Archivio del Tag ‘guerra’
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Fame, paura e morte: dove è nato l’uomo d’acciaio Putin
Oggi, Vladimir Vladimirovic Putin, detto Volodja, compie 65 anni. Molti sanno della sua vita politica e il recente film di Oliver Stone ne sta mettendo in luce gli aspetti più interessanti. Pochissimi sanno però della sua incredibile infanzia. A fronte di leader politici vissuti da bambini in ville con piscina, tra lussi e scuole di prestigio come Obama, Trump e Macron, Putin ha vissuto la povertà, quella vera. Per questo, oggi lo omaggiamo con alcuni significativi riferimenti alla sua infanzia travagliata. Quando nel 1952 Putin viene al mondo, la sua città natale, Leningrado, è un cumulo di macerie. L’odierna San Pietroburgo, infatti, ha subito il più terribile assedio della seconda guerra mondiale: tre anni di fame, paura e morte durante i quali persero la vita un milione di cittadini russi. Putin perse un fratello, Viktor, morto durante l’assedio a 9 anni, e che il presidente non ha mai conosciuto. Un altro, Oleg, era morto alla nascita. La mamma soffre di denutrizione e il padre, ex combattente, è un ferito di guerra. Da bambino era piccolo e di statura e gracile, ma fin dall’età infantile si rivelò un avido lettore, uno degli elementi che fin da subito mi sorpresero di più e che mi portarono ad affrontare i libri letti da Putin e l’ambito filosofico che più lo formò.A 12 anni lesse “Lo scudo e la spada”, bestseller ove si narrano le gesta di una spia sovietica. Suggestioni che lo porteranno da adulto ad intraprendere una carriera nel servizio segreto dell’Urss, il famigerato Kgb. Il primo serio tentativo della Russia di resistere all’americanizzazione e alla globalizzazione viene da queste esperienze, perchè la scuola del Kgb non era una scuola come le altre. Ma se il Kgb ha forgiato Volodja, anche la Kommunalka lo ha forgiato. Eccome. Di cosa si tratta? La kommunalka è una sorta di condominio, ma gestito in modo comunitario tra diverse famiglie: stanze scarsamente illumintate, androni desolati, rampe di scale fatiscenti, pavimenti bucati, immondizia abbondante dentro i palazzi. In quei cortili, tra risse con i coetanei e vendette, Volodja ha passato la sua giovinezza. Il padre si era arruolato come fuciliere dell’85esimo battaglione d’assalto dell’Armata Rossa e fu costretto a combattere casa per casa nella celeberrima “sacca della Neva”. Come in un film, Spiridonovic Putin fu un vero sabotatore, per miracolo sopravvissuto ad una missione suicida con un manipolo di coetanei.Ferito nella periferia della città qualche mese dopo l’impresa, il papà di Putin rischiò seriamente la morte. La mamma Maria per molto tempo non seppe che fine avesse fatto il marito. Quando, per puro caso, lo ritrovò la loro vita era in gran parte segnata perché entrambi deformati da denutrizione e ferite. Grazie a vecchie competenze acquisite sul campo, il padre di Putin troverà lavoro come operaio specilizzato nelle officine Yegorov, che trattavano materiale ferroviario, la madre Maria farà la facchina ai mercati e poi verrà impiegata in una sorta di ospizio. La maggior parte del tempo, comunque, la donna lo passava a cercare cibo da mettere in tavola. E la Kommunalka? Più famiglie in coabitazione, ove ogni nucleo disponeva di una sola stanza con bagno in comune e cucina in comune. Dunque, per mangiare a pranzo e a cena, occorreva fare i turni e le fila, con tutte le litigate, a volte anche furibonde, che possiamo immaginarci. Inutile dire che una vita come questa fu caratterizzata da degrado e amici teppisti di strada, tra scazzottate e bevute.I topi erano onnipresenti nella Leningrado anni Cinquanta e Sessanta, e non era affatto raro, per Putin, affrontarli nelle staze del palazzo in cui viveva per ucciderli con mezzi di fortuna. Anche la vita scolastica non fu delle più facili e Putin tra i banchi si dimostrò intelligente, ma sovente ribelle, spesso punito ed escluso dai circoli studenteschi che contavano. Senza pena di smentita posso affermare che una vita come questa, segnata dalla povertà e dalle ristrettezze, ha forgiato il carattere dell’uomo più degli studi di giurisprudenza e dei corsi specializzati del Kgb. Certamente, ha reso il presidente russo maggiormente temprato alle difficoltà, alla strategia e alla freddezza decisionale dei numerosi figli di papà che caratterizzano la nostra classe dirigente, pubblica o privata che sia.(Massimo Bordin, “L’infanzia di Volodja, alias Vladimir Putin”, dal blog “Micidial” del 7 ottobre 2017).Oggi, Vladimir Vladimirovic Putin, detto Volodja, compie 65 anni. Molti sanno della sua vita politica e il recente film di Oliver Stone ne sta mettendo in luce gli aspetti più interessanti. Pochissimi sanno però della sua incredibile infanzia. A fronte di leader politici vissuti da bambini in ville con piscina, tra lussi e scuole di prestigio come Obama, Trump e Macron, Putin ha vissuto la povertà, quella vera. Per questo, oggi lo omaggiamo con alcuni significativi riferimenti alla sua infanzia travagliata. Quando nel 1952 Putin viene al mondo, la sua città natale, Leningrado, è un cumulo di macerie. L’odierna San Pietroburgo, infatti, ha subito il più terribile assedio della seconda guerra mondiale: tre anni di fame, paura e morte durante i quali persero la vita un milione di cittadini russi. Putin perse un fratello, Viktor, morto durante l’assedio a 9 anni, e che il presidente non ha mai conosciuto. Un altro, Oleg, era morto alla nascita. La mamma soffre di denutrizione e il padre, ex combattente, è un ferito di guerra. Da bambino era piccolo e di statura e gracile, ma fin dall’età infantile si rivelò un avido lettore, uno degli elementi che fin da subito mi sorpresero di più e che mi portarono ad affrontare i libri letti da Putin e l’ambito filosofico che più lo formò.
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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Un mondo migliore? No, grazie. Così la letteratura è morta
Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.Sembra che l’Impero Romano avesse perso la sua anima molto prima di scomparire come organizzazione politica. Spesso, ho l’impressione che stiamo seguendo la stessa strada verso il collasso seguita dall’Impero Romano, ma più rapidamente. Fatevi questa domanda: riesco a citare un pezzo letterario recente (intendo, diciamo, di 10 o 20 anni) che penso che i posteri ricorderanno? (E non come esempio di cattivo gusto). Personalmente non ci riesco. E penso che si possa dire che la letteratura nel mondo occidentale abbia declinato a partire degli anni 70, più o meno, e che oggi non sia più una forma d’arte vitale. Naturalmente, le percezioni in questo campo potrebbero essere molto diverse, ma posso citare un sacco di grandi romanzi pubblicati durante la prima metà del XX secolo, racconti che hanno cambiato il modo in cui le persone guardavano il mondo. Pensate alla grande stagione degli scrittori americani a Parigi degli anni 20 e 30, pensate a Hemingway, a Fitzgerald, a Gertrude Stein e a molti altri. E a come la letteratura americana ha continuato a produrre capolavori, da John Steinbeck a Jack Kerouac ed altri. Ora, siete in grado di citare uno scrittore americano equivalente successivo?Pensate a grandi scrittori come John Gardner, che scriveva negli anni 70 ed oggi è stato in gran parte dimenticato. Qualcosa di simile sembra essere successo dall’altra parte della Cortina di Ferro, dove diversi scrittori sovietici dotati (Dudintsev, Grossman, Solzhenitsyn ed altri) hanno prodotto un corpus letterario negli anni 50 e 60 che ha fortemente cambiato l’ortodossia sovietica ed ha giocato un ruolo nel crollo dell’Unione Sovietica. Ma non sembra che esista più nulla di paragonabile nei paesi dell’Europa dell’est che si possa paragonare a quei romanzi. Non è solo una questione di letteratura scritta, le arti visuali sembrano aver attraversato lo stesso processo di appassimento: pensate a Guernica di Picasso (1937) come ad un esempio. Riuscite a pensare a qualcosa dipinta negli ultimi decenni con un impatto lontanamente comparabile? Riguardo ai film, quale è stato davvero originale o ha cambiato la percezione del mondo? Forse coi film stiamo facendo meglio che con la letteratura scritta, perlomeno alcuni film non passano inosservati, anche se i loro meriti letterari sono discutibili.Pensate a “La notte dei morti viventi” di George Romero, che risale al 1968 e che ha generato uno tsunami di imitazioni. Pensate a “Guerre Stellari” (1977), che ha plasmato un intero piano strategico dei militari statunitensi. Ma durante l’ultimo decennio, più o meno, l’industria cinematografica non sembra essere stata in grado di fare meglio che lanciare legioni di zombi e mostri assortiti contro gli spettatori. Non che non abbiamo più bestseller, proprio come abbiamo film da blockbuster. Ma siamo in grado di produrre qualcosa di originale e rilevante? Sembra che abbiamo ripercorso i passi dell’Impero Romano: non siamo più in grado di produrre un Virgilio, al massimo un equivalente di Ausonio. E c’è una ragione per questo. La letteratura, quella grande, ha a che fare col cambiare la visione del mondo del lettore. Un