Archivio del Tag ‘grandi opere’
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Tav, binario morto: fine della Torino-Lione voluta dall’élite?
Sindaco di Torino dal 2001 al 2011, Chiamparino esprime al meglio la storica conversione neoliberista dell’ex sinistra piemontese, passata dalla lotta operaia sotto le bandiere del Pci alle platee del Lingotto all’ombra del Pd veltroniano e renziano. Dopo aver gestito le Olimpiadi Invernali 2006 che hanno ridato fiato all’economia torinese prostrata dal declino della Fiat, Chiamparino è passato – in modo disinvolto – dalla guida della città alla presidenza della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria del primo istituto di credito italiano, per poi tornare tranquillamente alla politica: oggi è presidente della Regione Piemonte. “Siete praticamente finiti”, disse cordialmente ai NoTav nel 2010, festeggiando quella che immaginava fosse la fine della resistenza popolare della valle di Susa contro la maxi-opera. “Siete rimasti in quattro gatti”, disse ai militanti, che risposero con una marcia di 40.000 persone. Da allora, la battaglia NoTav si è letteralmente incendiata, anche con pesanti strascichi giudiziari. E nel frattempo è cambiata la percezione nazionale del fenomeno: decine di personaggi pubblici – scrittori, cantanti, attori, registi – si sono schierati dalla parte dei valligiani, bocciando la Torino-Lione come una inutile, pericolosa devastazione.La novità è che, dopo le elezioni del 4 marzo, questo pensiero è diventato maggioranza, nel paese: il governo gialloverde frena, sui cantieri valsusini. I penstastellati dovranno “passare sul corpo di Chiamparino” se vogliono cestinare la Torino-Lione? Si tranquillizzi, gli risponde il ministro grillino Danilo Toninelli: in valle di Susa potrebbe non passare nessun treno. Al che, Chiamparino rilancia e “convoca” a Torino l’esecutivo, che però risponde picche. Un affronto, per il presidente della Regione: «L’esempio che arriva dal governo non è di rispetto istituzionale», dice Chiamparino, irritato anche con Salvini, “colpevole” di avergli ricordato che «il contratto di governo prevede, per tutte le grandi opere, una nuova analisi costi-benefici». Chiamparino attacca il neo-ministro dell’interno, definendolo «un primo ministro ombra, in campagna elettorale permanente, che non mostra alcun rispetto istituzionale». Davvero? «Se pensava di farsi da solo il monologo sulla Torino-Lione e altre opere che invece dovranno passare da una seria analisi costi-benefici previste nel contratto di governo, strumentalizzando ai fini politici la sua carica istituzionale, è stato servito», replicano i parlamentari piemontesi del Movimento 5 Stelle, chiudendo il caso della mancata partecipazione del governo al summit torinese.Ancora più dura la risposta leghista: «Se un governatore fantasma, sparito da Torino e dal Piemonte, si ricorda di esistere solo per attaccare Salvini e la Lega, significa che l’incontro sulle infrastrutture era solo un pretesto», dice Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera e segretario regionale del Piemonte. «Chiamparino sa bene che il mio ministero sta lavorando alacremente per una “project review” di certe importanti opere della sua regione», precisa lo stesso Toninelli: «Quando sarà il momento, saremo noi a convocare un tavolo istituzionale con tutte le parti in causa». E aggiunge: «Il governo è cambiato: forse il presidente Chiamparino ha difficoltà a farsene una ragione». L’esecutivo è cambiato perché gli italiani hanno votato, democraticamente. E hanno scelto Lega e 5 Stelle: di questo, proprio, l’establishment sembra non riuscire a capacitarsi. E tra le macerie dell’ex centrosinistra, tutto quello che riesce a pigolare il Pd è la paura che venga cancellato il maxi-appalto del secolo, per il super-treno che nessuno vuole – a parte Chiamparino e la potente lobby dell’alta velocità valsusina, che in trent’anni non ha mai trovato modo di spiegare, al popolo, a cosa (e a chi) servirebbe davvero, quel maledetto treno, destinato a restare in eterno – secondo tutti gli esperti – nient’altro che un patetico, miliardario binario morto.«Dovranno passare sul mio corpo», avverte Sergio Chiamparino, ultimo guardiano politico della linea Tav Torino-Lione. Clinicamente morto, come progetto strategico, il Tav della valle di Susa resta il supremo totem del super-potere oligarchicoche ha fatto carne di porco della democrazia europea, criminalizzando ogni voce di dissenso. Banche, partiti, mafia e maxi-opere: per 25 anni le grandi lobby hanno dettato legge, affidando interi tratti della rete ferroviaria superveloce direttamente alla criminalità organizzata, come denunciato da Ferdinando Imposimato. Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, un analista come Ivan Cicconi vede “il futuro di Tangentopoli”, tra «scelte note e occulte, bugie consapevoli e inconsapevoli», come il “finto” finanziamento privato. Il giallista Massimo Carlotto spiega che le grandi opere sono notoriamente «una lavanderia per riciclare denaro sporco». Rischi sistemici inevitabili? Inconvenienti in agguato in ogni maxi-appalto? Ma nel caso della valle di Susa è peggio: perché l’ipotetica linea-doppione, fotocopia dell’attuale Torino-Modane che già collega Italia e Francia via traforo del Fréjus, è completamente inutile. Lo dicono 360 esperti dell’università italiana e lo conferma la stessa autorità elvetica incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti transalpini. L’utilità della Torino-Lione? Una leggenda metropolitana. Ma non per Sergio Chiamparino e il gruppo di potere che rappresenta.
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Salvare il mondo: la Macchina di Majorana (vivo, nel 2006)
“Smontare” la materia e ricostruirla ovunque, azzerando lo spazio-tempo. Primo obiettivo: medicare l’atmosfera, per riparare il clima e salvare la Terra. E ancora: creare energia infinita a costo zero, senza più petrolio e carbone. «So come si fa», direbbe il protagonista del film. «E chi ti credi di essere, Dio?». Non proprio, ma quasi: «Io sono Ettore Majorana, lo scienziato ufficialmente scomparso nel 1938». Immaginatevi la faccia dell’ingegner Rolando Pelizza, industriale bresciano, il giorno che si sentì rispondere in quel modo, nel lontano 1959, da quell’uomo giovanile dall’età indefinibile. Majorana? Il baby-genio che sbalordiva i suoi maestri Fermi, Amaldi e Pontecorvo, scappati negli Usa e in Urss per sottrarre a Hitler la ricerca sull’atomica. Lui, Majorana: il giovanissimo fenomeno venuto dalla Sicilia a incantare i “ragazzi di via Panisperna”, cioè i migliori cervelli del mondo, all’epoca, nel campo della fisica. «Ho capito cos’è la materia e come funziona. E tu, Rolando, devi aiutarmi a costruire un dispositivo sperimentale». La Macchina: la scatola “magica” che fa sparire le cose, qualsiasi cosa, e ne cambia la natura fisica. Possibile? Eccome: Giulio Andreotti prese molto sul serio la faccenda, passando il dossier a Kissinger.Da allora, gli invadenti servizi segreti di mezzo mondo vegliarono sulla Macchina e sul suo costruttore, l’ingegner Pelizza, proteggendo il silenzio che avvolgeva il genio ispiratore. Ettore Majorana era ancora vivo nel 2006. Aveva cent’anni. E ancora aspettava di vedere la Macchina in azione, nella missione suprema per la quale era stata concepita: salvare il mondo. Bellissima fiaba, ricorda la storia del Graal. Peccato sia la pura verità. Con un finale rimasto in sospeso: la Macchina non risponde agli ordini della Cia. Ha bisogno di un codice segreto, matematico. In più serve un “pin” aggiuntivo, spirituale: un comando “mentale”. Lo custodice Rolando Pelizza, che oggi ha ottant’anni. Per decenni – prima che la notizia fosse passata ai servizi segreti – è stato l’unico a sapere, insieme ai monaci che lo ospitavano in Calabria, che non era un frate qualsiasi quel taciturno Ettore, rifugiatosi in convento nel 1938, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. L’aveva indovinato Leonardo Sciascia, quando nel ‘75 scrisse “La scomparsa di Majorana”, varcando la porta dei cistercensi di Serra San Bruno. Ci mise vent’anni, lo Scomparso, a incontrare Pelizza. E attese altri dodici mesi prima di rivelargli la sua vera identità.Majorana, il genio. Lo scopritore di una nuova matematica, di nuova fisica in cui il tempo non esiste, dove la materia è “ricostruibile” liberamente. Come? Accedendo alla “matrice invisibile” di ogni cosa. Sembra il rebus dei Sigilli Ermetici di Giordano Bruno. Il Mondo delle Idee immaginato da Platone, tradotto in numeri dopo due millenni e mezzo. Pazzesco? Sì, ma vero. Parola di Rolando Pelizza, uomo pratico e imprenditore a sua volta geniale, capace di inventare una spugna speciale che assorbe il petrolio sversato in mare, neutralizzando i disastri ambientali causati dalle petroliere. Ne parlano a “Border Nights”, con commossa devozione, l’ingegner Francesco Alessandrini, docente dell’università di Udine, e la paleografa Roberta Rio, “visiting professor” negli atenei di mezza Europa. “La Macchina”, ovvero “il ponte tra la scienza e l’oltre”, è il libro in cui svelano la storia, segreta e meravigliosa, di quel singolare sodalizio. Ettore e Rolando, nomi suggestivi: l’eroe omerico, il paladino coraggioso. Francesco Alessandrini è un geotecnico, progetta grandi opere ma conosce anche le cosiddette “energie sottili”. Roberta Rio ha elaborato una teoria sulla “scienza storica del terzo millennio” e pubblicato saggi come “La Fisica del Terzo Millennio”, ovvero “scienza e spiritualità di nuovo unite”, edito da Bautz.Nella favolosa Macchina di Pelizza ispirata da Majorana, Francesco e Roberta sono “inciampati” leggendo i libri di Alfredo Ravelli (“Il dito di Dio”, “Il segreto di Majorana” e “2006: Majorana era vivo!”). Si sono entusiasmati: hanno intuito che “l’impossibile” era a portata di mano. Così hanno contatto Rolando, il paladino, e ne hanno conquistato la fiducia. «Non sappiamo nemmeno se Majorana sia ancora vivo o, nel caso, quando sia morto: su questo punto – dicono – Rolando glissa sempre». Le ultime tracce del genio siciliano sono due: la famosa lettera del 2006 e una foto scattata il 5 agosto 1996: Majorana è ritratto con Pelizza nel giorno del novantesimo compleanno di Ettore, nato a Catania nel 1906. L’immagine è stata periziata dall’ingegner Giovanni Vitiello. «La perizia antropometrica dimostra che si tratta proprio di Majorana», racconta Roberta Rio. «I parametri corrispondono con le foto di Ettore prima della scomparsa – zigomi, impronta del padiglione auricolare, altri dettagli. Ettore e Rolando sono accanto, ma Ettore sembra più giovane di Rolando (che adesso ha 80 anni)». Eppure è lui, conferma il geriatra Claudio Castoldi: uno splendido novantenne in ottima salute, nonostante i capelli bianchi e qualche ruga.Il loro fatale