Archivio del Tag ‘guerra’
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Huxley, il profeta: ci fanno amare la nostra schiavitù
Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.Eppure ci sono buone ragioni per considerarlo il più utopista tra i due. Infatti una delle ironie della storia è che le previsioni sul nostro futuro ingabbiato dai network si possono trovare tutte negli incubi dell’immaginazione di Huxley e del suo collega di Eton George Orwell. Orwell temeva che saremmo stati distrutti dalle cose di cui abbiamo paura – l’apparato di controllo statale così suggestivamente evocato in 1984. L’incubo di Huxley, rappresentato ne “Il Mondo Nuovo”, il suo grande racconto distopico, era che noi saremmo stati annientati dalle cose che tanto amiamo. Huxley era un rampollo dell’aristocrazia intellettuale inglese. Suo nonno era Thomas Henry Huxley, il biologo vittoriano che fu il più efficace divulgatore della teoria dell’evoluzione di Darwin (era soprannominato “il bulldog di Darwin”). Sua madre era nipote di Matthew Arnold. Suo fratello Julian e il fratellastro Andrew furono entrambi eminenti biologi.Alla luce di queste circostanze non stupisce che Aldous divenne uno scrittore che si spinse ben oltre i normali interessi degli ambienti letterari – si occupò di storia, filosofia, scienza, politica, misticismo e psicologia. Il suo biografo scrisse: «Scelse come suo motto personale l’iscrizione appesa al collo di un logoro straccione in un dipinto di Goya: Aún aprendo, Continuo ad imparare». Era, in un certo senso, un moderno Voltaire. “Il Mondo Nuovo” fu pubblicato nel 1932. Il titolo deriva dalle parole di Miranda nella Tempesta di Shakespeare: “Oh meraviglia! / Quante buone creature vi sono qui! / Come è bella l’umanità! Oh splendido mondo nuovo, / fatto di tali genti”. E’ ambientato nella Londra d’un lontanissimo futuro – il 2540 – e descrive una società immaginaria ispirata da due fattori: l’estrapolazione effettuata da Huxley delle tendenze scientifiche e sociali ed il suo primo viaggio negli Usa, durante il quale fu colpito da come la popolazione potesse essere palesemente soggiogata dalla pubblicità e dal consumismo.In quanto intellettuale affascinato dalla scienza, intuì (correttamente, come si è poi visto) che i progressi scientifici avrebbero finito per dare agli uomini dei poteri fino allora considerati di esclusiva appartenenza degli dèi. I suoi incontri con uomini dell’industria come Alfred Mond lo indussero a pensare che le società sarebbero state gestite con criteri ispirati al razionalismo manageriale della produzione di massa (fordismo) – ed è per questo che l’anno 2540 diventa nel racconto “l’anno 632 del Nostro Ford”. Huxley descrive la produzione di massa di figli attraverso ciò che oggi chiamiamo fecondazione in vitro; la manipolazione del processo dello sviluppo dei bambini per produrre diverse “caste” con livelli di capacità attentamente modulati, in grado di renderli adeguati ai vari ruoli sociali e industriali ad essi assegnati; e infine il condizionamento pavloviano dei bambini fin dalla nascita.In questo mondo nessuno si ammala, tutti hanno la stessa durata della vita, non esistono guerre, e le istituzioni, il matrimonio e la fedeltà sessuale sono superflue. La distopia di Huxley è una società totalitaria, gestita da una dittatura apparentemente benevola, i cui soggetti sono stati programmati per godere della propria sottomissione attraverso il condizionamento e l’uso di un narcotico – il Soma – che è meno dannoso e più gradevole di qualunque droga conosciuta. I governanti del Mondo Nuovo hanno risolto il problema di far amare alle persone la propria schiavitù. Questo ci riporta ai due scrittori di Eton, cardini del nostro futuro. Sul fronte orwelliano, stiamo andando abbastanza bene – come hanno recentemente dimostrato le rivelazioni di Edward Snowden. Abbiamo costruito un’architettura di controllo statale che lascerebbe Orwell senza fiato. E sicuramente, per chi di noi è preoccupato da tutto questo, si è rivelata durevole la capacità di Internet di agevolare tale controllo totalizzante che ha catturato la massima attenzione.In qualche modo comunque ci siamo dimenticati dell’intuizione di Huxley. Non ci siamo accorti che la nostra vertiginosa infatuazione per i giochi prodotti da Apple e Samsung – insieme alla nostra insaziabile fame di Facebook, Google e altre compagnie che ci forniscono servizi “gratuiti” in cambio degli intimi dettagli sulle nostre vite private – potrebbe rivelarsi essere una droga così potente come lo era il Soma per gli abitanti del Mondo Nuovo. Quindi anche se non ci scordiamo di CS Lewis, dedichiamo un pensiero allo scrittore che intuì un futuro in cui saremmo arrivati ad amare la nostra schiavitù digitale.(John Naughton, “Aldous Huxley, il profeta della nostra nuova distopia digitale”, dal “Guardian” del 21 aprile 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il 22 novembre 1963 il mondo era troppo preoccupato per l’assassinio di Kennedy per prestare attenzione all’arrivo da oltre atlantico di due scrittori: CS Lewis e Aldous Huxley. Cinquant’anni dopo, Lewis riceve l’onorificenza di una targa al Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster, che verrà consegnata venerdì durante una cerimonia. Le fanfare sono rimaste più silenziose per Huxley. Le ragioni sono molteplici: “Le cronache di Narnia” hanno consentito al loro autore d’essere inserito nella Lega Tolkien; “Shadowland”, il film sulla sua vita interpretato da Anthony Hopkins, ha fruttato milioni; i suoi scritti sulle tematiche religiose hanno fatto di lui un personaggio a livello mondiale in parecchi ambiti spirituali. Per esempio, esiste una Società CS Lewis della California; una Rivista CS Lewis ed un Centro studi CS Lewis ed amici presso un’università dell’Indiana. Aldous Huxley non è mai stato oggetto di una tale attenzione.
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Pentagono, strano dossier: vi salveremo dagli zombie
Il Pentagono pensa proprio a tutto in fatto di sicurezza: persino a difendersi dai morti, o meglio dai morti viventi. Nei piani del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti c’è un dossier chiamato “Conop 8888”, ovvero un piano di sopravvivenza in caso di attacco degli zombie. Secondo quanto riferisce la rivista “Foreign Policy”, il protocollo è stato pensato per addestrare i comandanti delle forze armate ad adottare opportune strategie in caso di una catastrofi particolari, ovvero di «apocalisse dei morti viventi». Uno scenario che sembra più il soggetto di una pellicola sul filone di “The Walking Dead”, scrive Francesco Semprini su “La Stampa”. Il protocollo, non secretato, è conosciuto come “Counter-Zombie Dominance”: un vero e proprio piano di sopravvivenza per contrastare ogni minaccia legata a «un’offensiva dei morti viventi» e aiutare «qualsiasi popolazione del mondo, compresi gli avversari tradizionali», come Cina, Russia o Corea del Nord.Il documento, aggiunge la “Stampa”, porta la firma di alcuni strateghi militari di Omaha, sede del comando strategico del Nebraska, ed è frutto di un lavoro durato circa due anni e terminato nell’aprile del 2011. “Conop 8888” non è solo un protocollo che individua direttive e linee guida per «aiutare le autorità nel mantenere l’ordine pubblico e ripristinare i servizi di base durante e dopo un attacco degli zombie». E’ anche un preciso censimento delle tipologie di zombie: dai “pathogenic zombie” ai “radiation zombie”, figli di agenti patogeni e del nucleare, dagli “evil magic zombie”, il risultato di sperimentazioni, ai futuristici “space zombie”, passando per i “vegetarian zombies”, i meno pericolosi perché si nutrono solo di vegetali, e i “chicken zombie”, cioè vecchie galline ovaiole soppresse col gas, sotterrate e tornate alla luce come pollastre morte-viventi.Pamela Kunze, capitano della marina Usa e portavoce del comando strategico, spiega che si tratta di «uno sforzo creativo a scopo formativo, per insegnare agli studenti i concetti basilari delle risposte militari a ipotetici scenari di guerra». Non si tratta di una novità assoluta per le autorità americane, aggiunge Semprini, visto che il Center for Disease Control (Cdc) – la massima autorità in campo sanitario – ha già utilizzato gli zombie per la formazione, «costruendo un’intera campagna di sensibilizzazione per la preparazione di un kit di emergenza contro l’invasione dei morti viventi». Una simulazione in ogni caso sinistra e, volendo, carica di allusioni – solo virtuali, certo, a patto che non si scopra che siamo proprio noi gli zombie a cui pensano i ghostbusters americani, cioè i militari di un paese e conduce guerre segrete, organizza golpe, prepara la guerra climatica e intanto fa strage di civili, coi missili dei droni, nei cieli di paesi che non sono in guerra con nessuno. Il giorno che si ribellassero, però, i militari americani sono pronti: nessuno “zombie” pakistano, siriano, somalo o russo potrà opporsi al formidabile “ripristino dell’ordine pubblico”.Il Pentagono pensa proprio a tutto in fatto di sicurezza: persino a difendersi dai morti, o meglio dai morti viventi. Nei piani del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti c’è un dossier chiamato “Conop 8888”, ovvero un piano di sopravvivenza in caso di attacco degli zombie. Secondo quanto riferisce la rivista “Foreign Policy”, il protocollo è stato pensato per addestrare i comandanti delle forze armate ad adottare opportune strategie in caso di una catastrofi particolari, ovvero di «apocalisse dei morti viventi». Uno scenario che sembra più il soggetto di una pellicola sul filone di “The Walking Dead”, scrive Francesco Semprini su “La Stampa”. Il protocollo, non secretato, è conosciuto come “Counter-Zombie Dominance”: un vero e proprio piano di sopravvivenza per contrastare ogni minaccia legata a «un’offensiva dei morti viventi» e aiutare «qualsiasi popolazione del mondo, compresi gli avversari tradizionali», come Cina, Russia o Corea del Nord.