grande romanzo, un grande poema, non sono solo una trama interessante o delle belle immagini. La buona letteratura porta avanti un sogno: il sogno di un mondo diverso. E quel sogno cambia il lettore, lo rende diverso. Ma per svolgere questa azione, il lettore deve essere in grado di sognare un cambiamento. Deve vivere in una società dove sia possibile, almeno teoricamente, mettere in pratica i sogni. Ma non è sempre così.Nell’Impero Romano del IV e V secolo D.C., il sogno era scomparso. I Romani si erano ritirati dietro le loro fortificazioni ed avevano sacrificato tutto – compresa la loro libertà – in nome della sicurezza. La poesia era diventata semplicemente una lode al governante di turno, la filosofia una compilazione dei lavori precedenti e la storia una mera cronaca. Una cosa del genere sta capitando a noi oggi: dove sono finiti i nostri sogni? Ma è anche vero l’uomo non vive di solo pane. Ci servono i sogni come ci serve il cibo. E i sogni sono qualcosa che l’arte ci può portare; sotto forma di letteratura o altro, non importa. E’ il potere dei sogni che non può mai scomparire. Se la letteratura romana era scomparsa come fonte originale di sogni, poteva ancora funzionare come veicolo di sogni provenienti dall’esterno dell’impero. Dal Confine Orientale dell’Impero, i culti di Mitra e di Cristo avrebbero fatto incursioni profonde nelle menti romane.All’inizio del V secolo, in una città di provincia meridionale assediata dai barbari, Agostino, il vescovo di Ippona, ha completato “La Città di Dio”, un libro che leggiamo ancora oggi e che ha cambiato per sempre il concetto di narrativa; è stato forse il primo romanzo – in senso moderno – mai scritto. Pochi secoli dopo, quando l’Impero non era niente di più che una memoria spettrale, un poeta sconosciuto ha composto il Beowulf e, ancora più tardi, è apparsa la saga dei Nibelunghi. Durante questo periodo, sono cominciate ad apparire le storie sul signore della guerra della Britannia che poi sarebbero confluite nel Ciclo Arturiano, forse il cuore della nostra visione moderna della letteratura epica. Così, il sogno non è morto. Da qualche parte, ai margini dell’impero, o forse al di fuori di esso, qualcuno sta sognando un bel sogno. Forse lo scriverà in una lingua lontana o forse userà il linguaggio dell’Impero. Forse userà un mezzo diverso dalla parola scritta, non possiamo dirlo. Ciò che possiamo dire è che, un giorno, questo nuovo sogno cambierà il mondo.(Ugo Bardi, “Dove sono finiti tutti i nostri sogni? La morte della letteratura occidentale”, dal blog di Bardi del 21 gennaio 2015).Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.
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Il fantasma di Soros: buonismo migrante, guerre e affari
Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.L’ingresso di Soros svela il passaggio del mondo della cooperazione italiana da un modello economico di tipo solidale a un modello capitalistico tout court, già da anni adottato dalle cooperative, che ancora oggi si ammantano di un idealismo e di una purezza che non hanno mai posseduto. Insomma, le mani del nonnino Soros sulla cooperazione italiana porta alla luce del sole quel che già si sapeva da tempo e che era sottaciuto da molti: la trasformazione di quel mondo in un potere forte in grado di esercitare pressioni lobbistiche sui governi (e la nomina di Poletti alla guida del ministero del lavoro ne è una prova tangibile). Soros finanzia anche la cooperazione bianca, di matrice cattolica. Ben documentata è infatti la partecipazione di Soros alle attività filantropiche della Compagnia delle Opere, che fa capo al colosso cattolico Comunione e Liberazione. In concomitanza con l’aumento dei flussi migratori verso il nostro paese, molte cooperative bianche e rosse hanno di recente riconvertito le loro attività nel sociale, precedentemente concentrate in settori quali i servizi educativi e sanitari, in attività di accoglienza e di gestione dei profughi. E’ quindi nata negli ultimi anni una costellazione di strutture residenziali e di comunità per accogliere e integrare i clandestini portati in Italia dalle Ong che operano nel Mediterraneo per il salvataggio di costoro.Altro aspetto, questa volta più noto, dell’intraprendenza “filantropica” di Soros è il suo legame a doppio filo con le Ong, specialmente con quelle che si occupano della promozione dei diritti umani, in paesi dove vengono a loro dire calpestati. Attraverso la Open Society Foundation, Soros ha creato in pochi anni una vera e propria ragnatela in cui sono state attirate migliaia di Ong, spesso politicizzate e ideologizzate in senso radical progressista, che operano come agenti di disturbo verso i governi legittimamente eletti di paesi non allineati. Il caso della Siria è emblematico: attraverso una machiavellica propaganda mediatica queste Ong hanno creato a tavolino la fola della Siria violatrice di diritti umani e diffuso l’immagine demoniaca di Assad dittatore sanguinario che tortura i suoi cittadini. Altro aspetto veramente inquietante della rete labirintica creata da Soros per destabilizzare il mondo è il generoso finanziamento che egli elargisce alle associazioni Lgbtq. Secondo i documenti desecretati da Wikileaks, l’organizzazione di Julian Assange, è Soros il principale finanziatore del movimento delle Pussy Riots, un gruppo punk di donne russe sciamannate che contesta con atti provocatori Putin e l’attaccamento del popolo russo alle tradizioni patrie, e le laide Femen ucraine, sospettate di simpatie naziste. Come è lo stesso Soros a finanziare, solo per fare un esempio tra i tanti, l’Arcigay e tante altre associazioni gay e gender.Il filo rosso che unisce Soros alle Ong che operano nel Mediterraneo è poi noto a tutti (o quasi). E’ lui che finanzia le navi che solcano il Mediterraneo per soccorrere i clandestini caricati nelle carrette degli scafisti. Anche se più che di soccorso bisognerebbe parlare di complicità vera e propria tra gli operatori Ong e gli scafisti, come alcune recenti indagini della magistratura italiana hanno rivelato. D’altra parte i referenti delle Ong non nascondono, con un certo autocompiacimento, la loro stretta collaborazione con la Open Society Foundation sorosiana, e i bilanci di tali Ong palesano il finanziamento diretto da parte di essa. Il legame tra il magnate ungherese e le Ong dei “profughi” è così stretto che quando il mese scorso il governo libico ha deciso di vietare alle navi Ong di accostarsi alle coste libiche per caricare i clandestini, Soros ha avuto un’esplosione di rabbia, tempestando di telefonate tutti i big della politica internazionale, Onu compresa, per bloccare la decisione del governo libico.E per sensibilizzare l’opinione pubblica occidentale Soros ha già pronto l’avvio di un nuovo movimento di protesta pro migrates, i No Borders, che si attiveranno con manifestazioni e provocazioni di ogni tipo in tutti i paesi europei. Solita strategia della manipolazione dell’opinione pubblica a suon di slogan e attivismo a pagamento, insomma. Cambiamo gli attori ma la trama e il regista restano uguali. Che dire, per concludere, di questo magnate con il chiodo fisso della democrazia a tutti i costi? Ma che cosa intenderà mai il filantropo Soros con il termine “democrazia”? Potere al popolo, come l’etimologia suggerisce, o potere alle élite illuminate che sovrastano il popolo prendendo decisioni non condivise che peggiorano la qualità della vita? Democrazia come solidarietà e difesa delle fasce più deboli della cittadinanza o democrazia del denaro? Rispetto dell’autodeterminazione dei popoli o imposizione della democrazia attraverso campagne di demonizzazione o campagne militari? Lascio ai più lungimiranti l’ardua risposta.(Federica Francesconi, “Un ectoplasma si aggira per l’Europa: Soros e la sua mania di onnipotenza”, dal blog della Francesconi del 10 settembre 2017).Una presenza ectoplasmatica si aggira per l’Europa: George Soros, il miliardario ottuagenario la cui longa manus rattrappita sta dietro tutti i movimenti (contro)rivoluzionari del pianeta, le novità pseudoculturali, l’umanitarismo di facciata che nasconde interessi economici inconfessabili. Osannato dal mondo della cooperazione, dalle Ong e dai partiti progressisti europei, l’arzillo nonnino è ormai diventato in Europa un’icona della filantropia, il difensore per eccellenza dei diritti umani e delle minoranze straniere e di genere. Ma sotto una crosta superficiale di santità questo personaggio nasconde ben altro, essendo il principale finanziatore a livello mondiale della sovversione controiniziatica che sta portando il mondo alla deriva. Poco noti al grande pubblico sono infatti gli intrecci loschi tra Soros e gli agenti della sovversione. Ma andiamo per ordine, cominciando col rivelare i legami torbidi tra Soros e il mondo della cooperazione, anche italiana. Stando al quotidiano “Il Sole 24 Ore” Soros avrebbe di recente investito sui titoli di alcune cooperative rosse del Nord Italia diventando, con il 5% del capitale sociale, il terzo azionista di alcuni colossi che fanno capo alla Lega delle Cooperative, quella presieduta dal pacioccone Poletti, ministro del lavoro dell’attuale governo.
