalizzarla? Fare il presidente di una qualche confederazione di centro con Renzi e lo stesso Cavaliere? Tutto possibile». Urbano Cairo possiede “La7” e il “Corriere della Sera”, «ma non sono più i tempi della discesa in campo del Cavaliere». Inoltre, «l’appporto dei suoi media è realisticamente molto più ridotto». Secondo Giannuli, poi, «un appoggio troppo sfacciato, soprattutto da parte del blasonatissimo “Corriere”, potrebbe costare molto in termini di audience e di lettori». Lo si è visto con il mitico “fate presto” con cui la grande stampa italiana accolse il finto salvatore Mario Monti nel 2011, salvo poi “scoprire” – fuori tempo massimo – che non si trattava esattamente di un benefattore della nazione.Resta virtualmente da spendere la carta del classico partito personale, a meno che Cairo non abbia già nella manica «un parterre da far paura» fatto di grandi nomi, «presidenti di associazioni», e magari la benedizione del Papa. Viceversa, avrebbe «qualche possibilità di successo in più la sua adesione a Forza Italia», che di fatto «potrebbe dare qualche goccia di sangue fresco alla moribonda creatura berlusconiama». Ma la cosa più ragionevole, per Giannuli, sarebbe «la confederazione con il fiorentino e il Cavaliere». Poi ci sono una serie di personaggi singoli molto noti (Tremonti, Sgarbi, Monti, Rutelli, magari anche Fini), che forse hanno «solo un po’ di seguito d’opinione», eppure «possono regalare visibilità a una forza politica nuova», anche perché «la parata di vecchie stelle del varietà funziona sempre», fino a un certo punto. L’unica vera notizia è che «le bocce sono in movimento, e altre – completamente nuove, che oggi neanche immaginiamo – possono entrare in campo». Molte cose cambieranno, conclude Giannuli, sempre senza tener conto del quadro internazionale, europeo e non solo, così determinante – finora – per la crisi italiana (dalla Via della Seta al decreto Golden Power contro Huawei, dal Russiagate anti-Salvini alla guerriglia con Macron e il voltafaccia dei 5 Stelle, fino all’elezione di Ursula von der Leyen).L’analisi di Giannuli, apprezzabile per i riflessi immediati sull’agenda di Palazzo Chigi e dintorni, non legge le ricadute italiane dei grandi giochi in corso, dalla Hard Brexit alla crociata contro Trump. Clamoroso il guanto di sfida lanciato dal governatore della Bank of England, uomo Rothschild: Mark Joseph Carney è stato applaudito a Wall Street, nientemeno, per aver annunciato la necessità di una valuta internazionale alternativa al dollaro. Corretto il focus di Giannuli su Cairo: ma come si schiererebbe, l’editore, rispetto allo scacchiere che conta, cioè quello dei veri poteri che telecomandano l’Italia? E poi: sicuri che Salvini sia sul viale del tramonto? Cosa c’è nella testa di quei milioni di italiani che tuttora fanno della Lega il primo partito? Salvini non è certo ostile a Putin, che peraltro non è un campione di democrazia. A sua volta, Putin non è assolutamente lontano da Trump, che pure sembra aver cessato di sostenere Salvini. Quello che si legge è un caos, nel quale sembra precipitata l’oligarchia di ieri. L’Italia gialloverde era vista – da fuori, forse a torto – come un “pericoloso” banco di prova per sperimentare un’alternativa al paradigma ordoliberista. Il pallottoliere di Giannuli, per ora, non ne fa cenno. Ma sarebbe ingenuo non cercare di mettere a fuoco la vera domanda: per chi sta lavorando, oggi, Matteo Renzi? Per se stesso, come al solito? Certo, anche. Ma si sa, le cose accadono a più livelli. I giochi sono tanti, così come i giocatori. E quelli italiani, visibili, sono solo la vetta dell’iceberg.Renzi, Berlusconi e Cairo? «La cosa complicata è mettere insieme tre pavoni come quelli: con la ruota che si ritrovano, non entrano in un solo ascensore». Aldo Giannuli però li vedrebbe bene, insieme, almeno stando agli elettorati potenziali di riferimento: il neo-rottamatore del Pd, nonno Silvio e il suo quasi-erede, patron de “La7” e della corazzata cartacea italiana, il “Corriere della Sera”. La notizia? Tutto è in movimento. Anche se il politologo dell’ateneo milanese non lo dice (considera uno scivolone la rottura estiva di Salvini), a terremotare la palude italiana – dopo il congelamento del governo gialloverde, commissariato dall’Ue tramite Conte, Tria e Mattarella – è stato proprio lo strappo del leader della Lega, con il suo “a queste condizioni non ci sto più”. Solo a quel punto, Renzi ha deciso di giocare la sua nuova partita, inducendo Zingaretti a ingoiare l’accordo-horror coi 5 Stelle, a loro volta “sinistrati” dall’inciucio. Obiettivo del fiorentino: oggi controllare il Conte-bis, ricattandolo, e domani gestire la partita delle super-nomine, fino alla rielezione del presidente della Repubblica nel 2022. Giannuli si limita a un’analisi tattico-elettorale senza tener conto delle voci sui contatti tra Renzi e il super-potere massonico, resi evidenti dalla passerella al meeting 2019 del Bilderberg.
