Archivio del Tag ‘guerra’
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Magaldi: se gli Usa concedessero la grazia a Julian Assange
«Gli Stati Uniti concedano la grazia a Julian Assange, vittima di una vera e propria persecuzione». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, interviene sul caso del giornalista australiano, creatore di WikiLeaks tuttora in carcere nel Regno Unito, in attesa di essere estradato negli Usa. «Se le rivelazioni di WikiLeaks sulle nefandezze commesse dal potere militare non hanno causato vittime – precisa Magaldi, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – sarebbe bene che le autorità statunitensi mettessero fine a questa tormentata vicenda, graziando Assange». Secondo Magaldi, va comunque tenuto conto che i “leaks” diffusi da Assange potrebbero aver messo in pericolo operatori dell’intelligence, svelandone l’identità. «Inoltre – aggiunge Magaldi – la denuncia di Assange si è concentrata esclusivamente sugli Usa, ignorando le analoghe scorrettezze commesse da paesi come la Russia e la Cina: di questo, dovrebbe essere lo stesso Assange a scusarsi pubblicamente». Oltretutto, «solo un’assoluta imparzialità rende più autorevole la fonte, che viceversa potrebbe essere accusata di aver fatto il gioco di qualcuno».Tutto questo, ribadisce Magaldi, «nulla toglie alla grandezza dell’opera di Assange, che ha disvelato, all’opinione pubblica occidentale, l’incorenza di chi si ammanta della retorica democratica». Meglio ancora sarebbe stato se Assange avesse prodotto analoghe rivelazioni «su chi non tenta neppure di apparire rispettoso dei diritti e dei valori della democrazia». Tra i più accesi difensori di Assange, un reporter di razza come Paolo Barnard, un anno fa sistematosi sotto le finestre dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per reclamarne la liberazione. Al momento del primo arresto, anche Barnard aveva manifestato riserve: mettere in piazza nomi e cognomi, inclusi quelli di tanti 007, può mettere in serio pericolo operatori “coperti”, impegnati sul terreno e non per forza coinvolti in operazioni inaccettabili. Poi però, di fronte alla clamorosa persecuzione riservata ad Assange – con casi giudiziari costruiti a tavolino – Barnard ha cambiato posizione: picchiare duro su Assange, ormai è chiaro, serve a minacciare indirettamente tutti i giornalisti che fossero intenzionati a fare il loro mestiere onestamente.«Colpirne uno per educarne cento», sintetizza Massimo Mazzucco, in web-streaming con Giulietto Chiesa su “Contro Tv”. «Il messaggio è chiaro: guai a chi prova a mettersi di traverso». Mazzucco e Chiesa prendono nota: gli Usa non esitano ad assassinare il numero due dell’Iran, Qasem Soleimani, poi tacciono sui raid arei di Israele in Siria (che hanno costretto un volo civile a un atterraggio d’emergenza) e applaudono – a Camere riunite – il presidente Trump che presenta come «unico e vero presidente legittimo del Venezuela» l’oscuro Juan Guaidò. «E’ stato il loro “uomo di paglia” scelto per rovesciare Maduro. Non ha funzionato, ma insistono ugualmente: tutti devono sapere che Washington ci riproverà, non tollerando che il suo potere venga sfidato». Quanto ad Assange, la sua sorte sembra segnata. «Un giornalista del “Guardian” – scrisse Barnard, un anno fa – mi ha confidato che l’ordine, in redazione, era di dimenticare Assange e abbandonarlo al suo destino». Oggi, Magaldi (che pure contesta al fondatore di WikiLeaks di non esser stato impeccabile) insiste: meglio sarebbe se si intavolasse un dialogo chiarificatore onesto. E sarebbe un gran gesto, da parte di Trump, concedere la grazia a Julian Assange.«Gli Stati Uniti concedano la grazia a Julian Assange, vittima di una vera e propria persecuzione». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, interviene sul caso del giornalista australiano, creatore di WikiLeaks tuttora in carcere nel Regno Unito, in attesa di essere estradato negli Usa. «Se le rivelazioni di WikiLeaks sulle nefandezze commesse dal potere militare non hanno causato vittime – precisa Magaldi, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – sarebbe bene che le autorità statunitensi mettessero fine a questa tormentata vicenda, graziando Assange». Secondo Magaldi, va comunque tenuto conto che i “leaks” diffusi da Assange potrebbero aver messo in pericolo operatori dell’intelligence, svelandone l’identità. «Inoltre – aggiunge Magaldi – la denuncia di Assange si è concentrata esclusivamente sugli Usa, ignorando le analoghe scorrettezze commesse da paesi come la Russia e la Cina: di questo, dovrebbe essere lo stesso Assange a scusarsi pubblicamente». Oltretutto, «solo un’assoluta imparzialità rende più autorevole la fonte, che viceversa potrebbe essere accusata di aver fatto il gioco di qualcuno».
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L’influenza stagionale uccide 1.000 volte più del coronavirus
Se il coronavirus si rivela grave, poiché al momento non sembra esserlo, molte economie potrebbero essere influenzate negativamente. La Cina è la fonte di molte parti fornite ai produttori di altri paesi e la Cina è la fonte dei prodotti finiti di molte aziende statunitensi come Apple. Se non è possibile effettuare spedizioni, le vendite e la produzione al di fuori della Cina ne risentono. Senza entrate, i dipendenti non possono essere pagati. A differenza della crisi finanziaria del 2008, si tratterebbe di una crisi di disoccupazione e di un fallimento delle grandi società manifatturiere e commerciali. Questo è il pericolo a cui il globalismo ci rende vulnerabili. Se le società statunitensi producessero negli Stati Uniti i prodotti che commercializzano negli Stati Uniti e nel mondo, un’epidemia in Cina influenzerebbe solo le loro vendite cinesi, non minaccerebbe i ricavi delle società. Le persone sconsiderate che hanno costruito il “globalismo” hanno trascurato che l’interdipendenza è pericolosa e può avere enormi conseguenze indesiderate. Con o senza un’epidemia, le forniture possono essere tagliate per una serie di motivi. Ad esempio, scioperi, instabilità politica, catastrofi naturali, sanzioni e altre ostilità come guerre e così via.Chiaramente, questi pericoli per il sistema non sono giustificati dal minor costo del lavoro e dalle conseguenti plusvalenze per gli azionisti e bonus per i dirigenti aziendali. Solo l’uno per cento beneficia del globalismo. Il globalismo è stato costruito da persone motivate dall’avidità a breve termine. Nessuna delle promesse del globalismo è stata mantenuta: il globalismo è un errore enorme. Tuttavia, quasi ovunque i leader politici e gli economisti sono protettivi nei confronti del globalismo. Questo per quanto riguarda l’intelligenza umana. A questo punto, è difficile comprendere l’isteria sul coronavirus e le previsioni della pandemia globale. In Cina ci sono circa 24.000 infezioni e 500 morti in una popolazione di 1,3 miliardi di persone. Questa è una malattia insignificante. Rispetto alla normale influenza stagionale che infetta milioni di persone in tutto il mondo e uccide 600.000, il coronavirus finora non equivale a nulla. Le infezioni al di fuori della Cina sono minuscole e sembrano essere limitate ai cinesi. È difficile sapere con certezza, a causa della riluttanza a identificare le persone per razza. Eppure la Cina ha vaste aree in quarantena e i viaggi da e verso il paese sono limitati.Nulla di simile a queste precauzioni è preso contro l’influenza stagionale. Finora questa stagione influenzale nei soli Stati Uniti 19 milioni di persone sono state ammalate, 180.000 ricoverate in ospedale e 10.000 sono morte. L’ultimo rapporto è che 16 persone negli Stati Uniti (forse tutti cinesi) hanno avuto il coronavirus, e nessuno è morto. Forse il coronavirus si sta appena scaldando e molto peggio deve arrivare. In tal caso, il Pil mondiale subirà un colpo. Le quarantene impediscono il lavoro. I prodotti e le parti finiti non possono essere realizzati e spediti. Le vendite non possono avvenire senza prodotti da vendere. Senza entrate le aziende non possono pagare dipendenti e altre spese. I redditi diminuiscono in tutto il mondo. Le aziende falliscono. Se scoppia una micidiale pandemia di coronavirus o di qualosa’altro e c’è una depressione mondiale, dovremmo essere molto chiari nella nostra mente che il globalismo ne sarà stata la causa. I paesi i cui governi sono così sconsiderati o corrotti da rendere le loro popolazioni vulnerabili a eventi dirompenti all’estero sono instabili dal punto di vista medico, economico, sociale e politico. La conseguenza del globalismo è l’instabilità mondiale.(Paul Craig Roberts, “La conseguenza del globalismo è l’instabilità mondiale”, dal blog di Craig Roberts del 5 febbraio 2020).Se il coronavirus si rivela grave, poiché al momento non sembra esserlo, molte economie potrebbero essere influenzate negativamente. La Cina è la fonte di molte parti fornite ai produttori di altri paesi e la Cina è la fonte dei prodotti finiti di molte aziende statunitensi come Apple. Se non è possibile effettuare spedizioni, le vendite e la produzione al di fuori della Cina ne risentono. Senza entrate, i dipendenti non possono essere pagati. A differenza della crisi finanziaria del 2008, si tratterebbe di una crisi di disoccupazione e di un fallimento delle grandi società manifatturiere e commerciali. Questo è il pericolo a cui il globalismo ci rende vulnerabili. Se le società statunitensi producessero negli Stati Uniti i prodotti che commercializzano negli Stati Uniti e nel mondo, un’epidemia in Cina influenzerebbe solo le loro vendite cinesi, non minaccerebbe i ricavi delle società. Le persone sconsiderate che hanno costruito il “globalismo” hanno trascurato che l’interdipendenza è pericolosa e può avere enormi conseguenze indesiderate. Con o senza un’epidemia, le forniture possono essere tagliate per una serie di motivi. Ad esempio, scioperi, instabilità politica, catastrofi naturali, sanzioni e altre ostilità come guerre e così via.