incontro avviene il 1° maggio del 1958, nella Certosa di Serra San Bruno, sulle alture di Vibo Valentia. Rolando Pelizza – uomo pio, dedito a opere caritative – ha raggiunto il convento per consegnare scarpe ai monaci. Finisce, subito, nel mirino di Majorana. Quello strano frate gli passa un foglietto, un problema con dei numeri: «Risolvi questa cosa, non far passare troppo tempo e fammi avere la soluzione». Così, racconta Roberta, Pelizza capisce che quello è l’uomo che stava cercando. Ettore gli propone un apprendistato: gli avrebbe insegnato i principi di una nuova fisica e di una nuova matematica. Un anno dopo, nel ‘59, gli rivela finalmente la sua identità. Majorana è un fisico teorico, sul piano pratico ha bisogno di Pelizza. L’apprendistato dura 6 anni, fino al ‘64. In una lettera, poi, Majorana si congratula con Rolando. E gli propone una nuova fase: costruire la Macchina. Con un’unica raccomandazione: fare presto, perché la Terra potrebbe autodistruggersi. Il cambiamento climatico non è uno scherzo: una minaccia esiziale, che Majorana considera imminente già negli anni ‘70. Era infatti il 1976, rivela Roberta Rio, quando il grande fisico indicò date precise: il 2022, al massimo il 2024. Letteralmente: «Sarà a rischio la sopravvivenza della specie umana sulla Terra, scossa da sconvolgimenti sempre più visibili. Un cambiamento in atto dal 2000 e percepibile a partire dal 2010. In arrivo eventi così sconvolgenti da costituire un punto di non ritorno per il nostro clima».Il primo esemplare funzionante della Macchina, racconta Francesco Alessandrini, vede la luce nel 1963: «Produceva una “annichilazione controllata” della materia». Ovvero: «Si può far sparire qualcosa, in modo controllato. Posso scegliere io cosa distruggere, in modo selettivo: un razzo, ad esempio. O le parti murarie di una casa, ma non le parti in legno». Miglioramenti progressivi, verso la seconda fase: riscaldamento della materia. «Con un raggio posso portare qualsiasi cosa a fusione, anche facendo sì che l’oggetto ceda temperatura all’esterno. Vuol dire: s’è trovato il modo di produrre energia in modo non inquinante, a costo irrisorio. Energia infinita, pressoché gratuita». Addio petrolio e carbone, ma anche solare, eolico, idroelettrico. Terza fase, decisamente alchemica: «Trasmutazione della materia, pur mantenendo forma e posizione». Esistono svariati video che comprovano il successo degli esperimenti: «Un oggetto di gomma o di plastica viene trasferito in un oggetto metallico, mantenendo quasi perfettamente la forma iniziale».Sembra fantascienza, ma è tutto documentato. E’ talmente vero, che il problema principale – per l’intelligence di mezzo mondo – diventa l’impiego della Macchina, della cui potenza i suoi creatori sono perfettamente consapevoli: «Si possono “annichilire” carri armati e missili, o invece si può cancellare una montagna di immondizia inquinante», dice Francesco. «Dipende da chi possiede la Macchina, dall’uso che intende farne». C’è un patto di ferro, tra Majorana e Pelizza: mai utilizzare quella macchina contro il bene dell’umanità. «Quando a Rolando è stato chiesto di usarla per distruggere carri armati o satelliti, si è rifiutato», racconta sempre Francesco Alessandrini. «E, con un trucchetto che aveva predisposto nel dispositivo, faceva sì che la Macchina non funzionasse – sparisse, si distruggesse». Proprio per questo, Pelizza «ha eseguito molti esperimenti, ma senza mai un contenuto distruttivo o bellico, come quelli richiesti dai padroni della Terra». Vere e proprie complicazioni: un’attrezzatura come quelle darebbe un vantaggio esponenziale alla potenza militare che la possedesse.Per questo, spiegano Roberta e Francesco, non si è ancora riusciti a presentare ufficialmente la macchina, per metterla a disposizione dell’umanità. Impiego immediato: produrre energia “pulita” a costo zero. Enorme interesse, da parte di diplomazie e governi. L’implicazione più straordinaria? La capacità di risolvere, in un colpo solo, il problema climatico. Come? Intervenendo direttamente nell’atmosfera. Sembra un sogno. Ma non lo è, dice Francesco: «C’è un gruppo, su questa Terra, che ormai ha un po’ tutte le conoscenze che servono, per costruire la Macchina. E sa anche come risolvere il problema climatico. Il problema nasce dal fatto che questo gruppo non ha finora messo a disposizione di Rolando le macchine che ha, per farle funzionare da Rolando». Pelizza è ancora l’unico (per fortuna) a conoscere «un trucchetto particolare, in grado di far funzionare la Macchina nel modo corretto». Aggiunge l’ingegner Alessandrini: «Finché questo gruppo non lascerà Rolando libero di agire come crede, di fatto non si farà nulla. Se invece questo gruppo decide di coinvolgere Rolando nell’esecuzione di qualche esperimento, e nel trattamento che immaginiamo debba venir eseguito sull’atmosfera, allora le cose potrebbero radicalmente cambiare».Stiamo parlando di qualcosa di rivoluzionario, inimmaginabile: agire sull’invisibile, per condizionare la realtà visibile. «La Macchina dimostra che la scienza, così come si è sviluppata fino ad oggi, è sulla strada sbagliata», conferma Roberta Rio. «Soprattutto, la scienza non ha compreso la natura. E questo è l’approccio meraviglioso che ci propone Majorana, assieme a Rolando: una fisica, una matematica che lavorino in armonia con la natura, avendone compreso le leggi. Quindi non c’è bisogno di manipolare la natura, o addirittura di farle violenza; basta saper interagire con essa. Ma serve un approccio scientifico radicalmente nuovo». E’ il grande insegnamento di questa storia, che per Roberta Rio e Francesco Alessandrini ha aperto sviluppi prima impensabili, come «il ruolo del pensiero nei processi di creazione, che ci portano a una comprensione diversa del ruolo dell’uomo nell’ambito dell’evoluzione e della creazione stessa». Decisamente sconvolgente: «Non siamo più vittime o semplicemente passivi, ma siamo co-creatori, siamo responsabilizzati: la realtà discende proprio dai nostri pensieri e da come ci poniamo nei confronti delle cose», aggiunge Roberta.Ed è proprio un pensiero, infatti, a bloccare misteriosamente la Macchina quando non è nelle mani giuste. A proposito, come è fatta? «E’ un semplice cubo, ultimamente in alluminio, che nella sua versione più piccola ha una cinquantina di centimetri di lato. All’interno – spiega Francesco – ci sono altre “scatole”, via via più interne, che creano un ambiente isolato rispetto all’esteno, per arrivare poi alla parte centrale dove ci sono una serie di motorini e dispositivi in grado di creare, contemporaneamente, per lo meno due campi elettrici, due campi magnetici e un campo anti-gravitazionale, che riescono tutti insieme a lavorare per produrre uno stato, nel centro della macchina, in cui ci si connette con quello che io chiamo “l’oltremateria”, cioè uno stato del nostro universo in cui c’è qualcosa, ma non è più qualcosa di materiale». Secondo l’ingegner Alessandrini «ci si connette, sostanzialmente, agli schemi della materia che stanno dietro alla materia». E attenzione: «Quando si riesce a raggiungere quello stato lì, si può andare a cambiare qualche informazione nello schema; dopo, come conseguenza, questo cambiamento viene riportato nella materia, nel mondo fisico che noi conosciamo così bene».Tutto questo, grazie a Majorana. «Ettore era considerato un genio silenzioso, aveva scritto pochissimo», ricorda Roberta Rio. «Iniziò a insegnare all’università per un periodo brevissimo, il 13 gennaio dello stesso anno in cui scomparve. Era una persona molto schiva, gli interessava andare al sodo e scoprire l’essenza delle cose». I suoi scritti? «Cominciano solo ora a essere compresi». Con basi matematiche diverse, «Majorana è riuscito a calcolare quella che sarebbe stata la direzione evolutiva dell’essere umano». Scomparve per non partecipare alla realizzazione della bomba atomica? «C’era molto di più, in gioco: mettere a disposizione dell’umanità una macchina in grado di produrre energia a costo zero, risolvendo il problema economico delle risorse e il problema sociale delle guerre per il petrolio o per l’acqua». Dedizione infinita alla causa: «Lungimiranza, saggezza e umiltà l’hanno portato a dedicare l’intera vita alla possibilità odierna di risolvere il problema climatico, che all’epoca della sua scomparsa non era ancora così evidente. Se l’uomo avesse preso la strada della “free energy”, aggiunge Francesco, questi ulteriori sviluppi della Macchina non sarebbero stati necessari». Sono stati comunque raggiunti, grazie a Pelizza e al genio siciliano, capace di lavorare in incognito per decenni.Quanti sapevano dove fosse, Majorana? Tante persone: quelle che contano. «C’è una storia ufficiale – quella della scomparsa – e una storia più ampia, non ufficiale, dove avvengono i fatti veri e propri. Poi – dice Francesco – si racconta una storia che viene condivisa e che passa sui manuali di storia». Ma se Majorana ha lasciato credere di essere sparito per sempre, diventando l’Uomo Invisibile, anche per Pelizza non è stato facile lavorare alla causa: «Rolando stesso ha vissuto una vita terribile, i servizi segreti gli hanno reso la vita molto difficile». Pelizza è stato in contatto coi governanti italiani fin dalla prima presentazione pubblica della sua macchina. «Governanti molto interessati, all’inizio – famosi politici, che hanno avuto a che fare con lui: Andreotti diede mandato a un professore, allora a capo dell’energia nucleare italiana, di studiare la Macchina di Rolando. Indagini, esperimenti, quindi una relazione: disse che ciò che faceva la Macchina era frutto di una tecnologia assolutamente al di fuori di tutte quelle allora conosciute».