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Israele, uno Stato inventato (a insaputa degli ebrei)
La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.Oltre ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, riunitosi il 22 luglio, l’Onu ha dato la parola ad altri 40 Stati che intendevano esprimere il loro sdegno per il comportamento di Tel Aviv e la sua «cultura dell’impunità». La sessione, anziché durare le solite 2 ore, si è protratta per 9 ore. Simbolicamente, la Bolivia ha dichiarato Israele uno «Stato terrorista» e ha abrogato l’accordo sulla libera circolazione che lo riguardava. Ma in generale, le dichiarazioni di protesta non sono state seguite da un aiuto militare, ad eccezione di quelle dell’Iran e simbolicamente della Siria. Entrambi sostengono la popolazione palestinese attraverso il Jihad islamico, l’ala militare di Hamas (ma non la sua ala politica, membro dei Fratelli Musulmani), e tramite il Fplp-Cg.A differenza dei casi precedenti (operazioni “Piombo fuso” nel 2008 e “Colonna di nuvola” nel 2012), i due Stati che proteggono Israele presso il Consiglio (Stati Uniti e Regno Unito) hanno favorito l’elaborazione di una dichiarazione del presidente del Consiglio di Sicurezza che sottolineava gli obblighi umanitari di Israele. In realtà, al di là della questione di fondo di un conflitto che dura dal 1948, si assiste a un consenso per condannare almeno il ricorso da parte di Israele di un uso sproporzionato della forza. Tuttavia, questo consenso apparente maschera analisi assai diverse: alcuni autori interpretano il conflitto come una guerra di religione tra ebrei e musulmani; altri lo vedono al contrario come una guerra politica secondo uno schema coloniale classico. Che cosa dobbiamo pensarne?SIONISMO Che cos’è il sionismo? A metà del XVII secolo, i calvinisti britannici si riunirono intorno a Oliver Cromwell e rimisero in questione la fede e la gerarchia del regime. Dopo aver rovesciato la monarchia anglicana, il “Lord Protettore” pretese di consentire al popolo inglese di raggiungere la purezza morale necessaria ad attraversare una tribolazione di sette anni, dare il benvenuto al ritorno del Cristo e vivere in pace con lui per mille anni (il “Millennium”). Per far ciò, secondo la sua interpretazione della Bibbia, gli ebrei dovevano essere dispersi fino agli estremi confini della terra, poi raggruppati in Palestina, dove ricostruire il tempio di Salomone. Su questa base, instaurò un regime puritano, levò nel 1656 il divieto che era stato fatto agli ebrei di stabilirsi in Inghilterra e annunciò che il suo paese s’impegnava a creare in Palestina lo Stato di Israele.Poiché la setta di Cromwell fu a sua volta rovesciata alla fine della “Prima Guerra civile inglese”, i suoi sostenitori uccisi o esiliati, e poiché la monarchia anglicana fu restaurata, il sionismo (cioè il progetto della creazione di uno Stato per gli ebrei) fu abbandonato. Riapparve nel XVIII secolo con la “Seconda guerra civile inglese” (secondo il nome dei manuali di storia delle scuole secondarie nel Regno Unito) che il resto del mondo conosce come la “Guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti” (1775-1783). Contrariamente alla credenza popolare, essa non fu intrapresa in nome degli ideali dell’Illuminismo che animarono pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, ma fu finanziata dal re di Francia e condotta per motivi religiosi al grido di «Il nostro re è Gesù!». George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, per citarne alcuni, si sono presentati come i successori dei sostenitori esiliati di Oliver Cromwell. Gli Stati Uniti hanno dunque logicamente ripreso il suo progetto sionista.Nel 1868, in Inghilterra, la regina Victoria nominò primo ministro l’ebreo Benjamin Disraeli. Questi propose di concedere una parte di democrazia ai discendenti dei sostenitori di Cromwell, in modo da poter contare su tutto il popolo per estendere il potere della Corona nel mondo. Soprattutto, propose di allearsi alla diaspora ebraica per condurre una politica imperialista di cui essa sarebbe stata l’avanguardia. Nel 1878, fece iscrivere «la restaurazione di Israele» all’ordine del giorno del Congresso di Berlino sulla nuova spartizione del mondo. È su questa base sionista che il Regno Unito ristabilì i suoi buoni rapporti con le sue ex colonie, divenute nel frattempo gli Stati Uniti alla fine della “Terza guerra civile inglese” – nota negli Stati Uniti come la “guerra civile americana” e nell’Europa continentale come la “guerra di Secessione” (1861-1865) – che vide la vittoria dei successori dei sostenitori del Cromwell, gli Wasp (White Anglo-Saxon Puritans). Anche in questo caso, è del tutto sbagliato che si presenti questo conflitto come una lotta contro la schiavitù, intanto che cinque stati del nord la praticavano ancora.Fino quasi alla fine del XIX secolo, il sionismo è solo un progetto puritano anglo-sassone al quale solo un’élite ebraica aderisce. È fortemente condannato dai rabbini che interpretano la Torah come un’allegoria e non come un piano politico. Tra le conseguenze attuali di questi fatti storici, dobbiamo ammettere che se il sionismo mira alla creazione di uno Stato per gli ebrei, è anche il fondamento degli Stati Uniti. Pertanto, la questione se le decisioni politiche d’insieme siano prese a Washington o a Tel Aviv ha solo interesse relativo. È la stessa ideologia ad essere al potere in entrambi i paesi. Inoltre, poiché il sionismo ha permesso la riconciliazione tra Londra e Washington, il fatto di sfidarlo significa affrontare questa alleanza, la più potente del mondo.POPOLO EBRAICO L’adesione del popolo ebraico al sionismo anglosassone. Nella storia ufficiale attuale, è consuetudine ignorare il periodo dal XVII al XIX secolo e presentare Theodor Herzl come il fondatore del sionismo. Tuttavia, secondo le pubblicazioni interne dell’Organizzazione Sionista Mondiale, anche questo punto è falso. Il vero fondatore del sionismo contemporaneo non era ebreo, bensì cristiano dispenzionalista. Il reverendo William E. Blackstone era un predicatore americano per il quale i veri cristiani non avrebbero dovuto partecipare alle prove della fine del tempo. Basava l’insegnamento su coloro che sarebbero stati elevati al cielo durante la battaglia finale (il “rapimento della Chiesa”, in inglese “the rapture”). Nella sua visione, gli ebrei avrebbero combattuto questa battaglia e ne sarebbero usciti allo stesso tempo convertiti a Cristo e vittoriosi.È la teologia del reverendo Blackstone che è servita da base per il sostegno immancabile di Washington alla creazione di Israele. E questo, molto prima che l’Aipac (la lobby pro-Israele) venisse creata e prendesse il controllo del Congresso. In realtà, il potere della lobby non risiede tanto nel suo denaro e la sua capacità di finanziare le campagne elettorali, quanto in questa ideologia ancora presente negli Stati Uniti. La teologia del rapimento, per quanto stupida possa sembrare, è oggi molto potente negli Stati Uniti. Rappresenta un fenomeno nel mercato dei libri e nel cinema (si veda il film “Left Behind”, con Nicolas Cage, che uscirà ad ottobre). Theodor Herzl era un ammiratore del magnate dei diamanti Cecil Rhodes, teorico dell’imperialismo britannico e fondatore del Sudafrica, della Rhodesia (cui diede il suo nome) e dello Zambia (ex Rhodesia del Nord).Herzl non era israelita praticante né aveva circonciso suo figlio. Ateo come molti borghesi europei del suo tempo, si batté all’inizio per assimilare gli ebrei convertendoli al cristianesimo. Tuttavia, riprendendo la teoria di Benjamin Disraeli, giunse alla conclusione che la soluzione migliore fosse quella di farli partecipare al colonialismo britannico creando uno Stato ebraico, collocato nell’attuale Uganda o in Argentina. Seguì l’esempio di Rhodes nella maniera di acquistare terreni e di costruire l’Agenzia Ebraica. Blackstone riuscì a convincere Herzl a unire le preoccupazioni dei dispenzionalisti a quelle dei colonialisti. Era sufficiente per tutto questo considerare di stabilire Israele in Palestina e di moltiplicare i riferimenti biblici. Grazie a questa idea assai semplice, giunsero a far aderire la maggioranza degli ebrei europei al loro progetto. Oggi Herzl è sepolto in Israele (sul monte Herzl) e lo Stato ha posto nella sua bara la Bibbia annotata che Blackstone gli aveva offerto.Il sionismo non ha dunque mai avuto come obiettivo quello di «salvare il popolo ebraico dandogli una patria», bensì quello di far trionfare