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Non morì in croce e aveva 43 anni: l’altro Gesù, quello vero
Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità.E’ la possibile, vera storia di Yehoshua di Gàmala, poi ribattezzato Gesù di Nazareth (villaggio che all’epoca probabilmente non esisteva ancora), secondo l’affascinante ricostruzione che il biblista Mauro Biglino fornisce insieme a Francesco Esposito, studioso del cristianesimo delle origini. Ne parlano nell’avvincente saggio “Dei e semidei”, che esplora “il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”. A differenza dei negazionisti, anche autorevoli, che escludono categoricamente la reale storicità del personaggio, i due ricercatori sono propensi a credere che quel “rabbi giudeo messianista”, poi trasformato nella fonte stessa del successivo cristianesimo, sia realmente esistito. Doveva essere un individuo temerario, capace di sfidare il peggior potere: cioè le armi dei colonialisti romani e quelle dei loro alleati e collaborazionisti, i vari Erode e la potente casta sacerdotale del Sinedrio di Gerusalemme. Caduto il Tempio nel 70 dopo Cristo, quella stessa nomenklatura (che era stata capace di denunciare a Pilato il rivoltoso) finirà poi per trasferirsi a Roma, ottenendo di beneficiare di una vita dorata tra i lussi della capitale, come premio per aver ceduto all’impero l’ingente tesoro ebraico, mettendo così fine a ogni ulteriore tentativo di insurrezione nazionalistica. E proprio Roma, secoli dopo, diverrà la capitale della nuova religione.“Dei e semidei” esplora lo strano rapporto tra il futuro “Cristo” e Giovanni Battista, di cui era forse cugino. Entrambe le madri, Maria ed Elisabetta, erano rimaste incinte dopo aver incontrato “l’arcangelo Gabriele”, cioè il Ghevèr-El (ambasciatore di un El, personaggio in carne e ossa), che secondo il teologo e cardinale Jean Daniélou verrà poi chiamato “spirito santo”, nel corso della plurisecolare spiritualizzazione con cui le religioni hanno deformato gradualmente il testo biblico, ex-post, fino a introdurvi elementi mistici del tutto assenti nella versione letterale. Nell’ebraico originario, infatti, non esiste neppure la parola Dio, né l’idea stessa di divinità universale onnisciente, così come non c’è traccia dei concetti di eternità, spirito, onnipotenza. L’Antico Testamento racconta semplicemente la storia del patto stipulato tra la sola tribù di Giuda, uno dei 12 figli di Giacobbe-Israele, e l’El chiamato Yahwè, uno dei tanti Elohìm presenti nel testo. Quello che compare per primo, presentandosi ad Abramo, si fa chiamare El-Shaddài, cioè “signore della steppa” secondo la prestigiosa École Biblique di Gerusalemme, fiore all’occhiello dell’esegesi domenicana. In altri passi della Bibbia viene citato Elyòn, il capo supremo, che a un certo punto ammonisce gli Elohìm in assemblea: fate gli arroganti solo perché siete potenti e molto longevi, ma – li avverte – un giorno morirete anche voi, proprio come gli umani.Sempre la Bibbia parla spesso degli “angeli”, i messaggeri degli Elohìm. In ebraico, sono i “malachìm”. Il greco traduce correttamente il termine “malàch” con “ànghelos”, portaordini, mentre il latino – anziché adeguarsi al greco, (magari con il termine “legatus”?) – preferisce coniare il neologismo “angelus”, importandolo direttamente dalla lingua greca senza tradurlo, e preparandosi poi – nell’iconografia successiva – a sfornare angioletti alati e asessuati. Paolo di Tarso, l’inventore del cristianesimo, è il primo a scrivere – nelle sue lettere – che è meglio che le ragazze si coprano i capelli, nelle assemblee in cui sono presenti “gli angeli”, perché quei tizi poco raccomandabili non vanno tanto per il sottile, con le donne giovani. Le successive traduzioni bibliche tradiranno il testo in modo sconcertante: gli angeli cominceranno ad “apparire e scomparire”, persino a “volare con leggerezza”, quando invece la Bibbia scrive che erano fatti come noi, sudavano e soffrivano, e li si vedeva arrivare arrancando, “sfatti di fatica”. I cosiddetti arcangeli? Dal greco: angeli-capi. I “Gabriele”, per esempio: essere un “Ghevèr-El” significava avere la statura di un pezzo da novanta, che gestisce il potere per conto di un El. Fu proprio un “Gabriele”, forse addirittura lo stesso, a ingravidare (come, non si sa) prima Elisabetta e poi Maria.I loro figli, Giovanni e Yehoshua (Giosuè) secondo i Vangeli si incontrano e si conoscono benissimo: hanno lo stesso mandato, o funzioni parallele? Forse il primo ha un’investitura sacerdotale (discendente da Aronne), mentre l’altro politica, davidica (ereditata da Israele). Nelle acque del Giordano, Giovanni battezza i giudei zeloti, cioè i membri della fazione ostile ai romani: lo si capisce dai loro nomi. Ed è uno strano battesimo: razza di vipere, li chiama. E li avverte: se non cambiate subito mentalità, per voi la scure è già pronta, e i vostri corpi bruceranno nella Gheenna, o meglio il Ghe-Hinnom (la discarica lungo il torrente Hinnom, dove venivano gettati e arsi i cadaveri dei guerrieri sconfitti). In un mondo come quello giudeo, ultra-materiale e privo di qualsiasi cognizione di spiritualità – è la tesi del libro – sembra lecito domandarsi se, più che redimere “anime”, a Giovanni non interessasse