«Da quel momento, non si sa perché, gli italiani hanno ceduto la cosa ad altri governi, soprattutto Belgio e Usa, che hanno preso in mano la situazione», continua Francesco. «Abbiamo dei cablo di Wikileaks con la chiara testimonianza di documenti segreti che evidenziano come Kissinger, allora segretario di Stato del governo Ford, diede l’ok per seguire da vicino la vicenda di Rolando, ritenuta di estremo interesse per il governo americano». Per un po’ l’hanno lasciato fare, aggiunge Alessandrini, «ma ogni volta che Rolando si costruiva una macchina in grado di fare quegli esperimenti, gli veniva confiscata – e lui doveva ricominciare da zero a costruirla». Ne avrà fabbricate 300, in questi anni – tutte regolarmente portate via non appena messe in funzione. «Gli impedivano di fare quello che lui voleva veramente fare». E cioè: preservare l’umanità dall’autodistruzione. Le varie vicissitudini di Rolando, dice Roberta Rio, sono state raccolte (con documenti periziati e catalogati) da Alfredo Ravelli, cugino di Rolando e autore di tre libri su questa vicenda, che ha aspetti anche molto intricati.Il nome di Ettore Majorana apparve relativamente tardi, nella periodizzazione di questa collaborazione con Rolando, che venne a sapere l’identità di questo frate già nel ‘59. Ma solo il 7 dicembre 2001, attraverso una lettera, Ettore diede il permesso a Rolando di divulgare finalmente l’informazione che dietro alla Macchina e a queste sue nuove conoscenze c’era lui. Prima, Rolando parlò sempre di “un gruppo internazionale di studiosi”, che stava rappresentando e con i quali collaborava. «In quella lettera, però, Ettore chiese a Rolando di mantenere il segreto su due punti: il convento dov’era nascosto e i principi di questa nuova fisica, di questa nuova matematica – che, se divulgati, potrebbero far fare un salto di qualità straordinario all’umanità, ma se messi nelle mani sbagliate ci potrebbero portare alla distruzione in un battibaleno». Ettore Majorana? «Un uomo di una fede enorme, se pensiamo che si è ritirato dal mondo per dedicarsi solo a questo: aveva visto l’immensa possibilità e l’enorme pericolo».Francesco Alessandrini ammette che non è facile spiegare cosa può fare, questa fisica rivoluzionaria. Il primo concetto base è sconvolgente: «Dietro questo nostro mondo fisico c’è una specie di immagine, di schema di ciò che si realizza nel mondo fisico – che non è fisico, ma ha la capacità di organizzare e far funzionare il mondo fisico in un certo modo. Per cui, nel momento in cui riusciamo a capire come intervenire su questo schema, il cambiamento che provochiamo nello schema si ripercuote automaticamente nel mondo fisico». Attenzione: «Significa che abbiamo una possibilità di trasformazione della realtà fisica praticamente infinita». Problema immediato: «Questo concetto è di una grandiosità tale che non può venire accettato dalla fisica attuale, che invece parte dalla fisica stessa, dal mondo materiale, analizzandolo dal di dentro. Finché non si fa il salto, e si va al di fuori del mondo fisico per capire cosa c’è dietro, non riusciremo mai a comprendere pienamente ciò che si fa nel mondo fisico», aggiunge Francesco. «La visione prospettica di questa fisica è talmente al di là di ciò che si sfa facendo attualmente, da aprire prospettive assolutamente incredibili su ciò che può essere la vita umana, e su come si può interagire con la vita del mondo fisico nel suo complesso».In primissimo piano, la forza (segreta) del pensiero: «Il pensiero è il veicolo – lo strumento, il mezzo – che permette di andare a modificare lo schema, non fisico, che c’è dietro alla realtà fisica», spiega l’ingegner Alessandrini. «Con un certo tipo di pensiero (ben costruito, ben focalizzato, ben indirizzato e ben strutturato) si è di fatto in grado di modificare – e di creare, proprio – la realtà fisica, la nostra vita nel mondo fisico». Aggiunge Roberta Rio: «La cosa affascinante, di questi principi – che appartengono ad una fisica per il futuro, potremmo dire – in realtà sono già apparsi sulla Terra migliaia di anni fa in antichi scritti come i Veda, che solo ora riusciamo a interpretare in questa direzione». Mentre per alcuni i Veda sono soltanto racconti mitologici della tradizione induista, «per altri – noi compresi – sono veri e propri manuali di fisica». Sono libri scritti in sanscito, migliaia di anni fa. Ebbene, sì: rappresentano «un viaggio affascinante nella conoscenza, e proprio alcuni passi dei Veda parlano della qualità del “pensiero che crea”, che deve avere determinate caratteristiche per avere la capacità di creare, o meglio di manifestare, di portare sulla Terra, nella materia, quell’immagine corrispondente che esiste in un mondo oltre la materia, in una dimensione – uno spazio – oltre la materia».In questo senso, aggiunge Roberta, le indicazioni sono straordinarie, per l’uomo, in termini di responsabilità: l’idea che noi siamo i co-creatori della realtà nella quale viviamo. «E’ una fisica che si intreccia anche con la spiritualità: è questa la novità, o comunque l’intuizione. Un docente della John Hopkins University diceva che l’universo non è materiale, ma mentale e spirituale. Questa è la nuova frontiera della conoscenza, e anche dello sviluppo dell’umanità». Finalmente, dice Francesco, grazie a queste scoperte di Ettore Majorana «si torna a collegare la ragione con l’intuizione, la materia con l’oltremateria, la scienza con lo spirito, l’uomo con Dio. Il grande passo che stiamo facendo – rivela – è quello di tornare a unire scienza e spiritualità, come gli uomini del passato facevano, sapendo che era la vera completezza della vita nella quale ci troviamo a vivere». Pensieri che azionano la materia? «Esattamente». La Macchina? Un’invenzione prodigiosa: non solo per quello che può fare, ma per la rivoluzionaria conoscenza da cui proviene.«Quando si riesce, con la Macchina, ad andare in questo “oltremateria”, si entra in un ambito in cui, di fatto, il tempo scompare. O meglio: scompare il tempo come lo pensiamo noi», spiega Francesco. Normalmente, infatti, pensiamo il tempo come una successione di istanti, e nel mondo fisico visibile viviamo solo l’attimo presente: il passato e il futuro esistono, ma non appartengono all’attimo presente. «Quando ti trasferisci invece in quest’ambito “oltremateria”, lì non c’è più discontinuità tra passato, presente e futuro. E’ come se fosse un ambiente unico, in cui puoi andare, istantaneamente, in un punto del tempo che corrisponde a un punto del nostro passato». Una prospettiva vertiginosa, capace di rivoluzionare – in modo definitivo – la stessa concezione della vita sulla Terra. Ad una condizione: che si agisca rapidamente, senza più perdere tempo. «Ettore ha delineato il 2022-24 come data-limite per la vita sul pianeta, ma gli altri scienziati climatologi non sono lontani, le previsioni più pessimistiche parlano del 2030-2040», insistono Roberta e Francesco. «Ne resta poca, di vita sulla Terra, se non si fa qualcosa subito. E non lo dice solo Majorana, ma altri grandi scienziati come ad esempio Steven Hawking, che a gennaio 2017 disse: sbrigatevi ad andare ad abitare su Marte, perché la vita sulla Terra sta per finire».Oggi, l’ottantenne Rolando Pelizza – il custode del codice segreto della Macchina – invecchia con pazienza. «Mostra i primi segni di affaticamento, ma la sua immensa bontà è intatta», assicurano Roberta e Francesco. «Finché avrà fiato continuerà a fare queste cose, a cui ha dedicato 50-60 anni della sua vita». E Majorana? «Rolando dice che Ettore è sempre stato un tipo giovanile. L’ha visto un po’ invecchiare, ma dimostrando sempre molti meno anni». Ha usato la Macchina su di sé, per restare giovane? «Può darsi che abbia scoperto qualche utilizzo del pensiero per mantenersi in buona forma», dice Francesco. E’ ancora vivo? Oggi avrebbe 112 anni. «Non lo sappiamo», ammettono i due ricercatori: Rolando Pelizza si rifiuta di dare notizie precise. L’ultima traccia certa risale al 2006, quando Majorana aveva 100 anni. La Macchina, invece, non è più un mistero: sul web ci sono i progetti completi. Quello che manca è la formula per farla funzionare: il segreto di Pelizza. Che fare? «Il nostro obiettivo è chiaro: convincere chi possiede la Macchina a entrare finalmente in rapporto con Rolando e permettergli di fare quell’aggiustamento del clima che ci auguriamo venga fatto», tramite il favoloso dispositivo “dettato” da Majorana. «Anche se non ce ne rendiamo conto – concludono Roberta Rio e Francesco Alessandrini – siamo veramente in un momento critico per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra». Non lo accettiamo, eppure ci stiamo avvicinando alla nostra fine: «Se non c’è un intervento immediato – e l’unico che conosciamo è quello attraverso questa Macchina – saltiamo tutti quanti».(Il libro: Francesco Alessandrini e Roberta Rio, “La Macchina. Il ponte tra la scienza e l’oltre”, edito in self-publishing da “Il Mio Libro”, 160 pagine, euro 15,50 – oppure 4,99 in versione digitale, formato ePub. Su “Border Nights” la trasmissione integrale dell’intervista, in onda l’8 maggio 2018).“Smontare” la materia e ricostruirla ovunque, azzerando lo spazio-tempo. Primo obiettivo: medicare l’atmosfera, per riparare il clima e salvare la Terra. E ancora: creare energia infinita a costo zero, senza più petrolio e carbone. «So come si fa», direbbe il protagonista del film. «E chi ti credi di essere, Dio?». Non proprio, ma quasi: «Io sono Ettore Majorana, lo scienziato ufficialmente scomparso nel 1938». Immaginatevi la faccia dell’ingegner Rolando Pelizza, industriale bresciano, il giorno che si sentì rispondere in quel modo, nel lontano 1959, da quell’uomo giovanile dall’età indefinibile. Majorana? Il baby-genio che sbalordiva i suoi maestri Fermi, Amaldi e Pontecorvo, scappati negli Usa e in Urss per sottrarre a Hitler la ricerca sull’atomica. Lui, Majorana: il giovanissimo fenomeno venuto dalla Sicilia a incantare i “ragazzi di via Panisperna”, cioè i migliori cervelli del mondo, all’epoca, nel campo della fisica. «Ho capito cos’è la materia e come funziona. E tu, Rolando, devi aiutarmi a costruire un dispositivo sperimentale». La Macchina: la scatola “magica” che fa sparire le cose, qualsiasi cosa, e ne cambia la natura fisica. Possibile? Eccome: Giulio Andreotti prese molto sul serio la faccenda, passando il dossier a Kissinger.
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Crolla un’epoca di abusi, se la Torino-Lione non è più tabù
«Se proprio bisogna spendere tanti miliardi per “bucare” qualcosa, si perfori il sottosuolo di Torino per dotare il capoluogo piemontese di una vera rete metropolitana: vorrebbe dire fermare migliaia di auto, migliorare la salute della città più inquinata d’Italia e regalare ai pendolari due ore di vita ogni giorno, contro il famoso quarto d’ora che la Torino-Lione farebbe risparmiare agli improbabili passeggeri della linea ferroviaria ad alta velocità». Parola di Gianna De Masi, già assessore ambientalista di Rivoli, terza città della provincia per numero di abitanti, alla vigilia dell’ennesimo corteo promosso dai NoTav per celebrare i trent’anni di opposizione all’infrastruttura più controversa d’Europa. «Ormai la Francia aspetta solo un cenno per poter dire addio a questo progetto faraonico e completamente inutile», sostengono gli attivisti valsusini. «Sono gli stessi tecnici di Palazzo Chigi, oggi, a confermare i dati da noi forniti da almeno dieci anni», puntualizza il professor Angelo Tartaglia del Politecnico torinese: la Torino-Lione (costosissima, devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute con cantieri “infiniti” tra montagne piene di amianto) non servirebbe a niente, dato che il trasporto italo-francese è al tramonto e l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa potrebbe reggere da sola un incremento del 900% del traffico, secondo le autorità elvetiche incaricate dall’Unione Europea di monitorare i collegamenti transalpini.