l’imperialismo anglosassone associandovi gli ebrei. Inoltre, non solo il sionismo non è un prodotto della cultura ebraica, ma la maggior parte dei sionisti non è mai stata ebrea, mentre la maggioranza dei sionisti ebrei non sono israeliti dal punto di vista religioso. I riferimenti biblici, onnipresenti nel discorso pubblico israeliano, rispecchiano il pensiero solo della parte credente del paese e sono destinati principalmente a convincere la popolazione statunitense.IL PATTO Il patto anglosassone per la creazione di Israele in Palestina. La decisione di creare uno Stato ebraico in Palestina è stata presa congiuntamente dai governi britannico e statunitense. È stata negoziata dal primo giudice ebreo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, sotto gli auspici del reverendo Blackstone, e fu approvata sia dal presidente Woodrow Wilson sia dal primo ministro David Lloyd George, sulla scia degli accordi franco-britannici Sykes-Picot sulla spartizione del “Vicino Oriente”. Questo accordo fu progressivamente reso pubblico. Il futuro Segretario di Stato per le Colonie, Leo Amery, ebbe l’incarico di inquadrare gli anziani del “Corpo dei mulattieri di Sion” per creare, con i due agenti britannici Ze’ev Jabotinsky e Chaim Weizmann, la “Legione ebraica” in seno all’esercito britannico. Il ministro degli esteri Lord Balfour inviò una lettera aperta a Lord Walter Rothschild per impegnarsi a creare un «focolare nazionale ebraico» in Palestina (2 novembre 1917). Il presidente Wilson annoverò tra i suoi obiettivi di guerra ufficiali (il 12° dei 14 punti presentati al Congresso l’8 gennaio 1918) la creazione di Israele.Pertanto, la decisione di creare Israele non ha nulla a che fare con la distruzione degli ebrei d’Europa sopravvenuta due decenni più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal (figlio dello Sharif della Mecca e futuro re dell’Iraq britannico) firmò, in data 3 gennaio 1919, un accordo con l’Organizzazione Sionista, impegnandosi a sostenere la decisione anglosassone. La creazione dello Stato di Israele, realizzata contro la popolazione della Palestina, era quindi fatta anche con l’accordo dei monarchi arabi. Inoltre, all’epoca, lo Sharif della Mecca, Hussein bin Ali, non interpretava il Corano alla maniera di Hamas. Non pensava che «una terra musulmana non può essere governata da non-musulmani»ISRAELE La creazione giuridica dello Stato d’Israele. Nel maggio 1942, le organizzazioni sioniste tennero il loro congresso al Biltmore Hotel di New York. I partecipanti decisero di trasformare il «focolare nazionale ebraico» della Palestina in «Commonwealth ebraico» (riferendosi al Commonwealth con cui Cromwell aveva brevemente sostituito la monarchia britannica) e di autorizzare l’immigrazione di massa degli ebrei verso la Palestina. In un documento segreto, venivano precisati tre obiettivi: «(1) lo Stato ebraico avrebbe abbracciato l’intera Palestina e probabilmente la Transgiordania; (2) il trasferimento delle popolazioni arabe in Iraq; (3) la presa in mano da parte degli ebrei dei settori dello sviluppo e del controllo dell’economia in tutto il Medio Oriente». Quasi tutti i partecipanti ignoravano allora che la «soluzione finale della questione ebraica» (die Endlösung der Judenfrage) aveva appena preso inizio segretamente in Europa.In definitiva, mentre i britannici non sapevano più come soddisfare sia gli ebrei sia gli arabi, le Nazioni Unite (che a quel tempo annoveravano appena 46 Stati membri) proposero un piano per spartire la Palestina a partire dalle indicazioni che gli fornirono i britannici. Uno Stato bi-nazionale doveva essere creato, comprendente uno Stato ebraico, uno Stato arabo e una zona soggetta a un “regime internazionale speciale” per amministrare i luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto fu adottato attraverso la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. Senza attendere il seguito dei negoziati, il presidente dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, proclamò unilateralmente lo Stato di Israele, subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Gli arabi del territorio israeliano furono sottoposti alla legge marziale, i loro movimenti furono limitati, i loro passaporti confiscati. I paesi arabi di recente indipendenza intervennero. Ma senza eserciti ancora costituiti, furono rapidamente sconfitti. Durante questa guerra, Israele procedette a una pulizia etnica e costrinse almeno 700.000 arabi a fuggire.L’Onu inviò un mediatore, il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che aveva salvato migliaia di ebrei durante la guerra. Constatò che i dati demografici trasmessi dalle autorità britanniche erano falsi e pretese la piena attuazione del piano di spartizione della Palestina. Al dunque, la risoluzione 181 implica il ritorno dei 700.000 arabi espulsi, la creazione di uno Stato arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’inviato speciale delle Nazioni Unite fu assassinato, il 17 settembre 1948, su ordine del futuro primo ministro Yitzhak Shamir. Furibonda, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 194, che riafferma i principi della risoluzione 181 e, inoltre, proclama il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare alle loro case e ad essere risarciti per il danno che avevano appena subito. Tuttavia, poiché Israele aveva arrestato gli assassini di Bernadotte, e poi li processò e condannò, fu accolto in seno all’Onu con la promessa di onorare le risoluzioni. Ma erano nient’altro che bugie. Subito dopo gli assassini furono graziati e lo sparatore divenne la guardia del corpo personale del primo ministro David Ben Gurion.Fin dalla sua adesione all’Onu, Israele non ha mai smesso di violare le risoluzioni che si sono accumulate all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. I suoi legami organici con due membri del Consiglio che dispongono del diritto di veto lo hanno collocato di fuori del diritto internazionale. È diventato uno Stato off-shore che permette agli Stati Uniti e al Regno Unito di fingere di rispettare anche loro il diritto internazionale, mentre lo violano dietro questo pseudo-Stato. È assolutamente sbagliato ritenere che il problema posto da Israele riguardi solo il Medio Oriente. Oggi Israele agisce militarmente in tutto il mondo a copertura dell’imperialismo anglosassone. In America Latina, ci furono agenti israeliani che organizzarono la repressione durante il colpo di stato contro Hugo Chávez (2002) o il rovesciamento di Manuel Zelaya (2009). In Africa, erano ovunque presenti durante la guerra dei Grandi Laghi e hanno organizzato l’arresto di Muammar el-Gheddafi. In Asia, hanno condotto l’assalto e il massacro delle Tigri Tamil (2009), ecc. Ogni volta, Londra e Washington giurano che non c’entrano per nulla. Inoltre, Israele controlla numerose istituzioni mediatiche e finanziarie (come la Federal Reserve statunitense).IMPERIALISMO La lotta contro l’imperialismo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, era evidente a tutti che la questione israeliana scaturisse dalla lotta contro l’imperialismo. I palestinesi erano sostenuti da tutti gli anti-imperialisti del mondo – perfino dai membri dell’Armata Rossa giapponese – che venivano a combattere al loro fianco. Oggi, la globalizzazione della società dei consumi e la perdita di valori che ne è seguita hanno fatto perdere coscienza del carattere coloniale dello Stato ebraico. Solo arabi e musulmani si sentono coinvolti. Essi mostrano empatia per la condizione dei palestinesi, ma ignorano i crimini israeliani nel resto del mondo e non reagiscono ad altri crimini imperialisti. Tuttavia, nel 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini spiegò ai suoi fedeli iraniani che Israele era solo una bambola nelle mani degli imperialisti e che l’unico vero nemico era l’alleanza degli Stati Uniti e del Regno Unito. Per il fatto di affermare questa semplice verità, Khomeini fu caricaturizzato in Occidente e gli sciiti furono presentati come eretici in Oriente. Oggi l’Iran è l’unico paese al mondo ad inviare grandi quantità di armi e consiglieri per aiutare la Resistenza palestinese, mentre i regimi sionisti arabi se ne stanno a discutere amabilmente in videoconferenza con il presidente israeliano durante le riunioni del Consiglio di sicurezza del Golfo.(Thierry Meyssan, “Chi è il nemico?”, articolo apparso il 3 agosto 2014 su diversi giornali internazionali e tradotto da “Megachip”).La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.