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Pilger: quella che sta iniziando si chiama guerra mondiale
Perchè tolleriamo di minacciare un’altra guerra mondiale in nostro nome? Perchè permettiamo menzogne che giustifichino questo rischio? La portata del nostro indottrinamento, scrisse Harold Pinter, è un «brillante, persino arguto, atto di ipnosi di immenso successo», come se la verità «non fosse mai accaduta nemmeno mentre stava accadendo». Ogni anno lo storico statunitense William Blum pubblica il suo “Riassunto aggiornato della politica estera degli Usa”, il quale mostra come, dal 1945, essi abbiano provato a sollevare più di 50 governi, molti dei quali democraticamente eletti, abbiano massicciamente interferito nelle elezioni di 30 paesi, abbiano bombardato la popolazione civile di 30 nazioni, abbiano fatto uso di armi chimiche e biologiche e abbiano attentato alla vita di leader stranieri.In molti casi il Regno Unito ne è stato complice. Il grado di sofferenza umana causato, per non parlare dei crimini perpetrati, è ben poco conosciuto in Occidente, malgrado la presenza del sistema di comunicazioni più avanzato del mondo e del giornalismo nominalmente più libero. Il fatto che la maggior parte delle vittime del terrorismo – il “nostro” terrorismo – sia musulmana non può essere detto. L’informazione che il jihadismo estremo, che portò all’11 Settembre, era stato coltivato come arma dalla politica anglostatunitense (“operazione ciclone” in Afghanistan) è stata soppressa. In aprile, il Dipartimento di Stato Usa ha reso noto che, in seguito alla campagna della Nato del 2011, «la Libia è divenuta un rifugio per terroristi».Il nome del “nostro” nemico è cambiato nel corso degli anni, dal comunismo all’Islam, ma generalmente esso è incarnato da qualsiasi società indipendente dall’egemonia dell’Occidente che occupi un territorio strategicamente utile o disponga di abbondanti risorse naturali. I leader di queste nazioni scomode vengono generalmente deposti con la violenza, come i democratici Muhammad Mossedeq in Iran e Salvador Allende in Cile, o uccisi come Patrice Lumumba in Congo. Tutti loro vengono sottoposti a campagne denigratorie dai media occidentali – pensiamo a Fidel Castro, Hugo Chavez e ora Vladimir Putin. Il ruolo di Washington in Ucraina differisce solo per le sue implicazioni nei nostri confronti. Per la prima volta dalla presidenza Reagan, gli Stati Uniti stanno minacciando di ricondurre il mondo in guerra. L’Europa dell’est e i Balcani sono avamposti della Nato e l’ultimo “Stato cuscinetto” al confine con la Russia viene fatto a pezzi.Noi occidentiali stiamo sostenendo dei neonazisti nel paese in cui i nazisti ucraini sostennero Hitler. Dopo aver architettato il colpo di Stato di febbraio contro il governo democraticamente eletto a Kiev, il piano di Washington per la conquista della storica e legittima base navale Russa in Crimea è fallito. I russi si sono difesi, come hanno fatto per oltre un secolo di fronte ad ogni minaccia e invasione da parte dell’Occidente, ma l’accerchiamento da parte della Nato ha avuto un’accelerazione, insieme agli attacchi orchestrati dagli Stati Uniti contro gli ucraini di etnia russa. Se Putin venisse provato ad accorrere in loro aiuto, il suo ruolo di paria predestinato giustificherebbe la Nato ad intraprendere una guerriglia che potrebbe trasferirsi all’interno dello stesso territorio russo.Putin ha invece frustrato il partito della guerra cercando una distensione con Washington e l’Ue, ritirando le truppe russe dal confine e invitando gli ucraini di etnia russa a non partecipare ai provocatori referendum nelle regioni dell’Est. Questa parte di popolazione russofona e bilingue – un terzo del totale – aspira da tempo a una federazione democratica che rispecchi le differenze etniche del paese e che sia al contempo autonoma e indipendente da Mosca. Molti di loro non sono né separatisti né ribelli, ma cittadini che vogliono vivere sicuri nella loro patria.Come le rovine di Iraq e Afghanistan, l’Ucraina è stata ridotta a un parco divertimenti della Cia – diretto dal direttore della Cia John Brennan a Kiev, assieme ad “unità speciali” che sovrintendano ad attacchi selvaggi su coloro i quali si oppongono al golpe di febbraio. Guardate i video, leggete le denunce dei testimoni oculari del massacro di Odessa di questo mese. Squadre di criminali fascisti hanno bruciato la sede dell’unione del commercio, uccidendo le 41 persone intrappolate al suo interno. Guardate la polizia starsene a guardare. Un dottore ha raccontato di aver tentato di salvare alcune persone, «ma sono stato fermato dai sostenitori dei nazi. Uno di loro mi ha spinto via rudemente, promettendomi che presto io e gli altri ebrei di Odessa avremmo avuto la medesima sorte… mi chiedo perchè il mondo intero se ne stia in silenzio».Gli ucraini russofoni stanno lottando per la loro sopravvivenza. Quando Putin ha annunciato il ritiro delle truppe russe dal confine, il segretario della difesa della giunta di Kiev – un membro fondatore del partito fascista Svoboda – ha rincarato dicendo che gli attacchi contro “i ribelli” sarebbero proseguiti. In perfetto stile orwelliano, la propaganda in Occidente ha ribaltato il tutto in “Mosca cerca di fomentare il conflitto e la provocazione”, secondo il segretario degli Esteri britannico William Hague. Il suo cinismo fa da pari con i grotteschi complimenti di Obama alla giunta per la sua «notevole compostezza» nel seguire il massacro di Odessa. Benchè sia fascista e illegale, la giunta è descritta da quest’ultimo come «propriamente eletta». Ciò che conta non è la verità, ha detto una volta Henry Kissinger, ma ciò che è percepito essere vero.Nei media statunitensi, le atrocità di Odessa sono state presentate come «confuse» e «una tragedia» in cui i «nazionalisti» (neonazisti) hanno attaccato i «separatisti» (persone che raccoglievano firme per un referendum a sostegno della Federazione Ucraina). Il “Wall Street Journal” di Rupert Murdoch ha condannato le vittime: “La sparatoria è stata probabilmente innescata dai ribelli ucraini, dice il governo”. La propaganda in Germania è stata guerra fredda allo stato puro, con il “Frankfurter Allgemeine Zeitung” che avvertiva i suoi lettori della “guerra ancora non dichiarata dalla Russia”. Per i tedeschi è una fantastica ironia che Putin sia l’unico leader a condannare l’ascesa del fascismo nell’Europa del 21° secolo.Una popolare banalità è che “il mondo sia cambiato dopo l’11 Settembre”, ma cosa è veramente cambiato? Secondo il grande informatore Daniel Ellsberg, un golpe silenzioso è già avvenuto a Washington e ora a governare è un militarismo rampante. Il Pentagono ultimamente svolge “operazioni speciali” – guerre segrete – in 124 paesi. In patria, una povertà crescente e una morente libertà sono il corollario ad uno stato di guerra perpetua. Aggiungiamo il rischio di una guerra nucleare e la domanda è: perchè tolleriamo tutto ciò?(John Pilger, “Rompere il silenzio, la guerra mondiale sta iniziando”, da “Asia Times” del 14 maggio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Perchè tolleriamo di minacciare un’altra guerra mondiale in nostro nome? Perchè permettiamo menzogne che giustifichino questo rischio? La portata del nostro indottrinamento, scrisse Harold Pinter, è un «brillante, persino arguto, atto di ipnosi di immenso successo», come se la verità «non fosse mai accaduta nemmeno mentre stava accadendo». Ogni anno lo storico statunitense William Blum pubblica il suo “Riassunto aggiornato della politica estera degli Usa”, il quale mostra come, dal 1945, essi abbiano provato a sollevare più di 50 governi, molti dei quali democraticamente eletti, abbiano massicciamente interferito nelle elezioni di 30 paesi, abbiano bombardato la popolazione civile di 30 nazioni, abbiano fatto uso di armi chimiche e biologiche e abbiano attentato alla vita di leader stranieri.