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Palazzo Chigi: faremo il Tav Torino-Lione, anche se è inutile
Recita il vecchio adagio: “Sbagliare è umano, perseverare è diabolico”. Mai fu più attuale come nella vicenda della Tav e dello scempio della Val di Susa. Oggi – nonostante sia stato ripetutamente dimostrato da vari studi autorevoli di economisti dei trasporti già dal 2005 – si scopre che il traffico è dieci volte inferiore alle aspettative, il che rende il progetto non solo dannoso per l’ambiente ma anche inutile ed antieconomico. Sostiene, infatti, l’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione presso la presidenza del Consiglio dei Ministri: «Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica… Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni». E ancora: «La domanda che i decisori devono farsi è: “Al punto in cui siamo arrivati, avendo realizzato ciò che già abbiamo fatto, ha senso continuare come previsto allora? Oppure c’è qualcosa da cambiare? O, addirittura, è meglio interrompere e rimettere tutto com’era prima?”».Dopo anni di scontri, dopo la militarizzazione della Val di Susa, dopo le proteste degli abitanti e della società civile, represse con la violenza sulla base della giustificazione del “bene pubblico” oggi si deve riconoscere che tutto quello che gli oppositori della Tav avevano affermato è vero e che l’opera è uno stupro territoriale inutile e costoso. Bene, allora lasceranno perdere, chiederanno scusa e rimetteranno tutto a posto, no? In fondo, sbagliare è umano. Se così avvenisse capiremmo che, in fondo, sono umani coloro che guidano le sorti di questo paese. Ma così non è. Questi signori affermano, al contrario, di voler proseguire nel progetto e ciò senza fornire alcun nuovo elemento che confermi la fattibilità economica del progetto, nonostante ancora per svariati decenni non si registrerà alcun vincolo di capacità sulla rete stradale, sola condizione che potrebbe in qualche modo giustificare l’opera. Perseverare è diabolico.È diabolico, perché viene a smascherare i due veri obiettivi di questo stupro ambientale: in primo luogo creare una ferita aperta – senza menzionare la dispersione di amianto data dagli scavi – in una delle zone più energicamente potenti del nostro paese, la linea sacra di San Michele. E, in secondo luogo, dimostrare che il potere può ormai prevaricare tutto e tutti anche senza giustificazioni valide; può arrestare, picchiare, processare, denigrare chiunque si opponga anche ad un progetto riconosciuto inutile e dannoso dagli stessi individui che l’hanno portato avanti. E questa mi sembra la perfetta metafora di quanto sta accadendo nel mondo ed in particolare nel Belpaese, ormai area-test – basti pensare ai vaccini – della nuova feroce dittatura democratica (un ossimoro solo apparente) del pensiero unico. Dunque mettetevi l’anima in pace, ribelli No-Tav: l’opera si farà anche se inutile per il traffico delle merci, anche se costosa per i contribuenti, anche se dannosa per gli abitanti e per l’ambiente. Ma forse un elemento positivo c’è in questa mostruosa, perversa vicenda: almeno ora il re è davvero nudo. Ricordiamocene, il 4 marzo.(Piero Cammerinesi, “Perseverare è diabolico”, dal blog “Libero Pensare” del 26 febbraio 2018).Recita il vecchio adagio: “Sbagliare è umano, perseverare è diabolico”. Mai fu più attuale come nella vicenda della Tav e dello scempio della Val di Susa. Oggi – nonostante sia stato ripetutamente dimostrato da vari studi autorevoli di economisti dei trasporti già dal 2005 – si scopre che il traffico è dieci volte inferiore alle aspettative, il che rende il progetto non solo dannoso per l’ambiente ma anche inutile ed antieconomico. Sostiene, infatti, l’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione presso la presidenza del Consiglio dei Ministri: «Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica… Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni». E ancora: «La domanda che i decisori devono farsi è: “Al punto in cui siamo arrivati, avendo realizzato ciò che già abbiamo fatto, ha senso continuare come previsto allora? Oppure c’è qualcosa da cambiare? O, addirittura, è meglio interrompere e rimettere tutto com’era prima?”».
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Delli, Strasburgo: addio al Tav Torino-Lione, è aberrante
E fatela finita, con questa tragica pagliacciata della Torino-Lione: la linea Tav è obsoleta, inutile e dannosa. «Un’aberrazione, sotto ogni punto di vista». Parola dell’eurodeputata francese Karima Delli, presidente della commissione trasporti del Parlamento Europeo. «Chiedo una moratoria sul progetto Torino-Lione: va sospeso immediatamente. Vogliamo far viaggiare i Tir sui treni? Possiamo farlo da subito, utilizzando la linea ferroviaria che già esiste, e collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa». Non a caso, il traforo del Fréjus è stato recentemente riammodernato (costo, 400 milioni di euro) proprio per consentire ai convogli ferroviari di trasportare sia gli autotreni che i container “navali”, della massima pezzatura. Perché insistere ancora, dopo trent’anni, su una follia come la Torino-Lione? Se lo domanda la Nelli, di fronte alla platea dei sindaci valsusini, ai quali promette di convincere i governi italiano e francese a mettere da parte la pazzia del secolo, la grande opera più inutile dell’intera storia europea. Maxi-opera fortemente avversata dalla popolazione, bocciata dai più autorevoli esperti universitari eppure letteralmente scomparsa dall’agenda politica: il grottesco Tav valsusino è sparito dalla campagna elettorale.«Francia e Italia hanno un’enorme sfida da affrontare: il cambiamento climatico, e tutto quel che ne consegue», premette Karima Nelli, europarlamentare di origine algerina, militante tra le fila dei Verdi francesi. «E quindi – aggiunge, ospite del movimento NoTav – non è possibile che due paesi ufficialmente impegnati sul fronte dell’emergenza climatica continuino a portare avanti dei progetti faraonici». Insiste: «Siamo due paesi amici e vicini, dovremmo avere gli stessi obiettivi. Sono venuta in valle di Susa perché non capisco perché ci si intestardisca in un progetto come il Tav Torino-Lione nel momento in cui, invece, c’è bisogno di proporre altre cose». Che dire, di questo progetto assurdo? «Innanzitutto è datato, è vecchio, ha troppi anni alle spalle da quando è stato concepito. Il Ventunesimo secolo – scandisce Karima Nelli – non è quello del gigantismo, ma della prossimità: è l’agire insieme agli abitanti, ai cittadini». Per questo, la giovane presidente della commissione di Straburgo ringrazia in particolare i sindaci della valle di Susa, «perché è il livello locale quello che permette veramente di fare dei progressi: è la comunità a rendere vivibile e democratico un territorio».In questi anni, osserva, il mondo ha avuto un’evoluzione: in particolare, le merci trasportate dalle ferrovie si sono estremamente ridotte. E quindi, «il progetto della Torino-Lione non corrisponde più alle esigenze della società attuale e alle sue necessità di trasporto». La situazione è radicalmente cambiata, continua Karima Nelli: «Se da un lato abbiamo la diminuzione del trasporto delle merci, dall’altro abbiamo problemi che sono diventati enormemente più importanti, primo fra tutti l’emergenza climatica». In più, «qualsiasi progetto faraonico è, innanzitutto, un grosso problema finanziario: i costi di realizzazione lievitano, senza limiti. Siamo passati da un costo di 12 miliardi, inizialmente previsto, e siamo ormai oltre i 26 miliardi. Certo, si parla del costo dell’opera nella sua globalità – ma se si facesse soltanto il tunnel, non si andrebbe da nessuna parte». L’idea di limitare la Torino-Lione al maxi-traforo da 54 chilometri, su cui è ripiegato tatticamente il governo Renzi, sembra infatti un semplice espediente per prendere tempo, di fronte alla carenza di fondi e alla tenace resistenza della valle di Susa, che non mai cessato di contestare un’opera giudicata pericolosa, costosissima e completamente inutile, salvo che il super-business speculativo dei suoi realizzatori.«Resta difficile capire come mai si vada ancora avanti con questo progetto dopo anni e anni di rapporti serissimi che lo contestano, e dopo il rapporto della Corte dei Conti Europea del 1998», afferma Karima Nelli. Sono decine gli studi finora prodotti: «Dicono tutti che questo progetto è un’aberrazione economica: costa troppo. E’ un’aberrazione sanitaria: provoca problemi per la salute. Ed è anche un’aberrazione idrogeologica: provoca l’ingente perdita di acque, e la perdita di acque avrebbe riflessi sia sulla salute umana che su quella dell’ambiente». Non solo: il progetto Tav Torino-Lione «è un’aberrazione anche dal punto di vista democratico: ci si chiede a cosa servano, questi organismi di controllo (che continuano a dire che ci sono tutti questi problemi), se poi non vengono ascoltati». Per cui, «fatti i dovuti bilanci, a questo punto bisogna chiedere il congelamento del progetto», dice la Nelli. Alternative? Immediatamente praticabili: «E’ il momento di utilizzare la linea esistente». Attenzione: «Siamo a favore del trasporto intermodale», che toglie i Tir dalle strade per caricarli sui treni. «Ma non tra 15 o 20 anni: adesso. E’ possibile farlo da subito, a vantaggio del pianeta e del clima, anche pensando alle future generazioni».La linea attuale, Torino-Modane, presenta la problematica tecnica della pendenza del tracciato, che rallenterebbe il trasporto pesante? Anche qui, attenzione: non facciamoci prendere in giro, perché «la pendenza del 30 per mille esiste solo per 100 metri di tratta, e quindi è un problema che è sicuramente possibile risolvere, senza per forza pensare a una linea nuova». Quindi, Karima Nelli chiede formalmente ai governi, italiano e francese, «la moratoria su questo progetto». Cestinare, finalmente, la Torino-Lione? «E’ giunto il momento di prendere in considerazione gli studi indipendenti finora realizzati ed eventualmente di farne di nuovi, ma che siano indipendenti». La presidente della commissione trasporti di Strasburgo annuncia di voler «lavorare seriamente coi ministri dei trasporti, italiano e francese, e con le commissioni trasporti dei due Parlamenti». La notizia, ovviamente, non è comparsa sui media mainstream, per i quali i NoTav (e i valsusini in generale) restano una tribù di scalmanati, e non un’avanguardia di italiani che, in nome della giustizia, tentano di difendere quel che resta della loro sovranità di cittadini.E fatela finita, con questa tragica pagliacciata della Torino-Lione: la linea Tav è obsoleta, inutile e dannosa. «Un’aberrazione, sotto ogni punto di vista». Parola dell’eurodeputata francese Karima Delli, presidente della commissione trasporti del Parlamento Europeo. «Chiedo una moratoria sul progetto Torino-Lione: va sospeso immediatamente. Vogliamo far viaggiare i Tir sui treni? Possiamo farlo da subito, utilizzando la linea ferroviaria che già esiste, e collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa». Non a caso, il traforo del Fréjus è stato recentemente riammodernato (costo, 400 milioni di euro) proprio per consentire ai convogli ferroviari di trasportare sia gli autotreni che i container “navali”, della massima pezzatura. Perché insistere ancora, dopo trent’anni, su una follia come la Torino-Lione? Se lo domanda la Delli, di fronte alla platea dei sindaci valsusini, ai quali promette di convincere i governi italiano e francese a mettere da parte la pazzia del secolo, la grande opera più inutile dell’intera storia europea. Maxi-opera fortemente avversata dalla popolazione, bocciata dai più autorevoli esperti universitari eppure letteralmente scomparsa dall’agenda politica: il grottesco Tav valsusino è sparito dalla campagna elettorale.