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L’immenso tesoro del Papa e il custode venuto da Sydney
Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.“L’Espresso” ha trovato anche spese e ricavi di decine di enti pubblicati nel 2013: dalla Segreteria di Stato alle nunziature estere, passando per Radio Vaticana e il Governatorato. E’ evidente, scrive Emiliano Fittipaldi in un reportage ripreso da “Micromega”, che «le spese della curia (case, segretari, viaggi, sicurezza, rappresentanza) sono ancora senza controllo». A Place Vendôme, nel centro di Parigi, una società francese controllata dall’Apsa possiede alcuni tra i più prestigiosi immobili della zona. «La Sopridex Sa ha avuto inquilini famosi (come François Mitterrand) e oggi ha attività iscritte a bilancio che arrivano a 46,8 milioni di euro». Tra i dipendenti, anche «la bellezza di 16 portieri». Ma l’Apsa, continua “L’Espresso”, controlla anche 10 società svizzere, «tra cui la misteriosa Diversa Sa, l’Immobiliere Sur Collonge e l’Immobiliere Florimont». Società che, insieme alla Profima Sa, «gestiscono proprietà e terreni nella confederazione elvetica e in mezza Europa». Tutte insieme «valgono 18 milioni».«Va ricordato che storicamente il bilancio dell’Apsa sottostima, per questioni fiscali, i valori dei palazzi di sua proprietà», spiega a Fittipaldi una qualificata fonte dell’istituto che ha sede nel Palazzo Apostolico. «Inoltre quelle svizzere sono società non consolidate: in pancia potrebbero avere molto più di quanto dichiarato». La Profima è stata aperta a Losanna nel 1926 e fu utilizzata da Pio XI per nascondere all’estero parte dei “risarcimenti” che la Chiesa ottenne grazie ai Patti Lateranensi stipulati con il regime fascista, mentre la holding Diversa «è praticamente sconosciuta». Fondata a Lugano nell’agosto del 1942, mentre si combatteva da Stalingrado ad El Alamein, risulta oggi presieduta da Gilles Crettol, «un avvocato svizzero che gestisce gli interessi del Papa oltralpe: il suo nome spunta in quasi tutte le altre società elvetiche». Fino a qualche tempo fa, il referente italiano era invece Paolo Mennini, ma gli uomini di Papa Francesco hanno deciso di farlo fuori: da qualche settimana, al suo posto, nei Cda delle società svizzere è comparso Franco Dalla Sega, presidente della bazoliana Mittel e «manager di fiducia del nuovo boss delle finanze vaticane, il cardinale George Pell».Il Vaticano, ricorda “L’Espresso”, possiede società immobiliari anche in Inghilterra: la British Grolux Investments Ltd, fondata nel 1933, «gestisce oggi a Londra attività per la bellezza di 38,8 milioni di euro inclusi negozi di lusso in New Bond Street». Quanto all’Italia, «oltre allo sterminato forziere di Propaganda Fide, ribattezzata Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli (ha un patrimonio stimato, al netto della crisi immobiliare, di circa 7 miliardi), l’Apsa controlla pure le società Sirea e Leonina, che a bilancio valgono oltre 16 milioni». Tra affitti a privati e locazioni commerciali, tutte le sigle che fanno capo all’Apsa hanno ricavato nel 2011 circa 23,5 milioni di euro. «Il bilancio finale dell’Apsa è impressionante», rileva Fittipaldi. «Case e appartamenti sparsi in Europa nel 2013 hanno toccato il valore complessivo di 342 milioni», mentre quello del portafoglio investimenti in euro ha superato quota 475 milioni, «cui bisogna aggiungere titoli per 137 milioni di dollari, 33 milioni di sterline e 17 milioni di franchi svizzeri».Un “tesoro” che vale complessivamente più di un miliardo, e che oggi gestiscono in tre: il super-consulente Dalla Sega e i due monsignori a capo dell’Apsa, il presidente Domenico Calcagno e il segretario Luigi Mistò. «Se gli immobili dell’Apsa valgono più di quanto riportato in bilancio, anche sull’oro ci sono molte cose che non tornano», aggiunge la fonde de “LEspresso”. Leggendo i dati riservati del 2013, scrive Fittipaldi, si scopre che l’Apsa detiene metalli preziosi per 30,8 milioni di euro, e «alcune stime interne della segreteria di Stato, da prendere con le molle, parlano di un controvalore di 140 miliardi di euro, il doppio di quanto conservato dalla Banca d’Italia». Qualcuno, però, sospetta che parte importante delle riserve auree del Vaticano sia conservata nei forzieri svizzeri e inglesi. «La stima mi sembra eccessiva – chiosa il dirigente Apsa – anche perché parte cospicua del nostro metallo giallo è stato venduto tra gli anni ‘90 e l’inzio del nuovo secolo dal cardinale venezuelano Rosalio Castillo Lara, ex presidente dell’amministrazione».Oltre all’oro dell’Apsa, il Vaticano controlla anche il patrimonio dello Ior, valutato 6 miliardi di euro. «Non stupisce che sul gruzzolo, dopo l’arrivo del nuovo pontefice, si sia scatenata una battaglia (l’ennesima) per la gestione. Francesco ha innanzitutto spazzato via gli uomini di Tarcisio Bertone che dal 2007 guidavano lo Ior e, attraverso Calcagno, la cassaforte dell’Apsa. Troppi gli scandali della decadente “lobby italiana”: a parte le scorribande di Scarano e le vicende di Bertone (i casi Carige e Lux Vide promettono sviluppi), le inchieste per riciclaggio hanno fatto saltare il direttore dello Ior Paolo Cipriani, il suo vice Massimo Tulli e il tesoriere della banca, mentre presto la prefettura degli Affari economici guidata da Giuseppe Versaldi, amico intimo di Bertone, potrebbe essere soppressa». Per ricostruire un sistema più trasparente, continua “L’Espresso”, Bergoglio ha poi chiamato dall’Australia il cardinale George Pell e lo ha nominato capo di un nuovo dicastero, la Segreteria dell’Economia. Una sorta di super-ministero che controllerà, di fatto, tutti gli enti finanziari dentro le Mura Leonine.Noto al Papa per le sue doti di economo, dopo aver gestito con buoni risultati una grande diocesi come quella di Sidney, il cardinale Pelle è soprattutto un uomo di comando. Ha subito silurato il presidente dello Ior, Ernst von Freyberg, rottamando le vecchie strutture di governance e accentrando nei suoi uffici i poteri esecutivi: la segreteria di Stato è stata ridimensionata (il successore di Bertone, Pietro Parolin, si occuperà prevalentemente di diplomazia), mentre lo Ior e l’Apsa sono stati commissariati. In Vaticano c’è chi teme ambizioni dell’australiano: «Se Parolin ha sotterrato l’ascia di guerra solo perché Francesco lo ha ammesso nel C9, il gruppo ristretto di cardinali che devono aiutarlo nella guida della Chiesa, il presidente del Governatorato Giuseppe Bertello sta tentando in tutti i modi di bloccarne l’ascesa». Tra i nuovi potenti, però, a «limitare il raggio d’azione di Pell» ci hanno priovato, «per ora senza successo», solo Oscar Rodriguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa e coordinatore del C9, e il cardinale Santos Abril y Castelló, presidente della commissione cardinalizia dello Ior.In Australia, i cattolici progressisti rimproverano al prelato di Sydney le posizioni ultra-conservatrici e le sparate pubbliche sull’Islam («religione guerresca», piena di «invocazioni alla violenza»). Inoltre, Pell fu scagionato nel 2002 dall’accusa di aver abusato di un ragazzino di 12 anni, mentre nel 2008 un’altra presunta vittima di abusi lo aveva incolpato di aver “coperto” un sacerdote pedofilo. «Lo scorso marzo, infine, il cardinale è stato chiamato a testimoniare di fronte alla Commissione nazionale d’inchiesta sugli abusi contro i minori istituita dal governo di Canberra, in merito a una causa che un altro ex chierichetto, John Ellis, aveva fatto alla Chiesa e allo stesso Pell in seguito a violenze sessuali avvenute tra il 1974 e il 1979». Pell ha chiesto scusa, continua “L’Espresso”, ma in molti sono restati sconcertati per la sua promozione decisa da Bergoglio. «Nella giungla vaticana – aggiunge Fittipaldi – il ranger venuto da Sydney non si muove da solo. Il capo segue i consigli di tre fidati consiglieri: il neo presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, il tycoon maltese Joseph Zahra (entrambi membri del Consiglio dell’Economia, l’altro neonato ufficio economico guidato da Reinhard Marx), e l’amico Danny Casay, manager che ha gestito con lui la diocesi di Sydney».Gli sconfitti, i vecchi cardinali di curia, li chiamano “la banda dei maltesi”, adombrando il pericolo di conflitti d’interessi: l’unico membro italiano chiamato a far parte del Consiglio dell’Economia, Francesco Vermiglio, ha fondato con l’amico Zahra (patron del colosso finanziario Misco Malta) la Misco Advisory Ltd, «una joint venture per invogliare i nostri connazionali a investire nell’isola, fino a pochi anni fa vero paradiso fiscale». A marzo 2014, inoltre, il figlio di de Franssu, Luis Victor, è stato assunto dalla Promontory, società Usa che da un anno sta spulciando i conti dello Ior. «Ma il numero uno dello Ior pare abbia buoni rapporti anche con alcuni giovani consulenti della McKinsey che hanno lavorato sui bilanci dell’Apsa. Tra loro c’era pure Filippo Sciorilli Borrelli. Classe 1981, è un figlio d’arte: suo padre Ivo è infatti tra gli azionisti di maggioranza di Banca Arner, l’istituto svizzero che ha tra i suoi (pochi) correntisti Silvio Berlusconi». Non c’è nessuna lobby maltese, ha ribattuto Pell, indignato. Tuttavia, ribatte “L’Espresso”, proprio i finanzieri de Franssu e Zahra – titolari di società di investimento – avevano ideato i nuovi assetti del business vaticano, secondo un modello «che rispecchia in gran parte quello annunciato da Pell», ovvero: potere assoluto della Segreteria dell’Economia, Apsa trasformata in Banca centrale e nascita di un nuovo Vatican Asset Management (Vam) per gestire titoli e obbligazioni.Nelle mire di Pell, aggiunge Fittipaldi, c’è anche un altro patrimonio della Santa Sede: i musei vaticani, tra i più visitati e redditizi al mondo: nel 2011 l’utile netto è stato di 58,7 milioni, e gli incassi (tra biglietti e merchandising) superiori a 91 milioni. Per contro, le spese 2013 della Curia romana ammontano a 77,9 milioni, e l’Apsa ha chiuso il suo bilancio in perdita di 48,4 milioni. «Se l’Obolo di San Pietro grazie alla beneficenza dei fedeli nel 2013 ha portato nelle casse 78 milioni, la mitica Radio Vaticana ha perso, secondo un report interno pubblicato nel 2013 e riferito al 2011, ben 26,6 milioni», scrive Fittipaldi. «Anche la tipografia che stampa “L’Osservatore romano” ha chiuso i conti a meno 5,5 milioni». Un salasso, a cui aggiungere il deficit delle 170 nunziature all’estero (meno 25,1 milioni) e i 5,8 milioni che servono a pagare le 110 guardie svizzere. «Chissà, infine, se la spending review minacciata da Pell peserà anche sulle messe di papa Francesco: nel 2011 l’Ufficio celebrazioni liturgiche ha speso per Ratzinger 1,1 milioni. Viste le dimensioni del tesoro di Dio, si tratta poco più di una mancia».Lingotti e monete d’oro, banconote di ogni valuta, proprietà immobiliari sterminate: ricchezza accumulata nei secoli da preti, vescovi e cardinali, fino ad assumere proporzioni bibliche. Spulciando una relazione segreta della Cosea, la dissolta Commissione referente sull’organizzazione della struttura economica del Vaticano, “L’Espresso” scopre ad esempio che «le varie istituzioni vaticane gestiscono i propri asset e quelli di terzi a un valore dichiarato di 9-10 miliardi di euro, di cui 8-9 miliardi in titoli e uno di immobiliare». Leggendo il bilancio (mai pubblicato) dell’Apsa, l’ente che amministra il patrimonio della sede apostolica, insieme ad alcune note confidenziali firmate dal neo-presidente dello Ior, Jean-Baptiste de Franssu, «si capisce che parte importante del tesoro è nascosto proprio all’Apsa, che a differenza dello Ior non ha mai reso noti i suoi conti». Dopo che uno dei suoi contabili, monsignor Nunzio Scarano, è stato arrestato per riciclaggio, corruzione e truffa, Papa Bergoglio ha deciso di mettere il naso anche lì.