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Pagliacci assassini, vi raccontano che il cattivo è Putin
La prima notizia è che Barack Obama scorrazza impunemente per l’Europa, senza doversela vedere con manifestazioni di protesta. Obama stringe mani di “alleati” belanti, nonostante quello che i suoi tagliagole hanno appena combinato a Kiev, a Odessa, nell’Est dell’Ucraina. L’altra notizia è che questo spettacolo non piace all’opinione pubblica europea: un sorprendende sondaggio dell’“Independent” rivela che il 90% degli inglesi stima Putin, il quale sta agendo in modo legittimo secondo l’ex cancelliere tedesco Schmidt. Lo pensano anche milioni di cittadini tedeschi: la Russia, minacciata dal golpe organizzato dagli Usa a Kiev, si è dovuta muovere tempestivamente per salvare la sua unica base navale in acque calde, sul Mar Nero, in Crimea, peraltro decisiva – meno di un anno fa – per organizzare la protezione della Siria e scongiurare l’attacco della Nato. Ma, anche in Germania, i media non stanno dalla parte dei cittadini: quelli che si attengono semplicemente ai fatti, dice Diana Johnstone, vengono definiti “Putinversteher”, cioè “persone che capiscono Putin”, individui stravaganti.«Non siamo tenuti a capire, noi dobbiamo odiare: i media esistono per questo motivo», dice la Johnstone, autrice del libro-denuncia “La crociata dei dementi” (“Fools’ Crusade: Yugoslavia, Nato, and Western Delusions”). Mentre l’Occidente si rifiuta ostinatamente di “capire” Putin, annota la saggista in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, il capo del Cremlino sembra comprendere benissimo che lui e la sua nazione «vengono sistematicamente attirati con l’inganno in una trappola mortale da un nemico che eccelle nell’arte contemporanea della “comunicazione”». In una situazione di guerra, «la comunicazione della Nato dimostra che non è importante chi fa cosa: l’unica cosa che conta è chi racconta la storia». E i media occidentali stanno recitando un copione prestabilito: Putin è il nuovo Hitler pronto all’invasione. A Odessa, dove i neonazisti anti-russi hanno organizzato un massacro raccapricciante, «i media occidentali non hanno notato atrocità, non hanno sentito di alcuna violenza, non hanno riferito di crimine alcuno. Hanno solamente condannato una “tragedia” che era appena accaduta in un qualche modo imprecisato».Odessa, aggiunge la Johnstone, è la dimostrazione che, qualunque cosa accada, la classe politica della Nato – militari, leader politici e media – punta sulla “sua” storia e si attene ad essa: «I nazionalisti che hanno preso il potere a Kiev sono i “buoni”, mentre le persone che vengono assaltate a Odessa e nell’est dell’Ucraina sono “filo-russi” e, di conseguenza, i “cattivi”». E dire che non ci va molto a “capire” Putin, a patto che si sappia distinguere tra verità e palesi menzogne. Come quelle che racconta il ministro degli esteri inglese William Hague, secondo cui la Russia sta «cercando di orchestrare conflitti e provocazioni» nel sud e nell’est dell’Ucraina, come se Putin fosse improvvisamente impazzito, felice di avere una guerra civile sulla porta di casa e, di conseguenza, i missili della Nato piazzati a 400 chilometri da Mosca. «Putin può solo desiderare di trovare una soluzione pacifica al caos ucraino», scrive la Johnstone, perché sa che il golpe di Kiev è stato una trappola ispirata da strateghi americani come Zbigniew Brzezinski, il cui sogno è la caduta di Putin e il potenziale smembramento della Russia.Per questo, Putin ha aperto un nuovo canale diplomatico con lo svizzero Didier Burkhalter, presidente dell’Ocse, e ha appena allontanato l’esercito russo dal confine ucraino, temendo una provocazione “false flag”, un falso sconfinamento organizzato tra Washington e Kiev per poi attribuirne a Mosca la responsabilità. Il ritiro delle truppe ha spaventato i russofoni, che temono di essere abbandonatio dal Cremlino sotto la pressione dell’Occidente, ma Putin si è anche speso con energia perché fossero evitati i referendum dell’est dell’Ucraina. Molto serio, peraltro, l’allarme sulla possibile violazione dei confini: i russi hanno appreso che l’Sbu, il servizio segreto ucraino, aveva segretamente inviato 200 uniformi russi e i documenti (falsi) di 70 ufficiali russi a Donetsk, una delle capitali della protesta, per mettere in scena un falso attacco contro le pattuglie di frontiera ucraine. Il piano, sostiene l’agenzia di stampa russa “Ria Nòvosti”, sarebbe stato quello di «simulare un attacco contro truppe di frontiera ucraine e filmarlo per i media». Al che, «una dozzina di combattenti dall’ultra-destra nazionalista avrebbero dovuto attraversare il confine e rapire un soldato russo, al fine di presentarlo come “prova” dell’incursione militare russa. L’operazione era prevista per l’8 o il 9 maggio».Spostando le truppe russe più lontano dal confine, aggiunge la Johnstone, Putin potrebbe sperare di rendere l’operazione “false flag” meno plausibile, e magari scongiurarla. Ma non c’è da stare tranquilli, perché «l’intera operazione ucraina, almeno in parte diretta da Victoria Nuland del Dipartimento di Stato Usa, è stata caratterizzata da operazioni “false flag”, tra cui quelle maggiormente note tramite i cecchini che hanno improvvisamente propagato i massacri e il terrore in piazza Maidan a Kiev, distruggendo di fatto l’accordo di transizione sponsorizzato a livello internazionale. I ribelli “filo-occidentali” hanno accusato il presidente Yanukovich di aver inviato gli assassini, e costretto il resto del Parlamento a dare il potere di governo al protetto della signora Nuland, Arseniy Yatsenyuk. Tuttavia, sono uscite fuori un gran numero di prove a dimostrare che i misteriosi cecchini erano mercenari filo-occidentali: prove fotografiche, seguite dalla dichiarazione telefonica di conferma del ministro degli esteri dell’Estonia, e infine dal canale televisivo tedesco “Ard”, il cui documentario del programma “Monitor” ha concluso che i cecchini provenivano dai gruppi di estrema destra anti-russi coinvolti nella rivolta di Maidan».Tutte le prove conosciute portano a un un’operazione “false flag” da parte dei fascisti inquadrati dagli americani a addestrati in Polonia, eppure i media e i politici occidentali continuano ad addossare tutte le colpe alla Russia. «Qualunque cosa faccia, Putin deve rendersi conto che sarà volutamente “frainteso” e rappresentato in maniera distorta». La verità, conclude Diana Johnstone, è che «sopra le teste del popolo americano, dei tedeschi, dei francesi e degli altri europei, un accordo privato per rianimare la guerra fredda è certamente stato raggiunto tra gli “oligarchi” occidentali, al fine di garantire all’Occidente un “nemico” abbastanza serio da salvare il complesso militare-industriale e unire la comunità transatlantica contro il resto del mondo». Naturalmente, gli oligarchi non stanno con le mani in mano neppure sul fronte degli affari: Hunter Biden, figlio del vicepresidente americano Joe Biden, ha appena avuto in dono il business del gas ucraino. Se non altro, settori sempre più vasti dell’opinione pubblica “vedono” quello che i media negano: è l’America cerca di trascinare in guerra la Russia. E se il mondo non precipiterà nella catastrofe, dovrà ringraziare innanzitutto Putin.…..Barack Obama, Europa, Kiev, Odessa, Ucraina, opinione pubblica, sondaggi, The Independent, Gran Bretagna, Vladimir Putin, Germania, Helmut Schmidt, Russia, golpe, Usa, Kiev, flotta, Mar Nero, Crimea, Siria, Nato, media, mainstream, disinformazione, cittadini, Diana Johnstone, odio, denuncia, crociate, Jugoslavia, Occidente, Come Don Chisciotte, Cremlino, inganno, trappola, comunicazione, guerra, Adolf Hitler, invasione, neonazisti, neonazismo, massacro, orrore, atrocità, violenza, crimini, tragedia, politica, militari, leader, nazionalismo, potere, verità, menzogne, William Hague, provocazioni, guerra civile, missili, Mosca, caos, Zbigniew Brzezinski, diplomazia, Svizzera, Didier Burkhalter, Ocse, esercito, false flag, referendum, allarme, violazioni, frontiere, Sbu, servizi segreti, intelligence, Donetsk, Ria Nòvosti, destra, Victoria Nuland, Dipartimento di Stato, cecchini, terrore, piazza Maidan, Viktor Yanukovich, Parlamento, Arseniy Yatsenyuk, mercenari, Estonia, televisione, Ard, documentario, Monitor, Polonia, popolo, Francia, guerra fredda, oligarchi, affari, Hunter Biden, Joe Biden, business, gas, catastrofe,La prima notizia è che Barack Obama scorrazza impunemente per l’Europa, senza doversela vedere con manifestazioni di protesta. Obama stringe mani di “alleati” belanti, nonostante quello che i suoi tagliagole hanno appena combinato a Kiev, a Odessa, nell’Est dell’Ucraina. L’altra notizia è che questo spettacolo non piace all’opinione pubblica europea: un sorprendende sondaggio dell’“Independent” rivela che il 90% degli inglesi stima Putin, il quale sta agendo in modo legittimo secondo l’ex cancelliere tedesco Schmidt. Lo pensano anche milioni di cittadini tedeschi: la Russia, minacciata dal golpe organizzato dagli Usa a Kiev, si è dovuta muovere tempestivamente per salvare la sua unica base navale in acque calde, sul Mar Nero, in Crimea, peraltro decisiva – meno di un anno fa – per organizzare la protezione della Siria e scongiurare l’attacco della Nato. Ma, anche in Germania, i media non stanno dalla parte dei cittadini: quelli che si attengono semplicemente ai fatti, dice Diana Johnstone, vengono definiti “Putinversteher”, cioè “persone che capiscono Putin”, individui stravaganti.
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Giannuli: da Geithner un aiutino a Silvio contro Putin?