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Gli eroi di Stalingrado: vinsero la Seconda Guerra Mondiale
Il 2 febbraio di quest’anno è stato il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.“Al di là del Volga non c’è niente!”, era il grido di battaglia sovietico, e non c’era veramente nulla. Ancora oggi, guardando ad est dall’alto della collina di Mamayev Kurgan, è inquietante vedere che, dall’altra parte del grande Volga, l’incarnazione dell’anima russa, non c’è letteralmente niente. Mamayev Kurgan è un monumento ai caduti come nessun altro sulla Terra, perchè è dominato da una dea irata. La statua più gigantesca, impressionante ed inquietante del mondo, Rodina-Mat, la dea madre della Russia, si eleva per quasi 50 metri senza piedistallo, 6 metri più in alto della Statua della Libertà. Pesa 1.000 tonnellate, oltre 15 volte la Statua della Libertà. Ma questo è il meno. A New York, Lady Liberty è tranquilla e serena, ma Rodina-Mat è dinamica e furiosa. Il suo viso bellissimo e sorprendentemente giovanile trasmette shock, rabbia e una furia da incubo. Il braccio di Rodina-Mat non è rilassato e disteso e non porta una torcia come quello di Lady Liberty. È sollevato e regge una spada lunga più di 20 metri, e la alza così in alto nel cielo che sulla punta hanno dovuto installare una luce di navigazione rossa per allertare gli aerei che volano a bassa quota.Visto da lontano, lo spettacolo è ancora più impressionante, persino terrificante. Perché Rodina-Mat è nel punto più alto delle alture che dominano la città, il luogo dove si era combattuto con più accanimento. La si può vedere da qualunque parte lungo le principali arterie nord-sud che costeggiano il Volga. Sembra sempre in movimento, viva, pronta a calare sugli invasori la sua incredibile spada. È come se Atena o Afrodite fossero uscite dalle pagine dell’Iliade di Omero e, attraverso il tempo, dai campi di battaglia di Troia, o come se un gigantesco dio-astronauta idealizzato da Erich von Daniken fosse nuovamente giunto sulla Terra. Nei 200 giorni della Battaglia di Stalingrado, a Mamayev Kurgan si era combattuto per 130. Oggi è il luogo dove riposano 35.000 soldati sovietici. Gli storici militari occidentali riconoscono che nella battaglia di Stalingrado erano morti 1,1 milioni di soldati sovietici, e questo calcolo non include almeno 100.000 civili (e forse il triplo) massacrati dai bombardamenti aerei indiscriminati della Luftwaffe.Nella prima settimana di incursioni aeree a Stalingrado erano morti il doppio dei civili rispetto ai bombardamenti alleati di Dresda. Quando gli interrogatori sovietici avevano chiesto al maresciallo di campo Friedrich Paulus, il comandante catturato della Sesta Armata, perché avesse autorizzato un massacro così inutile, aveva risposto che stava solo eseguendo gli ordini. Anche le perdite naziste erano state colossali. Secondo le stime russe, 1,5 milioni di soldati tedeschi e dell’Asse avevano perso la vita durante l’intera campagna, più di cinque volte i morti in combattimento degli Stati Uniti durante tutta la guerra, e più del doppio dei morti combinati dell’Unione e dei Confederati nella Guerra Civile Americana. Neanche uno dei resti dei soldati dell’Asse, trovati e identificati, sono sepolti all’interno della città. È terreno sacro per il popolo russo. Solo gli eroici difensori di Stalingrado e della patria, o Rodina, hanno il massimo onore di riposarvi.L’intera Sesta Armata tedesca, 300.000 uomini, all’epoca considerata la forza militare più invincibile della Terra, era stata distrutta a Stalingrado. Solo 90.000 di loro erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri quando Paulus si era arreso. Il quartier generale di Paulus, nel seminterrato dell’Univermag, il grande magazzino nel centro della città, è stato trasformato in museo, uno dei più strani al mondo e in sorprendente contrasto con l’imponenza primordiale, eroica, epica della statua e dei monumenti di Mamayev Kurgan. Nel 2005, quando l’avevo visitato l’ultima volta, Univermag era ancora un grande magazzino, molto simile a quelli che si trovano nel cuore degli Stati Uniti, in luoghi come Sioux City o Iowa City, costruiti negli anni ’20 e che avevano prosperato fino a quando Wal-Mart non li aveva inghiottiti tutti. Si entra nell’Univermag di Volgograd attraverso l’ingresso principale, si passa accanto ai giocattoli per bambini, si gira a sinistra, oltre i pigiami per signora e gli oggetti in vetro e, senza alcun preavviso, si è lì.Il seminterrato è pieno di ricostruzioni dell’ultima resistenza della Sesta Armata. Dietro una porta, i manichini di due soldati tedeschi morenti giacciono in quella che sembra veramente una sala operatoria di emergenza. Dietro un’altra porta, un robotico Paulus continua ad alzarsi dalla sua scrivania per ascoltare da un altro ufficiale le ultime notizie della catastrofe. Dappertutto, il lamento dell’impietoso vento invernale della steppa e lo spietato sibilo delle Katyushe sovietiche, i lanciarazzi “Caterina,” fanno da accompagnamento. Ilya Ehrenburg, il più grande di tutti i corrispondenti di guerra, aveva scritto che i soldati arroccati nei seminterrati e fra le macerie e che resistevano sulle rive del Volga a pochi metri dall’acqua, adoravano quei lanciarazzi. Ed era ancora vero nel 2005: i volti dei veterani ottantenni e superdecorati si erano illuminati di entusiasmo e di gioia fanciullesca quando avevo chiesto loro quale fosse stata la loro arma preferita dell’intera guerra. “Katyusha!” avevano gridato quei meravigliosi vecchietti, saltando su e giù, mentre gli anni sparivano come per magia. “Katyusha!”.Settantacinque anni dopo la resa di Paulus e dopo più di settant’anni dalla sconfitta del Terzo Reich, i ricordi e le cicatrici di quella lotta fanno ancora parte della Russia moderna. Il comunismo è morto. Ma il patriottismo russo no. Ed è per questo che, in questa era di crescenti differenze e alienazione tra la Russia e l’Occidente, lo straordinario eroismo e il sacrificio di tutti quei soldati dell’Armata Rossa e il prezzo terribile che avevano pagato per salvare il mondo devono essere ricordati dai vecchi alleati della Russia. Le emozioni selvagge, feroci ma assolutamente autentiche che appaiono sullo straordinario volto di Rodina-Mat testimoniano gli incredibili sacrifici che si erano consumati sulle rive del Volga per distruggere il male estremo. I leader e i popoli occidentali devono ricordare, ancora una volta, coloro avevano distrutto quel male, il prezzo terribile che avevano pagato e la gratitudine che ancora dobbiamo loro.(Martin Sieff, “Gli eroi di Stalingrado e il debito che abbiamo con loro”, da “Strategic Culture” del 31 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Analista geopolitico e reporter per testate come “Washington Times” e “The Globalist”, Sieff è stato dirigente della United Press International e tre volte candidato al Premio Pulitzer).Il 2 febbraio di quest’anno sarà il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.