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Fortezza Europa: vendiamo armi e anneghiamo profughi
Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.«I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato», e di trova di trova di fronte un’Europa trasformata in filo spinato, scrivono Spinelli, Padoan e Viale, nella petizione sottoscritta da Alexis Tsipras e Nichi Vendola e da autorevoli personalità come Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Ermanno Rea, Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Imperativo morale: garantire il diritto di fuga e fermare i “respingimenti”. Nel 2013, il numero dei migranti forzati è aumentato di ben 6 milioni, complice la carneficina siriana che in tre anni ha sfrattato due milioni e mezzo di civili. Si scappa anche dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale; si fugge dalla Somalia e dal Maghreb.Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste «in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati». Chi non muore durante il viaggio, che trasforma il Mediterraneo in un cimitero, viene accolto come un fuorilegge, subendo una «inferiorizzazione giuridica, economica e sociale», oltre alla privazione della libertà. Così, a naufragare è «quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie». Sicché, «i cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi». Tuttavia, l’Unione Europea – che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani – sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo «mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare».La cosa, aggiungono i firmatari della petizione, è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere, gestione di tutte le fasi del processo migratorio, accoglienza delle persone e condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri. Tutte norme rimaste quasi lettera morta: questo «conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione», data anche l’incapacità di predisporre soluzioni pratiche come la creazione di corridoi umanitari. L’Ue preferisce restare «nascosta dalla retorica del Consiglio Europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze», tra agenzie europee che dovrebbero «applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza». Massima ipocrisia, i respingimenti: presentati come misure per salvare i profughi, sono esattamente la loro condanna all’annegamento. Sono gli Stati, per primi, a violare le norme su diritto d’asilo, integrazione e solidarietà: «L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della “fortezza Europa”».Come ogni altra legge varata dall’autocrazia tecnocratica di Bruxelles che infligge le politiche di austerity, anche lo “scudo” europeo anti-immigrazione, Frontex, non è mai stato votato dai cittadini. «L’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito», scrivono Spinelli, Padoan e Viale, ricordando il cartello esposto a Bruxelles da un migrante: “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Servono nuove leggi, da applicare prontamente per fermare la strage. Oggi ci sono soltanto «iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex», praticamente «fumo negli occhi». I firmatari chiedono a Bruxelles di esaminare seriamente la situazione e produrre risposte. Nel frattempo, «si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche». Un corridoio umanitario tra Africa e Ue, sotto tutela Onu, per scongiurare nuove tragedie. Del resto, l’Europa è già presente in Libia: perché non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani?Spinelli, Padoan e Viale chiedono «canali di ingresso legale», in cui «un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare», e in cui l’Onu e l’Ue presidino ogni snodo di partenza e di transito per «identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori», per poi «smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie», mettendo fine all’assedio degli abitanti di Lampedusa, costretti a supplire, con grande generosità, «l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea». Più in generale, «l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare». Poi occorre assicurare libertà di movimento, garantire ai profughi «la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti». Serve anche il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo: «Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti». Per questo, i firmatari chiedono «la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem».Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale e chiedono che l’Ue si impegni a facilitare richieste e visti, «per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita», grazie a una normativa «capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati», a cominciare dalla protezione del diritto di transito. Problema ancor più drammatico per i minori non accompagnati, quasi 6.000 in Italia negli ultimi 18 mesi: «Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione». Poi, l’istituzione dello “ius soli”, per assicurare la cittadinanza europea ai figli dei migranti nati nei nostri paesi. Obiettivo finale: una “pax mediterranea”, dopo la “guerra infinita” prodotta dall’attuale geopolitica occidentale, prima responsabile delle crisi che determinano il flusso dei rifugiati. Servono nuovi strumenti politici per governare l’esodo: «Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una “terza forza” in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d’Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci».La crisi migratoria, concludono i firmatari, mostra quanto sia urgente una politica estera europea, «attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli Usa, che sono spesso all’origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini». L’Europa è tutt’altro che innocente: tra i primi dieci esportatori mondiali di armi figurano Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia. «Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche. Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa».Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.
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Udi Segal, eroe: in galera, pur di non sparare su Gaza
«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».Lo stesso Marcelli racconta che, anni fa, ebbe occasion di incontrare a Tel Aviv alcuni “Refuseniks”, esponenti del movimento israeliano contro la guerra, molti dei quali militari. «Erano i tempi della seconda Intifada: altri massacri, tuttora impuniti, si erano svolti da poco a Jenin ed altrove». Aggiunge Marcelli: «Rimasi colpito davvero dalla tranquilla fermezza di quelle persone, degne esponenti di una cultura millenaria cui l’umanità deve moltissimo, degni continuatori dei ribelli che difesero con le armi la loro vita e la loro dignità nel ghetto di Varsavia contro gli assassini nazisti». Una cultura civile e una nobile storia «che oggi Netanyahu e altra gentaccia della sua risma, i veri antisemiti, rischiano di gettare per sempre in una pattumeria piena di sangue e di bugie». Costretti a vivere in una società ostile, i giovani obiettori israeliani, in un paese in cui «crescono a vista d’occhio le malepiante dell’odio razziale e del fascismo». Eppure, «coraggiosamente, continuano a chiedere il dialogo e una pace giusta, così come chiedono giustizia per tutte le vittime innocenti di questa guerra insensata».Udi Segal sarà rinchiuso per sei mesi nel carcere militare Prison Six. «Israele può continuare questa occupazione, “but not in my name”, non nel mio nome», dichiara a Gianni Rosini del “Fatto”. Se un sondaggio del “Jerusalem Post” rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione “Protective Edge”, sul fronte opposto sono almeno 50 i soldati dell’Idf, l’Israel Defense Force, che hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione. «E migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionisti “Neturei Karta”, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza». L’appoggio del paese alla politica di Netanyahu è ancora forte, ammette il giovane Segal, «ma ci sono molte persone che sono stanche di questa guerra: solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione».«Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione». In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. «Non so ancora di preciso quanto rimarrò in cella – continua il ragazzo – anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro». Gli altri 50 soldati obiettori la pensano come lui. Lo spiegano in una lettera al “Washington Post”: «Ci opponiamo all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare».Gli israeliani, scrive Giannuli, sono già al massimo dei rapporti di forza nei confronti dei loro avversari, «a meno di non pensare davvero ad un genocidio, cosa che immaginiamo (e speriamo) ripugni la maggioranza della stessa opinione pubblica israeliana». A ben vedere, osserva lo storico dell’ateneo milanese, «lo Stato d’Israele esce indebolito da questa “brillante” operazione militare: persino gli Usa mostrano maggiore freddezza del passato e cresce il suo isolamento internazionale, l’opinione pubblica europea è disgustata mentre si risolleva una preoccupante ondata di antisemitismo», al punto che «la memoria del genocidio ebraico ne è sporcata e logorata», mentre nei paesi arabi «si ridestano gli umori più ostili a Israele rimettendo in discussione l’accettazione della sua esistenza. Vi sembrano costi politici da poco? E per aver ottenuto cosa? Questa offensiva ha comportato autentici crimini di guerra che non saranno perseguiti solo perché sul banco degli imputati ci vanno i vinti, e Israele non lo è».Domanda: quanto peserà l’obiezione di coscienza di alcune decine di militari, di fronte all’ennesima mattanza? Furono molti i soldati che, all’epoca, rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Un “rifiuto selettivo” che poi si estese ai Territori Occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere in Cisgordania e Gaza, ricorda ancora il “Fatto”, si chiama “Ometz LeSarev” o anche “Courage to Refuse”, coraggio di rifiutare. I 623 componenti del movimento dei “refuseniks”, formatosi nel 2002 e guidato da un ex generale dell’aviazione, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare: per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al Premio Nobel per la Pace.Tutto inutile, però, secondo Fabio Marcelli, fino a quando l’ipocrita Occidente continerà imperterrito «il traffico di armi e il sostegno, sia politico che militare, nei confronti del governo assassino» di Netanyahu, perfettamente consapevole che i tre studenti israeliani rapiti – casus belli dell’ultimo massacro – non erano finiti nelle mani di Hamas. I colpevoli siamo anche noi: il Tribunale Penale Internazionale rifiuta di tutelare i palestinesi. «A fronte di questa e altre vergognose manifestazioni di codardia e realpolitik», cioè subalternità al potere imperiale Usa, «occorre continuare la lotta per una giusta pace in Medio Oriente: lo dobbiamo alle mille e più vittime innocenti di Gaza, lo dobbiamo a Udi, ai giovani israeliani che rifiutano la guerra».«Fuoco sui civili di Gaza? Non in mio nome. Piuttosto, vado in prigione». E’ il destino che attende Udi Segal, 19 anni, soldato israeliano: sei mesi di carcere, per essersi rifiutato di partecipare all’ennesimo massacro contro i palestinesi. «Verrà un giorno in cui si riconoscerà che il vero eroe di questa guerra è stato il diciannovenne Udi Segal che, disertando per non colpire dei civili in una guerra ingiusta, ha salvato l’onore di Israele», sostiene Aldo Giannuli. «Tanto più importante, la scelta di Udi e degli altri come lui, di fronte al vergognoso e complice silenzio della cosiddetta comunità internazionale», rincara la dose Fabio Marcelli sul “Fatto Quotidiano”. «Comunità di ipocriti, bugiardi e mestatori che ha un esponente esemplare nel “nostro” Matteo Renzi e nella sua ministra degli esteri Mogherini, incapaci di articolare una proposta o protesta degna di questo nome di fronte alla strage degli innocenti che continua ad aver luogo a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste».