E’ possibile che il siluro arrivato a Napolitano a novembre, con il libro di Alain Friedman, sia indipendente da questa uscita di Timothy Geithner, che rilancia la tesi del complotto internazionale ai danni del Berluska. Ma qualche sospetto viene e, comunque, anche se è plausibile che Friedman non potesse prevedere questa uscita attuale di Geithner, è molto poco probabile che questi non sapesse del precedente. Ed allora: perché e perché proprio ora? E in pieno finale di campagna elettorale? Per di più, Geithner usa un’espressione piuttosto pesante quando dice di aver sconsigliato ad Obama di aderire all’invito degli esponenti Ue: «Non possiamo macchiarci le mani del sangue di questo uomo». Certo potrebbe trattarsi di linguaggio figurato. Ma, anche qui, sorge il dubbio che si volesse dir di più.E va da sé che Geithner avrà sicuramente consultato prima il presidente – o chi per lui – dovendolo tirare in ballo; d’altra parte, se così non fosse stato, avremmo già dovuto leggere un comunicato della Casa Bianca che definisce queste come “posizioni e ricordi personali che il presidente non conferma”, eccetera. E invece… Dunque, il capo dell’amministrazione in carica ha deciso di lasciar fare. Il primo effetto di questa uscita è oggettivamente un assist a Berlusconi, presentato come la vittima di un complotto della cattiva Ue, rafforzando e raddoppiando l’uscita di Friedman. Per di più le reazioni sono smentite che non smentiscono un accidenti, anzi mi ricordano la frase della signorina richiesta di certe prestazioni che replicava: «Prima di tutto queste cose io non le faccio, poi l’erba è bagnata e 50 euro sono pochi». Imbarazzante!E il Cavaliere, giustamente dal suo punto di vista, cerca di cavalcare la cosa come può, visto che i servizi sociali fanno presto a diventare arresti domiciliari e non è prudente prendersela con il Colle. Ma tutto questo avrà un effetto elettorale, frenando la caduta di Fi? E perché a Geithner preme tanto aiutare il periclitante Cavaliere? Qualche effetto elettorale è possibile che ci sia, spingendo un po’ di berlusconiani tiepidi, indecisi fra la spiaggia e le urne, a scegliere le seconde. Ma di quanti potrebbe trattarsi? Certo, anche uno 0,4%, per uno che sta affondando e deve resistere voto per voto, è un aiuto, anche se non risolutivo. Ma sapete che ci sono di quei regali dei quali si dice “basta il pensiero”. E qui il dubbio è che l’omaggio non sia tanto al capo di Fi, quanto all’amico, sodale, confidente e diremmo quasi socio di Putin. Siamo in tempi di rapporti difficili fra Casa Bianca e Cremlino e, forse, serve un buon mediatore. O forse si vuole invitare a star fermo e restare neutrale un possibile capo della lobby filo-russa.Peraltro, questo potrebbe essere un missile a più testate: un sorriso al vecchio amico Silvio, ma anche un pizzicotto a quegli antipatici della Ue, che non stanno facendo quello che dovrebbero contro i cattivi russi che invadono l’infelice Ucraina… Immaginate se venisse fuori altro, che si dimostrasse l’ingerenza della Ue negli affari di governo di un paese membro. E magari ancora di più… Sarebbe una circostanza davvero noiosa, vi pare? Certo nella testa degli americani oggi c’è più Kiev che Roma. Però, se dovesse esserci anche qualche effetto romano, la cosa non guasterebbe: sbaglieremo, ma il giullare fiorentino non è nelle grazie dei padroni di casa. E se gli si può guastare la festa non è cosa che possa dispiacere. E anche Grillo, abbiamo il sospetto che, sulla riva occidentale dell’Atlantico, sia visto peggio di un anno fa.Tutto sommato, anche se il Cavaliere ha avuto le sue infedeltà, fornicando con l’autocrate russo e con il pirata berbero buonanima, è pur sempre un vecchio amico su cui si può contare. Infine, visto che ci siamo, la cosa può tornare utile anche a liberare la sedia del Quirinale. Certo, Re Giorgio è un vecchio amico sempre leale; però, da qualche tempo, inizia ad essere troppo contestato e non è più funzionale come un tempo. Forse è il momento di cambiarlo con un più giovane ed efficiente amico degli Usa…E’ possibile che il siluro arrivato a Napolitano a novembre, con il libro di Alain Friedman, sia indipendente da questa uscita di Timothy Geithner, che rilancia la tesi del complotto internazionale ai danni del Berluska. Ma qualche sospetto viene e, comunque, anche se è plausibile che Friedman non potesse prevedere questa uscita attuale di Geithner, è molto poco probabile che questi non sapesse del precedente. Ed allora: perché e perché proprio ora? E in pieno finale di campagna elettorale? Per di più, Geithner usa un’espressione piuttosto pesante quando dice di aver sconsigliato ad Obama di aderire all’invito degli esponenti Ue: «Non possiamo macchiarci le mani del sangue di questo uomo». Certo potrebbe trattarsi di linguaggio figurato. Ma, anche qui, sorge il dubbio che si volesse dir di più.
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I denti degli oligarchi: a Biden junior il gas dell’Ucraina
R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.Sino a vent’anni fa l’oligarca era un generico esponente di un sistema di governo che poche persone imponevano a tutti. L’oligarca post-sovietico è invece una cosa più specifica: è un uomo d’affari che ha arraffato – mentre occupava una posizione dominante derivante dalla politica – le immense ricchezze pubbliche tratte dalla selvaggia privatizzazione dell’economia sovietica dopo il crollo dell’Urss. Questo tipo umano è ormai l’unico a essere etichettato come oligarca. La russofobia che regna nel discorso pubblico occidentale fa il resto: a est, anzi, in Russia, ci sono oligarchi; da noi, invece, sani imprenditori di specchiata virtù che mai oserebbero spolpare una nazione. Come definire altrimenti un De Benedetti. Pazienza se moltissimi oligarchi russi, prima di decidere se appoggiare o combattere la nuova “verticale del potere” di Putin, siano stati per prima cosa delle creature occidentali.Ma Hunter Biden è lì a ricordarci, con il suo cursus honorum e i suoi denti, stretti su un cucchiaio d’argento, che gli oligarchi esistono anche qui a Ovest, e prosperano e frequentano tutti i corridoi che portano alle stanze del denaro, dei governi, dell’intelligence. Con una colossale excusatio non petita, a Washington ci provano lo stesso a dircelo: secondo loro, le entrature nel governo, per il figlio del numero due della Casa Bianca non contano. E pertanto Biden ha ottenuto la sua carica nella lontana colonia europea solo per via del suo curriculum. Se i fatti ci dicono altro, è colpa nostra, che siamo prevenuti. È solo una coincidenza, infatti, che il 21 aprile Biden il Vecchio porti la sua dentatura a Kiev per dettare i suoi voleri, e che proprio negli stessi giorni Biden il Giovane diventi l’homo americanus dell’azienda più strategica del paese, in piena battaglia del gas.Il sospetto è che laggiù servisse uno sperimentato oligarca, appunto, che facesse da ufficiale di collegamento fra l’oligarchia locale e gli ottimati di Washington. E il dottor Hunter Biden aveva davvero il curriculum giusto per questo compito urgente: carriera universitaria presso le più prestigiose ed elitarie università private, e poi un impressionante lavoro di interconnessione interno e internazionale fra multinazionali, organizzazioni non governative imbevute di valori (soldi) governativi, uffici legali di super-lobbisti, ecc. Soprattutto, Hunter Biden è uno dei più stretti collaboratori del presidente del National Democratic Institute for International Affairs (Ndi), un’organizzazione creata dal governo Usa come emanazione del National Endowment for Democracy (Ned) per canalizzare contributi e donazioni miranti a «rafforzare la democrazia» in 125 diverse nazioni. Cioè un elemosiniere politico, una delle fabbriche delle rivoluzioni colorate di mezzo mondo, presieduta nientemeno che da Madeleine K. Albright, ex segretario di Stato ai tempi di Clinton e del bombardamento della Serbia. È quella stessa personalità politica che disse in Tv che mezzo milione di bambini morti per l’embargo in Iraq erano stati «un prezzo giusto», e ne era valsa la pena («the price is worth it?»).Biden si sceglie buone compagnie. Sempre assieme alla Albright, è fra gli amministratori del Truman National Security Project, un centro di formazione che impiega ingenti risorse per forgiare intere leve di esponenti politici progressisti intorno ai temi della sicurezza nazionale. Quando sentite qualche vago esponente di sinistra che parla bene della guerra, sappiate da dove viene imbeccato. Secondo Hunter Biden, il proprio compito a Kiev consisterà nel dare buoni consigli su «trasparenza, corporate governance e responsabilità, espansione internazionale e altre priorità» al fine di contribuire, nientemeno, «all’economia e al benessere del popolo ucraino». Sembra di sentire le stesse parole pronunciate nel 2003 per l’Iraq da Paul Bremer, il governatore coloniale insediato dal presidente George W. Bush quando invase e devastò quel paese. Ma mentre gli imperialisti repubblicani avevano una concezione rudimentale dell’“esportazione della democrazia”, la gente dell’Ndi è più duttile, perché afferma che «l’Ndi non presume di imporre soluzioni né ritiene che un sistema democratico si possa replicare da qualche altra parte». Semmai, l’Ndi «condivide esperienze e offre una serie di opzioni in modo che i leader possano adattare quelle pratiche e istituzioni che possano lavorare meglio nel loro proprio ambiente».“Adattare” è dunque la parola chiave. E gli imperialisti democratici americani in Ucraina si sono “adattati” così bene da allearsi con partiti fascistoidi e formazioni paramilitari naziste. Si tratta di un’alleanza scandalosa che non imbarazza minimamente gli esponenti del Partito Socialista Europeo. Come non scandalizza nemmeno il plurimiliardario Ihor Kolomyski, fondatore della European Jewish Union, doppia cittadinanza ucraina e israeliana, co-proprietario della banca Privat e di diverse società che hanno individuato grosse riserve di gas naturale proprio nelle zone ucraine in cui si combatte. Un’inchiesta di “Forbes” ha descritto molto bene il modo in cui Kolomyski ha fatto fortuna: «Kolomyski ha usato delle forze “quasi-militari” della banca Privat per far valere l’acquisizione ostile di aziende, arruolando un gruppo di “teppisti, armati di mazze da baseball, spranghe di ferro, gas e pistole con proiettili di gomma e motoseghe” per prendersi con la forza un impianto siderurgico a Kremenchuk nel 2006 e ha usato “un mix di ordini del tribunale fasulli (spesso per mano di giudici e/o cancellieri corrotti) e di maniere forti” per sostituire amministratori nei consigli di amministrazione delle società delle quali acquistava le partecipazioni».Si vede che a “Forbes” non hanno molta dimestichezza con la cronaca antimafia, che userebbe invece concetti più brevi per descrivere il profilo criminale di un siffatto personaggio. Il presidente golpista Turchynov, a ogni buon conto, lo ha nominato governatore dell’Oblast di Dnipropetrovsk, una regione confinante con i punti caldi della rivolta dei russi d’Ucraina. Kolomyski ha promesso «una taglia per chi catturi militanti sostenuti dai russi e ricompense per chi depone le armi». Questo magnate della finanza e del gas – fra un impegno di cosca e l’altro – sarà uno di quei campioni di «trasparenza, corporate governance e responsabilità» con cui dovrà interloquire Mister Biden jr. Qui c’è un punto ancora più interessante.Il sito di documentazione anticorruzione ucraino (AntAc), d’ispirazione alquanto americana, nel 2012 ha tentato di ricostruire a chi possa appartenere davvero la Burisma, che si presenta come la faccia più alla luce del sole della catena proprietaria dell’impresa gasiera. Una volta che si muovono nel territorio finanziario off-shore, le tracce diventano più difficili, come in una caccia al tesoro mondiale.Abbiamo visto che la Burisma è controllata dall’entità cipriota Brociti Investments Ltd, che l’aveva rilevata dai precedenti proprietari, gli oligarchi Mykola Zlochevsky (ministro dell’energia del deposto presidente Janukovich) e Mykola Lisin (nel frattempo deceduto). Nello schema finanziario della vendita della Brociti sembra essere coinvolta un’altra grossa impresa del settore degli idrocarburi, la Ukrnaftoburinnya. Se vogliamo sapere chi possiede Ukrnaftoburinnya, le tracce ritornano a Cipro, dove il 90% della società sta in pancia alla Deripon Commercial Ltd. Qua dobbiamo fare un volo più lungo, perché la Deripon è controllata a sua volta da una holding delle Isole Vergini britanniche, la Burrad Financial Corp. Laggiù la nebbia, ancorché ai tropici, diventa fittissima. Ma il nome della Burrad non è tuttavia insignificante, perché ricorre in svariate inchieste che ricostruiscono le operazioni finanziarie gestite dalla banca Privat. Cioè la banca di Ihor Kolomyski.Per “Forbes”, comunque, resta probabile che il proprietario sia ancora Zlochevsky (con possibile suo doppio gioco). Lo so, vi siete persi. E anche io. Ma provo a riassumere. Kolomyski, tramite società off-shore, era il dominus della Burisma, la più importante impresa estrattiva del gas in Ucraina, in cui ora si impegna in prima persona quel dentone di Hunter Biden. Kolomyski l’ha ufficialmente ceduta, grazie a uno schema finanziario che gli era familiare, a un’impresa off-shore di cui perdiamo le tracce dei proprietari. Nello stesso tempo Kolomyski è diventato un’autorità politica territoriale di riferimento per le aree in cui si presume la presenza di grandi riserve di gas in mano alla società di cui è amministratore Biden. L’Ucraina, grazie alle nuove tecnologie estrattive per gli idrocarburi sviluppate negli ultimi anni dagli Usa, è ormai un centro di attrazione per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. La coltivazione di questi giacimenti – ora pienamente sfruttabili nell’orbita nordamericana – minaccia apertamente la posizione dominante di Gazprom, ossia l’architrave energetica della rinata potenza russa.Il fatto che il cuore del potere Usa si scomodi per gestire così da vicino la pratica del gas inviando il figlio del vicepresidente conferma la crescente rilevanza politica di questa partita. Solo la subalternità, la ricattabilità e le misere ambizioni sub-dominanti dei politici europei potevano consentire questo gioco. Non è un caso che l’altro eminente consigliere di amministrazione della Burisma – profilo tutto politico anche il suo – sia l’ex presidente della Polonia, Aleksander Kwaśniewski, un campione di ingerenza atlantista (e polacca) in Ucraina. Il portavoce del Cremlino fa ironia, mentre dichiara di non vedere un conflitto d’interesse nel ruolo di Biden. «In fondo, come tutti sanno, non c’è nessun gas in Ucraina. Il gas in Ucraina è russo». E mostra i denti. I suoi.R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.