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Trump in Medio Oriente: lo status quo, con il minimo sforzo
Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario”. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.Difficilmente difendibile la responsabilità di Trump nella violenta eliminazione di Soleimani: ha ucciso un soldato con importanti ruoli politici, e l’ha fatto di un paese non in guerra. Un omicidio mirato in uno Stato terzo, senza chiederne l’autorizzazione né informarne le autorità, oltretutto uccidendo anche cittadini iracheni. E comunque: si può giudicare razionale l’azione americana di eliminazione del generale iraniano? Inoltre: quali sono gli obiettivi di lungo periodo che gli Usa vogliono raggiungere, in Medio Oriente? Infine: quali mezzi militari sono adatti a raggiungere questi obiettivi strategici? L’uccisione di Soleimani, scrive Tirabassi, conferma la storica ostilità americana verso Teheran: l’Iran non deve avere armi nucleari e deve cessare la ricerca di un’egemonia regionale, dall’Iraq allo Yemen, alla Siria e al Libano (con gli alleati Hezbollah e Hamas), smettendo di minacciare Israele e l’Arabia Saudita. Massima pressione contro il regime degli ayatollah, confermata anche dall’uscita dall’accordo sul nucleare e dall’inasprimento delle sanzioni economiche. Obiettivo: interrompere il flusso di finanziamenti da parte iraniana ai vari partner stranieri (Hezbollah e Hamas, gli Huthi in Yemen), «con la conseguenza di dissanguare le casse dello Stato, ormai ridotte allo stremo, incrinando il consenso, e quindi la forza degli ayatollah».Mentre la tecnologia estrattiva del fracking ha assicurato agli Stati Uniti un’autosufficienza energetica che li mette al riparo dal ricatto petrolifero, le conseguenze delle sanzioni sull’economia iraniana non si sono fatte attendere: nel 2019 il Pil di Teheran si è contratto del 9,5%. Se le cose non cambiamo, nel 2020 l’economia iraniana «calerà più del doppio, mentre l’inflazione viaggia al 30%». La deterrenza militare esibita da Trump nell’operazione-Soleimani «dimostra il predominio militare americano», e sopratutto «manda in frantumi la percezione di impunità che avevano a Teheran». Secondo Tirabassi, gli ayatollah avevano scambiato per debolezza l’indecisione degli Usa, che aveva disorientato gli alleati americani in Medio Oriente, «sorpresi e impauriti dalla mancanza di reazione di Trump e dalle sue parole concilianti dopo l’abbattimento da parte iraniana di un drone americano il 20 giugno dello scorso anno e l’attacco ai pozzi di petrolio sauditi del settembre 2019». Ben 20 droni e 11 missili, partiti da una base iraniana al confine con l’Iraq, avevano colpito i siti di Abqaiq e Khurais. «Azioni culminate con l’uccisione del contractor americano a Kirkuq e l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad, orchestrato secondo gli Usa dagli iraniani, in conseguenza del bombardamento di una base della milizia irachena».Azioni però destinate a far cambiare idea al presidente americano – spiega Tirabassi – perché colpivano immediatamente l’autorevolezza Usa avendo anche un’enorme potenza mediatica, facendo ricordare i giorni bui del sequestro di 52 membri dell’ambasciata statunitense a Teheran, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Il lancio del missile su Soleimani? «Risponde alla logica del colpo su colpo, affinché il nemico capisca in modo inequivocabile che non può agire impunemente». Ed è anche un messaggio chiaro per il governo di Baghdad, o meglio di quella parte che flirta con l’Iran. Ma, a parte questo, la Casa Bianca ha una visione per il Medio Oriente? Nonostante la raggiunta indipendenza energetica, spiega sempre Tirabassi, gli Usa puntano comunque alla stabilità della produzione petrolifera, fondamentale per far l’economia del mondo. Questo comporta l’impegno automatico al fianco dell’Arabia Saudita. Altro caposaldo: lo strettissimo rapporto di Trump con Israele, al punto da proporre un piano di pace che però impedisca ai profughi palestinesi di tornare alle loro case. Se Bush voleva ridisegnare la mappa del Medio Oriente, e Obama tentava accordi “impossibili” «con regimi e nemici che tutto vogliono meno che la pace», Trump si muove in modo diverso: vorrebbe «mettere fine ai “regime change” sia in veste neocon che democratica, lezione rafforzata dal caso venezuelano».Quello che emerge, secondo Tirabassi, è un disegno americano del Medio Oriente dai tratti negativi: «Trump non fa altro che fissare di nuovo gli interessi in purezza degli Stati Uniti, al di là dei desideri, volontà e ideologie. E da questa considerazione traccia una conseguente strategia militare, del massimo risultato con le minime perdite, ottenuto sfruttando appieno il “vantaggio competitivo” Usa della sua strabiliante forza militare che a sua volta riposa su un predominio economico, tecnologico e logistico senza pari nel mondo». Tradizione anglosassone declinata in epoca postmoderna: una «visione isolazionista-imperiale», fatta di «controllo assoluto dei mari, dell’aria, dello spazio e del cyberspace: flotte che solcano i mari, aerei continuamente in volo, satelliti nello spazio, basi Usa dislocate in tutto il mondo». In sostanza: «Obiettivi politici limitati», ottenuti grazie alla superiorità militare, e senza puntare a cambi di regime (neppure in Siria, dove la Russia ha potuto esercitrare un ruolo decisivo, concordato con la Casa Bianca). «Rimane tutto da vedere – conclude Tirabassi – se questo tipo di strategia è capace di produrre qualche tipo di ordine, e se permetta di sganciarsi dal caos mondano, consentendo agli Stati Uniti di rompere solo saltuariamente e per il tempo strettamente necessario il loro nuovo isolamento». Fosse per Trump, aggiunge l’analista, il compito di stare sul terreno sarebbe demandato di volta in volta agli altri Stati, dalla Russia ai partner della Nato. Basterà?Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario“. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.
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Magaldi: massoni in guerra, ma per vincere serve il popolo
La guerra dei poveri, la chiamò Nuto Revelli. E i poveri erano gli alpini in Russia con le suole di cartone, i partigiani in armi dopo l’8 settembre, i montanari che li nutrivano con pane duro e castagne. Un memoriale-capolavoro, quello uscito per Einaudi nel 1962, in cui Revelli racconta in modo magistrale la vertiginosa trasformazione di un intero paese, grazie allo choc collettivo della catastrofe bellica. Metamorfosi che investe lo stesso protagonista: da ufficiale fascista, imbevuto di retorica militarista, a comandante della Resistenza, nelle brigate “Giustizia e Libertà”. Il brusco risveglio, nel 1943, è propiziato dallo sfacelo delle forze armate allo sbando, il 25 luglio. Un anno dopo, quando gli Alleati sbarcheranno in Provenza, una divisione corazzata della Wehrmacht si muoverà dal Cuneese per affrontarli. Nuto Revelli e i suoi riusciranno a rallentare i panzer per dieci giorni, inchiodandoli tra le gole della valle Stura, permettendo così agli americani di conquistare le alture di Nizza. Finita la battaglia, il comandante vorrebbe marciare verso la Liguria. Ma gli uomini glielo impediscono, vogliono svalicare in Francia. E la spuntano: votando, per alzata di mano. Democrazia, in alta montagna, dopo vent’anni di adunate nere: il riscatto della coscienza. Ma non è mai gratis, la libertà. Lo ripete anche oggi chi combatte un’altra guerra, sotterranea ma non troppo, tra le fila della cosiddetta massoneria progressista.