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Richard Sorge, la geniale spia di Stalin tra i nazisti a Tokyo
Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.Il governo tratta con gli insorti per due giorni, ma intanto fa circondare tutti gli edifici occupati, usando unità della Marina, che è in pessimi rapporti con l’Esercito. Dopo tre giorni i ribelli si arrendono; la maggior parte saranno condannati a morte e giustiziati. I governi occidentali fanno una gran fatica a capire cosa sta succedendo in Giappone: quella è una società lontana, complicata e impenetrabile. Anche i pochi giornalisti europei a Tokyo brancolano nel buio. C’è un solo giornalista che è capace di spiegare cosa succede. È un tedesco, membro del Partito nazista, molto ben introdotto alla sua ambasciata, e che ha una conoscenza stranamente approfondita della politica giapponese. Dopo l’insurrezione dei giovani militari il giornalista scrive un lungo articolo, che viene pubblicato in Germania ed è commentato in tutto il mondo, al punto che la “Pravda”, a Mosca, lo ripubblica in russo. All’ambasciata tedesca si complimentano col giornalista: ormai è diventato una stella internazionale.Il giornalista ride, ma in cuor suo è fuori di sé; quella sera va a trovare un altro tedesco, un industriale, che abita in un lontano sobborgo di Tokyo. In casa, l’industriale tiene nascosta una radiotrasmittente capace di trasmettere fino in Russia. Il giornalista chiama Mosca e chiede se sono matti a pubblicare sulla “Pravda” i suoi articoli: per favore, che non capiti più in futuro, perché nessuno deve intravvedere anche il minimo collegamento tra lui e l’Unione Sovietica. Il giornalista si chiamava Richard Sorge, era iscritto al Partito comunista dal 1918, ed era a capo di una rete di spie piazzata a Tokyo dall’Armata Rossa, una rete di spie che ha influenzato il corso della Seconda guerra mondiale. L’iscrizione al Partito nazista faceva parte della sua copertura; aveva chiesto la tessera a Berlino nel 1933, mentre aspettava il rilascio del passaporto per il Giappone. A quell’epoca l’organizzazione nazista era tutt’altro che impeccabile: negli archivi di Berlino è stata ritrovata la scheda del dottor Richard Sorge, iscritto al partito nella sezione dei residenti all’estero, e come indirizzo c’è scritto soltanto: “Tokyo, Cina”. Poi qualcuno ha cancellato “Cina” a matita e ha corretto: “Giappone”.L’ambasciata tedesca a Tokyo era stata felicissima dell’arrivo di questo compatriota, giornalista esperto di Estremo Oriente, allegro compagnone e grande bevitore. La capitale nipponica negli Anni Trenta era una strana città, governata da una polizia segreta paranoica che teneva sotto sorveglianza tutti gli stranieri, ma piena di ristoranti cinesi ed europei, birrerie tedesche con nomi come «L’Oro del Reno», dove le cameriere giapponesi si tingevano i capelli di biondo, finché la polizia non decise di vietare quest’usanza antipatriottica. Lì il dottor Sorge poteva essere visto fino a tarda notte a trincare con i suoi amici dell’ambasciata tedesca, che gli confidavano tutti i segreti e si facevano aiutare da lui a cifrare i dispacci in codice da mandare a Berlino. Si fidavano a tal punto che quando la Gestapo fece sapere all’ambasciatore Ott che nell’ambasciata forse c’era una talpa, l’ambasciatore non si confidò con nessuno, tranne una persona: il suo carissimo amico, il dottor Sorge.Ma la superspia non era sola. Con lui c’erano tecnici europei addestrati a Mosca, come l’industriale che abitava nei sobborghi, che si chiamava Max Klausen e in realtà era un mago della radio, capace di costruirsi dal nulla una radioricevente portatile con pezzi comprati nei negozi di Tokyo, e di montarla e smontarla in dieci minuti. E c’erano i tanti giapponesi che avevano accettato di lavorare per Sorge e per il comunismo, tutti, senza eccezione, per convinzione ideale, nessuno per soldi, che erano pochi e incerti. Uomini piazzati a tutti i livelli della società giapponese, come il giornalista Hotsumi Ozaki, esperto di cose cinesi, consulente del governo e della potentissima Armata del Kwantung che occupava la Manciuria, ai confini con l’Unione Sovietica. Per otto anni Sorge, Ozaki e gli altri, muovendosi alla luce del sole nei circoli governativi e diplomatici, accumularono informazioni segrete e le spedirono a Mosca, che seppe in anticipo tutto quello che bolliva in pentola a Tokyo e a Berlino: dal patto anti-Comintern tra Germania e Giappone, all’aggressione hitleriana contro l’Unione Sovietica, all’attacco di Pearl Harbor.Quando, alla fine, vennero arrestati, dopo che la Gestapo giapponese, la Tokko, aveva seguito le loro tracce per due anni, Sorge e Ozaki avevano influenzato concretamente l’esito della guerra. Eppure, incredibilmente, non avevano violato quasi nessuna legge: tutte le informazioni trasmesse a Mosca le avevano raccolte grazie ai loro contatti nel governo e nell’ambasciata nazista. Ne avevano violata una sola, una legge nuova che puniva con la morte chi avesse trasmesso informazioni di qualunque genere a un paese comunista, e su quella base vennero condannati e impiccati, dopo un processo durato tre anni. Il procuratore Yoshikawa, che interrogò Sorge, disse poi: «In tutta la mia vita non ho mai incontrato un uomo di tale levatura».(Alessandro Barbero, “Nella rete di Sorge, nazista a Tokyo per conto dell’Urss”, da “La Stampa” del 31 agosto 2017. Sorge fu giustiziato il 7 novembre 1944. Mosca lo riconobbe come propria spia solo nel 1964, dichiarandolo “eroe dell’Unione Sovietica”, massima onorificenza del paese).Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.