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Cremaschi: elezioni di regime, tutti allineati ai diktat Ue
Un anno fa la maggioranza del popolo italiano, con una partecipazione al voto largamente superiore a quella delle consultazioni politiche e amministrative, bocciava la riforma costituzionale di Renzi. Non era solo il leader del Pd ad essere duramente sconfitto. Il sistema finanziario, la Confindustria, la grande stampa, tutta la élite intellettuale, la Ue e Obama, che avevano sostenuto il cambiamento costituzionale, venivano battuti. Era un pronunciamento di popolo, simile ad altri che hanno sconvolto la politica europea; un pronunciamento che, partendo da posizioni molto diverse, esprimeva lo stesso intendimento: respingere la controriforma sociale e politica voluta dalle élite della globalizzazione liberista. Cosa è rimasto dopo un anno di quel voto nel sistema politico? Nulla. Il governo è in pura continuità con quello precedente e i principali schieramenti, neppure nelle battute, fanno rifermento a quel voto. Solo le forze a sinistra del Pd ogni tanto ricordano quel referendum e la Costituzione negata, salvo poi proporre la ricostituzione di un centrosinistra senza Renzi. Quelle forze rimpiangono proprio lo schieramento politico responsabile della devastazione dei diritti costituzionali, come e forse più della destra.Il movimento lanciato all’assemblea del Brancaccio aveva provato a richiamarsi con più forza al voto popolare di rottura di una anno fa, ma poi è rifluito nella politica tradizionale della sinistra. E per questo si è sciolto. Non si può mettere il vino nuovo negli otri vecchi, come pure ha detto uno dei suoi promotori. Nel frattempo l’Unione Europea ha già messo l’ipoteca sul risultato elettorale, quale che esso sia. La Ue ha già ottenuto da Gentiloni la piena conferma del folle meccanismo automatico di innalzamento dell’età pensionabile, il che ha portato ad un po’ di sceneggiate con Cgil, Cisl e Uil, nessuno dei quali aveva in realtà mai rivendicato l’abrogazione della legge Fornero. Inoltre la Ue ha già prenotato il mese di maggio per una nuova manovra di tagli, concedendo al governo ed alle principali forze politiche unicamente la possibilità di una campagna elettorale che faccia finta di niente. Da quel 5 agosto 2011 in cui Draghi e Trichet scrissero la lettera sulle cose da fare, tutti i governi italiani hanno adottato quel testo come programma. E se qualche impegno è saltato, ci pensa o ci penserà il pilota automatico, come il presidente della Bce ha chiamato le decisioni economiche che vengono imposte all’Italia e agli altri paesi della Ue sotto controllo della Troika.A fine anno si dovrebbe poi votare in Parlamento la conferma definitiva del Fiscal Compact, cioè di quel trattato, già recepito in Costituzione con la modifica (quasi unanime) dell’articolo 81, che cancella tutti i principi e i diritti sociali della nostra Carta, nel nome del pareggio di bilancio e della riduzione del debito. Insomma la rottura di popolo di un anno fa non ha avuto alcuna vera conseguenza negli indirizzi di fondo del sistema politico, dove tutte le principali forze sono alla ricerca di patenti di rispettabilità e approvazione proprio da quei poteri italiani, europei, americani, che avevano puntato sulla vittoria di Renzi al referendum. Il risultato di tutto questo è un sistema politico sempre più autoritario ed escludente, che non a caso registra un crollo vertiginoso della partecipazione al voto, che oramai riguarda la metà o meno ancora della popolazione. A cosa serve votare se chiunque vinca non cambia niente, al di là di chiacchiere urla o promesse, questa è la convinzione che si diffonde. E il ritorno di Berlusconi, ora sostenuto anche da Scalfari, è la più sfacciata conferma di questo sistema che non cambia.Il M5S raccoglie e probabilmente raccoglierà ancora il consenso genuino di chi rifiuta le tradizionali politiche del palazzo e chiede ben altro. Ma gli elogi a Rajoy, il viaggio negli Usa, la ricerca del dialogo con Macron da parte di Di Maio, dimostrano che la leadership di quel movimento cerca prima di tutto di legittimarsi con le élites liberiste, che non danno mai benedizioni gratuite. Non c’è alcuna corrispondenza tra il voto di un anno fa e il sistema politico: quest’ultimo si muove tutto dentro il quadro della controriforma liberista, proponendo unicamente alternative all’interno di essa. Chi rivendica lavoro e eguaglianza sociale. Chi vuole la scuola pubblica, lo stato sociale e l’intervento pubblico nell’economia contro il dominio del mercato. Chi vuole la difesa dell’ambiente contro l’incuria e la devastazione delle grandi opere. Chi rifiuta e combatte l’oppressione e la violenza di sesso, di razza, di classe. Chi rifiuta ed odia lo sfruttamento, il dominio della finanza, il capitalismo. Chi soffre e chi lotta sa o deve sapere che è necessaria una rottura di sistema.Solo la rottura con i vincoli Ue, con gli impegni militari Nato, con trent’anni di politiche liberiste sempre eguali a se stesse, solo la rottura con il sistema politico e culturale della controriforma crea un’alternativa, un’alternativa fondata su quei principi sociali della Costituzione che oggi sono brutalmente negati dal potere. La coraggiosa proposta elettorale di Je So Pazzo per me è su questo che deve misurarsi. Non si tratta di aggiungere altre parole al chiacchiericcio del palazzo, ma di dare voce e forza a chi rialza la testa e vuole ribellarsi. L’appuntamento elettorale può essere solo un passaggio, e neppure dei più importanti, di questa ribellione organizzata contro il sistema e contro tutte le sue finte alternative. Un passaggio che serva ad accumulare ed unire forze per tutti i conflitti che si aprono e si dovranno aprire. Noi di qua, voi di là, solo se si dice questo ha senso partecipare a queste elezioni, governate dal regime che ha perso il referendum un anno fa.(Giorgio Cremaschi, “Elezioni: noi di qua, voi di là”, da “Micromega” del 26 novembre 2017).Un anno fa la maggioranza del popolo italiano, con una partecipazione al voto largamente superiore a quella delle consultazioni politiche e amministrative, bocciava la riforma costituzionale di Renzi. Non era solo il leader del Pd ad essere duramente sconfitto. Il sistema finanziario, la Confindustria, la grande stampa, tutta la élite intellettuale, la Ue e Obama, che avevano sostenuto il cambiamento costituzionale, venivano battuti. Era un pronunciamento di popolo, simile ad altri che hanno sconvolto la politica europea; un pronunciamento che, partendo da posizioni molto diverse, esprimeva lo stesso intendimento: respingere la controriforma sociale e politica voluta dalle élite della globalizzazione liberista. Cosa è rimasto dopo un anno di quel voto nel sistema politico? Nulla. Il governo è in pura continuità con quello precedente e i principali schieramenti, neppure nelle battute, fanno rifermento a quel voto. Solo le forze a sinistra del Pd ogni tanto ricordano quel referendum e la Costituzione negata, salvo poi proporre la ricostituzione di un centrosinistra senza Renzi. Quelle forze rimpiangono proprio lo schieramento politico responsabile della devastazione dei diritti costituzionali, come e forse più della destra.