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Giannuli: rebus Germania, a metà strada tra Usa e Russia
«Se c’è un paese che gli Usa hanno interesse a spiare è proprio la Germania, il membro più irrequieto della Nato e anche quello più vicino ai russi». Alleati? Sì, ma di chi? Attenti alla Germania, avverte Aldo Giannuli: il paese leader della nuova Europa, ormai assurto al rango di potenza internazionale, potrebbe decidere di riposizionarsi sullo scacchiere mondiale alla luce del nuovo drammatico bipolarismo, da una parte Washington e dall’altra Mosca e Pechino. Tutti gli eventi degli ultimi mesi, incluse le voci sulle possibili dimissioni di Angela Merkel nel giro di un paio d’anni, sono «i sordi rimbombi che avvertono di un temporale in arrivo». A far da detonatore, la crisi in Ucraina che oppone gli Stati Uniti alla Russia, di cui la Germania è il primo partner commerciale. Berlino di fronte a un bivio drammatico? «E’ presto per dire se questa tendenza prenderà corpo e si materializzerà in un nuovo ordine mondiale, ma tutti iniziano a prendere le misure e a posizionarsi nel caso ciò dovesse accadere. E la domanda che gli americani e i russi si pongono è: “Ma la Germania da quale parte deciderà di stare?”».Nel giro di pochi mesi, scrive Giannuli nel suo blog, la Germania si è trovata al centro di una serie di notizie, tutte in qualche modo collegate tra loro. In primis, l’adesione al diktat statunitense per il blocco di alcuni conti russi, per lo più detenuti da magnati e oligarchi, protagonisti del «fittissimo import-export fra i due paesi». Come previsto, il boicottaggio dei conti russi ha causato un crollo della Borsa di Mosca, proprio mentre iniziava una manovra Usa per destabilizzare il rublo. «Poi, in marzo sono giunte notizie non proprio confortanti sulla situazione delle banche tedesche in vista degli stress-test previsti per il 2018. Del precario stato di salute della Commerzbank si sapeva, mentre era meno nota la situazione non più floridissima della Deutsche Bank», che alcuni analisti ritengono la peggiore banca europea, piena di titoli “marci”, cioè inesigibili. «Nel frattempo, i rapporti russo-tedeschi, pur sotto minaccia, sono proseguiti», e società tedesche e francesi hanno rilevato consistenti quote dell’Eni nella società impegnata a costruire Southstream, il grande gasdotto destinato ad aggirare l’Ucraina: il tracciato è stato modificato escludendo il nodo italiano di Tarvisio e creando una linea diretta Balcani-Austria, ma per ora «diverse società tedesche continuano a scommettere sulla Russia».Poi ci sono state le elezioni europee, dove la Merkel ha vinto e, alla fine, è riuscita a imporre il suo candidato, Juncker, a capo della Commissione. Pochi giorni dopo, «è nuovamente esplosa la grana dello spionaggio americano nei confronti della Germania, che sarebbe allegramente continuato dopo il caso Snowden». Al che, «scontata meraviglia sia della Merkel (“Non si spiano gli alleati!”) che di Obama (“Non ne sapevo nulla!”), scesi tutti e due dal pero». Domanda: com’è venuta fuori, la notizia? «Chi c’è dietro? Lo stesso che ha manovrato il caso Snowden?». In piena tempesta-spionaggio, per un solo giorno è lampeggiata sui media la notizia delle singolari dimissioni della Merkel: rinuncerebbe a ripresentarsi nel 2018, lasciando con largo anticipo per mettere in pista il successore. «La cosa è strana: la Merkel ha vinto le politiche solo 10 mesi fa, poi è andata tutto sommato bene alle europee e ha saldamente il governo in mano. Perché parla di dimissioni? E perché mai dovrebbe avviare la successione con un paio di anni di anticipo annunciandola un altro paio di anni prima? Lecito porsi una domanda: a chi sta parlando?».La riunificazione tedesca, continua Giannuli, è stata il principale avvenimento prodotto dalla fine del bipolarismo: la caduta del Muro è stata il simbolo visivo della fine di quell’ordine mondiale. «Poi le floride sorti della Germania sono andate di pari passo con la fase trionfale del nuovo ordine mondiale: la distensione nei rapporti con la Russia schiudeva ricche praterie alle imprese tedesche, la nascita dell’euro candidava Berlino a capitale naturale della nuova Europa, nuove frontiere all’espansionismo economico tedesco di aprivano via via verso est: Turchia, Kazakhstan, Cina, Corea». La Germania poteva ritenersi a buon diritto «uno dei protagonisti nel nuovo ordine mondiale sotto l’ombrello americano». E quando è arrivata la crisi del 2008, «è stata certamente uno dei paesi che ha retto meglio il colpo, anzi ha moltiplicato crediti ed influenza». Inoltre «è rimasta al centro di un sistema di alleanze a cerchi sovrapposti: membro della Nato, paese leader della Ue, ma insieme massimo partner commerciale della Russia. Ora però il vento è girato e le cose si mettono male». La crisi ucraina inizia a prospettare un nuovo bipolarismo est-ovest. La Germania da che parte starà?«Se c’è un paese che gli Usa hanno interesse a spiare è proprio la Germania, il membro più irrequieto della Nato e anche quello più vicino ai russi». Alleati? Sì, ma di chi? Attenti alla Germania, avverte Aldo Giannuli: il paese leader della nuova Europa, ormai assurto al rango di potenza internazionale, potrebbe decidere di riposizionarsi sullo scacchiere mondiale alla luce del nuovo drammatico bipolarismo, da una parte Washington e dall’altra Mosca e Pechino. Tutti gli eventi degli ultimi mesi, incluse le voci sulle possibili dimissioni di Angela Merkel nel giro di un paio d’anni, sono «i sordi rimbombi che avvertono di un temporale in arrivo». A far da detonatore, la crisi in Ucraina che oppone gli Stati Uniti alla Russia, di cui la Germania è il primo partner commerciale. Berlino di fronte a un bivio drammatico? «E’ presto per dire se questa tendenza prenderà corpo e si materializzerà in un nuovo ordine mondiale, ma tutti iniziano a prendere le misure e a posizionarsi nel caso ciò dovesse accadere. E la domanda che gli americani e i russi si pongono è: “Ma la Germania da quale parte deciderà di stare?”».