reclutare guerriglieri: l’elenco dei loro “peccati”, infatti, è una sfilza di crimini cruenti (peraltro quasi esibiti, rivendicati con fierezza). Preparativi di una rivolta?Così dovette vederla Erode, che non ci pensò due volte: prima che fosse troppo tardi, fece decapitare il sedizioso “battista”. Di fronte alla cui morte, il suo alter ego Yehoshua-Giosuè pensò che era meglio cambiare aria. I testi evangelici dicono che si ritirò “nel deserto”, cioè sulle alture della Galilea, per 40 giorni. Ma probabilmente – secondo Biglino ed Esposito – la pausa di riflessione durò anni. Al suo ritorno, poi, ci mise poco e reclutare gli ex discepoli di Giovanni. Lo conoscevano già e in fondo lo aspettavano, per il grande momento: rovesciare finalmente la corrotta oligarchia del Sinedrio, che aveva svenduto il paese ai romani in cambio dei privilegi concessi dal potere imperiale. Il primo tentativo doveva essere fallito, con la cacciata dei mercanti dal Tempio. Il secondo, quello decisivo, fu preparato con l’ipotetica “resurrezione” di Lazzaro a Betania, paese d’origine della Maddalena. Il crisma del messia? Forse proprio questo doveva emergere, nell’evento raccontato come miracoloso: alla portata solo di un profeta, cioè un individuo prescelto e autorizzato a parlare e agire in nome di un El. Ma il carisma di Yehoshua, che non bastò a infiammare il popolo (che infatti non lo riconobbe come “mashiàh” e quindi non lo sostenne), fu sufficiente ad allarmare la casta sacerdotale, che provvide a denunciarlo per sbarazzarsene.Poi la storia si appanna, tra possibili doppi giochi: da un lato il presunto traditore Giuda l’Iscariota, e dall’altro l’uomo-ombra, il misterioso Giuseppe d’Arimatea, a sua volta membro del Sinedrio ma segretamente alleato dei “gesuani”, capace di reclamare il corpo del condannato e forse anche di salvargli la vita, tirandolo giù dalla croce in extremis e poi facendolo curare. Ricostruzione coerente? Sì, ma solo se “facciamo finta” che quella storia sia realmente accaduta, dicono Biglino ed Esposito: le tracce disponibili sono davvero esigue e frammentarie. Stando al gioco, gli autori prendono per buoni i Vangeli canonici, facendoli però letteralmente a pezzi: inevitabile, perché offrono versioni lacunose e discordanti, spesso inverosimili. L’ipotetico puzzle si completa solo attingendo ad altri testi, come i Vangeli apocrifi e gli scritti di storici come Giuseppe Flavio. “Dei e semidei” resta una lettura complessa, che procede con la massima cautela in una selva di citazioni, con il supporto di decine di autori e non meno di 90 volumi puntualmente chiamati in causa. «Restiamo nel campo legittimo delle semplici ipotesi», ammettono alla fine i due studiosi, la cui unica sicurezza è «la non certezza del dato tradizionale». Nel corso dei secoli, infatti, la tradizione «ha volontariamente coperto, attraverso sempre più complicate elaborazioni teologiche, quella che può essere una storia semplice e allo stesso tempo affascinante».E’ questo, infatti, il vero cuore del libro: con estrema accuratezza, dimostra come si sia potuti arrivare a fabbricare un culto che ha cambiato la storia dell’umanità, pretendendo di poggiarlo su documenti solidi ma in realtà franosi, se non inesistenti. La vicenda dell’aspirante messia ebraico? Umanissima, e affrontata dagli autori con profondo rispetto. Non senza rilevarne, però, le patetiche contraddizioni – non del messia, ma dei successivi narratori (evidentemente infedeli). Si racconta ad esempio che ad essere giustiziato sul Golgota fu un personaggio fenomenale, sovrumano, capace di ridestare i defunti. Ma chi sarebbe così pazzo – si domandano gli autori – da condannare un individuo capace davvero di resuscitare i morti? Non sarebbe meglio pregarlo, cortesemente, di resuscitare tutti? E allora dove sta l’inghippo? Nella datazione delle opere. Tutti i Vangeli – i cui reali autori restano tuttora sconosciuti – sono di gran lunga successivi alle famose lettere di Paolo, vero punto di partenza della nuova fede. A coniare quella religione, decenni dopo la crocifissione, è stato l’autoproclamatosi apostolo di Tarso, che però il messia non l’aveva mai conosciuto. Va da sé che i “gesuani”, gli autentici seguaci di Yehoshua, andassero su tutte le furie, nello scoprire che Paolo spacciava per vera una storia che s’era inventato da capo a piedi. Da quella narrazione di fantasia, purtroppo, nacquero in seguito i testi evangelici.Davvero uno strano cristiano, San Paolo: un perfetto politeista. «Sappiamo che vi sono molti dèi», scrive, «ma noi ne seguiamo uno solo». Dunque la sua era monolatria, non certo monoteismo. Ebreo colto, Paolo conosceva la Bibbia. Ma sapeva che il pubblico delle sue lettere – greco e romano – non sapeva leggere l’ebraico. E così ebbe buon gioco nell’inventare la fiaba che sarà poi Sant’Agostino a perfezionare. Si racconta infatti che Adamo ed Eva fossero addirittura immortali, prima del peccato originale. Si sa perfettamente che non è vero, e gli ebrei sanno anche che – nell’Antico Testamento – il peccato originale non esiste: la cacciata dall’Eden è preventiva, non punitiva, dopo che Adamo ed Eva hanno scoperto di poter avere una loro discendenza virtualmente autonoma dai guardiani del “giardino”. Ma peggio: Paolo di Tarso si mette