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Geithner e il golpe 2011, Sapelli: nel mirino era Tremonti
Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.Quella che oggi sgancia Geithner è una bomba: «Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far dimettere Berlusconi». Per prima cosa bisogna contestualizzare gli eventi, raccomanda Sapelli, intervistato da Fabio Franchini per “Il Sussidiario”. Geithner, ex ministro di Obama, nel 2014 scrive un libro dove racconta come a far cadere il governo Berlusconi non siano stati gli Usa, bensì la tecnocrazia europea dominata dai tedeschi. Motivo? «Perché l’Italia si era detta non favorevole a salvare la Grecia portando quote ulteriori di capitali rispetto a quelli che già versava al fondo della Comunità Economica Europea». Se Geithner dice questo, aggiunge Sapelli, «vuol dire che ora come ora i rapporti tra Germania e Usa sono lacerati, pessimi. Uno come lui che ha avuto responsabilità internazionali di altissimo livello (mentre oggi le ha nel mondo finanziario) e che scrive un libro con dentro cose di questo tipo…».Il vero obiettivo di Bruxelles era Tremonti, insiste Sapelli: era lui l’uomo da far cadere. «Consiglio di andare a sfogliare le appendici di “Uscita di sicurezza”, scritto dall’ex ministro dell’economia: contengono delle verità terribili. Tremonti ha continuato ad avvisare la Comunità Europea sull’arrivo imminente della crisi, invitando a perseguire politiche antideflazionistiche, che andavano però a contrastare le mire tedesche. Andava allontanato». L’Italia, o meglio Tremonti, vittima dunque di una vera e propria ritorsione? «Sì, ma anche della sua stessa debolezza politica». Secondo Sapelli, uno come Tremonti «avrebbe dovuto trovare il modo di dirle anche da ministro le cose che dice nel libro». Il fatto resta senza precedenti: nella “democratica” Europa «non era mai accaduto che un governo eletto fosse destituito così. Quell’esecutivo era sì traballante, ma non ancora sfiduciato dal Parlamento. Costituzionalmente parlando è una cosa gravissima».E la calamità dello spread? «Non ha alcun senso. Lo spread, come dimostrano i fatti di oggi, era un’invenzione: era tenuto volontariamente alto per creare una psicosi. Lo spread adesso è caduto mica per merito del governo Renzi, bensì perché i mercati dei paesi emergenti, che prima tiravano, stanno manifestando i primi sentori di una crisi». Alla vigilia del voto del 25 maggio, che conseguenze può avere una rivelazione di questa portata che svela queste trame? Geopolitica: gli americani oggi impegnati in Ucraina nel braccio di ferro contro Putin sanno benissimo che il libro di Geithner avrà un’enorme eco mediatica, quindi «hanno tutto l’interesse a destabilizzare la Merkel e i governi che la sostengono». Alla luce del retroscena di Geithner, il ruolo di Napolitano in quei convulsi mesi estivi e autunnali cambia o rimane invariato? Sapelli non ha dubbi: «Dico solo una cosa: riflettiamo sul viaggio della regina Elisabetta in Italia: chi è venuta a trovare la regina? il Papa e Napolitano. Ecco».Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.
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Ue, Mosca e Pechino soci perfetti: è l’incubo degli Usa
E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo, che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin «come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb, l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».L’elemento saliente di quel periodo, ricorda Helevi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è la seconda guerrra cecena, combattuta tra il 1999 e il 2001. «La strategia militare elaborata da Putin implicò delle perdite fortissime tra i civili residenti in Cecenia (sia ceceni che russi) e questa violazione dei diritti umani non venne mai denunciata politicamente e formalmente dagli “occidentali” perchè troppo importante era Putin in relazione ad un possibilissimo ritorno al potere dei neo-comunisti». Altro errore, analogo: «Trattare la Cina come “qualcosa di rosso” perché c’è il Pcc al potere». Altro caso di miopia che, sempre secondo Halevi, «rende una grossa parte della sinistra completamente scema senza possibilità d’appello». Il modo migliore di intepretare la nuova Cina? «E’ vederla come un fenomeno ultra-bismarckiano», pur tenendo conto del fatto che «la formazione di una potenza bismarckiana delle dimensioni della Cina pone dei problemi per l’altra potenza», quella americana.Una visione, questa, elaborata già nel 1999 dalla Rand Corporation. Cina ultra-bismarckiana? A coniare la formula fu Zalmay Khalilzad, afghano emigrato negli Usa diventato sotto Bush figlio e ambasciatore Usa a Kabul dopo il 2001, poi ambasciatore in Iraq dopo il 2003 ed infine ambasciatore statunitense all’Onu. Sul versante geopolitico, Khalilzad spiega perchè – con la Cina di oggi – gli Usa non possono avere rapporti di sola cooperazione amichevole o di solo conflitto. «Pochi hanno colto la dimensione duale e contraddittoria degli interessi Usa in Cina, ma per coglierli basta studiare – leggendo il “Wall Street Journal” e l’“International New York Times” – Walmart, Apple e la General Electric». Quei colossi «sono in Cina per rifornire in primo luogo il mercato Usa, in secondo luogo il resto del mondo, in terzo luogo per vendere sul mercato cinese in crescita asfissiante (letteralmente)». Il successo della loro presenza in Cina «dipende dalla crescita cinese, che è organizzata dallo Stato bismarckianamente».Questa crescita, continua Halevi, significa «capacità di mettere in piedi in breve tempo grosse strutture industriali con ampie economie di scala e con ritmi di lavoro parossistici». Tutto ciò «conferisce una dimensione concreta alla globalizzazione». Esempio, il caso Apple, con iPad e iPhone «progettati negli Usa, prodotti da una società di Taiwan ma localizzata in Cina», perchè «a Taiwan e nemmeno negli Usa avrebbero potuto costruire, in poco tempo e con tutte le infrastrutture di collegamento, un insieme di impianti che occupano oltre 700 mila persone». Così, si è generato «uno iato crescente tra gli interessi economici del capitale Usa e la capacità dello Stato Usa di garantirne gli interessi in maniera coerente». Per esempio, negli Usa si discute la necessità di far rivalutare la moneta cinese, lo yuan: «A non volerlo sono proprio le società Usa che operano dalla Cina».Fino alla fine degli anni ‘90, prosegue Halevi, il mantenimento dell’egemonia statunitense si fondava sul ruolo della spesa pubblica federale (senza la quale il sistema militare, politico e finanziario non funzionerebbe) e sul ruolo del dollaro. Due elementi che permettevano e permettono il controllo delle cruciali zone energetiche del Medio Oriente. Un analista come Zbigniew Brzezinski sostenne che il controllo dell’arco energetico che va dall’Arabia Saudita all’insieme del Medio Oriente pemette di “tenere al guinzaglio” simultaneamente sia il Giappone che l’Unione Europea. «Giustissimo, per quel periodo», dice Halevi. «Da allora, la Russia è emersa come superpotenza energetica e la Cina come fulcro della produzione industriale mondiale, nonchè come asse dei meccanismi finanziari sui mercati delle materie prime, come il carbone».«Insieme alla finanziarizzazione degli Oceani e soprattutto dell’Artico – conclude Halevi – la dinamica dei prodotti finanziari globali non è certo determinata dal debito pubblico italiano e dallo spread, bensì dalla Cina». Sicché, la formazione di un “continuum” economico tra Cina, Russia ed Europa, Germania in primis, «è nei piani sia cinesi che tedeschi e russi». La parte più debole meno coordinata è quella russa, «perchè il processo di disgregazione dell’Urss apertosi nel 1991 è lungi dall’essersi concluso: la Russia è una superpotenza energetica, ma come forza statuale è ancora nel day-after del 26 dicembre del 1991». Per gli Stati Uniti, dunque, «è essenziale che non si formi alcun “continuum” euroasiatico, altrimenti entrerebbe seriamente in crisi la capacità dello Stato americano di proteggere coerentemente gli interessi del capitale Usa».E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo, che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin «come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb, l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».