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Citofonare Salvini (o Sardine-Benetton, tanto è lo stesso)
Con la sua sciagurata e ormai celeberrima citofonata al presunto spacciatore tunisino al Pilastro di Bologna, Matteo Salvini ha fatto un regalo immenso a Bonaccini, allo zombie Zingaretti e a “Repubblica”, che vorrebbe “cancellare” il capo della Lega. Un desiderio coltivato anche ai piani alti del Vaticano e soprattutto accarezzato dalla maggioranza degli italiani, i milioni di cittadini che proprio non sopportano l’ostentato bullismo superficiale che contraddistingue l’estetica politica del Capitano, travestito da sceriffo. A pareggiare il conto provvede però prontamente l’altrettanto improvvida citofonata delle Sardine, fotografate con Oliviero Toscani alla corte di Luciano Benetton, patron di Altantia, dall’estate 2018 nell’occhio del ciclone per le presunte responsabilità di Austostrade Spa nell’incuria che ha portato alla tragedia genovese del viadotto Morandi. Evaporati nella vergogna i 5 Stelle insieme alle loro promesse da marinaio, la politica nazionale – dopo l’equivoca sbornia gialloverde – è ripiombata nell’antica palude post-democratica, mentre il paese perde i pezzi e il mondo gli sta letteralmente crollando addosso, a cominciare dalla Libia.
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Coronavirus, la Cina sa che il Pentagono prepara la guerra
Paolo Liguori, direttore di TgCom24, ha detto che il coronavirus sarebbe uscito da un laboratorio militare cinese di Wuhan? Siamo alle prese con mille incertezze: non possiamo ancora fare affermazioni precise. Illustri virologi, tra cui Burioni, ritengono che il vettore originario possa essere un pipistrello. “Ritengono”: prove, non ce ne sono. Altra questione: Xi Jinping è sincero oppure no? La mia tesi è questa: il problema è troppo grande, perché Xi Jinping possa scherzare, su questo, o far finta di niente. Il problema colpisce la Cina duramente, la colpirà ancora più duramente e ci colpirà tutti. Non credo sia possibile pensare che il presidente cinese sia un irresponsabile. Credo che Xi Jinping ci abbia detto la verità, o meglio quello che sa lui. Non sono sicuro che tutto quello che sa Xi Jinping sia la verità: la stanno cercando, anche loro. In secondo luogo, credo che qualunque alto dirigente cinese non possa ignorare che, nei documenti ufficiali del Pentagono, c’è scritto – nero su bianco, e in modo esplicito – che la Cina, insieme alla Russia, è un nemico decisivo degli Stati Uniti d’America. In questi documenti, ufficialmente presentati al Parlamento, il Pentagono aggiunge che gli Stati Uniti devono «prepararsi a una guerra imminente» con la Cina.Hanno ragione? Hanno torto? Non è importante. L’importante è che lo dicano, che gli Stati Uniti si stanno preparando a una guerra “imminente” con la Cina, che «implicherà grandi perdite per la stessa popolazione civile degli Stati Uniti». Sono cose che cito da un documento ufficiale del Pentagono, sottoposto al giudizio e al voto del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei rappresentanti. Quindi: se io fossi un dirigente cinese, potrei trascurare questo fatto? No, ovviamente. Dobbiamo trascurarlo, noi? Non credo: è uno dei fattori del problema, e quindi dovrà essere tenuto sotto la lente d’ingrandimento, con la massima attenzione. C’è chi pensa che qualcuno, per conto degli Usa, possa essersi “lasciato scappare” quel virus per mettere in ginocchio quello che è il maggior competitore economico dell’America a livello mondiale? Come si sa, io non nascondo una mia precisa opinione: ritengo che il gruppo dirigente degli Stati Uniti sia dominato da un gruppo di dementi. Lo ritenevo prima dell’attuale presidente, e lo ritengo tuttora. Dico “dementi”, perché tutti i loro atti conducono a una situazione di guerra, nel mondo. Quindi, di fronte a un caso come quello del coronavirus, non posso dimenticare quello che penso. Insisto: penso che siano dei dementi, e dai dementi non ci può aspettare nulla di buono né di rassicurante.Mi limito a questo, perché non conosciamo con precisione la situazione. Posso semmai aggiungere una considerazione che ci riguarda da vicino. In tanti, ormai, stanno cominciando a capire che stiamo vivendo in un mondo assolutamente vulnerabile. A prescindere da tutte le teorie e dalle ipotesi che si possono fare, su quello che sta accadendo, davanti ai nostri occhi dovrebbe balenare, chiara come il sole, la constatazione che questo mondo è straordinariamente vulnerabile. Se ad esempio le cose che stiamo vedendo in questo momento dovessero andare male, noi ci troveremmo di fronte a un mondo radicalmente diverso, da quello che conosciamo, e questo avverrebbe nello spazio di poche decine di settimane. Di fronte a emergenze di questo tipo siamo tutti impreparati, a partire da chi deve prendere le decisioni. Quello che vediamo dice che le cose accadono più velocemente di quanto l’organizzazione economica, politica, sociale e militare del paese sia in grado di fronteggiare. Siamo colti di sorpresa, clamorosamente. Quando è stata proclamata la chiusura del collegamento Cina-Italia, erano già in volo 5 aerei italiani appena decollati dalla Cina. Che ne è stato, di quei passeggeri (italiani e cinesi) virtualmente a rischio di contagio? Sono stati posti in stato di osservazione?Tralasciando le polemiche, il fatto è che stiamo vivendo in una società vulnerabile – che è anche impazzita, visto che non è in grado di governare se stessa. E questo dovrebbe porre dei problemi, al governo delle grandi corporations e dei grandi Stati. Possiamo andare avanti in questa direzione senza introdurre dei cambiamenti radicali, in tempi rapidi? Su La7, Mentana si è scandalizzato per l’ultima indagine sociologica dell’Eurispes, secondo cui il 15% degli italiani non crede all’Olocausto, ritiene che la Shoah sia stata un’invenzione (o comunque un’esagerazione). Ma perché tanto sdegno? Caro Mentana, chi è il responsabile del fatto che il 15% degli italiani non sa niente della storia della Seconda Gerra Mondiale? Ma siete voi, che avete fatto la televisione. Siete voi, che avete dato la disinformazione. E adesso, Mentana, ti stupisci che il 15% degli italiani non ti creda? Ma tu agli italiani hai raccontato un sacco di bugie, in tutti questi anni. E non li hai formati, non li hai informati, non ti sei scandalizzato per la loro ignoranza. E così anche adesso, di fronte all’evidenza di un collasso organizzativo e intellettuale della società in cui viviamo, c’è ancora gente che dice che è tutto normale, e che le cose devono andare avanti così.(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate il 31 gennaio 2020 a “Contro Tv”, in video-chat con Massimo Mazzucco; video ripreso su YouTube e pubblicato sul blog “Luogo Comune”).Paolo Liguori, direttore di TgCom24, ha detto che il coronavirus sarebbe uscito da un laboratorio militare cinese di Wuhan? Siamo alle prese con mille incertezze: non possiamo ancora fare affermazioni precise. Illustri virologi, tra cui Burioni, ritengono che il vettore originario possa essere un pipistrello. “Ritengono”: prove, non ce ne sono. Altra questione: Xi Jinping è sincero oppure no? La mia tesi è questa: il problema è troppo grande, perché Xi Jinping possa scherzare, su questo, o far finta di niente. Il problema colpisce la Cina duramente, la colpirà ancora più duramente e ci colpirà tutti. Non credo sia possibile pensare che il presidente cinese sia un irresponsabile. Credo che Xi Jinping ci abbia detto la verità, o meglio quello che sa lui. Non sono sicuro che tutto quello che sa Xi Jinping sia la verità: la stanno cercando, anche loro. In secondo luogo, credo che qualunque alto dirigente cinese non possa ignorare che, nei documenti ufficiali del Pentagono, c’è scritto – nero su bianco, e in modo esplicito – che la Cina, insieme alla Russia, è un nemico decisivo degli Stati Uniti d’America. In questi documenti, ufficialmente presentati al Parlamento, il Pentagono aggiunge che gli Stati Uniti devono «prepararsi a una guerra imminente» con la Cina.