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Goldman Sachs: troppi migranti, l’Italia sta per scoppiare
L’Italia scoppia: non può reggere la pressione dei migranti. E ormai, chiusa la rotta balcanica grazie all’accordo tra Germania e Turchia, che ha bloccato il flusso dei profughi dal Medio Oriente, è l’Italia ad accogliere la stragrande maggioranza di persone, per lo più provenienti dal Nordafrica, via Libia. Nel 2017 sono finora stati quasi 200.000, ma il loro numero continua a salire vertiginosamente. E l’Italia, lasciata sola dall’Unione Europea, è il paese più fragile e meno adatto a reggere l’urto. Lo afferma nientemeno che la Goldman Sachs, preoccupata che la situazione possa condizionare le elezioni politiche del maggio 2018. Lo riferisce “Zero Hedge”, in un post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Il Belpaese, secondo la grande banca speculativa di Wall Street, è in crisi economica e sociale, nonché alle prese con politiche inefficaci. Come la Spagna e l’Ungheria, afferma la Goldman, l’Italia ha un altissimo tasso di disoccupazione, tale da tendere impossibile l’integrazione economica dei nuovi arrivati, verso i quali si starebbe intesificando una certa insofferenza sociale, anche a fronte delle politiche per l’immigrazione, giudicate inefficienti.Principale punto dolente, la capacità di assimilazione dei migranti nel mercato del lavoro. «Spagna e Grecia hanno il livello più basso di integrazione, indicato dal più ampio gap immigrati/nativi. L’Italia e l’Ungheria hanno invece il più basso tasso di integrazione economica, con i migranti di seconda generazione in condizioni mediamente peggiori dei loro genitori». Questi quattro paesi, secondo Golman Sachs, «hanno anche i tassi di disoccupazione più alti tra la popolazione totale». Il punto è che, in questi paesi, «la disoccupazione colpisce in modo sproporzionato la popolazione immigrata, e la seconda generazione chiaramente non riesce a recuperare lo svantaggio». Di conseguenza, se si vuole sperare in un’integrazione economica dei rifugiati, «l’Italia è l’ultimo paese in cui portarli». Quanto all’integrazione sociale, le indagini attuali rilevano «la discriminazione contro i migranti» e il basso grado di accettazione degli immigranti da parte del paese ospitante. Dai dati, «appare subito evidente come l’Ungheria sia il paese socialmente più ostile ai migranti, seguita da Italia e Grecia».In tutti questi paesi, «l’ostilità dell’opinione pubblica è stata causata dalla crisi migratoria». Ma attenzione, scrive “Zero Hedge” citando lo studio della Goldman: «Mentre i flussi di migranti verso Ungheria e Grecia hanno subito un rallentamento, in Italia stanno intensificandosi». Secondo il ministero dell’interno italiano, il numero di arrivi in Italia ha quasi superato il record annuale di 181.000 immigrati del 2016, e i disordini diffusi in Libia hanno causato un incremento del 44% nel numero di richiedenti asilo che attraversano il Mediterraneo rispetto allo stesso periodo l’anno scorso. «Attualmente l’Italia – insieme all’Ungheria – sembra quindi la nazione più inospitale d’Europa in relazione a due delle coordinate principali: economica e sociale». Grecia e Ungheria sono invece i paesi meno politicamente efficaci nell’integrazione dei migranti. Nel 2013 Atene ha approvato una legge che impedisce agli immigrati di votare alle elezioni nazionali, mentre l’abrogazione dello “ius soli”, la cittadinanza automatica per i nati sul territorio, «ha lasciato diversi bambini nati in Grecia in un limbo legislativo». L’Italia invece punta all’integrazione legale e all’uguaglianza dei diritti, ma fatica a trovare e risorse.«Complessivamente – conclude la banca – l’Italia ha una minore capacità di assorbimento dei migranti rispetto ad altri stati europei». Sulla base degli indicatori presi in considerazione, il nostro «sembra il paese meno integrato economicamente e socialmente». Determinante, in questo giudizio, «l’incremento annuale dell’immigrazione verso l’Italia attraverso il Mediterraneo», insieme alle «fragili finanze pubbliche del paese», letteralente devastato dall’euro-austerity. «L’attuale gestione della crisi migratoria in Italia – aggiunge la Goldman – sarà inoltre un punto centrale durante le prossime elezioni politiche di maggio, soprattutto per il suo ruolo determinante sul sostegno di cui godono i partiti populisti di opposizione». La banca ribadisce il classico vecchio dogma per cui «l’arrivo di migranti in Italia potrebbe apportare benefici economici nel lungo periodo», compensando il declino demografico (nel 2017 la popolazione italiana si è ridotta per il secondo anno consecutivo), ma non può esimersi dal riconoscere che «per poter sfruttare tali benefici è necessaria un’efficace integrazione economica e sociale». Precondizione abbastanza improbabile, perché «le analisi evidenziano dubbi circa la capacità dell’Italia di raggiungere questo risultato e suggeriscono piuttosto l’approssimarsi di una “tempesta perfetta” all’orizzonte».L’Italia scoppia: non può reggere la pressione dei migranti. E ormai, chiusa la rotta balcanica grazie all’accordo tra Germania e Turchia, che ha bloccato il flusso dei profughi dal Medio Oriente, è l’Italia ad accogliere la stragrande maggioranza di persone, per lo più provenienti dal Nordafrica, via Libia. Nel 2017 sono finora stati quasi 200.000, ma il loro numero continua a salire vertiginosamente. E l’Italia, lasciata sola dall’Unione Europea, è il paese più fragile e meno adatto a reggere l’urto. Lo afferma nientemeno che la Goldman Sachs, preoccupata che la situazione possa condizionare le elezioni politiche del maggio 2018. Lo riferisce “Zero Hedge”, in un post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”. Il Belpaese, secondo la grande banca speculativa di Wall Street, è in crisi economica e sociale, nonché alle prese con politiche inefficaci. Come la Spagna e l’Ungheria, afferma la Goldman, l’Italia ha un altissimo tasso di disoccupazione, tale da tendere impossibile l’integrazione economica dei nuovi arrivati, verso i quali si starebbe intesificando una certa insofferenza sociale, anche a fronte delle politiche per l’immigrazione, giudicate inefficienti.
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Difendersi lontano da casa: la Russia investe sulla marina
Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portarei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.La Russia sta perfezionando una nuova “dottrina strategica” per le sue forze navali. Il documento della marina – scrive Iacch – afferma che le flotte russe dovranno «essere in grado di impedire qualsiasi pressione e aggressione contro la Russia ed i suoi alleati sia lungo le rotte oceaniche che marittime, e di schierare truppe nelle zone più remote». In caso di guerra, la marina «dovrà essere in grado di infliggere danni inaccettabili a un avversario allo scopo di costringerlo a porre fine alle ostilità». La flotta di Mosca sfrutterà il potenziale tecnologico in suo possesso, «comprese le armi di precisione a lungo raggio». Il contenuto del progetto del 2015 corrisponde a una ripresa della pianificazione strategica, forte anche di una crescita economica sostanziale, in settori chiave della politica nazionale ed estera. Da rilevare, aggiunge l’analista, che nel 2010 la Russia ha avviato un ambizioso piano di riarmo, ancora in corso, che si dovrebbe concludere nel 2020. Il nuovo documento definisce i compiti fondamentali della marina per la prevenzione dei conflitti e la dissuasione strategica, al fine di «valutare costantemente e prevedere la situazione militare e politica, mantenendo le forze navali pronte contro qualsiasi potenziale nemico».«Gran parte delle minacce militari alla Russia provengono dall’Occidente», scrive Iacch, «in particolare nei pressi del Mar Nero e del Mar Mediterraneo». La regione artica è individuata come un’area in cui, afermano i russi, «il conflitto militare potrebbe diventare probabile in futuro». L’Oceano Indiano, l’Antartide e parte del Pacifico ricevono meno attenzione. Il documento strategico, sottolinea l’analista, si concentra sulla protezione delle aree costiere territoriali e sull’Artico: «E’ quindi corretto affermare che la nuova dottrina non persegue la proiezione di potenza globale come obiettivo primario, ma si concentra sugli interessi russi su una doppia flotta composta dalle grandi unità ereditate dall’Unione Sovietica e da piccole e moderne navi equipaggiate con missili a lungo raggio». Fondamentale, anche sotto questo aspetto, il significato dell’Artico: «Dal dicembre del 2012, Mosca ha avviato un’attività sistematica volta a rafforzare la propria presenza militare nella regione. Qualsiasi scenario strategico riguarderà l’Artico (considerato il principale settore strategico aerospaziale), dal momento che è il percorso di volo più breve tra Usa e Russia».La militarizzazione dell’Artico, con la costruzione di nuove basi o il riutilizzo dei vecchi impianti sovietici, «rimarrà una delle priorità della leadership russa nei prossimi anni», mentre il riscaldamento della calotta polare «rivelerà grandi