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Chomsky e Barnard: se gridare di rabbia non basta più
«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.«Ancora non riusciamo a fermare l’orrore delle guerre, le ingiustizie su macro-scala, la fame di milioni di bambini, l’avanzare del Vero Potere, la dittatura dei mercati», scrive oggi Barnard. «Ebbi quindi un’idea. Scrissi a Chomsky e gli proposi la formazione di un pannello di esperti a livello mondiale che per la prima volta studiassero “che cosa cambia l’umanità in meglio”, partendo da cosa l’ha cambiata in passato, per arrivare a cosa la può veramente cambiare oggi. Un pannello di storici, antropologi, psicologi, intellettuali e veri combattenti». Assioma di partenza: «Non possiamo dare per scontato che ciò che è riuscito a stemperare la barbarie di 5.000 anni – passando per la Rivoluzione Francese e illuminista, quella socialista, per quella femminista, sulla scia dell’olocausto delle guerre mondiali, durante il prodigioso arrivo della rivoluzione delle tecnologie e mezzi di comunicazione – possa funzionare anche oggi. Talmente tanto è cambiato, soprattutto il Vero Potere ha ottenuto una tale rivincita a livello planetario, che dire – come diceva proprio Noam Chomsky – che “l’umanità è sempre uscita dalla barbarie e non c’è motivo per cui questo non debba continuare”, mi appariva superficiale».Se gli attivisti che lottano “per un mondo migliore” sbagliano l’analisi e gli strumenti per il cambiamento, rischiano di consegnarsi alla vittoria finale di quello che Barnard chiama “Vero Potere”. Sì, «c’è motivo di dubitare che l’attivismo possa ottenere qualcosa», ammette Chomsky, secondo cui però “ieri si stava peggio”. Ovvero: se si crede che il punto di svolta negativo e irreparabile sia maturato negli anni ‘70, fino al fallimento dell’opinione pubblica mondiale che non è riuscita a scongiurare la guerra in Iraq, il grande intellettuale americano cita gli anni ‘60, in cui «gli Usa compivano atrocità ben peggiori di quelle fatte in Iraq». Un solo esempio, il Vietnam: «Già nel 1967 il più rispettato storico militare sul Vietnam, Bernard Fall, dubitava che quel paese potesse persino sopravvivere ad attacchi di quella ferocia. Ma le proteste erano minime. In Europa non si mosse un dito mentre mezzo milione di soldati americani, coreani, thailandesi e mercenari stavano devastando il Vietnam del sud». L’Iraq? «E’ certamente un crimine, ma non si avvicina neppure pallidamente alle atrocità della guerra in Vietnam».Non si tratta di «rinunciare alla speranza», replica Barnard, ma – al contrario – dobbiamo «prendere atto del terrificante cambiamento nelle dinamiche sociali che ha reso apatici milioni di occidentali, e trovare un antidoto a questo finché possiamo». Secondo il giornalista, già inviato di “Report”, «i tempi migliori per la rivolta sociale alla brutalità vennero negli anni ‘70, che rappresentano il culmine, la “crema” se si vuole, di 250 anni di rivoluzioni sociali». La triste novità, invece, è «la paralisi odierna delle masse occidentali, frutto di 35 anni di “esistenza commerciale” e “cultura della visibilità massmediatica”, che hanno eroso la nostra psiche collettiva, e che va peggiorando. Sono due fenomeni che vedono la luce anch’essi negli anni ‘70 e lì iniziarono ad avvelenarci». Sono due fenomeni «interamente nuovi nella storia dell’umanità», mai tanto manipolata, «così come è inedito l’effetto di addormentamento oppiaceo che hanno sulle masse». In concreto, «la nostra esistenza oggi ci priva del tempo di capire, studiare e attivarci contro la barbarie del Vero Potere, ci toglie l’autostima per essere liberi pensatori (con conseguenze catastrofiche fra i sindacati italiani e i loro lavoratori)».Per Barnard, questi sconvolgenti cambiamenti «sono una “prima” assoluta nelle dinamiche sociali umane da 5.000 anni, non possono non aver causato mutamenti nel nostro sviluppo sociale». Sono troppo enormi per essere scartati e il giornalista vi scorge «la più grave minaccia alla nostra capacità di organizzazione collettiva contro i poteri». Dunque, aggiunge: «Io invoco che noi scopriamo la chiave di quella minaccia e la disattiviamo». Questa paralizzante mutazione antropologica, replica Chomsky, in realtà «iniziò negli anni ‘20 per poi massimizzarsi negli anni ‘70». Ha certo «plasmato il pubblico», ma secondo il linguista «con risultati del tutto diversi da quelli che il potere voleva ottenere», se è vero che «l’attivismo dagli anni ‘80 ha raggiunto cime mai viste prima, e ora sta inventandosi altri percorsi creativi». I movimenti tuttavia non sono all’altezza della sfida, né dei nuovi mezzi di cui pure disponiamo? «Argomento interessante», ammette Chomsky: «Un’idea intrigante, ma non so come misurarla».«La speranza, Noam, è nei nuovi metodi», risponde Barnrad, perché «quelli consueti nell’attivismo sono diventati privi di significato», siamo assuefatti anche alla protesta, che il mainstream digerisce senza turbarsi. E allora, «che senso ha continuare ad appellarsi a masse drogate da quei e fenomeni? Quindi perché non cercare nuovi metodi, che sappiano raggiungere le immense masse di maggioranza, quelle che non sanno neppure cosa significhino le parole Fondo Monetario, quelle che credono che la Palestina sia nata da Isreale, che non s’immaginano neppure lontanamente cosa veramente costi alle vite dei contadini africani la nostra tazza di caffè della mattina?. La speranza c’è a tonnellate, Noam, ma solo se abbiamo l’umiltà di accettare che i vecchi metodi sono morti e che un nuovo arsenale va costruito». Chomsy non è d’accordo: è «travolto da richieste di conferenze, interviste, attivismo». E poi, quali sarebbero le nuove forme di lotta? Neppure Barnard lo sa, ma – almeno – è certo che i “girotondi”, le raccolte di firme e i cortei di protesta non servano più a niente.«Quali erano le vecchie forme di lotta? Nominiamole: conferenze sempre piene di fans già convertiti; le solite manifestazioni; pubblicazioni e libri, di nuovo però ospitati da editori e media “amici”; i forum sociali, ancora zeppi di amici degli amici già simpatizzanti; l’equo-solidale col Sud, ok, bene, ma sempre minuti gruppi di “belle anime”. Insomma, le “belle anime” che parlano fra di loro Noam, sempre. Ma dimmi: è sufficiente ’sta roba a combattere una macchina colossale di potere finanziario, mediatico, industriale, politico e massmediatico che ha intrappolato 800 milioni di persone in una frenesia di vita e di indebitamento? Dimmi, Noam: le “belle anime” stanno convincendo e dando potere al taxista, al negoziante, all’impiegato, al pensionato, ai tifosi, alle discotecare, ai poliziotti, ai contadini, agli operai, ai conservatori, ai manager, ai colletti bianchi, gli anziani, ai qualunquisti, ai confusi, a chi non ha tempo per respirare la sera a casa? Sono milioni e votano! Non so, forse negli Usa avete fatto una miracolo, ma qui il movimento No-Global è conosciuto dal 99% come i black block che spaccano le vetrine, e nessuno sa nulla delle loro battaglie contro il Wto e i trattati di libero scambio coi poveri del Sud».«Gli Usa – replica Chomsky – sono oggi una nazione molto più civile di prima, e non è stato per magia. Questo include anche le aggressioni militari. Oggi nessun presidente qui potrebbe cavarsela con quello che hanno fatto Kennedy e Johnson nel sud est asiatico. E lo sanno». Chomsky è felice di essere riuscito a tenere una conferebza a mille cadetti e ufficiali di West Point sul tema della “guerra giusta”. E’ vero, il più delle volte la platea è fatta di “amici”, ma comunque «anni fa gli amici erano tre persone in una chiesa, oggi possono essere 5.000 di ogni estrazione in alcuni dei posti più reazionari d’America, e che ti ascoltano con attenzione. Questo è il risultato di molti anni di attivismo da parte di un sacco di gente, e mi sembra un’ottima cosa». Era solo il 2007, Chomsky non aveva ancora visto la Grande Crisi nella sua espressione più disumana, quella europea: un pugno di criminali, ha detto di recente, ha distrutto l’Europa. «Si credono i padroni del mondo. Dobbiamo fermarli». Già, ma come?«C’erano due milioni di italiani a manifestare contro la guerra in Iraq a Roma nel 2003… per un giorno. Bravi. Ma li vedi tu per il resto dell’anno passare di casa in casa a informare le masse? Dai. Se lo facessero allora sì che, assieme a nuovi metodi di comunicazione, le cose cambierebbero». Così Paolo Barnard scrive a Noam Chomsky, il linguista statunitense che il “New York Times” considera il maggior intellettuale vivente. Si tratta di un carteggio privato, datato 2007, cioè «prima dell’esplosione della crisi finanziaria, che ha sbattuto in faccia al mondo quanto in realtà ci siamo involuti e non evoluti nella difesa dei diritti dell’uomo e nella gestione dell’interesse pubblico». Tema cruciale: che fare, per cambiare le cose. Chomsky si appella a una variante della scommessa di Pascal: «Se decidiamo di rinunciare alla speranza, siamo certi che il peggio accadrà. Se invece manteniamo la speranza, possiamo immaginare che un futuro migliore arriverà». Barnard invece non ci crede più, non gli basta. Vede che tutto il nostro attivismo per i diritti finisce nel tritacarne del mainstream, senza che le atrocità del mondo vengano minimamente arginate.