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Brucio, dunque esisto. Muoia la valle di Susa, Italia minore
Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.I padrini politici della Torino-Lione, prontamente definiti “sciacalli” dai NoTav, nei giorni del grande fuoco si sono subito fatti avanti, offrendo soldi come compensazione per i danni degli incendi. «No, grazie», rispondono i sindaci. «La prevenzione dagli incendi, come dalle alluvioni e dal dissesto geologico – scrive Sandro Plano, di Susa – dev’essere affrontata con specifici capitoli di spesa, indipendenti dal discorso relativo alla nuova linea ferroviaria». Vale per lo sviluppo economico, dalle strade alle infrastrutture culturali come i teatri: «Tutto ciò che nel resto d’Italia è definito “contributo pubblico”, qui è definito “compensazione”». In realtà, sottolinea Claudio Giorno, storico esponente del movimento NoTav, sarebbe incalcolabile il costo della compensazione per la valle di Susa, storicamente sacrificata sull’altare delle grandi opere che l’hanno sventrata, impoverita e anche prosciugata, alterandone l’habitat e il clima: e così oggi bastano tre mesi senza pioggia per innescare una catastrofe. «Di telecamere siamo invasi – scrive, sul suo blog – ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi, prima che qualcuno desse fuoco ai boschi, ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante».Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale idroelettrica in caverna, a Venaus, da parte dell’Enel e dei francesi di Edf, «che non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del Duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando una montagna trasformata in cava di inerti». Un tempo la traversata del verdissimo valico del Moncenisio era chiamata “la Carrier du Paradis”, ma forse oggi «dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”», perché la “grande muraglia” della maxi-diga per il bacino dal quale oggi pescano l’acqua i Canadair è stata «la “nonna” di tutte le grandi opere in val di Susa». Un’inarrestabile brama di territorio e di acqua, fino al più recente, gigantesco impianto dell’Iren che, per alimentare Torino, ha svuotato la Dora Riparia da Oulx a Susa, riducendo il fiume a un rigagnolo. «Una follia costruire una diga alle spalle del centro di Susa tra versanti franosi, c’è il rischio-Vajont», disse inutilmente l’ingegner Floriano Villa, allora presidente dell’ordine dei geologi. Detto fatto: oggi quella diga incombe sull’abitato, ricordando ai valsusini che, da quelle parti, le decisioni del potere sembrano sempre surreali e imposte dall’alto, come nel feudalesimo.Il grande impianto “in caverna”, ricorda Claudio Giorno, ha mezzo disseccato anche il principale tributario della Dora, il torrente Cenischia, trasformando il paesaggio in un deserto asciutto, facile preda degli incendi, lungo un versante «che era già stato impoverito dagli anni ‘70 con lo scavo delle gallerie per il raddoppio delle ferrovia», e poi ancora fino agli anni ‘90 dallo scavo degli innumerevoli tunnel dell’autostrada del Fréjus, la A32. A quest’emorragia ora si aggiunge la mini-galleria di Chiomonte, teatro di aspre “battaglie” tra polizia e NoTav. Lungo 7 chilometri, quel “cunicolo” esplorativo «di acqua ne ha dispersa e avvelenata in modo sproporzionato», scrive Giorno, ricordando che nella peggiore delle ipotesi – l’eventuale tunnel Tav vero e proprio, lungo 57 chilometri – sarebbe impressionante (a detta degli stessi progettisti) la dispersione di acqua, «pari al fabbisogno di una città di un milione di abitanti». Intanto sono già centinaia le sorgenti disseccate: lo rivela uno studio del naturalista Paolo Ferrero, «che mostra la evidente interrelazione tra il loro disseccamento e il progredire dei cantieri delle grandi opere», attraverso delle slide «comprensibili persino da un politico di professione».L’Italia dell’euro-crisi avrebbe un disperato bisogno di opere pubbliche utili, per rilanciare l’economia, e invece continua a gettare soldi nel pozzo senza fondo di una maxi-opera completamente inutile e dannosa, pericolosa per l’ambiente, devastante sul piano della vivibilità urbanistica e addirittura letale sotto l’aspetto idrogeologico. Se mai quella sciagurata linea Tav si facesse davvero, scrive Luca Rastello di “Repubblica” nel saggio “Binario Morto”, la ferrovia dovrebbe bypassare Torino per allacciarsi alla rete nazionale Tav correndo in galleria a 30 metri di profondità, tagliando la falda idropotabile che alimenta la metropoli. Ma nulla sembra poter arrestare il sistema-Italia delle grandi opere inutili: la rete Tav è stata realizzata con largo impiego di aziende della mafia e della camorra, dice Ferdinando Imposimato, magistrato di lungo corso. Le grandi opere – spiega lo scrittore Massimo Carlotto – sono una macchina perfetta per riciclare denaro sporco: lo sa la mafia ma lo sanno anche le banche, in cui i soldi vengono depositati, e lo sanno i politici collegati alle banche.Il potere torinese della filiera Tav non trova di meglio che offrire soldi alla valle di Susa in fiamme, mentre l’Italia affonda nella crisi? Non un partito che s’impunti sulla scandalosa follia della Torino-Lione. «Se ne sento ancora parlare – si permise di scrivere il grande Giorgio Bocca – tiro fuori il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato nell’aprile del ‘45». Era il 2005, e lo scandalo era solo all’inizio. Sei anni dopo, si spinse in valle di Susa l’anziano Guido Ceronetti: visitò i cantieri, vide lo scempio di Chiomonte. Scrisse un memorabile reportage per “La Stampa” e, la sera, tenne una lettura di poesie, a Bussoleno, per i NoTav. In pagine altrettanto memorabili, Ceronetti ha svelato cosa c’è nella testa di un piromane: non solo l’isitinto perverso per la distruzione e l’inconfessabile piacere sadico di fronte all’estetica dell’apocalisse. C’è anche il senso del sacrilegio, della profanazione, dato che i boschi – dagli albori dell’umanità – sono sempre stati ritenuti sacri, vera e propria dimora degli déi. Ma se il piromane è una specie di psicopatico isolato, che dire di una politica specializzata in devastazioni su larga scala, freddamente progettate a dispetto di chiunque ne contesti il senso, la pericolosità e l’inevitabile eredità di morte?Duemila ettari in fiamme, case distrutte, centinaia di persone evacuate. E la gigantesca nube di fumo che invade le strade di Torino, la città che “riscopre” la sua minacciosa contiguità geografica con la valle di Susa, il territorio considerato ostile perché da vent’anni in rivolta contro la grande opera più inutile d’Europa, la linea Tav Torino-Lione. Un caso più unico che raro: l’agenda politica ha deciso semplicemente di non occuparsene, ignorando tutti gli allarmi, incluso l’appello rivolto alle massime autorità dello Stato da 360 tecnici, esperti e docenti universitari. Maxi-opera desolatamente inutile, doppione perfetto della linea internazionale già esistente, la Torino-Modane, che attraversa la valle e raggiunge la Francia attraverso il traforo del Fréjus, appena riammodernato (400 milioni di euro) in modo da poter caricare, sui treni in transito, anche i grandi container “navali”. Il problema? Le merci sono sparite: la rotta nord-ovest è ormai un binario morto, senza treni. Per l’autorità elvetica incaricata da Bruxelles di monitorare i trasporti alpini, la valle di Susa potrebbe quasi decuplicare il traffico sulla linea attuale. Ma invece di prenderne atto, si va avanti coi lavori per la linea-bis: un fiume di miliardi, e di devastazioni. Prima vittima, l’acqua: cioè il bene più prezioso, specie quando la montagna brucia.
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Dunque la valle di Susa esiste, se il suo fumo soffoca Torino
Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che esiste la valle di Susa – o meglio, che la valle di Susa non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché sia governata da trent’anni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.Nel saggio “Binario morto”, il giornalista Luca Rastello – citando un alto funzionario pubblico piemontese – spiega che l’eventuale nuova linea ferroviaria italo-francese, cioè il doppione perfettamente inutile dell’attuale Torino-Modane che già attraversa la valle di Susa valicando le Alpi al traforo del Fréjus, non potrebbe bypassare Torino collegandosi alla rete Tav nazionale «se non attraverso un colpo di Stato». Il guaio? Se la nuova ferrovia si aprisse la strada in superficie dovrebbe sbancare interi quartieri periferici. Resterebbe il sottosuolo, il tracciato in galleria a 30 metri di profondità, ma taglierebbe fatalmente la falda idropotabile che rifornisce d’acqua oltre un milione di persone, fra Torino e hinterland. Persone che, peraltro, finora non si sono poste il problema: la stragrande maggioranza dei torinesi – a differenza degli abitanti di tante altre città italiane – ha finora guardato con fredda diffidenza alle esasperate proteste dei valsusini. Tuttora, se venisse svolto un normalissimo sondaggio, emergerebbe che il torinese medio non ha la più pallida idea del colossale bluff rappresentato dalla Torino-Lione, la grande opera più inutile d’Europa, preziosissima solo per la filiera di interessi collegata alla sua realizzazione: interessi politici, bancari e malavitosi.Probabilmente non ricorda, il torinese medio, di quando – a metà degli anni ‘90 – la valle di Susa fu colpita da una decina di strani attentati dinamitardi, firmati “Lupi Grigi” e rimasti senza colpevoli, per i quali furono inizialmente arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Soledad Rosas e Edoardo Massari, “Sole e Baleno” – morti durante la detenzione, trovati impiccati a un asciugamano. Probabilmente non ricorda, la maggior parte dei torinesi, che appena prima, in quegli anni, la Procura della Repubblica aveva sequestrato pistole in un’armeria, a Susa, finite a una cosca della ‘ndrangheta grazie alla falsificazione dei registri, controfirmati dall’autorità di polizia. Un’indagine inquietante, dalla quale era emersa l’ombra dei servizi segreti, Sisde e Sismi. In compenso, la città di Torino ha immancabilmente espresso fastidio e irritazione di fronte alle proteste ormai ventennali degli abitanti della valle di Susa, spediti all’ospedale – già nel dicembre 2005 – dai reparti antisommossa mandati a sgomberare i prati di Venaus occupati da famiglie alle prese con un sit-in permanente. Torino è passata dal sindaco Castellani a Chiamparino, da Fassino alla Appendino, con marmorea imperturbabilità sabauda. I torinesi vivono in una città che somiglia sempre di più a una camera a gas, ma non fiatano. E si ricordano dei valsusini solo se il fumo della valle li costringere a sprangare le finestre, turbando il loro beato sonno.Irritata dal puzzo del fumo degli incendi, Torino si è accorta che la valle di Susa esiste – o meglio, che non è fatta solo di piste di sci e non finisce nel ristretto perimetro del grazioso giardino della seconda casa, in montagna, tra i fiori e gli abeti. Se n’è accorta a fine 2017, Torino, dell’esistenza della valle di Susa, e lo ha fatto grazie (per così dire) alla mano criminale dei piromani che hanno dato alle fiamme oltre mille ettari di foresta, sfruttando i venti furosi che storicamente flagellano la vallata, noti a tutti tranne che ai redattori del progetto Tav Torino-Lione, che non menziona il pericolo del vento come fonte inquinante nel momento in cui si stoccassero migliaia di tonnellate di terra di scavo, piena di roccia amiantifera. Torino, stranamente, passa per essere una città ben amministrata, benché governata per decenni da un unico blocco di potere, simile a quello delle “democrature” ex sovietiche. Vanta un record negativo nell’efficienza della raccolta differenziata: preferisce incenerire i rifiuti e poi bloccare la circolazione delle auto, quando schizzano alle stelle i valori tossici dell’aria, la più inquinata d’Italia. Se l’incendio della val Susa è l’eccezione, la velenosità dell’atmosfera torinese è la regola, così come la sordità della capitale Fiat di fronte all’allarme inutilmente lanciato dai valsusini.