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Human Rights Watch: dietro quei terroristi c’era l’Fbi
Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive Hrw. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.«Agli americani è stato detto che il loro governo veglia sulla loro sicurezza prevenendo e perseguendo il terrorismo all’interno degli Stati Uniti», dice Andrea Prasow, vicedirettore di “Human Rights Watch” a Washington. «Ma se si osserva da vicino, si scopre che molte di queste persone non avrebbero mai commesso crimini se non fossero state incoraggiate da agenti federali, a volte anche pagati». Secondo “Hrw”, l’Fbi spesso individua soggetti vulnerabili, con problemi mentali o dalla scarsa intelligenza, come Rezwan Ferdaus, un 27enne condannato a 17 anni di carcere perché accusato di voler attaccare il Pentagono e il Congresso con piccoli droni carichi di esplosivo, in un falso complotto organizzato dagli stessi agenti americani. Strategia della tensione, dunque, nonostante la prevedibile smentita del ministro della giustizia Eric Holder, cui l’Fbi risponde. Peccato che i media mainstream se ne “accorgano” solo ora, aggiunge Pino Cabras su “Megachip”: all’epoca degli “attentati” di cui si è occupata “Human Rights Watch”, infatti, la Rai e i giornali «ripetevano le veline dell’Fbi: fanno così molto spesso, senza correggersi mai», o comunque fuori tempo massimo.La notizia rende finalmente giustizia ai reporter che fanno «semplice giornalismo d’inchiesta» ma vengono regolarmente tacciati di “complottismo”. Disinformazione criminale, dunque, che ogni giorno “ruba” «un pezzo di libertà, di sovranità», fino ad imporre «lo spionaggio totalitario della Nsa». Attenti, sottolinea Cabras: «Non stiamo parlando di un generico sottofondo di notizie: si tratta dei modi con cui si è lanciato un allarme sicurezza permanente che ha fatto da base giuridica e premessa politica delle guerre di aggressione intraprese dal 2001 in poi, nonché delle leggi che hanno consentito lo spionaggio onnipervasivo e reintrodotto gli arresti extralegali e la tortura». In questo quadro, «emerge chiaramente che il terrorismo in Usa è un’interminabile catena di azioni “false flag” (sotto falsa bandiera), in cui gli attori hanno sempre il fiato sul collo dell’Fbi, che li manipola per i propri fini. Era così già dal primo attentato alle Torri Gemelle di New York, nel 1993, fu così per una parte dei soggetti implicati nei mega-attentati dell’11 settembre 2001, è stato così per Mutanda Bomber e per la maratona di Boston».«L’indagine di Human Rights Watch – continua Cabras – sarebbe già sufficiente da sola per dire che questo è un metodo di governo e che il cosiddetto terrorismo è in prevalenza una forma di manipolazione di massa, coperta da entità statali e usata con l’accordo dei pochi proprietari della quasi totalità dei grandi organi di informazione che sono adibiti a organizzare l’isteria collettiva a comando». Con ogni probabilità, aggiunge l’analista di “Megachip”, la realtà è invece «ancora più vasta e incancrenita», tanto che l’indagine «sarebbe da estendere anche oltre gli Usa (pensiamo agli attentati di Londra del 2005), oltre l’Fbi (pensiamo al terrorismo internazionale segnato e finanziato da un intreccio di servizi segreti di vari paesi), e oltre i piccoli episodi (pensiamo anche all’11 Settembre e all’allarme antrace del 2001)».Musulmani incoraggiati a compiere atti di terrorismo, a volte anche retribuiti. A denunciare l’operato dell’Fbi, la polizia federale americana, è una ong statunitense, “Human Rights Watch”. In un rapporto pubblicato in rete, riferisce “Rai News 24”, l’organizzazione accusa l’Fbi di aver violato la legge e di non aver perseguito le reali minacce. Con la collaborazione dell’Istituto per i diritti umani dell’Università della Colombia, “Human Rights Watch” ha esaminato 27 casi di indagini che sono passate attraverso un processo, intervistando 215 persone, incluse quelle accusate o condannate per atti di terrorismo. «In molti casi il governo, usando i suoi informatori, ha sviluppato falsi complotti terroristici, persuadendo e in alcuni casi facendo pressione su individui, per farli partecipare e fornire risorse per attentati», scrive “Hrw”. Per l’organizzazione, metà dei casi esaminati fa parte di operazioni portate avanti con l’inganno e nel 30% dei casi un agente sotto copertura ha giocato un ruolo attivo nel complotto.
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Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre
Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.«Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
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Klare: senza le rinnovabili, è guerra ovunque per l’energia
Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.Gli esportatori – come Iraq e Nigeria, Russia e Sudan del Sud – spesso esercitano un’influenza sproporzionata, sulla scena mondiale, rispetto al loro reale peso specifico politico. Proprio la lotta per le risorse energetiche, scrive Klare in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, è stato un fattore evidente in diversi conflitti recenti, tra cui la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, la Guerra del Golfo del 1990-1991 e la guerra civile sudanese del 1983-2005. «A prima vista, il fattore legato ai combustibili fossili nei più recenti focolai di tensione e di guerra può sembrare meno evidente, ma se si guarda più da vicino si vede che ognuno di questi conflitti è, in effetti, una guerra per l’energia». Gli estremisti sunniti dell’Isis, che sperano di fondare un giorno un “califfato islamico” in Medio Oriente, oggi occupano le aree-chiave per l’estrazione del greggio in Siria e gli impianti di raffinazione in Iraq. «Pare che l’Isis venda petrolio proveniente dai giacimenti sotto il suo controllo a oscuri intermediari, che a loro volta organizzano il trasporto – per lo più tramite autobotti – alla volta di acquirenti che si trovano in Iraq, Siria e Turchia. Si dice che queste vendite forniscano all’organizzazione i fondi necessari per pagare le sue truppe e acquisire le sue vaste scorte di armi e munizioni».Molti osservatori, aggiunge Klare, sostengono anche che l’Isis stia vendendo petrolio al regime di Assad in cambio di immunità dagli attacchi aerei governativi lanciati contro i restanti gruppi ribelli. «In qualsiasi modo gli attuali combattimenti nel nord dell’Iraq si sviluppino, è ovvio che anche lì il petrolio sia il fattore chiave», anche perché l’Isis «mira sia a negare le forniture di petrolio e le entrate ad esso legate al governo di Baghdad, sia a sostenere le proprie casse, migliorando la sua capacità di costruire una vera e propria nazione e facilitando ulteriori progressi militari». Dal petrolio al gas, è sempre l’energia al centro della contesta in Ucraina, dove transita il 30% del gas russo destinato all’Europa: non deve sorprendere che l’accordo di associazione tra Bruxelles e Kiev preveda l’estensione delle norme energetiche dell’Ue al sistema energetico ucraino, eliminando di fatto i benevoli accordi intercorsi tra le élite ucraine e la russa Gazprom. Non solo militare, ma anche energetico, il significato della contromossa di Putin, cioè il recupero della Crimea: si ritiene che la penisola sul Mar Nero ospiti miliardi di barili di petrolio e vaste riserve di gas, come dimostrato dalla pressione esercitata da Exxon Mobil, prima della crisi, per mettere le mani proprio sulla Crimea.Si scrive guerra ma si legge energia anche in Nigeria: le cronache parlano dei ribelli islamisti di Boko Haram, decisi ad abbattere un regime corrotto, ma spesso dimenticano di spiegare che il paese è il più grande produttore africano di petrolio, grazie a un’estrazione giornaliera di circa 2,5 milioni di barili. Profitti: decine di miliardi di dollari l’anno. Se venissero usati per stimolare lo sviluppo e migliorare la sorte della popolazione, scrive Klare, «la Nigeria potrebbe essere un grandioso faro di speranza per tutta l’Africa». Invece, «gran parte del denaro scompare nelle tasche (e relativi conti bancari esteri) di élite nigeriane ben ammanicate». Per molti nigeriani, la maggior parte dei quali vive con meno di 2 dollari al giorno, la corruzione della capitale Abuja, combinata con la brutalità indiscriminata della polizia, è una fonte costante di rabbia: risentimento che genera reclute per gruppi di insorti come Boko Haram e conquista l’ammirazione della popolazione. Soldi e petrolio sono alla base anche della guerra infinita in Sudan, inclusa la tragedia del Darfur. Avviata nel 1995, la prima guerra civile tra il nord islamico e il sud animista e cristiano si concluse nel 1972. Ma quando fu scoperto il petrolio nel sud, i governanti del nord revocarono l’autonomia concessa: la seconda guerra civile, protrattasi dal 1983 al 2005 per il controllo dei giacimenti, ha fatto 2 milioni di morti prima che si arrivasse alla secessione del sud, nel 2011. Ma il Sud Sudan non trova pace neppure ora: l’élite al potere combatte contro i competitori interni, in scontri continui attorno ai campi petroliferi, proprio come in Siria e in Iraq.Altro teatro di pericolosa instabilità geopolitica di origine energetica, il Mar della Cina: sia in quello meridionale che in quello orientale, «la Cina e i suoi vicini rivendicano la proprietà di vari atolli e isole che si trovano a cavallo di vaste riserve sottomarine di petrolio e di gas», ricorda Klare, citando gli scontri navali ormai ricorrenti. Quel mare, una propaggine del Pacifico occidentale molto ricca di energia, è circondato da Cina, Vietnam, Borneo e Filippine. «Le tensioni hanno raggiunto il picco in maggio, quando i cinesi schierarono il loro più grande impianto di perforazione per acque profonde, l’Hd-981, nelle acque rivendicate dal Vietnam», proteggendolo con una flotta da guerra. «Quando le navi della guardia costiera vietnamita hanno provato a penetrare all’interno di questo anello difensivo, nel tentativo di scacciare l’impianto di perforazione, sono state speronate dalle navi cinesi e colpite con cannoni ad acqua». In mare nessun morto, ma la rivolta anti-cinese in Vietnam ha fatto parecchie vittime. C’è chi parla di risentimenti storici, ma in realtà la China National Offshore Oil Company (Cnooc) stima che nel Mar Cinese Meridionale ci siano da 23 a 30 miliardi di tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale, pari a un terzo del totale delle risorse petrolifere e di gas della Cina, che oggi è il più grande consumatore mondiale di energia.Non c’è via d’uscita, dice Klare: la guerra per l’energia continuerà in tutto il mondo. «Mentre le divisioni etniche e religiose possono fornire il carburante politico e ideologico di queste battaglie», è decisivo il movente economico: si parla di «profitti mastodontici», oltre che di “benzina” per alimentare le strutture militari belligeranti. In un mondo ancora legato a doppio filo ai combustibili fossili, il controllo delle riserve di petrolio e gas è una componente essenziale del potere nazionale. «Il petrolio potenzia più di automobili e aeroplani», ha detto Robert Ebel del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali durante un audizione del Dipartimento di Stato Usa nel 2002. «Il petrolio potenzia la forza militare, il Tesoro nazionale e la politica internazionale». È molto più del normale commercio di una materia prima: «E’ un fattore determinante del benessere, della sicurezza nazionale e della potenza in campo internazionale per coloro che possiedono questa risorsa vitale e il contrario per coloro che non ne hanno». Forse, conclude Klare, ne usciremo solo il giorno in cui, finalmente, il mondo passerà davvero alle energie rinnovabili.Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.