a parlare del rabbi messianista (che non ha mai conosciuto) raccontando che aveva a cuore le sorti dell’intera umanità, non solo quella del suo popolo. Nasce qui il primo germe del geniale universalismo cattolico: la speranza della vita eterna offerta a tutti, indistintamente, proviene dall’esclusiva creatività letteraria di Paolo. Ed è qui che il contrasto coi “gesuani”, indignati, diventa insanabile: chi ha vissuto con Giosuè, standogli accanto fino alla fine, non può tollerare che sul suo conto vengano impunemente spacciate simili fandonie.Ma neppure Paolo arriva, da subito, all’idea della resurrezione: vi perviene in corso d’opera, per necessità, quando – con crescente impazienza – i nuovi fedeli gli chiedono come mai il famoso messia non sia ancora tornato, instaurando il nuovo regno (terreno) che aveva promesso, dandolo per imminente. Al che, il teorico del cristianesimo comincia a parlare di “regno dei cieli”, garantendo la sicura resurrezione anche dei primissimi fedeli, nel frattempo defunti insieme alla loro speranza di fare in tempo a veder ritornare, gloriosamente, il “salvatore”. La cui identità ufficiale, comunque – aggiungono sempre Biglino ed Esposito – verrà definita soltanto tre secoli dopo, al Concilio di Nicea, nel quale sarà l’imperatore Costantino a imporre un canone teologico univoco ai tanti cristianesimi dell’epoca. La religione imperiale nasce quindi politicamente, per votazione: dopo aver tentato di sbarazzarsene con le persecuzioni (4-5.000 vittime), il potere romano ha capito che è meglio farseli amici, i cristiani, dal momento che sono destinati a conquistare il popolo, essendo gli unici a promettere a tutti l’impensabile, cioè la resurrezione dalla morte.Nei primi due secoli, però, l’antico rabbi messianista ebraico – nel frattempo ribattezzato Gesù Cristo – è tante cose insieme, l’una in contraddizione con l’altra: risorto o non risorto, morto sulla croce o non morto, figlio di Dio o emanazione di Dio stesso, oppure un semplice profeta, o meglio ancora un semidio come tanti. «In passato ne furono inviati sulla terra anche 70 per volta», scrive Celso, citando i cristiani (che combatte). Un autore ultra-cristiano come il filosofo e poi martire Giustino, futuro Padre della Chiesa, spiega invece all’imperatore Antonino Pio che, in fondo, Gesù di Nazareth è fatto della stessa pasta di tutti gli altri semidei: «Non è che uno dei tanti figli di Zeus», nientemeno. Tracce evidenti, annotano Biglino ed Esposito, del lungo viaggio – da Oriente a Occidente – compiuto dalle cosiddette “sacre scritture”, incessantemente ritoccate e manipolate, fino al medioevo, per adeguarle agli umori culturali delle varie epoche. Atto d’inizio: il ritorno del popolo ebraico dall’esilio babilonese, all’alba del 500 avanti Cristo. Già allora si rompe l’integrità della tradizione mosaica, strettamente materialista, quando nutriti gruppi di ebrei – anziché tornare in Palestina – si disperdono ai quattro angoli del Mediterraneo, assorbendo gradualmente la cultura ellenistica, impregnata di filosofia greca.Il colpo più grave alla tradizione veterotestamentaria è inferto dalla Bibbia dei Settanta, redatta nel III secolo avanti Cristo dagli ebrei riparati in Egitto nella colonia ellenica di Elefantina: scritta in greco e destinata al pubblico non ebreo, la Septuaginta inaugura la consuetudine delle traduzioni più arbitrarie e spericolate, spiritualizzando il testo, in un’operazione che poi contaminerà la stessa Bibbia in latino. Ancora oggi, per molte comunità ebraiche come quelle italiane, il lavoro dei Settanta è considerato «una disgrazia, per l’umanità». E’ in quelle pagine, infatti, che il Khavod (il velivolo bellico di Yahwè) diventa “doxa”, insegnamento, mentre il Ruach (astronave?) si trasforma magicamente in “pneuma”, spirito. A suggerire l’ipotesi delle “macchine volanti”, pericolose e fragorose, Biglino arriva per deduzione, leggendo in modo coerente il contesto degli episodi narrati nell’Antico Testamento, in cui questi “oggetti misteriosi” agiscono. In ogni caso, in ebraico – alla lettera – Khavòd significa “pesante”, e Ruach “vento”. Eppure, con la Septuaginta, si dà fiato alle traduzioni di fantasia (anima, conoscenza) in omaggio alla cultura egemonica dell’ellenismo, in un paesaggio dominato da divinità olimpiche e mitologie letterarie, platonismo filosofico e spiritualità misterica e gnostica.Tutte espressioni culturali estranee all’ebraismo originario, adottate – con la riscrittura integrale della Bibbia – per indurre egiziani, romani e greci ad accettare gli ebrei della diaspora come depositari di una tradizione culturale altrettanto antica, e per di più allineata alla temperie religiosa del momento. Nulla, comunque, in confronto alla surreale distorsione teologica dell’Antico Testamento condotta per quasi un millennio, dai primi secoli fino al medioevo, dai Padri della Chiesa. Erano alle prese con una missione impossibile: far discendere “Gesù” dal presunto “Dio unico” dell’Antico Testamento. «Come ci sono riusciti? Facendo come se la Bibbia non esistesse proprio, cioè infischiandosene del contenuto ebraico e del suo significato originario», spiegano Biglino ed Esposito. Stessa sorte per Giosuè, alias Yehoshua di Gàmala, cittadina del Golan forse depennata