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La Francia: stop all’inutile Torino-Lione, totem del potere
Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.Tecnici peraltro suffragati dai controllori (svizzeri) del traffico transalpino per conto dell’Ue: quella linea non avrebbe alcun senso – né per i passeggeri, inesistenti, né per le merci, che sono in calo storico e viaggiano sull’attuale linea internazionale, largamente inutilizzata, per la quale l’Italia ha speso recentemente 400 milioni di euro, riammodernando il Traforo del Fréjus, attraverso il quale oggi possono transitare anche convogli con a bordo i grandi container “navali”. Per anni, prima che la contesa finisse in rissa (con feriti e arresti) i NoTav hanno tentato di intavolare un civile dibattito con le isituzioni: la storia racconta di petizioni firmate da centinaia di esperti universitari, rivolte a Palazzo Chigi e persino al Quirinale, rimaste sempre senza risposta. Una realtà imbarazzante: le istituzioni non hanno mai accettato di esaminare i più autorevoli studi, che dimostrano la completa inutilità di un’opera ferroviaria faraonica e anche pericolosa, date le implicazioni ambientali (amianto, uranio) e idrogeologiche, senza contare l’impatto urbanistico dei cantieri e la compromissione, per molti aspetti irreparabile, del territorio alpino.Sarebbe un sacrificio immenso, dunque, tuttora senza giustificazioni: mai, neppure per sbaglio, gli addetti ai lavori hanno fornito del maxi-progetto Torino-Lione una motivazione tecnica, chiara, esplicita, che non fosse grossolanamente dogmatica, fatta di slogan arcaici come “progresso” e “modernità”. Tutti gli studi prodotti riferiscono che la grande direttrice delle merci nel Nord Italia è l’asse sud-nord, Genova-Rotterdam, mentre la linea est-ovest ormai è marginale, come il trasporto – residuale, e ormai solo regionale – di pochissime merci tra Piemonte e Rhône-Alpes. Per contro, spiegano gli strateghi europei dei trasporti, un vero e proprio collo di bottiglia è rappresentato dal valico di Ventimiglia: quello sì avrebbe bisogno di essere “raddoppiato”, visto che le merci sbarcate a Genova si dirigono, via Liguria e Provenza, in tutta l’Europa sud-occidentale. L’unica cosa che certamente non serve, a quanto pare, è proprio la linea Tav in valle di Susa. Impossibile, per il governo italiano, finire per far ragione agli impresentabili, irriducibili NoTav? Eppure è quello che accadrà, se la Francia – nel 2018 – dovesse confermare l’attuale orientamento, scettico di fronte alla realizzazione dell’inutile maxi-opera.Quando prese avvio la protesta popolare, locale, contro i primi progetti per la Torino-Lione, l’Italia non era ancora entrata nell’euro: era un paese in crescita, stabilmente piazzato tra le prime economie del pianeta, alla prese coi valori del primo ambientalismo destinato a tradursi in disposizioni legislative. Il mondo non era ancora così piccolo: l’11 Settembre era ancora di là da venire, con le sue “guerre infinite” e i suoi terrorismi funzionali e cronicizzati. La globalizzazione non aveva ancora cominciato a produrre il flagello cosmico della disoccupazione, non si avvertivano i micidiali effetti dell’euro né quelli della crisi finanziaria di Wall Street. Era un mondo con coordinate visibili e definite, brandelli ideologici ancora vivi, certezze relative e credibili aspettative di benessere, lontano anni luce dalla precarizzazione universale, il delirio dell’austerity e la rassegnazione terminale, via Facebook, alla mediocrità come destino. Insorse, la piccola valle di Susa, minuscola periferia italiana: era la fine degli anni ‘90, oggi pare trascorso un millennio. E ancora si parla di Torino-Lione, cioè di archeologia dell’assurdo, mentre il mondo – intorno – sta finendo di crollare.Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.
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Torino-Lione, ogni lavoratore Tav ci costa 1 milione di euro
Il road show di Telt si è conquistato i titoli e gli articoli dei giornali con facilità come purtroppo avviene solitamente. Eppure se il sistema dell’informazione verificasse le informazioni e i numeri dati dai comunicati stampa inviati nella propria email, si scoprirebbe che più che informazioni ci troviamo quasi sempre ad avere a anche fare con propaganda! Noi lo abbiamo fatto e al di là della retorica e della propaganda i numeri (veri!) sono impietosi: ogni singolo posto di lavoro che sarebbe creato dalla costruzione del Tav Torino Lione costerebbe alla collettività oltre un milione di euro, e sarebbe un posto di lavoro a termine, durerebbe i 10 anni della costruzione dell’opera. Prendiamo in esame le ricadute occupazionali previste dai proponenti e il costo a carico delle casse pubbliche italiane. Nel progetto definitivo della sezione compresa tra Bussoleno e il confine di Stato troviamo la stima della forza lavoro: nei primi due anni di anticipazione sono previsti circa 200 lavoratori; nell’ultimo anno e mezzo una cinquantina; negli otto anni e mezzo centrali di lavoro la media è di circa 900 lavoratori.Consideriamo anche i posti di lavoro indiretti, i proponenti affermano che sono due per ogni posto diretto. Diciamo quindi 800 posti diretti più 1600 indiretti. I costi a carico dell’Italia dell’intera sezione transfrontaliera li troviamo nella delibera Cipe 19 del 2015: se l’Europa erogasse il massimo contributo possibile l’opera graverebbe sulle finanze italiane per 3 miliardi di euro; da questa cifra si sale fino a 5 miliardi se il contributo Europeo venisse cancellato o ridotto. I conti sono presto fatti: considerando il massimo contributo europeo, per ogni posto di lavoro diretto il contribuente italiano pagherebbe oltre 3 milioni di euro, 30 posti di lavoro costerebbero alle casse pubbliche 100 milioni di euro! E… se consideriamo anche i posti di lavoro indiretti, ogni singolo posto di lavoro creato dal Tav costerebbe un milione e 250.000 euro, di soldi pubblici. Ciò significherebbe: 1 posto di lavoro = 1 milione e 250.000 euro (pagati con soldi pubblici); 8 posti di lavoro = 10 milioni di euro (pagati con soldi pubblici).Se però l’Europa dovesse tagliare – come già accaduto in passato – il suo contributo, si potrebbe arrivare all’incredibile rapporto di oltre due milioni di euro di investimento dalle casse pubbliche italiane per posto di lavoro creato lato Italia. Quindi: 1 lavoratore = 2 milioni di euro (pagati con soldi pubblici). Dato che questi non sono soldi di Virano o di Foietta ma soldi pubblici, soldi di tutti, non vengano a raccontarci la favola dei posti di lavoro. Le ricadute occupazionali di una simile opera sono minime rispetto all’investimento. La manutenzione delle opere esistenti, la cura del territorio: queste sono opere puntuali capaci di creare molto più posti di lavoro sicuri e duraturi, senza contare che a differenza della Torino-Lione sarebbero anche utili per tutti. Come è evidente, a differenza di quanto dice Foietta, che taccia il movimento notav di appartenere al passato, e di essere capace solo ad odiare, siamo noi NoTav a pensare al futuro del paese, con responsabilità e lungimiranza.(“Il Tav toglie lavoro: due calcoli sulle cifre sparate a caso da Telt”, dal blog “NoTav.info” del 23 maggio 2017, a cura del movimento NoTav che si oppone alla linea Tav Torino-Lione in valle di Susa. Telt è la società “Tunnel Euralpin Lyon Turin”, incaricata di realizzare il contestatissimo traforo ferroviario italo-francese, consisderato un inutile e costosissimo doppione dell’attuale Traforo del Fréjus, che già collega Italia e Francia in valle di Susa. I citati Mario Virano e Paolo Foietta operano nell’ambito dell’Osservatorio Tav creato per tentare di imbastire un dialogo col territorio, al quale però la valle di Susa e la stessa città di Torino si sono sottratte, ritenendo la Torino-Lione una grande opera “non negoziabile” in quanto faronica, costosissima, devastante per l’ambiente e, soprattutto, assolutamente inutile).Il road show di Telt si è conquistato i titoli e gli articoli dei giornali con facilità come purtroppo avviene solitamente. Eppure se il sistema dell’informazione verificasse le informazioni e i numeri dati dai comunicati stampa inviati nella propria email, si scoprirebbe che più che informazioni ci troviamo quasi sempre ad avere a anche fare con propaganda! Noi lo abbiamo fatto e al di là della retorica e della propaganda i numeri (veri!) sono impietosi: ogni singolo posto di lavoro che sarebbe creato dalla costruzione del Tav Torino Lione costerebbe alla collettività oltre un milione di euro, e sarebbe un posto di lavoro a termine, durerebbe i 10 anni della costruzione dell’opera. Prendiamo in esame le ricadute occupazionali previste dai proponenti e il costo a carico delle casse pubbliche italiane. Nel progetto definitivo della sezione compresa tra Bussoleno e il confine di Stato troviamo la stima della forza lavoro: nei primi due anni di anticipazione sono previsti circa 200 lavoratori; nell’ultimo anno e mezzo una cinquantina; negli otto anni e mezzo centrali di lavoro la media è di circa 900 lavoratori.