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Putin il più amato dagli inglesi, Obama e Merkel retrocessi
Il leader più amato dagli inglesi? Nessun dibbio: Vladimir Putin. Questo il verdetto dei lettori dell’“Independent”, sollecitati dal quotidiano britannico a pronunciarsi sul tema dopo l’esplosione della crisi in Ucraina. Ad aprile, a dare fuoco alle polveri era stato Nigel Farage, fondatore dello Ukip, il partito anti-Ue dato in vetta all’euro-punteggio del Regno Unito per le elezioni del 25 maggio. Lui e l’ex vicepremier Nick Clegg, ricorda Cristiano Patuzzi sul blog “Nuova Auras”, si erano scontrati in un dibattito televisivo: oggetto, la questione ucraina. Farage ha osservato fra l’altro che «la Russia è stata provocata dall’Europa, gli eurocrati hanno fatto male a costringere gli ucraini fra Occidente e Russia, e Vladimir Putin – senza necessariamente prenderne le parti – è obbiettivamente uno stratega politico di prima grandezza». Lo pensa anche il 90% del campione inglese sondato dal giornale.«Insulti, derisioni e persino minacce sottintese, attacchi violenti e grossolani, ben poco british hanno seguito il giorno dopo i commenti del media inglesi», scrive Patuzzi, citando il “Guardian”, «quasi che la stampa fosse già in guerra», alla fine di marzo. Al che, un quotidiano più moderato come l’“Independent” ha avuto l’idea di lanciare un sondaggio fra i suoi lettori. Scrive, provocatoriamente, il giornale londinese: «Il leader mondiale preferito da Farage è Putin. Lo stesso Putin che sta aiutando Assad in Siria, che s’infischia del diritto internazionale per annettersi la Crimea. Questo, Farage lo trova ammirevole. Diteci: qual è il vostro leader preferito?». Idea malaugurata, osserva Patuzzi. Ecco infatti i risultati del primo sondaggio, datato 5 aprile: Barack Obama è fermo al 4%, il premier britannico David Cameron è appena al 2%, Angela Merkel lotta nelle retrovie con un 8% (il doppio del presidente americano, comunque) mentre il fanalino di coda è il francese Francois Hollande, all’1%. A Mosca, invece, Putin se la ride dall’alto del suo irraggiungibile 82%.Il che ha francamente dell’incredibile: significa che i lettori non si fidano più dei media mainstream, televisione in testa, e non credono alla versione ufficiale che viene loro proposta. Due giorni dopo, il 7 aprile, per i nemici di Putin la situazione peggiora ulteriormente: Cameron è sempre fermo al 2%, ma Obama perde un punto e scivola al 3%, imitato dalla Merkel che cala al 6%. «Ammirevole la tenuta di Hollande, inchiodato all’1%», mentre Putin sale all’86%. L’ultima verifica è dell’11 aprile, e per gli amici della Nato sono ancora dolori: «Cameron rovina al 1% a pari merito con Hollande, Obama è ulteriormente retrocesso al 2%», perde ancora terreno anche la Merkel che scende al 4%, e «nonostante l’ingresso in classifica del premier giapponese Shinzo Abe, al 1%, con Dilma Rousseff e Matteo Renzi (nemmeno a dirlo) allo 0%, Vladimir Putin svetta al 90%». Qualcosa di non orribile sta davvero per succedere?Il leader più amato dagli inglesi? Nessun dubbio: Vladimir Putin. Questo il verdetto dei lettori dell’“Independent”, sollecitati dal quotidiano britannico a pronunciarsi sul tema dopo l’esplosione della crisi in Ucraina. Ad aprile, a dare fuoco alle polveri era stato Nigel Farage, fondatore dello Ukip, il partito anti-Ue dato in vetta all’euro-punteggio del Regno Unito per le elezioni del 25 maggio. Lui e l’ex vicepremier Nick Clegg, ricorda Cristiano Patuzzi sul blog “Nuova Auras”, si erano scontrati in un dibattito televisivo: oggetto, la questione ucraina. Farage ha osservato fra l’altro che «la Russia è stata provocata dall’Europa, gli eurocrati hanno fatto male a costringere gli ucraini fra Occidente e Russia, e Vladimir Putin – senza necessariamente prenderne le parti – è obbiettivamente uno stratega politico di prima grandezza». Lo pensa anche il 90% del campione inglese sondato dal giornale.
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Giannuli: Hollande e Merkel complici dei nazisti di Odessa
In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.«Quando ricompaiono i nazisti con le loro atrocità – scrive Giannuli nel suo blog – non è possibile alcuna neutralità e non c’è dubbio sulla parte da scegliere: contro di loro e a fianco delle vittime». Il pogrom di Odessa è illuminante: «E’ in corso in Ucraina una partita strategica mondiale che va molto oltre gli attori che occupano il palcoscenico». Premessa fondamentale: «L’Ucraina, così come la conosciamo, non è mai esistita: non c’è mai stata un’Ucraina indipendente con questa conformazione territoriale e, soprattutto, non c’è mai stata questa distribuzione etnica», che è frutto di «due secoli di dominazione russa», con imponenti migrazioni interne. La Crimea, poi, non è mai stata Ucraina; fu “regalata” da Kruscev alla maggiore repubblica dell’Urss, dopo quella russa, come parte di un pacchetto di concessioni fatte per isolare e battere la guerriglia indipendentista dei seguaci di Stephan Bandera, eponente dell’ultra-destra.Se sotto l’Urss l’Ucraina era «poco più di un’unità amministrativa, dotata di una sua fittizia autonomia politica», con la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’Ucraina è diventata uno Stato, senza però mai riuscire a diventare una nazione. Resta «un aggregato disomogeneo di regioni poco amalgamate, con zone prevalentemente russofone, zone propriamente ucrainofone e un nucleo centrale misto con percentuali variabili da provincia a provincia». Quanto ai confini veri e propri, la Russia disastrata di Eltsin non era in condizione di ridefinirli. La contrapposizione inter-etnica? Molto enfatizzata dai media, ma la reatà è diversa: non tutti gli ucraini sono russofobi, non tutti i russofoni sono anti-ucraini, e in diverse regioni la coesistenza è perfettamente pacifica. In compenso, in questi vent’anni di indipendenza, i pessimi politici di Kiev non sono stati capaci di costruire un vero e proprio senso di appartenza nazionale. Gli anti-russi? «Più che di indipendentisti ucraini, ha senso parlare di eurofili che sognano di diventare una nuova Germania o una nuova Francia sol che si compia il miracolo dell’ammissione nella Ue».A dividere il paese, continua Giannuli, è proprio la proiezione economica verso l’Europa da parte di regioni non amalgamate tra loro, e non pronte a reggere l’impatto dell’occidentalizzazione forzata. «Tutto questo è anche il prodotto di una classe politica che è peggiore persino di quella italiana: i vari Kravchuk, Jushenko, Tymoscenko, Yanukovich, che si sono succeduti alla presidenza, sono stati personaggi assolutamente impresentabili, che, invece di costruire un’identità nazionale, hanno cavalcato le contrapposizioni, inasprendole per quanto potevano, allo scopo di mietere voti e conquistare un governo che poi non hanno saputo usare. Yanukovich – aggiunge Giannuli – è stato il più ladro e cialtrone dei governanti di quello sventurato paese: aveva promesso ai russofoni una parificazione linguistica che si è ben guardato dal realizzare, aveva accettato l’integrazione nella Ue per poi fare marcia indietro. Non stupisce che sia caduto in disgrazia presso tutti. Anche Mosca non sapeva come fare per liberarsi di lui».Nel frattempo la crisi mondiale rendeva i margini finanziari sempre più stretti: oggi l’Ucraina è un paese virtualmente fallito, con un debito enorme verso la Russia, dalla quale ha preso molto più gas di quanto potesse pagare, approfittando del passaggio del gasdotto attraverso il suo territorio. «Che si arrivasse a una mobilitazione di piazza era nell’ordine delle cose», ma le milizie neonaziste hanno preso il sopravvento «solo dopo che quell’incapace di Yanukovich ha iniziato a giocare al “dittatore cattivo”, scatenando una repressione che non era neppure in grado di reggere a lungo». Le violenze di Kiev a quel punto hanno innescato il riflesso separatista. «Le regioni orientali, in riva al Mar Nero, dove le percentuali dei russofoni sono elevate, hanno iniziato a manifestare umori separatisti, ci sono stati scontri sempre più frequenti, cui gli accordi di Ginevra hanno vanamente cercato di porre fine, perché il governo di Kiev, neppure 48 ore dopo, ne ha fatto strame, partendo con una spedizione punitiva contro le regioni orientali che, nel frattempo, organizzavano il referendum».Il pogrom di Odessa va inserito in questo quadro, conclude Giannuli, e dimostra come «governo e bande fasciste siano sulla stessa linea: terrorizzare i russofoni e provocare Mosca ad intervenire, nella speranza di un allargamento del conflitto che tiri dentro la Nato», come se l’Europa morisse dalla voglia di confrontarsi militarmente con il temibile esercito di Putin. Il vuoto spaventoso è quello della politica europea, che anziché cercare un ruolo di interposizione strategica si allinea agli estremisti più pericolosi. Neppure la Germania della Merkel ha finora assunto una posizione accettabile, autorevole e indipendente da Washington. Ma c’è chi è riuscito a fare persino peggio: «Hollande è il più spregevole in questa gara a chi è il servo più servo degli americani». L’augurio di Giannuli è che alle elezioni europee «il Ps francese sprofondi sotto il 10% e si disintegri».In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.