fin dall’inizio per allontanare collegamenti indesiderati, visto che proprio Gàmala – roccaforte degli zeloti anti-romani – era stata un importante centro della resistenza militare ebraica contro l’invasione imperiale.Nessun rispetto, sottolineano gli autori di “Dei e semidei”, per il futuro protagonista dei Vangeli. E’ stato infatti impunemente trasformato, all’occorrenza, da rabbi giudeo messianista a salvatore del mondo, passando attraverso stadi intermedi: “logos” gnostico, oppure rassicurante semidio, perfettamente sovrapponibile alle altre divinità del periodo, adorate dai pagani, allora largamente maggioritari. La situazione si sarebbe invertita solo con l’Editto di Teodosio del 380 dopo Cristo, quando i neo-cristiani avrebbero potuto cominciare a perseguitare con ferocia, anche compiendo stragi efferate, i seguaci del paganesimo. I nodi, comunque, secondo Esposito e Biglino stanno venendo al pettine, sia pure con lentezza. Uno dei “cerotti” storicamente usati per tenere insieme Antico e Nuovo Testamento si è appena scollato: è il caso della presunta profezia “cristica” di Isaia, in realtà inesistente, con cui si pretendeva di sostenere che la Bibbia ebraica anticipasse l’avvento del redentore.“La vergine concepirà”, si traduceva fino a ieri, lasciando intendere che il sommo profeta ebraico alludesse a Maria e Gesù. Ora è emersa anche ufficialmente la traduzione corretta, recepita in primis dai vescovi tedeschi: “La ragazza è incinta”, si legge ora. Dunque non era vergine (si scriverebbe “betulà”, in ebraico), ma semplicemente giovinetta (“almà”, come infatti è scritto), e aveva il concepimento già alle sue spalle. Non era Maria, infatti, la donna citata da Isaia, ma una fanciulla vissuta secoli prima, di nome Abià, da cui si sperava nascesse un bambino destinato a trasformarsi in liberatore politico di Israele. Chi era, invece, il vero Yehoshua di Gàmala, meglio noto come Gesù di Nazareth? Certo non il personaggio che è stato raccontato, ovvero fabbricato. E questa è l’unica certezza di Biglino ed Esposito. Che si congedano dal lettore regalandogli un ultimo dubbio, dedicato all’arcangelo Gabriele: siamo proprio così sicuri che il futuro Cristo non fosse davvero un semidio, come tanti altri dell’antichità, discesi sulla terra “anche in numero di 70 alla volta”, come ricordava Celso? Erano tutti mezzosangue: nati in modo anomalo, con un genitore terrestre e l’altro celeste, o comunque non umano. Valoroso e sfortunato, “Gesù”, come gli eroi omerici figli di uomini e dèi, formidabili ma non immortali?(Il libro: Mauro Biglino e Francesco Esposito, “Dei e semidei. Il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”, UnoEditori, 340 pagine, euro 16.90).Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della comune mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità?
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Tav, Governo del Tradimento: sangue e bugie, addio grillini
«Non c’erano e non ci sono governi amici, l’abbiamo sempre saputo». Così il movimento NoTav reagisce al “tradimento” gialloverde sulla Torino-Lione, anticipato da Conte: «Non fare il Tav costerebbe più che farlo». Alberto Airola, parlamentare 5 Stelle, si sente raggirato da Di Maio: «Il suo – dice – è un atteggiamento pilatesco: sa benissimo che in aula saremo gli unici a votare “no”». In una video-intervista al “Fatto Quotidiano”, Airola condanna la decisione di rinunciare al potere dell’esecutivo per bloccare l’opera, ricorrendo alla farsa del voto parlamentare (più che scontato) sul destino del progetto, costosissimo e inutile. «L’ho detto più volte, a Conte: l’opera – che è appena ai preliminari – si può fermare senza danni per l’Italia». Conte però ha finto di non sentire: «E’ stato mal consigliato?», si domanda Airola. Certo, in linea con Conte appare Di Maio, che sposa in pieno la tattica dell’ipocrisia: i 5 Stelle ribadiranno la loro pletorica contrarietà alla super-ferrovia, già sapendo che Lega, Pd, Forza Italia e Fratelli d’Italia voteranno a favore. Un mezzuccio un po’ meschino, per tentare di salvarsi la coscienza. «Credo che il Movimento 5 Stelle abbia deciso di scrivere il proprio testamento politico», sentenzia Nilo Durbiano, sindaco di Venaus, uomo-simbolo dell’opposizione della valle di Susa alla grande opera. Addio 5 Stelle: «La loro avventura è conclusa», dice Durbiano, nel cui Comune i 5 Stelle erano il primo partito.Il cedimento gialloverde emerge anche dalle parole di Beppe Grillo, secondo cui è illusorio «credere che basti essere al governo, in tandem, per bloccare un processo demenziale come questo». Per Grillo, «significa avere dimenticato che non siamo una repubblica presidenziale oppure una dittatura». Ammette il fondatore, che della battaglia NoTav aveva fatto una sua bandiera: «Sono molto scontento della situazione che si è venuta a creare». Ma non aggiunge altro, preparandosi a “digerire” il clamoroso voltafaccia difendendo Toninelli e Conte, che avrebbero reso «meno disastroso» lo scenario, tenendo testa a Macron. Come dire: scusate, ma finora avevamo scherzato. Vi avevamo promesso che ci saremmo messi di traverso, per fermare il Tav? Erano solo parole: come quelle contro l’obbligo vaccinale, il Tap in Puglia e le trivelle nell’Adriatico. Impossibile, sembra