risorse naturali non ancora sfruttate». Si calcola infatti che il fondo marino dell’Artico custodisca il 15% del petrolio rimanente del mondo, fino al 30% dei suoi giacimenti di gas naturale e circa il 20% del suo gas naturale liquefatto. «A causa del fenomeno dell’amplificazione artica – continua Iacch – la regione si surriscalda in tempi molto più brevi rispetto a quanto avviene in qualsiasi altra parte del globo. La scomparsa del ghiaccio marino è stimata al 2030, con rotte del Mare del Nord che diverranno percorribili per nove mesi all’anno». Ciò si traduce in una riduzione del tempo di viaggio, pari al 60%, tra Europa ed Asia orientale rispetto a quelle attuali attraverso Panama ed il Canale di Suez. La Russia è in vantaggio: «Dispone attualmente di una flotta di 40 rompighiaccio in servizio attivo mentre 11 sono in produzione».Mosca ha appena varato la nuovissima nave rompighiaccio a propulsione Arktika, la più potente al mondo (classe Lk-60Ya, Progetto 22.220). «Con i suoi 567 piedi di lunghezza ed un dislocamento di 33.500 tonnellate, l’Arktika può spezzare lastre di ghiaccio spesse tre metri». Negli ultimi trent’anni, aggiunge Iacch, Mosca ha semplicemente investito maggiori risorse finanziarie nella regione rispetto a qualsiasi altra nazione. «Sarebbe corretto rilevare che, attualmente, la flotta rompighiaccio russa è in grado di creare, incontrastata, nuove rotte commerciali nella regione artica». Ben diversa la situazione degli Usa: «I due cantieri che costruivano le rompighiaccio per gli Stati Uniti sono chiusi». Sicché, «il gap tra Russia e Stati Uniti è stimato in almeno dieci anni, a causa della miopia delle precedenti amministrazioni che hanno concentrato le principali risorse verso il Medio Oriente».Sono tre, riassume Iacch, le potenziali minacce specifiche per la Russia elencate nel documento della marina. La prima, spaventosa, «prevede un crollo improvviso della situazione politico-militare che porterà all’uso della forza militare nelle aree marittime che hanno un interesse strategico per la Russia». La seconda prescrive «lo schieramento di armi strategiche non nucleari di precisione e difese missilistiche nei territori e nelle zone marittime adiacenti alla Russia». La terza, infine, prevede «l’uso della forza militare da parte di altri Stati per minacciare gli interessi nazionali russi». Oltre all’Artico, la dottrina sottolinea l’importanza di proteggere l’accesso alle risorse energetiche del Medio Oriente e del Mar Caspio. C’è preoccupazione per l’impatto negativo dei conflitti regionali in Medio Oriente, Asia meridionale ed Africa, incluso il pericolo causato dalla crescita della pirateria nel Golfo di Guinea e negli oceani Indiano e Pacifico. «Il rafforzamento della flotta del Mar Nero e delle forze russe in Crimea, nonché il mantenimento di una presenza navale costante nel Mediterraneo, sono individuate come le priorità geografiche più critiche per il futuro sviluppo della marina russa».«La Russia – affermano gli strateghi moscoviti – dovrà rafforzare ulteriormente la capacità di proiezione con missili convenzionali e nucleari. Inoltre cercherà di migliorare la sostenibilità delle sue forze navali al fine di assicurare la presenza continua in regioni marittime strategicamente importanti, indipendentemente dalla distanza dalle basi». In caso di guerra, la dottrina rileva che la marina russa «dovrà essere in grado di difendere se stessa e il territorio da avversari equipaggiati con sistemi d’arma ad alta precisione». La leadership di Mosca, sottolinea Iacch, continua ad essere particolarmente preoccupata dal “Prompt Global Strike” americano, ritenuto «una minaccia diretta alla sicurezza internazionale e alla Russia». Nella dottrina di riferimento si rileva che la marina «è uno strumento potenzialmente efficace per dissuadere tali attacchi convenzionali di precisione di portata globale». L’efficacia della marina «dovrà essere strutturata su una combinazione di prontezza, capacità e persistenza: utilizzando le armi convenzionali a lungo raggio ad elevata precisione, la marina russa può minacciare bersagli militari dal mare».Secondo questa dottrina, la nuova capacità delle sue flotte consentirà alla Russia di dissuadere il ricorso all’asset “Prompt Global Strike”. Al fine di svolgere questa missione, la marina «dovrà costruire sottomarini nucleari e convenzionali multifunzionali, navi da combattimento, una potente aeronautica navale e sistemi di difesa costiera a lungo raggio», spiega Iacch. La marina militare russa, sostengono i suoi ammiragli, «è uno degli strumenti più efficaci per il contenimento strategico: le future armi di precisione dovranno essere in grado di distruggere il potenziale militare ed economico di un nemico colpendo le sue strutture vitali dal mare». La dottrina rileva che nel 2025 l’armamento convenzionale principale della marina russa sarà costituito da missili da crociera ad alta precisione a lungo raggio, integrati con missili ipersonici e vari sistemi automatizzati come i droni subacquei. In ogni caso, rileva Iacch, le ambizioni globali lasciano il posto al controllo delle aree territoriali russe e alla natura essenzialmente difensiva delle missioni. Le aree strategiche – Mediterraneo, Baltico, Caspio, Mar Nero e Artico – non richiedono una grande flotta. Di conseguenza, le forze navali russe «dovrebbero essere sufficienti per le finalità descritte nella dottrina navale».Una nuova marina militare, capace di neutralizzare la minaccia Usa rappresentata dal “Prompt Global Strike”, sistema d’arma convenzionale (in fase di sviluppo) in grado di mettere Washington nella possibilità di colpire obiettivi in tutto il mondo in meno di un’ora, con precisione micidiale, attraverso asset ipersonici rivolti contro la deterrenza nucleare russa. La risposta di Mosca: sviluppare la flotta con potenti navi leggere per avvicinare i missili all’attaccante e scoraggiare il “Prompt Global Strike”, pensando innanzitutto a proteggere le coste da cui dipende la sicurezza russa. L’altro grande obiettivo strategico del futuro è l’Artico, sul quale la marina della Russia – la seconda forza navale più potente al mondo – è in netto vantaggio. Questa l’analisi che, sul “Giornale”, Franco Iacch propone, presentando i nuovi piani che la marina russa ha presentato a Putin. Punto di forza, il nuovissimo “vettore portaerei leggero” classe Shtorm, a propulsione nucleare, capace di trasportare 40 velivoli. Le nuove mini-portaerei si affiancheranno alla gigantesca Admiral Kuznetsov, risalente agli anni ‘80, tuttora l’unica portaerei al mondo in grado di operare nell’Artico, oggi destinata a tre anni di cantiere per ammodernamenti, dopo le 420 missioni compiute in Siria, centrando oltre 1.250 obiettivi dell’Isis.
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Violenza-spettacolo, le amnesie dei media e le regie occulte
Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinadole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esperazione.«Giornalisti bugiardi e cialtroni: ne caccerei nove su dieci», ebbe a dire recentemente un reporter di razza come lo statunitense Seymour Hersh, Premio Pulitzer. La sua tesi: se la stampa non avesse abdicato al suo ruolo, rinunciando a fare il proprio dovere, in questi ultimi decenni avremmo avuto meno vittime. Meno abusi e meno stragi, meno guerre, meno terrorismi opachi. E forse, costringendo politici e governi a dire la verità, qualche oscuro mandante sarebbe stato costretto a venire allo scoperto. I grandi media sono ormai “Presstitutes”: così li chiama Paul Craig Roberts, liberale, già viceministro di Reagan. Non sono più veri mass media, ma strumenti orwelliani di propaganda, megafoni di un regime finanziario unificato, proprietario universale dell’editoria cartacea e radiotelevisiva che ha trasformato l’informazione in gossip, in politica-marketing e tifoseria da stadio contro nemici apparenti come la Russia di Putin, o fabbricati a tavolino come i tagliagole-kamikaze dell’Isis. E’ tutto spettacolo, soltanto spettacolo – senza mai analisi, spiegazioni, memoria storica, retroscena e denunce argomentate, al punto da spingere milioni di utenti a spegnere il televisore cercando rifugio nella galassia magmatica del web, alla ricerca affannosa di informazioni e ricostruzioni (attendibili, o almeno plausibili) su qualsiasi guaio contemporaneo, dall’euro alle scie chimiche, dalle guerre ai vaccini obbligatori.Lo spettacolo, oggi, è quello della violenza imposta dagli uomini neri che Madrid ha spedito a Barcellona? Ieri era quello della Troika euro-tedesca impegnata a gambizzare un altro popolo alle prese con un referendum, quello greco. Quando i primi NoTav si agitavano in corteo nella loro valle di Susa, appena dopo il duemila, non immaginavano neppure lontanamente la reale geografia della partita in corso: ancora non era arrivato Mario Monti a usare il manganello (finanziario) contro gli italiani. In Francia, il pallido François Hollande era riuscito a conquistare l’Eliseo promettendo la fine del rigore imposto da Berlino? E’ stato “sistemato” a colpi di attentati, insieme ai francesi: che adesso si godono Macron, l’omino-Rothschild confezionato in vitro direttamente dalle officine supermassoniche cui sovrintendono personaggi come Jacques Attali, il finto-socialista che spinse a destra la politica di Mitterrand, nel segno euro-imperiale dell’ordoliberismo da cui è appena scappata la Gran Bretagna votando la Brexit. E’ tutto spettacolo, quello che va in televisione: e se ci va, è sempre bene chiedersi perché. Secondo un analista indipendente come Federico Dezzani, a manipolare la Catalogna indipendentista sarebbero gli stessi super-poteri oligarchici che orchestrarono il crollo della Prima Repubblica in Italia, corrotta ma ancora relativamente sovrana, ostile al falso europeismo neo-feudale degli oligarchi interessati a smantellare l’economia della penisola, aprendo la stagione della crisi infinita.La polizia che malmena gli inermi non è mai un bello spettacolo, e a Madrid non potevano non saperlo. Non poteva non sapere, il debolissimo governo Rajoy, che l’intera Europa avrebbe simpatizzato, in diretta televisiva, con gli abitanti di Barcellona. Ha ragione Dezzani: non può essere a Madrid, la vera regia di questa pagina imbarazzante, con troppo sangue e troppe ossa rotte. Forse non è nemmeno a Marsiglia, dove – in contemporanea – le forze di sicurezza francesi hanno abbattuto a pallettoni, tanto per cambiare, l’ennesimo presunto jihadista accoltellatore, destinato come tutti gli altri a non parlare più. La regia dell’orrore non è nemeno a Nizza, dove la polizia locale (un po’ come i Mossos catalani) si rifiutò di obbedire agli ordini di Parigi, quando il ministro dell’interno le impose di distruggere i filmati delle telecamere che avevano ripreso la strage del 14 luglio sulla Promenade des Anglais. Una parte di questa ipotetica regia probabilmente risiede proprio a Parigi, dove – dopo il non-suicidio di un valente commissario – il governo silenziò e chiuse le indagini su Charlie Hebdo con l’imposizione del segreto di Stato (segreto militare), togliendo il dossier al coraggioso magistrato che aveva scoperto una strana triangolazione per la fornitura delle armi al commando stragista, Kalashnikov slovacchi giunti in Francia via Belgio attraverso un uomo della Dgse, il servizio segreto parigino.Se tutto è spettacolo, in televisione, manca sempre il vero mandante, perché sfugge regolarmente il movente. Era di quello che si occupava il giudice italiano Gabriele Chelazzi, stranamente morto dopo aver scritto una lettera di protesta alla Procura di Firenze, che accusava di averlo lasciato solo, senza uomini e mezzi. Lo racconta un super-poliziotto, Michele Giuttari, che fece condannare i “compagni di merende”. Prima del Mostro di Firenze (la cui vera storia si è rassegnato a scriverla nei suoi romanzi), Giuttari aveva sgominato – con Chelazzi – la gang di Cosa Nostra impegnata a realizzare gli attentati dinamitardi di Milano, Firenze e Roma. Un’indagine record, con decine di mafiosi in manette. Per ordine di chi avevano agito? Totò Riina, Leoluca Baragarella. D’accordo, si domanda Giuttari: ma chi aveva ordinato a Riina e Bagarella di piazzare ordigni fuori dalla Sicilia? E per quale oscuro motivo? Per una ragione formidabile e al tempo stesso indicibile: terremotare l’Italia e renderla fragile, mentre i poteri forti organizzavano la tagliola fatale del Trattato di Maastricht, l’inizio della fine delle economie prospere e sovrane. A dirlo non è Giuttari ma Dezzani, lo studioso che ora accusa i politci catalani di essersi fatti strumento di quegli stessi poteri oligarchici che – c’è da giurarci – spingeranno il vento nelle vele degli autonomisti lombardi e veneti al referendum del 22 ottobre, sperando di veder presto anche l’Italia sbriciolarsi, come la Spagna, per meglio dominare, finanziariamente, un popolo ormai ipnotizzato dalla televisione.Inorridisce giustamente, l’italiano medio, di fronte alla brutalità della polizia spagnola che a Barcellona prende a calci i giovani inermi finiti a terra, maltratta le donne tirandole per i capelli, rompe nasi e spezza braccia, spara nel mucchio proiettili di gomma ad altezza uomo, spintona e strattona persino le nonne, trascinandole via come pericolose terroriste. Inorridisce, ma senza chiedersi come mai tanta violenza di Stato venga esibita di colpo a reti unificate. E si domanda invece, giustamente, per quale motivo il governo democratico di Madrid non si vergogni nemmeno un po’ dello spettacolo barbarico dei suoi agenti antisommossa, i robocop neri a cui è stato semplicemente ordinato di picchiare senza riguardi, di pestare gente con le mani alzate, di spedire all’ospedale cittadini, popolo, anziani. Sono le domande naturali, ovvie, che assillano e disturbano lo spettatore neutrale, estraneo ai fatti, turbato dalla violenza andata in scena a Barcellona. Quegli interrogativi se li pongono anche gli addetti all’informazione ospiti dei talkshow. Ma, attenzione: sono gli stessi giornalisti mainstream che si guardarono bene dal fiatare quando a prendere a calci i cittadini – italiani – erano le forze antisommossa spedite dal governo di Roma in valle di Susa col medesimo ordine: mandare all’ospedale la gente che aveva osato protestare, presidiare spazi e invocare giustizia, molto prima che la battaglia NoTav venisse inquinata dalle derive rabbiose nate dall’esasperazione.
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Quando Barcellona sfidò i carnefici, in nome della libertà
Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.All’inizio del ‘200, Barcellona era la capitale del vasto Regno d’Aragona: oltre alla Catalogna includeva la valle dell’Ebro, Saragozza, i Pirenei. Scese in campo per difendere la città alleata, Tolosa, che aveva osato sfidare l’autorità del Papa nell’ostinarsi a non perseguitare l’eresia dei Catari, diffusasi in Linguadoca. All’epoca, insieme alla Catalogna e all’Italia dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, la Languedoc era fra i territori più avanzati d’Europa, sul piano economico e sociale. Fioriva nelle corti la rivoluzione letteraria dei trovatori provenzali, che per la prima volta cantavano la libertà dell’amore laico. La contea estendeva il suo controllo dal Mediterraneo all’Atlantico; tollerava i villaggi musulmani, faceva gestire i conti pubblici dagli ebrei sefarditi provenienti dall’Andalusia. Ma peggio: accettava che, nelle chiese, i predicatori catari disputassero apertamente di religione con i sacerdoti cattolici. La misura fu colma, per Roma, quando l’aristocrazia occitanica cominciò a prendere i voti, entrando a far parte della comunità dei “buoni cristiani”, bollati di eresia.Il conte di Tolosa, Raimondo VI, rifiutò di consegnare i religiosi eretici. E quando il pontefice Innocenzo III bandì contro di lui la Crociata Albigese, si preparò a resistere. Il giovane re aragonese Pietro II, celebrato campione della cristianità e sovrano di Barcellona, si decise a soccorrere Tolosa, marciando alla testa dell’armata iberica, dopo il massacro di Béziers, la cittadina rivierasca che si era rifiutata di tradire i Catari, cedendoli ai crociati che li avrebbero arsi vivi. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», è la celebre frase che si racconta sia stata pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della guerra di religione, per esortare i crociati a sterminare gli abitanti di Béziers. Tanto bastò a Barcellona per rompere gli indugi e scendere in campo a Muret, al fianco di Tolosa. Ma persero, i catalani: “Combattevano uno a uno, come in un torneo”, racconta la Canzone della Crociata Albigese. Il poema cavalleresco, pur composto da cattolici, riconosce la nobiltà degli sconfitti, decisi a ingaggiare un combattimento leale, secondo l’antica regola del “paratge”, il codice d’onore dell’antica cavalleria occitano-catalana.Morì in battaglia anche Pietro II, eroicamente. Quella, dice la Weil, fu l’ultima apparizione del “paratge”, in Europa. Un caso? Forse no: Barcellona e Tolosa (cioè mezza Francia più mezza Spagna) avrebbero potuto dare vita allo Stato europeo di gran lunga più evoluto, liberale e avanzato, il più ricco e prospero, quello con più avvenire davanti a sé. E forse, si interrogano alcuni storici, non è un caso neppure la strana, rigidissima “damnatio memorie” imposta alla stessa eresia cristiano-dualistica del Catarismo, impugnata come pretesto per radere al suolo il Sud-Ovest della futura Francia: una devastazione catastrofica, nel corso di vent’anni di guerra, seguita da settant’anni di spietate persecuzioni a tappeto affidate all’Inquisizione. Faceva paura, l’aristocrazia pirenaica: aveva sposato, con mezzo millennio di anticipo, il motto “libera Chiesa in libero Stato”. L’incendio libertario era partito da Tolosa, ma si era estreso a Barcellona. E quando il conte tolosano fu ridotto al silenzio, e la sua contea declassata a succursale di Parigi mentre la popolazione inerme fuggiva atterrita di fronte ai roghi degli inquisitori, Barcellona ebbe la forza di imporre che, in Catalogna, il tribunale ecclesiastico non potesse emettere condanne a morte.Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.