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L’Iran: perché noi sciiti detestiamo l’Occidente, che ci odia
L’uccisione con un drone del maggiore generale Qāsem Soleymānī da parte degli Stati Uniti, insieme ad un fiume di cruciali ramificazioni geopolitiche, porta ancora una volta al centro dell’attenzione una verità abbastanza scomoda: l’incapacità congenita delle cosiddette élite statunitensi anche solo di tentare di comprendere lo Sciismo, e la sua costante demonizzazione, avvilente non solo per gli Sciiti ma anche per i governi guidati dagli Sciiti. Washington aveva iniziato la Lunga Guerra ancor prima che il concetto fosse reso popolare dal Pentagono nel 2001, subito dopo l’11 settembre: è la Lunga Guerra contro l’Iran. Era iniziata nel 1953, con il colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto di Mosaddegh, sostituito dalla dittatura dello Shah. L’intero processo aveva raggiunto l’apice più di 40 anni, fa quando la Rivoluzione Islamica aveva messo fine ai bei vecchi tempi della Guerra Fredda, epoca in cui lo Scià ricopriva il ruolo di “gendarme privilegiato del Golfo (Persico)” americano. Comunque, tutto questo va ben oltre la geopolitica. Non c’è assolutamente alcun modo, per chiunque, di riuscire a cogliere le complessità e il favore popolare dello Sciismo senza prima una seria ricerca accademica, integrata da visite a siti sacri selezionati in tutto il sud-ovest asiatico: Najaf, Karbala, Mashhad, Qom e il santuario di Sayyida Zeinab vicino a Damasco.Personalmente, ho percorso questa strada della conoscenza fin dalla fine degli anni ’90 e sono ancora solo uno umile studente. Nello spirito di un primo approccio, per iniziare un dibattito informato Est-Ovest su un importante problema culturale, in Occidente totalmente accantonato o affogato in uno tsunami di propaganda, ho chiesto a tre validissimi studiosi quali fossero le loro prime impressioni. Questi sono: il professor Mohammad Marandi, dell’Università di Teheran, esperto di orientalismo; Arash Najaf-Zadeh, che scrive sotto lo pseudonimo di Blake Archer Williams ed è esperto di teologia sciita, e la coltissima principessa Vittoria Alliata, siciliana, tra le migliori islamiste italiane e autrice, tra le altre cose, di libri come l’incantevole “Harem”, che descrive in dettaglio i suoi viaggi in terra araba. Due settimane fa sono stato ospite della principessa Vittoria a Villa Valguarnera in Sicilia. C’eravamo immersi in una lunga ed avvincente discussione geopolitica, in cui uno dei temi chiave era stato lo scontro Usa-Iran, solo poche ore prima che un attacco di droni all’aeroporto di Baghdad uccidesse i due principali combattenti sciiti nella vera guerra al terrorismo dell’Isis/Daesh e di al-Qaeda/al-Nusra: il maggiore generale iraniano Qāsem Soleymānī e l’iracheno Hashd al-Shaabi, il braccio destro di Abu Mahdi al-Muhandis.Il professor Marandi fornisce una spiegazione sintetica: «L’odio irrazionale americano nei confronti dello Sciismo deriva dalla sua forte propensione a resistere all’ingiustizia: la storia di Karbala e Imam Hussein e lo sforzo sciita nel proteggere e difendere gli oppressi e lottare contro l’oppressore. Questo è qualcosa che gli Stati Uniti e le potenze egemoniche occidentali non riescono assolutamente a tollerare». Blake Archer Williams mi ha inviato una risposta che ho pubblicato come pezzo originale. Questo passaggio, che sviluppa il concetto di sacralità, sottolinea chiaramente l’abisso che separa il concetto sciita di martirio dal relativismo culturale occidentale: «Non c’è niente di più glorioso, per un musulmano, che raggiungere il martirio mentre combatte nel nome di Dio. Il generale Qāsem Soleymānī ha combattuto per molti anni con l’obiettivo di risvegliare il popolo iracheno e indurlo a riprendere nelle proprie mani il timone del destino del paese. Il voto del Parlamento iracheno ha dimostrato che il suo obiettivo è stato raggiunto. Il suo corpo ci è stato portato via, ma il suo spirito è stato amplificato mille volte e il suo martirio ha fatto sì che i frammenti della sua luce benedetta arrivassero ai cuori e alle menti di ogni uomo, donna e bambino mussulmano, immunizzandoli dal mortifero cancro dei relativisti culturali del diabolico Novus Ordo Seclorum».Un punto da chiarire: Novus Ordo Seclorum, o Saeculorum, significa “nuovo ordine dei secoli” e deriva da un famoso poema di Virgilio che, nel medioevo, era considerato dai cristiani la profezia della venuta di Cristo. Su questo punto, Williams ha risposto che «mentre questo significato etimologico della frase è vero e rimane valido, la frase era stata usata da George Bush figlio per caratterizzare la cabala globalista del Nuovo Ordine Mondiale, ed è questo il senso che è attualmente predominante». La principessa Vittoria preferirebbe centrare il dibattito sull’indiscutibile atteggiamento americano nei confronti del Wahhabismo: «Non credo che tutto ciò abbia a che fare con l’odiare o l’ignorare lo Sciismo. Dopotutto, l’Aga Khan è molto ben integrato nella sicurezza degli Stati Uniti, una sorta di Dalai Lama del mondo islamico. Credo che l’influenza satanica derivi dal Wahhabismo e dai reali sauditi, che, per tutti i Sunniti del mondo, sono molto più eretici degli Sciiti, ma che, per i governanti statunitensi, sono l’unico contatto con l’Islam. I sauditi hanno dapprima finanziato la maggior parte degli omicidi e delle guerre della Fratellanza Islamica, poi le altre forme di Salafismo, tutte incentrate su una base wahhabita».Quindi, continua la principessa Vittoria, «non proverei tanto a spiegare lo Sciismo, quanto il Wahhabismo e le sue devastanti conseguenze: ha dato origine a tutte le forme di estremismo, al revisionismo, all’ateismo, alla distruzione dei santuari e dei leader Sufi in tutto il mondo islamico. E ovviamente, il Wahhabismo è molto vicino al Sionismo. Ci sono anche ricercatori che hanno prodotto documenti secondo cui Casa Saud sarebbe una tribù Dunmeh di ebrei convertiti e scacciati da Medina dal Profeta, dopo che avevano tentato di ucciderlo, nonostante avessero firmato un trattato di pace». La principessa Vittoria sottolinea anche il fatto che «la Rivoluzione Iraniana e i gruppi sciiti in Medio Oriente sono oggi l’unica forza di successo in grado di resistere agli Stati Uniti, e questo li fa odiare più degli altri. Ma solo dopo che tutti gli altri avversari sunniti sono stati eliminati, uccisi, terrorizzati (basti pensare all’Algeria, ma ci sono dozzine di altri esempi) o corrotti. Questa ovviamente non è solo la mia opinione, ma quella della maggior parte degli islamologi di oggi».Essendo al corrente delle ampie conoscenze di Williams sulla teologia sciita e della sua padronanza della filosofia occidentale, l’ho spinto, letteralmente, a “cercare la giugulare”. E mi ha risposto: «La domanda sul perché i politici americani non siano in grado di comprendere l’Islam sciita (o l’Islam in generale) è semplice: lo sfrenato capitalismo neoliberista ingenera l’oligarchia, e gli oligarchi ‘selezionano’ i candidati che rappresentano i loro interessi prima ancora che vengano ‘eletti’ dalle masse ignoranti. Eccezioni populiste come Trump, di tanto in tanto, filtrano tra le maglie della rete (o non ci riescono, come nel caso di Ross Perot, che si era ritirato sotto coercizione), ma anche Trump è stato poi messo sotto controllo dagli oligarchi attraverso minacce di impeachment, ecc. Quindi, il ruolo dei politici nelle democrazie non sembra essere quello di cercare di capirci qualcosa, ma, semplicemente, quello di portare a termine l’agenda delle élite che li controllano». “L’attacco alla giugulare” di Williams è un saggio lungo e complesso che mi piacerebbe pubblicare per intero solo quando il nostro dibattito si sarà approfondito, insieme a possibili confutazioni.Per riassumerlo, Williams delinea e discute le due principali tendenze della filosofia occidentale: i dogmatici contrapposti agli scettici. Spiega