dire Grillo tra le righe, che un governo possa fare davvero gli interessi dei cittadini, e non quelli delle lobby che dominano l’Ue. Se non ci fossimo noi – aggiunge l’ex comico – sarebbe pure peggio. Come dire: non siamo colpevoli, e in ogni caso è inutile illudersi che il sistema possa essere cambiato. Ma non era proprio per questo che erano nati, i 5 Stelle? Difatti: non a caso, il loro consenso sta franando. E il “tradimento” sul Tav, come dice Durbiano, sembra davvero l’inizio della fine: tra poco i 5 Stelle potrebbero non esistere più.Dopo la sortita di Conte, affermano i NoTav, ora tutto è finalmente chiaro: «Come abbiamo sempre sostenuto, dalle parti del governo non abbiamo mai avuto amici». Aggiungono i NoTav: «La manfrina di tutti questi mesi giunge alla parola fine, e il cambiamento tanto promesso dal governo getta anche l’ultima maschera, allineandosi a tutti i precedenti». Formule retoriche, che si ripetono dal 2001 a prescindere dal colore politico dell’esecutivo di turno. Il governo Conte? Sembra aver voluto «cambiare tutto per non cambiare niente». Tante chiacchiere, ma poi – al dunque – il governo gialloverde «è sempre stato ambiguo, negli atti concreti, e questo è il risultato». Non fare la Torino-Lione costerebbe più che farla? «E’ solo una scusa per mantenere in piedi il governo e le poltrone degli eletti, sacrificando ancora una volta il futuro di molti sull’altare degli interessi politici di pochi». Lo stesso Conte fino a poco tempo fa si era detto convinto che quest’opera non serviva all’Italia. Ora perché ha cambiato idea? E’ stato «fulminato sulla via di Damasco da promesse di finanziamenti europei o da equilibri politici da mantenere?».Recentissima la richiesta di arresto per il direttore della Cmc di Ravenna, general contractor della Torino-Lione, accusato per una storia di corruzione in Kenya. «Un piccolo esempio di cosa abbia scelto il presidente Conte», sottolineano i NoTav: «Altro che interessi degli italiani!». Del resto, aggiunge il movimento valsusino, «abbiamo sempre definito il sistema Tav il bancomat della politica». Cosa cambia, ora? «Per noi assolutamente nulla, perché sono 30 anni che ogni governo fa esattamente come quello attuale: annuncia il sì all’opera e aumenta il debito degli italiani facendo leva su un fantomatico interesse nazionale – che non c’è, e che nessuno dimostrerà mai». Opera inutile: lo dice anche la commissione speciale istituita da Toninelli e coordinata dal professor Marco Ponti. «Conte e il governo che presiede saranno gli ennesimi responsabili di questo scempio ambientale, politico ed economico: dalla Torino Lione la maggioranza del paese non trarrà nessun vantaggio, ma un danno economico e ambientale, che pagheremo tutti».E i 5 Stelle, da sempre NoTav, ora faranno finta di niente, tirando a campare? Bella sceneggiata, quella di «portare il voto in un Parlamento dove l’esito è già scontato, e dove il Movimento 5 Stelle voterebbe contro, tentando di salvarsi la faccia dicendo “siamo coerenti, abbiamo fatto tutto il possibile”». I NoTav annunciano battaglia: «Proseguiremo la nostra lotta popolare per fermare quest’opera inutile e imposta. Lo faremo come abbiamo sempre fatto, mettendoci di traverso quando serve e portando le nostre ragioni in ogni luogo di questo paese, che siamo convinti, sta con noi». Nel 2005, quando la polizia sgomberò con inaudita violenza i manifestanti dal presidio di Venaus, di colpo l’Italia scoprì che in valle di Susa c’era un problema – non locale, ma nazionale. «Non si possono imporre le opere pubbliche col manganello», disse Di Pietro. Da allora sono passati quasi 15 anni, e il governo in carica – stavolta rappresentato anche dai 5 Stelle – continua a premere per la grande opera senza la minima trasparenza, cioè evitando ancora una volta di dimostrarne l’utilità. Una storia tristemente italiana, di democrazia calpestata. Con un corollario: l’auto-rottamazione del movimento creato da Grillo.Era nell’aria: il Governo del Tradimento si sarebbe apprestato a rimangiarsi anche l’ultima delle sue promesse. Ovvero: non gettare via miliardi in valle di Susa per il Tav Torino-Lione, senza prima averne verificato l’utilità. La verifica – la prima, nella storia – era arrivata nei mesi scorsi dopo decenni di silenzio da parte dei governi romani, per merito del ministro Danilo Toninelli. Verdetto negativo, firmato dal più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti, già docente del Politecnico di Milano e consulente della Banca Mondiale: un’opera faraonica e completamente inutile, perfetto doppione della linea Italia-Francia che già attraversa la valle di Susa, collegando Torino e Lione via Traforo del Fréjus, da poco riammodernato al prezzo di quasi mezzo miliardo di euro per consentire il passaggio di treni con a bordo i Tir e i grandi container “navali”. Lo sapevano anche i sassi, peraltro: il traffico Italia-Francia è praticamente estinto. Lo chiarisce la Svizzera, delegata dall’Ue a monitorare i trasporti transalpini: l’attuale linea valsusina Torino-Modane-Lione, ormai semideserta e destinata a restare un binario morto anche nei prossimi decenni, potrebbe aumentare del 900% il suo volume di traffico, se solo esistesse almeno il miraggio di merci da trasportare, un giorno.