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Goya: precisa e coerente, così la Russia ha vinto in Siria
Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».E quanto è costato, a Mosca, questo successo? «Risorse piuttosto limitate», sintetizza il colonnello Goya, in un post ripreso da Maurizio Blondet. Si parla di 4-5 mila uomini sul campo e 50-70 aerei, pari a un costo di circa 3 milioni di euro al giorno, ovvero «un quarto o un quinto dello sforzo americano nella regione». Visti i risultati strategici ottenuti, «i russi hanno una “produttività” operativa molto superiore agli americani o ai francesi». Come mai? Anzitutto perché «il dispositivo russo, impegnato massicciamente e di sorpresa, è stato completo fin da subito», senza clamori propagandistici. Insiste Goya: «La Russia ha dispiegato un dispositivo completo e coerente rispetto al raggiungimento di un obiettivo chiaro, ciò che non ha fatto la coalizione pro-ribelli in Siria». Un intervento «pienamente assunto, al contrario della “impronta leggera” americana». E’ diplomatico, il colonnello: non può dire che gli Usa e i loro alleati – turchi e arabi – hanno coordinato e supportato i terroristi Isis schierati contro Assad. I russi invece sono scesi in campo a viso aperto, non limitandosi al ruolo di addestratori dell’esercito siriano. Ed è questo, dice Goya, ad aver «cambiato il dato operativo», in una guerra “a mosaico” come quella siriana.Attorno a Damasco lottano svariate forze, ciascuna con i suoi sponsor e i propri obiettivi. Il che «rende il conflitto insieme complesso e stabile, in quanto le riconfigurazioni politiche spesso annullano i successi militari di una parte». I due sponsor rivali, Stati Uniti e Russia, non hanno alcuna intenzione di affrontarsi direttamente, ed evitano dunque di “incontrarsi”. Di conseguenza, l’occupazione-lampo di un territorio da parte dell’uno impedisce meccanicamente all’altro, davanti al fatto computo, di penetrarvi. «E la strategia del “pedone imprudente” che attraversa una camionabile e obbliga gli automobilisti a fermarsi: una strategia che i sovietici come i russi hanno adottato regolarmente», continua Goya. «Ciò comporta l’assunzione di un rischio. E in Siria, le esitazioni americane hanno ridotto il rischio». Sicché, ha vinto Mosca: «Dal momento in cui i russi hanno piantato apertamente la loro bandiera e occupato lo spazio – specie aereo – in Siria, per gli altri tutto è diventato più complicato. Il dispiegamento di missili S-300 e poi di S-400 ha imposto una zona di esclusione aerea agli Stati Uniti, ostacolati in tal modo su un teatro operativo per la prima volta dalla guerra fredda».Una interdizione dello spazio aereo che non è stata ermetica, riconosce Goya: i turchi hanno abbattuto un bombardiere russo Su-25 a fine novembre 2015, e gli americani hanno attaccato (a tradimento, dal cielo) i soldati regolari siriani assediati a Der Ezzor, violando un accordo coi russi di poche ore prima: hanno ucciso 62 militari, «in pratica facendo da appoggio aereo al coordinato attacco dello Stato Islamico a terra», ricorda Blondet, mentre la marina Usa su ordine del neo-eletto Trump ha lanciato missili da crociera contro la vecchia base di Shayrat (ma, prudentemente, dal mare). E infine l’armata israeliana ha attaccato il 7 settembre il sito di Mesayf (anche qui con cautela, dal cielo libanese). Poi a giugno un caccia americano ha abbattuto un Su-22 siriano «nel primo duello aereo sostenuto dagli americani dal 1999». Per Goya, se questo dimostra «l’incapacità russa di interdire totalmente, politicamente o tatticamente, il cielo», la rarità e la prudenza di questi attacchi «testimoniano che lo spazio aereo è stato comunque dominato dai russi».Da parte loro, nonostante le ripetute minacce, gli americani «hanno esitato a fornire materiale sofisticato alle forze ribelli, come missili anticarro e terra-aria, e ancor meno a impegnare apertamente loro proprie unità di combattimento». Insomma, non hanno “osato”. Commenta Goya: «La cosiddetta “impronta leggera” è spesso prova della leggerezza degli obbiettivi politici e della motivazione». Il colonello dettaglia l’impiego della brigata aerea mista russa, con una settantina di velivoli (sui 2.000 dell’aviazione di Mosca) e almeno una unità di artiglieria con lanciarazzi multipli, droni, un aereo di ricognizione elettronica, più diverse compagnie di forze speciali, «la cui missione è l’operazione in profondità e l’intelligence». La brigata aerea ha condotto decine di operazioni combinate, ad un ritmo molto elevato: mille uscite mensili. «Una tecnologia piuttosto antica, con grande uso di bombe non guidate», ha portato ad una bassa percentuale di colpi a bersaglio, rispetto agli standard occidentali, e perdite civili sensibilmente più importanti all’inizio ma poi nettamente diminuite».Nell’insieme, il sito americano “Airwars” stima le vittime civili dei russi «tra le 4.000 e 5.400 in totale», ma «da 5.300 a 8.200 quelle da imputare alla coalizione statunitense, che pure usa una percentuale molto maggiore di munizioni guidate». Le perdite russe sono valutate da 11 a 17, ufficialmente, «ma in realtà tra 36 e 48», secondo Goya; perdite «comunque molto basse rispetto alla portata delle operazioni». In più, Mosca non ha impegnato direttamente forze terrestri: si è limitata a un battaglione della fanteria di marina rafforzato da una piccola compagnia di tank T-90, una batteria di artiglieria con 15 lanciagranate multipli e 40 veicoli da combattimento», tra cui i nuovissimi tank Bmpt-72 “Terminator”, coordinati con sistemi satellitari per sincronizzare l’azione di uomini e mezzi. Una forza, quella russa, utilizzata però principalmente «per la protezione delle basi navali di Tartus e Hmeimim». Gli aspetti tecnico-militari, osserva Blondet, non devono far dimenticare il profilo politico intelligentemente adottato dai russi, come sottolinea il colonnello Goya: «La principale novità del dispositivo russo è stata, nel febbraio 2016, la creazione di un Centro di Riconciliazione volto alla diplomazia di guerra, la protezione del trasporto dei combattenti [nemici che si dichiarano sconfitti] e con le autorità civili, Ong e Nazioni Unite, l’aiuto alla popolazione».Questo Centro di Riconciliazione è anche, chiaramente, un organo di raccolta d’intelligence per le forze russe, «ma implica l’ammissione che la fine più ovvia di un conflitto è il negoziato e non la distruzione totale del nemico», osserva Goya, secondo il quale «con mezzi limitati, la Russia ha almeno per ora ottenuto risultati strategici importanti, e comunque molto superiori a quelli delle potenze occidentali, innanzitutto gli Stati Uniti ma anche la Francia, i cui effetti strategici in Siria non sono nemmeno misurabili». Questo, per il colonnello, è dovuto principalmente «a una visione politica evidentemente più chiara e ad un’azione più coerente, con una presa di rischio operativa e tattica che gli Stati Uniti o la Francia non hanno osato». La stessa presenza dei russi in prima linea, se ha causato perdite di vite umane, col suo effetto deterrente sugli attori locali, ne ha anche risparmiate, permettendo lo sblocco rapido delle situazioni tattiche congelate. «E con l’accettazione dei negoziati, gli sviluppi sono stati più rapidi a favore del regime di Damasco rispetto ai quattro anni precedenti, dimostrando ancora una volta che si ottengono più risultati attraverso azioni coerenti sul terreno che azioni da lunga distanza e senza obiettivi chiari».Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».
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Catalogna? Dezzani: tremo per l’Italia, il Nord-Est scapperà
Come in Catalogna, così in Lombardia e Veneto: secessione? Dopo le aspirazioni di Barcellona, ecco i due referendum per l’autonomia regionale che si terranno il 22 ottobre nel lombardo-veneto: tra Milano e Venezia sarebbero in azione «gli stessi poteri che sferrarono l’assalto del 1992-1993», poteri stranieri «che hanno oggi condotto l’Italia al default e mirano a smembrare il paese». Lo afferma un analista geopolitico indipendente come Federico Dezzani, che attribuisce a potenze extra-italiane la vera regia del crollo della Prima Repubblica, con il ciclone Mani Pulite ma anche gli attentati terroristici eseguiti da Cosa Nostra tra Roma, Milano e Firenze, senza contare le stragi costate la vita a Falcone e Borsellino. «L’Italia deve osservare da vicino quanto accade in Spagna e prepararsi al peggio», ammonisce Dezzani. «Nell’autunno del 2017 è ufficialmente subentrata la penultima fase dell’eurocrisi: sovraccaricata l’Europa meridionale di tensioni economiche-sociali e portato l’indebitamento pubblico a livello critico grazie alla moneta unica, si fomentano le spinte secessionistiche in seno ai membri più deboli, in vista di un default più o meno ordinato e lo smembramento dei medesimi».