come «la santa trinità del mondo antico fosse, in effetti, la seconda ondata dei dogmatici che cercavano di salvare le città-Stato della Grecia e, più in generale, il mondo greco dalla decadenza dei sofisti», approfondisce il concetto di “terza ondata di scetticismo” che era iniziata con il Rinascimento e aveva raggiunto il culmine nel 17° secolo con Montaigne e Cartesio, e poi traccia connessioni «con l’Islam sciita e l’incapacità dell’Occidente di comprenderlo». E questo lo porta al “nocciolo della questione”: «Una terza opzione e un terzo flusso intellettuale su e al di sopra dei dogmatici e degli scettici: questa è la posizione degli studiosi di religione sciiti tradizionali (non quelli di indirizzo filosofico)». Ora confrontatelo con l’ultimo sforzo degli scettici, «come ammette lo stesso Cartesio quando parla del ’demone’ che gli era apparso in sogno e che lo aveva indotto a scrivere il “Discorso sul metodo” (1637) e “Meditazioni sulla prima filosofia” (1641).L’Occidente si sta ancora riprendendo dal colpo, e sembra che abbia deciso di mettere da parte i trampoli della ragione e dei sensi (che Kant aveva cercato invano di conciliare, rendendo le cose mille volte peggiori, più contorte e circonvolute) e voglia sguazzare in quella forma auto-congratulativa di irrazionalismo nota come postmodernismo, che dovrebbe essere giustamente chiamato ultra-modernismo o iper-modernismo, dal momento che non è meno radicato nella ‘svolta soggettiva’ cartesiana e nella ‘rivoluzione copernicana’ kantiana di quanto non lo fossero i primi moderni e i moderni veri e propri». Per riassumere un accostamento piuttosto complesso, «tutto ciò significa che le due civiltà hanno due visioni completamente diverse di quello che dovrebbe essere l’ordine mondiale. L’Iran crede che l’ordine del mondo dovrebbe essere quello che è sempre stato e che attualmente è nella realtà, che ci piaccia o no o che crediamo, o meno, nella realtà (come alcuni in Occidente non fanno). E l’Occidente secolarizzato crede in un nuovo ordine mondiale (contrapposto ad un ordine mondiale o divino). E quindi non è tanto uno scontro di civiltà quanto uno scontro di sacro contro profano, con gli elementi profani di entrambe le civiltà schierati contro le forze sacre di entrambe le civiltà. È lo scontro del sacro ordine di giustizia con l’ordine profano dello sfruttamento dell’uomo da parte dei suoi simili; [è lo scontro] della profanazione della giustizia di Dio per il beneficio (a breve termine o di questo mondo) dei ribelli rispetto alla giustizia di Dio».Williams fornisce un esempio concreto per illustrare questi concetti astratti: «Il problema è che anche se tutti sanno che lo sfruttamento del Terzo Mondo nel 19° e nel 20° secolo da parte delle potenze occidentali era stato ingiusto e immorale, questo stesso sfruttamento continua ancora oggi. Il persistere di questa vergognosa ingiustizia è la ragione principale delle differenze esistenti tra Iran e Stati Uniti, che continueranno inevitabilmente finché gli Stati Uniti insisteranno nelle loro politiche di sfruttamento e fintanto che continueranno a proteggere i loro governi di occupazione, che riescono a sopravvivere contro la schiacciante volontà dei loro cittadini solo grazie alla ingombrante presenza delle forze statunitensi che li sostengono affinché possano continuare a servire gli interessi americani piuttosto che quelli delle loro popolazioni. È una guerra spirituale per il trionfo della giustizia e dell’autonomia nel Terzo Mondo. L’Occidente può continuare ad apparire bello ai propri occhi perché controlla tutta la messa in scena (del discorso mondiale), ma la sua immagine reale è evidente a tutti, anche se l’Occidente continua a vedersi come il Dorian Gray del romanzo di Oscar Wilde: una persona giovane e bella i cui peccati si riflettevano solo nel suo ritratto. Così, il ritratto riflette la realtà che il Terzo Mondo vede ogni giorno, mentre il Dorian Gray occidentale si vede come viene rappresentato dalla Cnn, dalla Bbc e dal “New York Times”».«L’imperialismo dell’Occidente in Asia occidentale è di solito simboleggiato dalla guerra di Napoleone Bonaparte contro gli Ottomani in Egitto e in Siria (1798-1801). Sin dall’inizio del 19° secolo, l’Occidente ha succhiato la vena giugulare del corpo politico musulmano come un vero vampiro, mai sazio di sangue musulmano, che si rifiuta di lasciare il corpo. Dal 1979, l’Iran, che ha sempre avuto il ruolo di leader intellettuale del mondo islamico, si è ribellato per porre fine a questo oltraggio contro la legge e la volontà di Dio e contro ogni decenza. Si tratta quindi del processo di revisione di una visione falsa e distorta della realtà per ritornare a ciò che la realtà è e dovrebbe effettivamente essere: un ordine giusto. Ma questa revisione è ostacolata sia dal fatto che i vampiri controllano la rappresentazione della realtà, sia dall’inettitudine degli intellettuali musulmani e dalla loro incapacità di comprendere anche solo i rudimenti della storia del pensiero occidentale, nel suo periodo antico, medievale e moderno».C’è una possibilità di distruggere tutta questa messa in scena? Forse: «Quello che deve succedere è il passaggio dell’autocoscienza mondiale dal paradigma in cui le persone credono che un pazzo come Pompeo e un buffone come Trump rappresentino l’essenza della normalità, ad un paradigma in cui le persone vedano Pompeo e Trump solo come un paio di gangster che fanno tutto ciò che vogliono, non importa quanto disgustoso e depravato, in completa e totale impunità. E questo è un processo di revisione ed un processo di risveglio verso un nuovo e più alto stato di coscienza politica. È un processo di rigetto del paradigma dominante e di unione all’Asse della Resistenza, il cui leader militare era il generale martire Qāsem Soleymānī. Non da ultimo, [questo processo] comporta il rifiuto dell’assurdo concetto di verità relativa (ed anche della relatività del tempo e dello spazio, scusaci Einstein), l’abbandono dell’assurda e nichilista filosofia dell’umanesimo, e il risveglio alla realtà dell’esistenza di un Creatore e del suo ruolo di comando. Ma, ovviamente, questo è troppo per la mentalità moderna, così illuminata da sapere tutto». Eccoci qua. E questo è solo l’inizio. Commenti pro e contro sono i benvenuti. Date una voce a tutte le anime bene informate: il dibattito è aperto.(Pepe Escobar, “Le radici della demonizzazione dell’Islam sciita da parte dell’America”, da “Unz.com” del 17 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).L’uccisione con un drone del maggiore generale Qāsem Soleymānī da parte degli Stati Uniti, insieme ad un fiume di cruciali ramificazioni geopolitiche, porta ancora una volta al centro dell’attenzione una verità abbastanza scomoda: l’incapacità congenita delle cosiddette élite statunitensi anche solo di tentare di comprendere lo Sciismo, e la sua costante demonizzazione, avvilente non solo per gli Sciiti ma anche per i governi guidati dagli Sciiti. Washington aveva iniziato la Lunga Guerra ancor prima che il concetto fosse reso popolare dal Pentagono nel 2001, subito dopo l’11 settembre: è la Lunga Guerra contro l’Iran. Era iniziata nel 1953, con il colpo di Stato contro il governo democraticamente eletto di Mosaddegh, sostituito dalla dittatura dello Shah. L’intero processo aveva raggiunto l’apice più di 40 anni, fa quando la Rivoluzione Islamica aveva messo fine ai bei vecchi tempi della Guerra Fredda, epoca in cui lo Scià ricopriva il ruolo di “gendarme privilegiato del Golfo (Persico)” americano. Comunque, tutto questo va ben oltre la geopolitica. Non c’è assolutamente alcun modo, per chiunque, di riuscire a cogliere le complessità e il favore popolare dello Sciismo senza prima una seria ricerca accademica, integrata da visite a siti sacri selezionati in tutto il sud-ovest asiatico: Najaf, Karbala, Mashhad, Qom e il santuario di Sayyida Zeinab vicino a Damasco.