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Coltan, stupri di guerra: donne abusate per i nostri telefoni
Leggere “Figlie ferite dell’Africa” di Denis Mukwege e “Denis Mukwege, L’uomo che ripara le donne” di Colette Braeckman sono esperienze devastanti per ogni essere capace di provare amore, dignità, umanità. Ascoltare le parole del dottore congolese Denis Mukwege (Premio Nobel per la Pace 2018) è una esperienza sconvolgente: oltre ogni immaginata scena di violenza… lui racconta il perché, il come, le conseguenze degli stupri sulle donne come tecnica di guerra. Spiega come lo stupro è diventato, in alcuni territori dell’Africa, un modo di fare guerra. Non si tratta di guerriglia fatta da organizzazioni improvvisate con saccheggi, uccisioni, soprusi di ogni tipo. Stuprare, deturpare le donne in modo collettivo e in pubblico, davanti ai famigliari e a tutto il villaggio significa distruggere la comunità intera, un modo efficace e senza ritorno per annientare il nemico. Le donne stuprate resteranno per sempre piagate e con gravi problemi psichiatrici; gli uomini che impotenti sono stati costretti a guardare senza poter intervenire non sopravvivono al dolore e alla vergogna e spesso se ne vanno, distruggendo tutto un tessuto sociale.Le donne, per ignoranza e paura, sono fortemente emarginate, i figli conseguenti allo stupro sono destinati ad una vita da emarginati. Ma quante donne ha visto, ha curato Mukwege? Una, poi dieci, cento… e in vent’anni cinquantamila donne stuprate davanti al marito, ai figli e al villaggio, perché tutti vedano; poi, orrendamente ferite e mutilate e spesso rese sterili. Restare senza fiato ascoltando dal vivo la testimonianza di Mukwege è solo per i più forti, perché ascoltare tutto ciò che non avresti mai voluto sentire è straziante, la coscienza si frantuma, nessun pensiero minimamente positivo sopravvive. Lo stesso medico ha confessato: mi sono ritrovato incapace di reggere i racconti delle pazienti. L’orrore mi sconvolgeva… e un chirurgo deve avere la mano ferma. Da allora affido ai collaboratori il compito di ascoltare, e io opero soltanto. Ricostruisco ciò che si può fisicamente ricucire… e cerco di non pensare. Per non essere distrutto che mi impedirebbe di fare ciò che ho scelto di fare.Leggere il libro “Figlie ferite dell’Africa” ma anche la biografia di Mukwege, “L’uomo che ripara le donne”, significa non nascondersi, non chiudere gli occhi, capire che la realtà è ben oltre ciò che possiamo immaginare… anche perché Denis Mukwege racconta ciò che sa, ciò che ha visto, non tralasciando particolari che al primo impatto possono sembrare sconvolgenti ma evitabili, perché non è così: proprio i particolari raccapriccianti faranno capire la devastazione definitiva per la società intera di un metodo bellico probabilmente mai applicato prima in modo così sistematico e coordinato. Ma perché tanta violenza, perché questa guerra politico-sociale, perché tanta spietatezza? Quasi nessuno lo sa, nessuno lo racconta, tutti pensano a guerre tribali per chissà quale motivazione etnica-religiosa… No! Il motivo è uno solo e si chiama: coltan…L’80% di coltan del pianeta si trova nelle miniere congolesi. Coltan è il nuovo oro! perché con lui si fanno microchip di cellulari e computer e in Congo ben 5 eserciti si combattono per il terra più ricca del mondo, lasciando sul terreno solo desertificazione sociale. Quando i soliti ignoranti mettono in azione i microchip dei loro cellulari per insultare e offendere una donna congolese che ha chiesto protezione internazionale in Italia… la violentano, abusano ancora una volta del suo corpo, della sua famiglia, dell’intera struttura sociale e affettiva in cui credeva di poter vivere dignitosamente la propria vita… esattamente come la devastarono gli uomini di qualche esercito congolese per appropriarsi della materia prima utile ai microchip dei cellulari.(Gianfranco Maccaferri, “Lo stupro pubblicamente esibito è l’arma da guerra per avere il coltan”, dal blog di Maccaferri del 5 luglio 2019).Leggere “Figlie ferite dell’Africa” di Denis Mukwege e “Denis Mukwege, L’uomo che ripara le donne” di Colette Braeckman sono esperienze devastanti per ogni essere capace di provare amore, dignità, umanità. Ascoltare le parole del dottore congolese Denis Mukwege (Premio Nobel per la Pace 2018) è una esperienza sconvolgente: oltre ogni immaginata scena di violenza… lui racconta il perché, il come, le conseguenze degli stupri sulle donne come tecnica di guerra. Spiega come lo stupro è diventato, in alcuni territori dell’Africa, un modo di fare guerra. Non si tratta di guerriglia fatta da organizzazioni improvvisate con saccheggi, uccisioni, soprusi di ogni tipo. Stuprare, deturpare le donne in modo collettivo e in pubblico, davanti ai famigliari e a tutto il villaggio significa distruggere la comunità intera, un modo efficace e senza ritorno per annientare il nemico. Le donne stuprate resteranno per sempre piagate e con gravi problemi psichiatrici; gli uomini che impotenti sono stati costretti a guardare senza poter intervenire non sopravvivono al dolore e alla vergogna e spesso se ne vanno, distruggendo tutto un tessuto sociale.