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Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra
La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.
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Mare Nostrum, affari loro: migranti, li vuole l’Europa
«Mare Nostrum è una costosa coreografia che sta andando in scena per gestire l’invasione controllata e pianificata che l’establishment sovranazioanale europeo ha ideato per consentire la sostenibilità economica e finanziaria di pensioni e debito pubblico», senza dimenticare «i profitti delle multinazionali dei consumi di massa». Lo sostiene Eugenio Benetazzo, secondo cui «in Europa servono 11 milioni di clandestini entro il 2020». Si tratta in fondo di «nuovi consumatori e lavoratori», naturalmente sottopagati, che «consentiranno di compensare gli effetti negativi di un progressivo invecchiamento della popolazione europea e di un crollo della natalità». Per Benetazzo, non è il caso di parlare di cospirazionismo o complottismo, ma di una vera e propria exit strategy: l’Europa, che finora ha sempre voluto «controllare e commissariare tutto quello di cui aveva paura», o che «doveva essere gestito per l’interesse di qualcuno», è sostanzialmente «rimasta alla finestra, lasciando agli italiani il compito di gestire il tutto», cioè la pressione migratoria dal Sud.Questo, aggiunge Benetazzo nel suo blog, è il principale indizio che fa capire come «quanto sta accadendo non solo va benissimo, ma anzi deve continuare», perché «lasciare il tutto nelle mani degli italiani è la soluzione ideale», secondo Bruxelles, indifferente all’onere rappresentato dalla vigilanza e dal controllo militare del Mediterraneo, di cui si fa carico l’Italia – da sola – con le costose missioni quotidiane di pattugliamento e assistenza, a cura della marina militare. Benetazzo insiste sulla teoria della pianificazione dell“invasione”: molti dei disperati alla deriva sui barconi pagano anche 5.000 euro per attraversare il Sahara e poi il Canale di Sicilia, mentre «se solo avessero un passaporto, potrebbero atterrare a Roma con un volo di prima classe spendendo meno della metà». Dettaglio: le ondate di boat-people provengono dal Nord Africa della “primavera araba” e da paesi devastati dalla guerra, come la Siria e la Somalia, o da terre come l’Eritrea dove l’Italia supporta una feroce dittatura da cui i giovani fuggono. La grande falla, in ogni caso, è proprio il Maghreb, una volta caduto il regime-gendarme di Gheddafi per mano americana e anglo-francese.«Tutti rimpiangono i vari leader/dittatori che prima governavano i rispettivi paesi», scrive Benetazzo. «Più di tutti si rimpiange Gheddafi, l’uomo che agli inizi degli anni Ottanta aveva intenzione di creare gli Stati Uniti d’Africa, coalizzando e guidando tutti le nazioni del continente, per evitare di subire lo strapotere delle economie occidentali: per questo faceva paura, non perchè era un dittatore ma perchè il suo carisma e leadership potevano portare ad un cambio di svolta epocale per l’Africa e le loro genti». Piano andato in fumo, come si sa, per il fermo ostruzionismo “imperiale” degli Usa, oltre che per «l’egocentricità» di troppi leader africani, dall’ugandese Idi Amin Dada allo stesso Colonnello libico. «Purtroppo – chiosa Benetazzo – con la sua morte sono iniziati i problemi per il Mediterraneo: il controllo che aveva sulla Libia e sulle sue coste rappresentava la miglior garanzia di stabilità sociale per tutti le popolazioni del Mediterraneo». Ora l’invasione non ha più freni, e ricade interamente sull’Italia – come previsto fin dall’inizio, secondo Benetazzo, che accusa direttamente gli strateghi dell’oligarchia europea insediata a Bruxelles.«Mare Nostrum è una costosa coreografia che sta andando in scena per gestire l’invasione controllata e pianificata che l’establishment sovranazioanale europeo ha ideato per consentire la sostenibilità economica e finanziaria di pensioni e debito pubblico», senza dimenticare «i profitti delle multinazionali dei consumi di massa». Lo sostiene Eugenio Benetazzo, secondo cui «in Europa servono 11 milioni di clandestini entro il 2020». Si tratta in fondo di «nuovi consumatori e lavoratori», naturalmente sottopagati, che «consentiranno di compensare gli effetti negativi di un progressivo invecchiamento della popolazione europea e di un crollo della natalità». Per Benetazzo, non è il caso di parlare di cospirazionismo o complottismo, ma di una vera e propria exit strategy: l’Europa, che finora ha sempre voluto «controllare e commissariare tutto quello di cui aveva paura», o che «doveva essere gestito per l’interesse di qualcuno», è sostanzialmente «rimasta alla finestra, lasciando agli italiani il compito di gestire il tutto», cioè la pressione migratoria dal Sud.
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Giannuli: il martirio di Gaza scatenerà l’inferno su Israele
Attenti a premere il grilletto su Gaza, il lager a cielo aperto nel quale stanno rinchiusi due milioni di palestinesi: il delirante progetto islamista che sta dilagando tra Iraq e Siria potrebbe esercitare una pericolosa suggestione tra le masse arabe sempre più abbandonate a se stesse, nella grande disintegrazione del Medio Oriente. E il primo a rimetterci sarebbe proprio Israele, che tra tutti gli attori della regione è quello che più ha da perdere. Lo sostiene Aldo Giannuli, secondo cui lo Stato ebraico «è ormai prigioniero della sua stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore». Sin dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle più micidiali macchine da guerra del mondo, che ha vinto quattro guerre di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo accerchiavano. Ma poi il formidabile esercito israeliano è diventato un problema: può fare stragi, ma non spegnere la guerriglia.Dal 1973, continua Giannuli nel suo blog, la macchina da guerra di Tel Aviv è diventata controproducente, dal momento che dopo la Guerra del Kippur non si è più formata alcuna coalizione araba che minacciasse credibilmente l’esistenza dello “Stato degli ebrei”. «Il confronto si è spostato sui piani della rivolta popolare, della guerra irregolare e della diplomazia, tutte cose per le quali un potente esercito serve a ben poco». Israele, invece, «è rimasto psicologicamente prigioniero del suo passato, e ha costantemente risposto alle sfide della guerra irregolare mettendola sul piano dello scontro campale». Ma i caccia e i carri armati non sono esattamente l’arma più adatta per affrontare piccoli commando. «L’idea perversa è quella di battere i guerriglieri prendendo in ostaggio i civili: bombardiamo gli obiettivi civili e la popolazione si rivolterà contro i “terroristi” che la mettono in pericolo. Mi pesa scriverlo, ma è una logica da Marzabotto ed è rivoltante vedere i figli e i nipoti delle vittime di Auschwitz adottare la logica dei loro persecutori».Per giunta, continua Giannuli, i risultati politici sono gli stessi della Wehrmacht: la popolazione riconosce sempre come nemico l’esercito occupante, non certo la resistenza. Tuttavia, «questo schema si è ripetuto troppe volte, scrivendo pagine ignobili come il massacro di Sabra e Chatila, al quale però il popolo di Israele seppe reagire con una manifestazione di massa (300.000 persone in un paese di 6 milioni di abitanti) contro il proprio esercito». Un gesto di alta civiltà, sottolinea Giannuli, di cui pochi popoli sono stati capaci. «Ma di quello spirito è restato ben poco e, dopo lo stillicidio degli attentati suicidi, Israele si è appiattito sul più livido e cieco odio verso il suo antagonista». La destra di Netanyauh? «E’ il sonno della ragione di Israele che ha imboccato un tunnel suicida», nonostante sia finito il tempo delle guerre arabo-israeliane per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa del Medio Oriente. Si poteva approfittarne per chiudere lealmente la partita e risarcire i palestinesi della cacciata inflitta loro nel 1948. Grande occasione perduta.Terra in cambio di sicurezza: «Uno slogan sempre enunciato ma sempre tradito dai comportamenti». Così, di fronte alla rabbia palestinese per le promesse tradite, «Israele ha costantemente calato la carta della sopraffazione militare: un rimedio, oltre che odioso sul piano morale, illusorio sul piano del realismo politico». Forte della sicurezza offertagli dalle proprie forze armate, Israele crede – o meglio, si illude – che ci sia una soluzione militare al conflitto. «Questa soluzione non esiste: la guerriglia continuerà endemica, anche perché la soluzione territoriale immaginata (la miriade di “bantustan” circondati dal muro, con l’appendice di Gaza) è invivibile per qualsiasi popolazione, e i primi a non sopportarla, a parti invertite, sarebbero proprio gli israeliani». Resta una soluzione infernale: il genocidio e la deportazione in massa del popolo palestinese. «Voglio augurarmi che un simile orrore non sia preso in considerazione da nessuno – dice Giannuli – ma, nel caso qualcuno ci pensasse, bisogna che si ricordi che la comunità internazionale non lo permetterebbe mai».Ora siamo all’ennesima replica dello scenario militarista, ma questa volta è diverso dal 2006 e dal 2008: tutto il mondo arabo è squassato da rivolte che hanno polverizzato Stati e regimi politici, dalla Libia al Sudan. In Siria c’è una guerra infinita, in Iraq brucia la guerra civile, l’Afghanistan è tutt’altro che pacificato, in Egitto sono tornati al potere i militari ma non si capisce ancora per quanto, l’Arabia Saudita va verso una difficilissima successione. Soprattutto, in Iraq e Siria «si è stesa l’ombra minacciosa del Califfato». Improbabile, ovviamente, che possa nascere un’entità islamista estesa dal Marocco alla Bosnia, ma «non va sottovalutato il potere mobilitante della suggestione del califfato: se la cosa prende piede, iniziando ad apparire credibile alle masse islamiche (e ci vuol poco: basta semplicemente che duri un po’ nel tempo) va messa nel conto un’ondata di fondamentalismo da far impallidire tutte quelle precedenti messe insieme». Dopo aver demolito l’Anp, ora Israele punta a distruggere anche Hamas. Con chi parlerà, se dovesse montare la marea jihadista? «Non ci sarebbero molti interlocutori statali con cui intendersi», conclude Giannuli: un attacco finale contro Gaza «potrebbe porre le premesse di un disastro senza precedenti, soprattutto per Israele».Attenti a premere il grilletto su Gaza, il lager a cielo aperto nel quale stanno rinchiusi due milioni di palestinesi: il delirante progetto islamista che sta dilagando tra Iraq e Siria potrebbe esercitare una pericolosa suggestione tra le masse arabe sempre più abbandonate a se stesse, nella grande disintegrazione del Medio Oriente. E il primo a rimetterci sarebbe proprio Israele, che tra tutti gli attori della regione è quello che più ha da perdere. Lo sostiene Aldo Giannuli, secondo cui lo Stato ebraico «è ormai prigioniero della sua stessa storia e subisce una sorta di coazione a ripetere l’errore». Sin dalla sua fondazione, ha dovuto misurarsi sul piano militare per difendere la sua esistenza e, a questo fine, ha messo a punto una delle più micidiali macchine da guerra del mondo, che ha vinto quattro guerre di fila fra il 1948 ed il 1973, contro le coalizioni arabe che lo accerchiavano. Ma poi il formidabile esercito israeliano è diventato un problema: può fare stragi, ma non spegnere la guerriglia.