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Da Hitler a Bush, dietro la guerra c’è sempre una banca
I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.Tutto inizia alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando la Banca Morgan spinge il neutralista Woodrow Wilson a spedire le truppe in Europa. La Morgan era la più potente banca del tempo, ricorda il blog statunitense, ripreso da “Come Don Chisciotte”, e aveva raccolto oltre il 75% dei finanziamenti per le forze alleate. Voglia di guerra, non importa su che fronte: la National City Bank, che pure lavorava a fianco della Morgan nel rifornire inglesi e francesi, «non si faceva problemi a lavorare anche per finanziare alcune cose sul fronte tedesco, come anche fece la Chase». Molti anni dopo, sotto Eisenhower, il business era quello del sostegno ai paesi considerati a rischio-comunismo. «Quello che fecero i banchieri fu l’insediamento di presidi in zone come Cuba e Beirut in Libano per stabilire roccaforti statunitensi nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica: e fu così che finanza e politica estera iniziarono a essere molto ben allineate». Poi, negli anni ’70, sempre i banchieri «scoprirono il petrolio, facendo uno sforzo immane per attivare nuove relazioni in Medio Oriente». In Arabia Saudita «ottennero l’accesso ai petrodollari per poi riciclarli in debiti dell’America Latina e altre forme di prestiti nel resto del mondo», in accordo col governo americano.«La Jp Morgan, inoltre, aveva acquisito il controllo dei 25 principali quotidiani americani». Obiettivo: «Propagandare l’opinione pubblica statunitense pilotandola in favore dell’entrata degli Stati Uniti nella Prima Guerra Mondiale», scrive il “Washington’s Blog”. «E possiamo dirlo: molte grandi banche hanno realmente finanziato i nazisti». Nel 1998, la Bbc riportò la seguente notizia: «La Barclays Bank ha accettato di pagare 3,6 milioni di dollari a favore degli ebrei i cui beni erano stati sequestrati dai rami francesi della banca britannica durante la seconda guerra mondiale». Anche la Chase Manhattan Bank «ha ammesso di aver sequestrato», sempre durante il secondo conflitto mondiale, circa 100 conti intestati ad ebrei nella sua filiale di Parigi. «A quanto pare – scrive “Newsweek” citando il “New York Daily News” – i rapporti tra la Chase e i nazisti erano piuttosto amichevoli, a tal punto che Carlos Niedermann, capo della filiale Chase di Parigi, scrisse al suo supervisore di Manhattan che la banca godeva “di molta stima presso i funzionari tedeschi” e vantava “una rapida crescita dei depositi”».La lettera di Niedermann – precisa il “Washington’s Blog” – fu scritta nel maggio del 1942, ovvero cinque mesi dopo che i giapponesi avevano bombardato Pearl Harbor e che gli Stati Uniti erano entrati in guerra contro la Germania. Una commissione governativa francese, rivela la Bbc, indagando sul sequestro dei conti bancari ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ha riferito che erano coinvolte cinque banche americane: Chase Manhattan, Jp Morgan, Guaranty Trust Co. di New York, la Banca della città di New York e l’American Express». Secondo il “Guardian”, il senatore Prescott Bush (padre di George Bush e nonno di George W.), «era amministratore e socio in società che trassero largo profitto dal loro coinvolgimento nel finanziare la Germania nazista». La società di “nonno Bush”, aggiunge il “Guardian” sulla base di fonti d’archivio Usa, era «direttamente coinvolta con gli architetti finanziari del nazismo». E i suoi rapporti di affari continuarono fino a che il patrimonio della società fu sequestrato nel 1942 nell’ambito del “Trading with Enemy Act”, la legge americana che sequestrava i beni di chi aveva fatto affari col nemico in tempo di guerra.Alcune recenti ricostruzioni rivelano che attraverso la Bbh (Brown Brothers Harriman), Prescott Bush agì come supporto statunitense per l’industriale tedesco Fritz Thyssen, che contribuì a finanziare Hitler nel 1930 prima di cadere con lui alla fine del decennio. Il “Guardian” sostiene di poter provare che lo stesso Bush sia stato il direttore della Ubc, la Union Banking Corporation di New York, che rappresentava gli interessi di Thyssen negli Stati Uniti, e continuò a lavorare per la banca anche dopo che l’America entrò in guerra. L’Ubc era stata fondata da Harriman e dal suocero di Bush per mettere una banca statunitense al servizio dei Thyssen, la più potente famiglia di industriali della Germania.Alla fine del 1930, la Brown Brothers Harriman, che si considerava la più grande banca privata d’investimento del mondo, e la Ubc, avevano acquisito e trasferito milioni di dollari in oro, petrolio, acciaio, carbone e buoni del tesoro Usa alla Germania, alimentando e finanziando l’ascesa di Hitler fino alla guerra.«Tra il 1931 e il 1933 la Ubc acquisì più di 8 milioni di dollari in oro, di cui 3 milioni inviati all’estero». Anni dopo, la banca «fu colta in flagrante a gestire una società di comodo americana per la famiglia Thyssen otto mesi dopo che l’America era entrata in guerra, e si scoprì che era questa la banca che aveva finanziato in parte l’ascesa di Hitler al potere». Business is business, non importa da che parte si è schierati: «Il “San Francisco Chronicle” documentò che anche Rockefeller, Carnegie e Harriman finanziarono i programmi eugenetici nazisti». Dal “racket della guerra” ai tempi del nazismo, fino ai giorni nostri: «Le grandi banche hanno anche riciclato denaro sporco per i terroristi», aggiunge il “Washington’s Blog”, riferendo la “soffiata” di un bancario sulle operazioni di riciclaggio di denaro per terroristi e cartelli della droga: «La gente deve sapere che il denaro è tuttora convogliato attraverso la Hsbc direttamente verso chi compra le armi ed i proiettili che uccidono i nostri soldati».Banchieri e politica, golpe inclusi: secondo la Bbc, Prescott Bush e la Jp Morgan, con altri investitori importanti, avrebbero anche finanziato un colpo di Stato contro il presidente Roosevelt, nel tentativo di «attuare un regime fascista negli Stati Uniti». Gli americani, scrive Kevin Zeese, «stanno imparando a riconoscere il legame tra il comparto militare-industriale e gli oligarchi di Wall Street, una connessione che risale agli inizi dell’impero americano moderno». Le banche? «Hanno sempre tratto profitto dalla guerra, perché il debito creato dalle banche si traduce in un grasso bottino di guerra per la grande finanza. E perché sono state utilizzate per aprire i paesi esteri agli interessi corporativi e bancari degli Stati Uniti». Ammise William Jennings Bryan, segretario di Stato durante il primo conflitto mondiale: «C’erano grandi interessi bancari legati alla guerra mondiale poiché grandi erano le opportunità di profitto». Il problema: tutelare gli interessi commerciali degli statunitensi, che avevano fortemente investito negli alleati europei. Almeno 2 miliardi e mezzo di dollari dell’epoca, prestati a francesi e inglesi a partire dal 1915. «I banchieri ritennero che, se la Germania avesse vinto la guerra, i loro prestiti agli alleati europei non sarebbero stati rimborsati».Il più grande banchiere statunitense dell’epoca, John Piermont Morgan, fece di tutto per trascinare gli Stati Uniti in guerra a fianco dell’Inghilterra e della Francia, finendo per convincere il presidente Wilson: obiettivo, «proteggere gli investimenti delle banche americane in Europa». Il marine più decorato nella storia, Smedley Butler, dice al “Washington’s Blog” di aver combattuto essenzialmente «per le banche americane». Racconta: «Ho alle spalle 33 anni e 4 mesi di servizio militare attivo e ho trascorso la gran parte di questo tempo a fare il super-soldato per quelli del Big Business, per Wall Street e per tutti i grandi banchieri. In poche parole, sono stato un camorrista, un gangster del capitalismo. Nel 1914 ho aiutato a mettere in sicurezza il Messico e soprattutto Tampico per gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. Ho contribuito a rendere Haiti e Cuba dei luoghi decenti per i “ragazzi” della National City Bank; per aiutarli ad arricchirsi ho contribuito allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche dell’America Centrale, a beneficio di Wall Street».E ancora: «Dal 1902 al 1912 – continua il soldato Butler – ho aiutato a “purificare” il Nicaragua per la International Banking House dei Brown Brothers. Nel 1916 ho portato alla luce la Repubblica Dominicana per gli interessi americani dello zucchero. Ho aiutato a rendere l’Honduras un posto adeguato per le compagnie frutticole americane nel 1903. In Cina, nel 1927, ho fatto in modo che la Standard Oil passasse indisturbata». Commenta il veterano: «Guardando indietro, avrei potuto dare dei buoni suggerimenti ad Al Capone. Il massimo che è riuscito a fare è stato imporre il suo racket in tre distretti: io l’ho fatto su tre continenti». Nelle sue “Confessioni di un sicario economico”, John Perkins descrive in che modo i prestiti della Banca Mondiale e del Fmi sono utilizzati per generare profitti per le imprese statunitensi e debiti enormi per i paesi in difficoltà, consentendo così agli Stati Uniti di poterli facilmente controllare.«Non è una sorpresa che ex ufficiali come Robert McNamara e Paul Wolfowitz abbiano continuato a dirigere la Banca Mondiale», rileva il “Washington’s Blog”. «Il debito di questi paesi verso le banche internazionali assicura agli Stati Uniti il loro controllo, forzandoli in un certo senso ad entrare nella “coalizione dei volenterosi”, quella che ha contribuito attivamente all’invasione dell’Iraq, o ad acconsentire all’insediamento nel loro territorio di basi militari statunitensi». Piccolo dettaglio: «Se quei paesi si rifiutassero di “onorare” i loro debiti, la Cia o il Dipartimento della Difesa farebbero in modo da fargli rispettare la volontà politica degli Usa, provocando colpi di Stato o compiendo azioni militari». Unica consolazione, per dirla col blog: «Sono sempre più numerose, ormai, le persone coscienti della stretta connessione tra il mondo bancario e il mondo bellico». Oggi, l’orizzonte delle armi americane si spinge ad Oriente, dalla Russia alla Cina, dove si sta dislocando la forza di proiezione navale statunitense. Qualcuno, a Wall Street, avrà già fatto i suoi piani. Ai dettagli, poi, penseranno Obama, Biden, Kerry e le altre comparse della politica.I banchieri? Sempre stati in costante comunicazione con la Casa Bianca. Non solo riguardo a temi finanziari e di politica economica, ma anche per argomenti molto meno tecnici: prima la Grande Guerra, poi la Seconda Guerra Mondiale, quindi la Guerra Fredda. Scenari esaminati «in termini di piani di espansione politica dell’America come superpotenza mondiale, alimentata dalla sua crescita finanziaria attraverso lo sviluppo della sua comunità bancaria». Parola di Nomi Prins, analista internazionale alla Bear Stearns di Londra e già amministratore delegato della Goldman Sachs. In altre parole: dietro a ogni conflitto c’è sempre una banca, rileva il “Washington’s Blog”. O meglio: c’è la grande famiglia (mondiale, ormai) delle banche, la “comunità bancaria”. Che traffica con la politica, detta le regole, incassa miliardi. E, nel caso, si attrezza per quello che da sempre è il miglior affare in assoluto: la guerra. Anche se il “socio” si chiama Hitler, e il collega americano Bush.