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Nuova sinistra, fai la guerra a questo sistema (o stai a casa)
Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.Si parte dalla Costituzione, anzi dalla sua anima sociale e antiliberista affermata meravigliosamente dall’articolo 3, e si sostiene che si deve prima di tutto rispondere a quel popolo di sinistra che in nome di quell’anima ha votato No il 4 dicembre. Benissimo, questo però significa esplicitare subito alcune discriminanti. Prima di tutto non possono essere interlocutori di questa proposta coloro che hanno votato Sì, per capirci sono fuori Giuliano Pisapia e Romano Prodi. Il problema si pone però anche verso chi ha votato No, ma prima ha sostenuto il Jobsact, la legge Fornero e soprattutto quella mina a orologeria contro i principi sociali della Costituzione, quale è il nuovo articolo 81 che obbliga al pareggio di bilancio in ottemperanza al mostruoso Fiscal Compact. Durante il governo Monti il Parlamento quasi unanime ha costituzionalizzato quella austerità che giustamente Falcone e Montanari vogliono rovesciare. E se non sono solo buoni propositi, la rottura con l’austerità significa soppressione immediata delle misure che emblematicamente la realizzano. Chi le ha votate naturalmente può ammettere di essersi sbagliato e sostenere un programma che proponga di cancellare quelle misure, ma lo deve fare con rigore e sofferenza e non per furbizia.Jeremy Corbyn ha riconquistato fiducia nel mondo del lavoro, dopo essere stato svillaneggiato dalle sinistre liberali e dai loro mass media, accettando il voto sulla Brexit e proponendo un programma secco di nazionalizzazioni. Questa parola da noi è tabù nei sindacati confederali e anche in buona parte della sinistra più radicale, eppure è proprio sul terreno delle privatizzazioni che si gioca la possibilità di arrestare e veder dilagare ancora le politiche economiche liberiste. Alitalia e Ilva sono i primi banchi di prova, poi seguiranno le Poste, le Ferrovie, Enel ed Eni e naturalmente ciò che resta del sistema bancario. O torna l’intervento pubblico diretto nell’economia, o da noi va tutto in mano alle multinazionali, visto che la grande borghesia italiana non esiste più come classe autonoma dai poteri della globalizzazione. O pubblico, o si svende ciò che resta del paese, questa è l’alternativa reale oggi e che scelta fa al riguardo la sinistra prefigurata da Falcone e Montanari?Lavoro con diritti, scuola pubblica e stato sociale, ambiente, territorio e beni comuni sono dichiaratamente al centro della proposta di nuova sinistra. Anche qui possiamo solo dire giustissimo, ma dobbiamo però aggiungere: che misure concrete si vogliono subito attuare, che leggi si vogliono cancellare, che nuovi atti si vogliono varare? Naturalmente ci sono programmi decennali da individuare, ma il buongiorno si vede dal mattino, per esempio dall’impegno a cancellare tutta la buona scuola e la controriforma della sanità, a quello a fermare tutte le grandi opere, a partire dalla famigerata Tav in valle Susa. Non è solo questo che basta, ma è questo che serve per capire se si vuol fare sul serio. Il bilancio delle spese militari dello Stato italiano è in continua ascesa e Gentiloni si è impegnato quasi a raddoppiarlo per raggiungere quel 2% del Pil posto dagli accordi Nato. Si ribalta questa scelta nel suo opposto con il taglio delle spese ed il ritiro dalle missioni all’estero, o ci si accontenta di partecipare alla sfilata del 2 giugno con la spilla della pace?Anche qui le scelte programmatiche, che Falcone e Montanari pongono giustamente come discriminanti, se sono vere individuano già di che pasta e di quali persone dovrebbe essere composta la nuova sinistra. Che alla fine dovrà misurarsi con la questione di fondo: le politiche del lavoro, dell’ambiente e dello stato sociale, in alternativa alla austerità e alle spese di guerra, sono realizzabili accettando i vincoli Ue e Nato? Noi che abbiamo costituito Eurostop pensiamo di no, che senza la rottura con quelle istituzioni nulla di buono sia possibile per i poveri e gli sfruttati. Noi pensiamo così, ma siamo disposti ad accettare la sfida di chi invece pensa che quelle istituzioni siano positivamente riformabili. Chi crede a questo però deve essere disposto a rompere se poi dovesse verificare che il suo programma posto è posto all’indice proprio da quelle istituzioni. E deve dirlo.Chi ha votato No il 4 dicembre non può dimenticare che tutta la governance europea si era spesa per il Sì. Né può ignorare che la Costituzione del 1948 e i trattati di Maastricht e Lisbona sono formalmente e concretamente incompatibili. Si può non volere la rottura con la Ue nel programma, ma si deve essere disposti a farla se le istituzioni comunitarie quel programma ti impediscono di realizzarlo. Tsipras tra il rispetto del referendum popolare e quello dei diktat della Troika ha scelto il secondo. La sinistra proposta da Falcone e Montanari è disposta a fare la scelta esattamente opposta? Siccome nel testo di Falcone e Montanari non ho trovato risposte chiare a domande per me decisive per capire cosa essi vogliano fare, mi sono permesso alcune di quelle domande di formularle io. Mi permetto di suggerire ai due estensori dell’appello di parlarne esplicitamente nell’assemblea del 18 giugno. Magari si affermi l’opposto di quanto scritto qui, ma per favore si faccia chiarezza. E non si parli d’altro per favore, sappiamo tutti che i nodi sono questi e non si sciolgono coprendoli di grandi valori e buoni propositi.(Giorgio Cremaschi, “Vorrei che Falcone e Montanari facessero chiarezza sulla loro idea di sinistra”, dal blog di Cremaschi sull’“Huffington Post” del 9 giugno 2017).Il patatrac del sistema elettorale finto tedesco, ah quanti guai in Italia a voler imitare la Germania, allontana la data delle elezioni. Questo forse depotenzierà l’urgenza della proposta di Anna Falcone e Tommaso Montanari, ma permetterà un confronto più rigoroso su di essa, senza l’assalto soverchiante di tutti quelli che “mamma mia, come superiamo il 5%?”. Non basta affermare che una proposta di sinistra unita debba essere nuova perché essa effettivamente lo sia. Dal 2008 queste proposte si susseguono, spesso con le stesse premesse e gli stessi risultati, catastrofici. Le liste della sinistra unita hanno sempre fallito il loro obiettivo elettorale tranne che alle elezioni europee, dove la lista Tsipras ha superato lo sbarramento, salvo poi frantumarsi un minuto dopo il voto, come le precedenti esperienze sconfitte. Quindi il primo elemento di novità della proposta dovrebbe essere quello di non ripetere le esperienze del passato e di porre condizioni e discriminanti affinché il nuovo sia davvero tale. Sinceramente, non trovo chiarezza sufficiente al riguardo nel testo di Falcone e Montanari.
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Crollano i ponti, l’Italia dell’euro non ha i soldi per ripararli
Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».Lo stesso Armani riconosce che al primo posto tra le “priorità aziendali” dell’ente nazionale strade c’è il recupero del «rilevante gap manutentivo accumulato negli anni». Ma per gli oltre 26.000 chilometri di strade gestite dall’Anas (con un totale di 11.744 viadotti) servono molti soldi. E nonostante il sensibile aumento degli stanziamenti nel 2016 e un piano per il futuro che si preannuncia ancora più corposo, i fondi continuano a non bastare. L’Italia spende assai meno di quanto sarebbe necessario: «C’è ancora una distanza molto elevata tra il fabbisogno e quanto abbiamo a disposizione per la manutenzione straordinaria», conferma al “Fatto” l’ingegnere Fulvio Soccodato, responsabile dell’assetto rete di Anas: «Rileviamo un fabbisogno medio di 2,5 miliardi all’anno per la messa in sicurezza e il miglioramento della rete stradale, mentre il nuovo piano degli investimenti ne ha stanziati 1,1 l’anno per il triennio 2017-19». Una cifra «due anni fa inimmaginabile», ma che «non basta per coprire le necessità». Inoltre occorrono «imprese preparate, una normativa che ci aiuta e un know-how che va costruito anche nel mondo accademico, visto che le università insegnano a costruire i ponti, non a ripararli».L’Italia, aggiunge il “Fatto”, si sta avvicinando a un punto di rottura: «Buona parte della rete infrastrutturale di valenza nazionale è infatti stata concepita tra gli anni Settanta e Ottanta e il ritardo accumulato nella manutenzione non è smaltibile in breve tempo». Lo stesso Soccodato parla di «gap ventennale» che, nonostante il piano pluriennale degli investimenti preveda un recupero dell’arretrato, «è impossibile da smaltire in tre anni», anche se stanno aumentando gli interventi per individuare le criticità sulle quali intervenire. In altre parole, si cerca di uscire dalla fase di emergenza per entrare in quella di prevenzione: negli ultimi anni sono stati “risistemati” 600 ponti. Interpellato sempre dal “Fatto”, il professor Pier Giorgio Malerba, docente del Politecnico di Milano, riassume così la questione: «Tutte le opere hanno un ciclo di vita. Quello dei ponti viene generalmente definito in 100 anni, se soggetti a regolari attività di ispezione e manutenzione. Di fatto, nei maggiori paesi industrializzati si è rilevato che, a causa dell’esposizione agli agenti atmosferici, dell’aumento dei transiti e di manutenzioni carenti o inefficaci, la vita media in piena sicurezza è di circa 60 anni. Questo non vuol dire che al 61esimo anno il ponte crolla, ma che è meno affidabile».La maggior parte dei ponti italiani, continua Malerba, è stata costruita negli anni Settanta: quindi hanno raggiunto un’età critica, «che induce ad attente ispezioni e alle manutenzioni che si rendessero necessarie». Peccato però che negli anni Settanta l’Italia abbia potuto sviluppare enormemente le proprie infrastrutture ricorrendo in modo strategico alla spesa pubblica, grazie alla propria sovranità monetaria: operazione oggi proibitiva, con i vincoli sul deficit imposti da Bruxelles e addirittura l’introduzione nella Costituzione di una “follia” come il pareggio di bilancio, voluto dal governo Monti con il pieno appoggio del Pd bersaniano e di Berlusconi. Tra le dolenti note, quindi, oltre alle “buche nelle strade” che i Comuni non hanno più le risorse finanziarie per riparare, si aggiunge anche l’emergenza-ponti: mentre quelli ferroviari e autostradali sono oggetto di ispezioni e manutenzioni dallo standard che il professor Malerba definisce «molto elevato», il problema maggiore riguarda i ponti “sorvegliati” da Province e Comuni: «Non hanno i soldi, né il personale per queste attività. In molti casi non si dispone neppure di un catalogo aggiornato delle opere. Ancora una volta è un problema di fondi, ma è anche dimostrato che, per ponti di collegamento importanti, la perdita economica dovuta all’interruzione dei transiti di alcuni mesi può superare il costo del ponte stesso».Nei risvolti della pericolosa politica di rigore c’è dunque anche il problema della sicurezza, che si ripercuote sui cittadini, e non solo. In prima linea ci sono anche le aziende, che negli appalti sono colpite dall’imposizione di ribassi d’asta sempre più forti. «C’è chi, anche tra gli stessi costruttori, ha fatto un passo indietro», racconta sempre Tundo, sul “Fatto”. «È il caso di Massimo Ferrarese che con la sua Prefabbricati Pugliesi continua ad operare in altri settori, ma non partecipa più alle gare d’appalto per la costruzione di ponti e viadotti». Spiega l’imprenditore: «Non si può pensare di affidare lavori pubblici con il 40% di ribasso d’asta, perché questo determina un effetto a cascata su tutta la filiera, dall’impresa appaltante ai subappaltatori, fino ai fornitori». Ferrarese è stato anche presidente della Provincia di Brindisi e attualmente presiede Invimit, società di gestione del risparmio del ministero dell’economia. Protesta: «Così ci sono imprese che non svolgono i lavori come dovrebbero. Non si può lesinare sui materiali, io non l’ho mai fatto e non sono disponibile a fare cose del genere, ecco perché non costruisco più ponti con le mie aziende». Concorda il professor Malerba, pensando ai recenti crolli: «Il discorso del massimo ribasso è reale. Il costo va pensato sul ciclo di vita: se si spende bene prima, si risparmia dopo per la manutenzione». Mancano gli euro, i ponti crollano. Ma intanto si continuano a tener vivi super-cantieri faraonici, come quello per l’inutile ferrovia Tav Torino-Lione.Tra le tante cose che crollano, nell’Italia ridotta in bolletta dal “patto di stabilità” imposto dall’Eurozona, ci sono anche i ponti. Nel 2015, ricorda il “Fatto Quotidiano”, toccò al viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, poi al ponte Himera sulla A19 e ancora ai cavalcavia di Annone in provincia di Lecco e a quello di Camerano vicino ad Ancona, venuto giù pochi mesi fa causando la morte di due coniugi. Fino al viadotto “La Reale” della tangenziale di Fossano, crollato lo scorso 18 aprile e per il quale sono sotto inchiesta 8 persone. In alcuni casi, ammette il presidente dell’Anas, Gianni Vittorio Armani, il cattivo stato di manutenzione è la concausa del crollo. «Pesano anche i vizi in fase di costruzione, gli errori di cantiere e, nel caso di Annone, i ripetuti trasporti eccezionali con carichi molto superiori alla portata della struttura», scrive Andrea Tundo sul “Fatto”. «Ma la manutenzione insufficiente un ruolo lo ha. Soprattutto perché i soldi per farla non bastano: servirebbero 2,5 miliardi l’anno, ma gli ultimi stanziamenti si fermano a 1,1 miliardi l’anno fino al 2019. Questo in un paese in cui, secondo gli esperti, la maggior parte dei ponti sta per arrivare alla fine del suo ciclo di “vita in sicurezza”».