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Il pupazzo Renzi ci sta spedendo nell’inferno del Ttip
Così pochi giorni fa abbiamo udito le voci del ventriloquo uscire dalle bocche dei nostri governanti. L’ineffabile Renzi, colui che il più delle volte parla senza dire alcunché (è anche questa una capacità molto importante per i politici di oggi, ma bisogna dare a lui il merito di averla portata alle vette del sublime), stavolta, animato dal ventriloquo, ha detto qualcosa di concreto: che bisogna firmare subito il Ttip, il trattato internazionale di libero commercio tra Usa ed Europa. «E’ tutto a nostro vantaggio», ha detto il ventriloquo. «Sst!… Guerrino dorme, non risvegliamolo. Vorrei sbagliarmi, ma credo che ogni giorno di più dubita di non esistere, d’essere un’armatura piena di vento…» (Gesualdo Bufalino). Dice che venderemo più facilmente i nostri prosciutti e il nostro parmigiano agli americani. Finalmente. Allora ci metteremo tutti a produrre prosciutti e parmigiano, e cargo di prosciutti e parmigiano, e magari vino Chianti e Brunello partiranno per l’America, inondando le mense Usa e sostituendo hamburger, popcorn, cibi in scatola e in plastica di ogni genere e tipo.Continueremo a importare grano, riso, carne, verdure, sementi, piante da orto e da giardino, soia e mais e farine animali da far mangiare ai maiali per i prosciutti e alle vacche per il parmigiano, pesticidi con cui irrorare i già troppo estesi vigneti del Chianti e del Brunello, ecc ecc, e molte di queste cose continueremo ad importarle dagli Stati Uniti, come già facciamo. Con una piccola differenza, però, rispetto ad ora: non potremo più rifiutare nulla. Non potremo più escludere ormoni, Ogm, veleni di qualsiasi genere dal nostro commercio e consumo, non potremo nemmeno più essere avvertiti della loro presenza da un’etichetta (e nemmeno da un articolo pubblicato su un giornale) perché sarebbe “concorrenza sleale”, punita con gravi sanzioni pecuniarie, se non peggio. Diventerebbe illegale anche un’etichetta che specificasse “esente da Ogm”: sarebbe sempre concorrenza sleale. “Sleale”! Ma dov’è finito il significato delle parole?Il Ttip (trattato di libero commercio), libererebbe le multinazionali Usa (e non solo) da ogni limite e vincolo che oggi la nostra legislazione prevede, e che abbiamo conquistato a seguito di tante lotte, mobilitazioni, impegno e lavoro di associazioni, gruppi e gente varia. Libererebbe le multinazionali e incatenerebbe noi. Ogni passo avanti nel cammino della globalizzazione imperialista è un passo avanti nella sottomissione dei popoli. Mentre quelli che ci stanno rendendo schiavi sventolano la bandiera della Santa Democrazia ogni volta che devono dare l’assalto a qualche paese refrattario e recalcitrante al farsi “globalizzare”. Il Ttip è un piano con cui le grandi corporations vogliono accaparrarsi tutto l’accaparrabile, controllare tutto il commercio, imporre a tutti i loro prodotti. Viene discusso in segreto, tenendone all’oscuro, con la complicità dei governi, i popoli che ne saranno vittime.E’ un’altra rapina di risorse naturali ed economiche, aumenterà la povertà dei molti e la ricchezza dei dominatori del mondo, accelererà la distruzione della Terra e della nostra salute. Se verrà approvato. Intanto, non lasciamo che a berciare sia solo il ventriloquo attraverso le sue marionette: la maggior parte dei cittadini non ne ha mai sentito parlare, se non da Renzi & C. Informiamoci e informiamo, facciamo conoscere la verità e gli obiettivi di questo trattato commerciale. Tutti devono capire, tutti quelli che sanno e hanno capito devono informare coloro che “cadono dalle nuvole” ma che pesano, eccome, sul piatto della bilancia. Il Trattato prevede che le legislazioni dei singoli Stati si pieghino alle norme di libero scambio stabilite dalle multinazionali, pena gravi sanzioni commerciali e risarcimenti (alle multinazionali) degli Stati contravventori. O delle Regioni, o dei Comuni.Sicurezza alimentare, norme sulle sostanze tossiche, sanità, medicinali, energia, cultura, risorse naturali, formazione professionale, appalti pubblici… tutto verrebbe piegato e ridisegnato secondo gli interessi delle multinazionali. Sarebbero creati appositi tribunali internazionali per tutelarne gli interessi. I servizi pubblici diventerebbero merce di libero scambio. Stiamo parlando di scuole, ospedali, ferrovie, musei, opere pubbliche, foreste e terreni, energia elettrica. Tutto “liberamente scambiabile”! Tutto arraffabile, accaparrabile, rapinabile dalle grandi industrie Usa ed europee. Nella delegazione americana che sta conducendo le trattative ci sono più di seicento (600!) rappresentanti mandati dalle multinazionali. Seicento loro lacché, funzionari, mercenari: dopotutto, è una guerra, e quei seicento si batteranno fino all’ultimo: per loro è questione di vita o di morte. Cioè di carriera e prestigio o di fallimento, che è tutto ciò che concepiscono della vita.Le istruzioni per tutti i lacché, Usa ed europei, politici e non, sono: non far trapelare nulla, fino alla fine, di ciò che si discute. Chissà perché? A noi italiani almeno lo potrebbero dire, dato che il Ttip “è tutto a nostro vantaggio”. «Con le monete in una mano, un bel niente nell’altra, persuasero tutti, eccetto il bambino – già sapeva… che, qualsiasi mano avesse toccato delle due tese avanti, sarebbe stata sempre quella vuota» (R. S. Thomas). Peccato che il trattato simile di libero commercio fatto tra Usa e Messico non sia stato anche lui a tutto vantaggio dei contadini messicani, che hanno visto inondare il mercato interno di mais Usa geneticamente modificato e a prezzi stracciati e, oltre a non riuscire più a vendere il proprio prodotto, vengono denunciati e rovinati dalla Monsanto perché il loro mais è contaminato.(Sonia Savioli, “Ventriloqui, pupazzi e accordo commerciale Usa-Ue”, da “Il Cambiamento” del 26 giugno 2014).Così pochi giorni fa abbiamo udito le voci del ventriloquo uscire dalle bocche dei nostri governanti. L’ineffabile Renzi, colui che il più delle volte parla senza dire alcunché (è anche questa una capacità molto importante per i politici di oggi, ma bisogna dare a lui il merito di averla portata alle vette del sublime), stavolta, animato dal ventriloquo, ha detto qualcosa di concreto: che bisogna firmare subito il Ttip, il trattato internazionale di libero commercio tra Usa ed Europa. «E’ tutto a nostro vantaggio», ha detto il ventriloquo. «Sst!… Guerrino dorme, non risvegliamolo. Vorrei sbagliarmi, ma credo che ogni giorno di più dubita di non esistere, d’essere un’armatura piena di vento…» (Gesualdo Bufalino). Dice che venderemo più facilmente i nostri prosciutti e il nostro parmigiano agli americani. Finalmente. Allora ci metteremo tutti a produrre prosciutti e parmigiano, e cargo di prosciutti e parmigiano, e magari vino Chianti e Brunello partiranno per l’America, inondando le mense Usa e sostituendo hamburger, popcorn, cibi in scatola e in plastica di ogni genere e tipo.