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Un milione gli Ufo finora avvistati. Perché gli Usa tacciono
Sui grandi media non se ne parla mai, ma sono un milione gli Ufo avvistati nel mondo, negli ultimi 70 anni. E almeno il 20% degli avvistamenti – quindi, non meno di 200.000 – sono stati “validati” dall’intelligence militare di decine di paesi. Lo rivela il sociologo Roberto Pinotti, storico leader del Cun, Centro ufologico nazionale, riconosciuto dall’aeronautica militare. «Una realtà che il potere ufficiale continua a non ammettere, benché ne sia perfettamente a conoscenza». Il perché di questo decennale, imbarazzato silenzio? «Semplice: chi oggi detiene la leadership, nel mondo, dovrebbe ammettere la propria catastrofica inferiorità tecnologica di fronte a esseri infinitamente superiori», sostiene Pinotti in una recente conferenza, ripresa da “YouTube”. «Tutti sanno che gli alieni ci stanno monitorando», aggiunge. «Se avessero cattive intenzioni, avrebbero già annientato l’umanità». Si metteranno “ufficialmente” in contatto con noi? «Ma con chi potrebbero parlare? Con gli Usa, sempre in guerra col resto del mondo? Con i russi, i cinesi, gli indiani, gli europei? Meno improbabile, semmai, un contatto con autorità morali: il Dalai Lama non ha escluso questa eventualità, e la stessa Chiesa cattolica attribuisce un’importanza strategica al modernissimo osservatorio astronomico della Specola Vaticana di Mount Graham, in Arizona».“Res Inexplicata Volans”, è la definizione – in latino – con cui gli stimatissimi scienziati di Mount Graham, gesuiti, definiscono astronavi e dischi volanti. Fenomeno la cui osservazione ufficialmente documentata risale al 1947. Da allora, se ne sono occupati ininterrottamente i maggiori esperti militari, dall’aviazione statunitense fino alla Royal Air Force britannica, incluso il Kgb sovietico: «Proprio da Mosca, dopo il crollo dell’Urss – aggiunge Pinotti – abbiamo avuto accesso una mole veramente enorme di materiale top secret». Attualmente si contano oltre 12.000 dossier ufficiali dei militari statunitensi, mentre sono 1.700 quelli che la Francia ha raccolto dal 1977. La media si equivale ovunque: oltre il 20% degli avvistamenti resta puntualmente “inspiegato”. Sono circa 500, poi, i casi «tuttora senza una spiegazione certa», registrati in Italia dal Reparto Generale Sicurezza dell’aeronautica militare, istituito da Giulio Andreotti dopo i 2.000 avvistamenti sulla penisola verificatisi nel biennio 1978-79. Lo stesso Centro ufologico nazionale ha agli atti oltre 12.000 rapporti. «Nessuno ormai osa più dire che il fenomeno non è reale», conferma il Cun. Pinotti, già ufficiale dell’aeronautica nonché saggista di successo e giornalista aerospaziale, dispone di un archivio di oltre 8.000 fotografie. Tutte autentiche? Le falsificazioni accertate, assicura, non superano il 10%.Vladimiro Bibolotti, attuale presidente del Cun, sul “Fatto Quotidiano” ricorda che il 24 giugno 1947, esattamente 70 anni fa, il pilota civile americano Kenneth Arnold, mentre volava nei pressi del Monte Rainier nello Stato di Washington avvistò «una formazione di 9 oggetti volanti in fila indiana che sembravano saltellare come piattini sull’acqua». Oltre alla elevata velocità, quegli oggetti «avevano una forma particolare, semicircolare “come il tacco di una scarpa”». Ma per i giornalisti dell’epoca, attirò di più la versione di “piattini volanti”: quella colorita definizione, “flying saucer”, era destinata a diventare famosa, trasformandosi poi in “flying disc”. Solo tra il 1952 e il 1953 l’oggetto volante diventò Ufo, “Unidentified flying object”. La notizia dell’avvistamento, continua Bibolotti, non fu subito presa in seria considerazione, fino a quando – pochi giorni dopo – alcuni piloti militari avvistarono anche loro degli oggetti volanti comparabili con quelli osservati da Kenneth Arnold. Durante l’estate del ‘47 «furono moltissimi gli avvistamenti segnalati in ogni parte del territorio degli Stati Uniti, e cosa poco nota, furono scattate molte fotografie proprio da piloti militari». Così, anche grazie ai media, era nata l’ufologia.Già antiche cronache latine e medioevali, aggiunge il presidente del Cun, troviamo fenomeni celesti molto curiosi, dalle descrizioni simili e assimilabili alle moderne segnalazioni di fenomeni Ufo. E durante la Seconda Guerra Mondiale comparvero i cosiddetti “Foo Fighters”, «che volavano impunemente in mezzo alle formazioni degli alleati o dell’asse». Tuttavia, l’avvistamento del 24 giugno 1947 è considerato convenzionalmente come il “primo”. A distanza di 70 anni, il fenomeno Ufo continua ad appassionare. Come ebbe a dire un decennio fa l’allora presidente dell’Unione giornalisti aerospaziali italiani, il compianto Cesare Falessi: «Gli Ufo? Certo che esistono! Se per assurdo così non fosse, il vero scoop sarebbe scoprire in virtù di quale incredibile prodigio una questione inesistente continua a rimbalzare tuttora sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, a distanza di sei decenni». Oggi, a dieci anni dalla scomparsa di Falessi, dopo che il fenomeno è stato a lungo negato dalle autorità, «si scopre che invece le varie agenzie governative, non ultima la Cia, investigarono meticolosamente e con un ingente budget a disposizione».A conferma di ciò, continua Bubolotti, c’è da poco stato il rilascio di ben 800.000 dossier, con oltre un milione di pagine a testimonianza dell’interesse per quelle manifestazioni tecnologiche così inconsuete. Come disse il presidente americano Harry Truman in una conferenza stampa televisiva per tranquillizzare l’opinione pubblica americana dopo il famoso sorvolo nel 1952 di alcuni oggetti sopra la Casa Bianca, «se mai tali oggetti fossero reali, non sarebbero stati costruiti da nessuna nazione della Terra». C’è chi ha trasformato questa ricerca «in atti di fanatismo religioso, minando la credibilità stessa del fenomeno», al pari degli scettici «che non hanno mai letto dossier di fonte militare», accusa il presidente del Cun. Depistatori, che hanno trasformato il tutto «in cattive interpretazioni di percezione o allucinazioni, dimenticando che persino noti astronomi d fama mondiale come Clyde Tombaugh, scopritore di Plutone, nonché piloti militari, scienziati e premi Nobel sono stati testimoni di avvistamenti di oggetti la cui natura tecnologica e intelligente esula dalle nostre capacità costruttive». Conferma il grande astrofisico Stephen Hawking: «Non siamo soli, nell’universo».A settant’anni dall’avvistamento di Kenneth Arnold, però, rimane ancora il ragionevole dubbio e il mistero che tali oggetti ci lasciano, sia come manifestazione tecnologica, sia come fenomeno sociologico che investe l’intera umanità, coclude Bubolotti. «Evidentemente, la vastità dell’universo e le nuove scoperte ci avvicinano a nuove prospettive e conoscenze paragonabili alla rivoluzione copernicana che scardinò l’idea che la Terra fosse al centro dell’universo». Forse, lo studio e la verifica della realtà degli “oggetti volanti non identificati”, «fenomeno oggettivamente non misurabile convenzionalmente, nonostante tracciati radar e filmati militari», alla fine «sconfesserebbe il modus operandi di scettici che, senza aver mai studiato carte e documenti, lapidariamente hanno liquidato la questione come inesistente». Storici precedenti smentiscono i negazionisti: è il caso delle meteoriti che «solamente nel 1794, dopo la caduta di molti esemplari a Siena, furono accettate come fenomeno reale, nonostante oltre 5.000 anni di osservazioni astronomiche».Roberto Pinotti è ancora più drastico: imputa agli Usa l’imposizione del “grande silenzio” sulla materia, perché «la superpotenza, in quanto tale, è quella che averebbe più da perdere, di fronte all’ammissione dell’esistenza di entità ben più potenti». Anche per questo, aggiunge, proprio gli Usa – tramite la fantascienza di Hollywood e le produzioni televisive appositamente finanziate – ha cercato di manipolare l’immaginario collettivo: un po’ per mettere gli Ufo in burletta, e un po’ per cominciare ad abituare la popolazione all’idea che, un bel giorno, l’evento destinato a terremotare la coscienza dell’umanità potrebbe davvero accadere, «come i militari sanno benissimo, dato che – anche in Italia – compilano accurati dossier», in parte trasferiti allo stesso Cun, redatti con precisione impressionante: caratteristiche del veicolo osservato, dimensioni, luminosità, rumore, tipo di volo. C’è di tutto, compresa la descrizione minuziosa di atterraggi. «Cito da fonte precisa, militare: membri dell’equipaggio, due. Altezza: un metro e trenta. Abbigliamento: tuta azzurra e casco bianco, con antenne».Sui grandi media non se ne parla mai, ma sono un milione gli Ufo avvistati nel mondo, negli ultimi 70 anni. E almeno il 20% degli avvistamenti – quindi, non meno di 200.000 – sono stati “validati” dall’intelligence militare di decine di paesi. Lo rivela il sociologo Roberto Pinotti, storico leader del Cun, Centro ufologico nazionale, riconosciuto dall’aeronautica militare. «Una realtà che il potere ufficiale continua a non ammettere, benché ne sia perfettamente a conoscenza». Il perché di questo decennale, imbarazzato silenzio? «Semplice: chi oggi detiene la leadership, nel mondo, dovrebbe ammettere la propria catastrofica inferiorità tecnologica di fronte a esseri infinitamente superiori», sostiene Pinotti in una recente conferenza, ripresa su “YouTube”. «Tutti sanno che gli alieni ci stanno monitorando», aggiunge. «Se avessero cattive intenzioni, avrebbero già annientato l’umanità». Si metteranno “ufficialmente” in contatto con noi? «Ma con chi potrebbero parlare? Con gli Usa, sempre in guerra col resto del mondo? Con i russi, i cinesi, gli indiani, gli europei? Meno improbabile, semmai, un contatto con autorità morali: il Dalai Lama non ha escluso questa eventualità, e la stessa Chiesa cattolica attribuisce un’importanza strategica al modernissimo osservatorio astronomico della Specola Vaticana di Mount Graham, in Arizona».