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Trump-Netanyahu, cabaret: la pace, ma senza i palestinesi
Ho appena assistito ad uno spettacolo metafisico. In diretta sulla Cnn, il presidente americano Trump ha annunciato al mondo il suo nuovo piano di pace per la Palestina. Dico “metafisico” perché non mi era mai capitato di assistere ad un annuncio di tale importanza, che prevede un accordo definitivo e duraturo fra Israele e Palestina, con la sola presenza di uno dei due interessati. Accanto a Trump infatti c’era Benjamin Netanyahu, ma non c’era nessuno a rappresentare i palestinesi. La sceneggiata è andata avanti a lungo, con Trump che faceva i complimenti a Netanyahu, il quale lo applaudiva. Poi toccava a Netanyahu parlare, ed era Trump ad applaudirlo. E poi ciascuno ringraziava i propri ambasciatori, come se avessero portato a casa l’impresa del secolo. Sembrava quasi una cerimonia degli Oscar, nella quale i vincitori recitano la lunga litania di ringraziamenti alle mogli, ai produttori, ai parrucchieri, e a tutti quelli che li hanno aiutati a raggiungere quel traguardo.Poi, fra un ringraziamento all’altro, fra un applauso all’altro, Trump ha anche trovato il modo di illustrare alcuni dei dettagli principali di questo presunto accordo. E se è vero che ha apertamente appoggiato la famigerata soluzione dei due Stati, sembra proprio che nei termini dell’accordo vi siano alcune cose assolutamente indigeribili per i palestinesi: fra queste, il mantenimento per Israele degli insediamenti occupati, il mantenimento delle alture del Golan, e soprattutto il fatto che «Gerusalemme debba restare capitale indivisa di Israele». Ma Trump, da buon negoziatore, ha subito aggiunto che i palestinesi riceveranno 50 miliardi di aiuto, come se in qualche modo si potesse barattare la loro storia e la loro tradizione con un semplice assegno – per quanto decisamente cospicuo.Come dicevo, stonava fortemente questo tono celebratorio, nel quale Trump ha parlato come se si trattasse non solo di un accordo già concluso, ma addirittura di un accordo estremamente favorevole per i palestinesi. Mentre tutti i presenti nella stanza continuavano ad alzarsi ogni 30 secondi per fare una standing ovation al duo Trump-Netanyahu, tutti sembravano essersi dimenticati che Abbas ha già respinto questa ipotesi di accordo, ancora prima che venisse presentata al pubblico. Ma tant’è, viviamo nell’era della rappresentazione. Sappiamo benissimo che sia Trump che Netanyahu si trovano in un momento estremamente delicato della loro carriera politica, e che ambedue hanno un grande bisogno di appuntarsi al petto una medaglia importante come quella di uno storico accordo tra Israele e Palestina. Anche se, ovviamente, nessuno si è preoccupato di chiedere ufficialmente ai palestinesi il loro parere.(Massimo Mazzucco, “Trump-Netanyahu: il teatro dell’assurdo”, dal blog “Luogo Comune” del 28 gennaio 2020).Ho appena assistito ad uno spettacolo metafisico. In diretta sulla Cnn, il presidente americano Trump ha annunciato al mondo il suo nuovo piano di pace per la Palestina. Dico “metafisico” perché non mi era mai capitato di assistere ad un annuncio di tale importanza, che prevede un accordo definitivo e duraturo fra Israele e Palestina, con la sola presenza di uno dei due interessati. Accanto a Trump infatti c’era Benjamin Netanyahu, ma non c’era nessuno a rappresentare i palestinesi. La sceneggiata è andata avanti a lungo, con Trump che faceva i complimenti a Netanyahu, il quale lo applaudiva. Poi toccava a Netanyahu parlare, ed era Trump ad applaudirlo. E poi ciascuno ringraziava i propri ambasciatori, come se avessero portato a casa l’impresa del secolo. Sembrava quasi una cerimonia degli Oscar, nella quale i vincitori recitano la lunga litania di ringraziamenti alle mogli, ai produttori, ai parrucchieri, e a tutti quelli che li hanno aiutati a raggiungere quel traguardo.
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Carotenuto: nel potere mondiale, buoni e cattivi sono soci
Libia e Medio Oriente bruciano, ma il racconto dei media non ci parla dei veri obiettivi: non ci dice dove nascono le crisi, dove vogliono arrivare e perché si fanno. Di questi scenari ho un’esperienza personale e profonda, vissuta spesso dietro le quinte. Le motivazioni delle guerre e dei conflitti non sono quelle apparenti. Nel mondo è in corso una lotta tra forze del bene, che stanno facendo crescere le coscienze, e forze che ostacolano questa crescita per cercare di assopire il risveglio coscienziale che è in corso da anni. Per tentare di frenare questo risveglio si creano problemi nell’anima, scoraggiando la voglia fare cose buone per sé e per gli altri. Per fare il bene non bisogna essere pieni di paure, di rabbia e di ansia. Niente di meglio della guerra, per rovinare i nostri sentimenti: le guerre sono grandi vortici di odio, di paura e di rabbia. Subito internazionalizzate e mostrate a tutti attraverso i media, le guerre intervengono direttamente nelle nostre anime: alterano il nostro modo di sentire, ci distolgono dalla nostra voglia di bene, ci abbattono e ci impauriscono, ci fanno arrabbiare e ci inquietano. Guerre e crisi vengono combattute soprattutto nelle nostre anime.
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Koenig: vergogna, Soleimani invitato a Baghdad da Trump
Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.I giornalisti del sistema mainstream media sono troppo codardi per temere di rischiare il lavoro o di perdere l’accesso alla sala stampa della Casa Bianca. Tuttavia, questo è esattamente ciò che il primo ministro iracheno, Adil Abdul-Mahdi, ha detto, incredulo per l’accaduto: «Trump prima mi chiede di mediare con l’Iran, e poi uccide il mio invitato». Abdul-Mahdi ha sicuramente più credibilità di Trump o di uno dei suoi compari, dello stesso Pompeo che, non molto tempo fa, disse a “Rt”: «Quando ero il direttore della Cia, mentivamo, tradivamo, rubavamo. Abbiamo avuto interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano». Il generale Soleimani è stato prelevato all’aeroporto di Baghdad da Abu Mahdi al-Muhandis, comandante militare iracheno e leader delle forze di mobilitazione popolare. Sono partiti con un Suv, quando i missili-drone statunitensi li hanno colpiti e polverizzati, insieme ad altri 10 militari di alto rango di entrambi i paesi. Soleimani aveva l’immunità diplomatica – e gli Stati Uniti lo sapevano. Ma nessuna regola, nessuna legge e nessuno standard etico è rispettato da Washington. Un comportamento molto simile a quello dei barbari.Il generale Soleimani, che era molto più che un generale, era anche un grande diplomatico, fu richiesto dal primo ministro Abdul-Mahdi per conto di Trump di venire a Bagdad per far parte di un processo di mediazione che Trump aveva chiesto a Mahdi di guidare, per allentare le tensioni tra Iran e Arabia Saudita, nonché tra Stati Uniti e Iran. Era uno stratagemma vile e codardo per assassinare Qassem Soleimani. Quanto in profondità puoi affondare? Non ci sono parole per descrivere un crimine così orribile. Pompeo, rotto a ogni menzogna, ha trovato immediatamente una formula di copertura: Soleimani era un terrorista e un pericolo per la sicurezza nazionale Usa. Attenzione, caro lettore: nessun iraniano, né il generale Soleimani né nessun altro, ha mai minacciato gli Stati Uniti, né con le parole, né con le armi. Invece, il capo-barbaro ha avuto l’audacia di minacciare l’Iran di colpire 52 siti del suo patrimonio culturale, nel caso in cui l’Iran avesse osato vendicarsi. Come ulteriore atto immediato contro la legge, Trump ha vietato al ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, di andare alle Nazioni Unite a New York per rivolgersi al Consiglio di Sicurezza, semplicemente rifiutando il visto d’ingresso negli Stati Uniti.Ciò è contrario alla Carta delle Nazioni Unite firmata dagli Stati Uniti nel 1947, in base alla quale ai rappresentanti stranieri deve essere sempre consentito l’accesso al territorio delle Nazioni Unite a New York (lo stesso vale per le Nazioni Unite a Ginevra). E dov’è il signor António Guterres, il segretario generale delle Nazioni Unite, quando ne hai bisogno? Che cosa ha da dire? Nulla, un grande nulla. Non ha nemmeno condannato l’omicidio del generale Soleimani. Ecco cos’è diventato l’Onu: un corpo senza denti e senza valore, pronto a eseguire le disposizioni dell’Impero Barbarico. Che triste eredità. Quand’è che la maggioranza degli Stati membri chiederanno l’espulsione degli Stati Uniti dall’Onu? Ci sono 120 Stati non allineati che si trovano dietro paesi che sono molestati, oppressi e sanzionati dagli Stati Uniti, come Venezuela, Cuba, Iran, Afghanistan, Siria, Corea del Nord. Perché non alzarsi all’unisono e fare dell’Onu – senza più il tiranno barbarico – ciò che la sua carta dice di essere?(Peter Koenig, estratto dal post “L’Occidente è gestito da barbari”, pubblicato su “Global Research” il 13 gennaio 2020. Economista e analista geopolitico, specialista in ecologia e risorse idriche, Koenig ha lavorato per oltre 30 anni con la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutto il mondo).Immagina, il cosiddetto leader mondiale ti invita in un paese straniero per aiutarti a mediare tra diverse fazioni; tu accetti, e quando arrivi all’aeroporto lui ti uccide. Quindi sorride e si vanta, con assoluta soddisfazione, di aver dato l’ordine di uccidere – uccidere con il telecomando, con il drone. Molto peggio dell’omicidio extragiudiziale, perché in quel caso non c’erano mai state accuse contro di te, tranne che per le bugie. È esattamente quello che è successo con l’amato, geniale e carismatico generale iraniano Qassem Soleimani. Ed è quello che i miseri servi di Trump, come il segretario agli esteri Mike Pompeo e il ministro della guerra, Mark Esper, negano spudoratamente: vale a dire che lo avevano invitato, per intermediazione del primo ministro iracheno. Davanti a una conferenza stampa della Casa Bianca, ridendo cinicamente, Pompeo ha chiesto ai giornalisti: credereste a queste sciocchezze? E ovviamente, nessuno dei giornalisti del sistema mediatico mainstream oserebbe dire di sì, anche se ci credessero. Invece ridono convenientemente, per esprimere il loro accordo con l’orribile assassino, in piena complicità con l’uomo che hanno di fronte, per così dire il più alto diplomatico degli Stati barbari.