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Spolpare l’Italia: solo Salvini e Meloni contro il piano-Draghi
Solo Matteo Salvini e Giorgia Meloni potrebbero scongiurare l’avvento a Palazzo Chigi di Mario Draghi, invocato da Berlusconi per affondare il traballante governo gialloverde e recuperare così un ruolo politico ammiccando alla tecnocrazia europea. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, che ha accesso a fonti riservate nell’ambito del circuito massonico internazionale. Autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che mette a fuoco la “sovragestione” che pilota i destini europei (con l’Italia il più delle volte nel ruolo di vittima), Carpeoro era stato il primo, alla vigilia delle europee, a lanciare l’allarme-Draghi: la supermassoneria reazionaria, in cui il presidente della Bce milita, sta aumentando la pressione su Super-Mario perché accetti di formare un governo “lacrime e sangue”, come quello di Monti. Le premesse ci sono tutte: l’alleanza gialloverde è al capolinea, e la crisi economica – già seria, anche a causa del mancato ampliamento del deficit – è destinata ad aggravarsi in modo artificioso, attraverso la sapiente regia politica dello spread. La solita tenaglia finanziaria, preannunciata direttamente dai tecnocrati di Bruxelles: lo provano le fughe di notizie sulle “letterine” della Commissione Europea che prospettano una severa punizione per il nostro paese, costretto a tagli sanguinosi e al probibile aumento dell’Iva.A completare il quadro, i ministeri-colabrodo da cui escono le notizie: questo è un governo che non gode della leale collaborazione di molti dirigenti e funzionari ministeriali, dice Carpeoro, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. Certo Salvini ha vinto, alle europee, ma non ha stravinto. Altro dato: una parte della magistratura gli ha dichiarato guerra. Lo dimostra il dissequestro della nave Sea Watch, ampiamente previsto dallo stesso Carpeoro: «Un bell’escamotage, per scavalcare il ministro dell’interno. Prima si sequestra la nave, sottraendola così al controllo del governo. Poi si fanno sbarcare i migranti, e infine si dissequestra il natante. Risultato: tutti i migranti entrano in Italia, alla faccia di Salvini, e senza che nessun altro paese europeo si assuma l’onere dell’accoglienza». Tutto questo, senza contare la “guerriglia” dei 5 Stelle pro-Ong. «Stanno cercando di spingere Salvini, in ogni modo, a far saltare il governo». Ed è esattamente l’obiettivo numero uno dell’eurocrazia, che sogna di insediare Mario Draghi – in autunno – al posto di Giuseppe Conte. Obiettivo: «Finire di svendere l’Italia, cioè la metà che ancora ci resta, facendoci fare la fine della Grecia». Dettaglio: vorrebbero mettere le mani anche sui nostri beni culturali. E soprattutto: impedire che vengano un giorno conteggiati, come patrimonio di altissimo valore anche finanziario, nel rating dell’Italia. «Portaci via anche i beni culturali sarebbe la “soluzione finale”, come quella attuata da Hitler per annientare gli ebrei».Per Carpeoro, la situazione è gravissima. Uno dei problemi si chiama Luigi Di Maio: «Non che avessi molta fiducia in lui, ma si è dimostrato uno zero assoluto. E se hai degli zeri, anziché degli statisti, dove speri di andare?». Molto meglio Salvini, oggi al centro di un autentico assedio, su ogni fronte (politico, mediatico, giudiziario). «Ma nemmeno Salvini è adeguato alla situazione», ammette Carpeoro: al leader della Lega mancano l’esatta visione della situazione e una sufficiente capacità di proiezione nel futuro. Molta tattica, ma senza una vera strategia. Nel gioco s’è infilato in contropiede l’anziano Berlusconi, che per uscire dall’angolo s’è inventato la carta Draghi: «Una mossa abile e raffinata per tornare ad avere un ruolo politico, in questo caso alleandosi con la tecnocrazia Ue». Ma nemmeno Berlusconi ha fatto bene i suoi conti: «Si è presentato come il garante dell’ordine europeo, è vero, ma non ha capito che l’Europa non ha nessuna paura del sovranismo. In più, dalle elezioni la burocrazia Ue è uscita rafforzata, non certo indebolita».Forse, il Cavaliere riuscirà davvero a spianare a Draghi la strada per Palazzo Chigi (nel caso, con la determinante collaborazione dei poteri forti, Quirinale e Bankitalia in testa, aiutati dall’impennarsi dello spread e dal consueto gioco al massacro delle agenzie di rating). Ma alla fine Forza Italia si sfalderà: «E’ un partito pieno di Casini e di Alfani, tutta gente con la valigia sempre pronta». I grillini? Ormai in caduta verticale: la base non riesce a esprimere un’alternativa alla sciagurata leadership di Di Maio, «telecomandato da un Davide Casaleggio che ormai si consulta regolarmente con personaggi come Tajani e Jacques Attali, l’eminenza grigia di Macron». Il Pd zingarettiano? Encefalogramma politicamente piatto: si limita a sperare che Conte (cioè Salvini) cada, lasciando il posto a Draghi. «E con Draghi, Salvini non avrebbe nessuna possibilità di sopravvivenza, al governo». Unica chance: «Lui e la Meloni hanno i numeri per tentare di resistere, ed entrambi hanno forti ambizioni personali». Escluse, ovviamente, le elezioni anticipate: Salvini e Meloni vincerebbero, potendo poi governare insieme. Come finirà? Male, secondo Carpeoro, perché – tanto per cambiare – mezza Europa spera di banchettare sul cadavere dell’Italia, dopo aver spolpalto gli italiani con il consueto appoggio dei “collaborazionisti” interni. «Duecento anni fa, l’Italia non esisteva neppure: era in mano a signorotti che si vendevano allo straniero per far fuori lo starerello confinante. Non è cambiata molto, la situazione». E oggi stiamo per toccare il fondo, con una crisi sociale che minaccia di farsi devastante. «Se non altro, più scuro di mezzanotte non può fare. E ormai ci siamo».Solo Matteo Salvini e Giorgia Meloni potrebbero scongiurare l’avvento a Palazzo Chigi di Mario Draghi, invocato da Berlusconi per affondare il traballante governo gialloverde e recuperare così un ruolo politico ammiccando alla tecnocrazia europea. Lo afferma Gianfranco Carpeoro, che ha accesso a fonti riservate nell’ambito del circuito massonico internazionale. Autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che mette a fuoco la “sovragestione” che pilota i destini europei (con l’Italia il più delle volte nel ruolo di vittima), Carpeoro era stato il primo, alla vigilia delle europee, a lanciare l’allarme-Draghi: la supermassoneria reazionaria, in cui il presidente della Bce milita, sta aumentando la pressione su Super-Mario perché accetti di formare un governo “lacrime e sangue”, come quello di Monti. Le premesse ci sono tutte: l’alleanza gialloverde è al capolinea, e la crisi economica – già seria, anche a causa del mancato ampliamento del deficit – è destinata ad aggravarsi in modo artificioso, attraverso la sapiente regia politica dello spread. La solita tenaglia finanziaria, preannunciata direttamente dai tecnocrati di Bruxelles: lo provano le fughe di notizie sulle “letterine” della Commissione Europea che prospettano una severa punizione per il nostro paese, costretto a tagli sanguinosi e al probabile aumento dell’Iva.