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Iran, la crisi ha un vincitore: la Germania, lontana dagli Usa
La crisi iraniana ha una conseguenza inattesa, almeno da quanti l’hanno creata. Ed è la nuova distanza che si sta palesando tra Germania e Stati Uniti. Non un accadimento improvviso, ma un processo iniziato da tempo, che fa più larghe le sponde dell’Atlantico. Ma prima occorre tornare all’omicidio di Qassem Soleimani, avvenuto in terra irachena, e precisamente all’aeroporto di Baghdad, che ha reso furibondi gli sciiti del paese. Non solo per l’uccisione del generale iraniano da loro venerato, ma anche per quella del vice comandante delle Forze di mobilitazione popolare, Abu Mahdi al-Muhandis. Un atto di guerra contro l’Iraq che si associa a quello perpetrato contro l’Iran per l’assassinio di Soleimani, perché le milizie sciite sono coordinate con l’esercito regolare iracheno, riconosciute quindi a livello statale, dato il loro contributo alla lotta contro l’Isis. Non solo, la strage è stata compiuta sul loro territorio, contro tutte le norme del diritto internazionale. Una duplice azione di guerra, dunque, che ha spinto il Parlamento iracheno a votare per l’espulsione delle forze americane dal paese, delibera diventata esecutiva con la nota del premier Adil Abd al-Mahdi, che ha invitato il Pentagono a definire un percorso per il loro ritiro.Sorprendente, e contro tutte le norme del diritto internazionale, la risposta degli Stati Uniti, che per bocca di Mike Pompeo hanno incredibilmente riaffermato la “partnership” strategica con l’Iraq. Altra dichiarazione di guerra, che rischia di provocarne una vera, peraltro nel paese che gli Usa hanno invaso nel 2003 con false motivazioni (vedi armi di distruzione di massa). Ecco che a questo punto si segnala la decisione della Germania, che per prima ha ritirato le sue truppe dall’Iraq, dando il “la” al ritiro-dispiegamento dei militari inviati dagli altri paesi europei. Decisione secca e irreversibile, a sorpresa. Alla quale segue l’annuncio che la Germania costruirà nuove navi da guerra per 6 miliardi di euro (”Reuters”), cosa che prospetta un paese più assertivo sulla scena internazionale. Nello stesso giorno, la notizia della creazione di un “networking d’élite” per “rafforzare i legami tra Germania e Cina” (”Reuters”), che suona come una ribellione aperta all’approccio aggressivo di Washington nei confronti di Pechino. Tutto questo segnala un distacco dagli Usa, che sta allontanando la Germania dalla tutela americana, che grava su di essa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Non è cosa di adesso, ma adesso è palese. Un distacco che nasce con Trump e il suo approccio aggressivo al mondo e alla globalizzazione. Il presidente Usa ha più volte ipotizzato e imposto sanzioni contro le industrie tedesche, in particolare quelle automobilistiche (identificate come una “minaccia alla sicurezza nazionale”), e la sua amministrazione ha minacciato sfracelli contro il Nord Stream 2, che porterà il gas russo direttamente in Germania. Una pressione insistente che però non ha spaventato i tedeschi, che nel recente incontro Merkel-Putin hanno ribadito la loro determinazione a portare a termine il contestato gasdotto. Peraltro, in questo incontro, si è delineato il summit di Berlino, che il 19 ospiterà un incontro sulla Libia, alla quale sembrano disposti a partecipare sia Serraj che Haftar, che si contendono il governo del paese, cosa che sottende un interesse anche mediterraneo della Germania. Il fatto che l’annuncio ufficiale di tale vertice sia stato dato subito dopo quello analogo di Mosca (fallito a metà: comunque Putin è riuscito a convocare i due irriducibili duellanti), indica che la collaborazione con la Russia va ben oltre il Nord Stream 2.Berlino va avanti, dunque, nonostante il contrasto americano. E forse la criticità iraniana, che ha rischiato la Terza Guerra Mondiale, spaventando tanti, ha contribuito ad accelerare tale processo. Nel mondo non più globalizzato – la globalizzazione sopravviverà, ma in altra forma – la Germania si sta attrezzando alla corsa in solitaria. Allentati, anche se non rotti, i vincoli che la costringevano nella ristretta sfera occidentale, si sta predisponendo a competere con gli altri Stati-nazione, America compresa, dispiegando una libertà d’azione nuova. Resta da capire come ciò inciderà sull’Unione Europea, ma è prematuro fare analisi prima dell’ormai prossima Brexit, che peraltro potrebbe rilanciare il vecchio e innato antagonismo tra l’insulare Britannia e il continente a trazione teutonica. In attesa degli sviluppi europei, va registrata come novità questa nuova proiezione tedesca, che da gigante economico e nano politico vuole acquisire un peso geopolitico mai rincorso finora. Nuovo e importante tassello verso la de-globalizzazione del mondo.(Davide Malacaria, “La crisi iraniana accelera la corsa in solitaria della Germania”, dall’inserto “Piccole Note” sul “Giornale” del 13 gennaio 2020).La crisi iraniana ha una conseguenza inattesa, almeno da quanti l’hanno creata. Ed è la nuova distanza che si sta palesando tra Germania e Stati Uniti. Non un accadimento improvviso, ma un processo iniziato da tempo, che fa più larghe le sponde dell’Atlantico. Ma prima occorre tornare all’omicidio di Qassem Soleimani, avvenuto in terra irachena, e precisamente all’aeroporto di Baghdad, che ha reso furibondi gli sciiti del paese. Non solo per l’uccisione del generale iraniano da loro venerato, ma anche per quella del vice comandante delle Forze di mobilitazione popolare, Abu Mahdi al-Muhandis. Un atto di guerra contro l’Iraq che si associa a quello perpetrato contro l’Iran per l’assassinio di Soleimani, perché le milizie sciite sono coordinate con l’esercito regolare iracheno, riconosciute quindi a livello statale, dato il loro contributo alla lotta contro l’Isis. Non solo, la strage è stata compiuta sul loro territorio, contro tutte le norme del diritto internazionale. Una duplice azione di guerra, dunque, che ha spinto il Parlamento iracheno a votare per l’espulsione delle forze americane dal paese, delibera diventata esecutiva con la nota del premier Adil Abd al-Mahdi, che ha invitato il Pentagono a definire un percorso per il loro ritiro.