Archivio del Tag ‘Grande Depressione’
-
Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
-
La sinistra europea è complice dei signori della crisi
La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.Di fatto, assistiamo allo svuotamento delle funzioni dei Parlamenti nazionali, ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte, scrive Melloni su “Sbilanciamoci”, in un post ripreso da “Micromega”. Non c’è più neppure l’alibi della destra al governo: in Francia c’è Hollande, in Italia Renzi. «Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi». Per la verità, la sinistra europea «aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterrand», correva l’anno 1983, «senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia».Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, continua Melloni, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi: «Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi». Se una parte del mondo accademico ha tentato di denunciare il problema, «non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse». Socialisti e conservatori: diversi per storia, ma uniti nella prassi di oggi. «Le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles, mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica».Tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi «hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo». In Francia, questo trend è stato ancora più evidente: «Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine». Idem in Italia: «Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso». Per il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, l’austerity è «un falso problema»: la risposta alla crisi sarebbero «le riforme, non la politica economica».Questa vulgata, continua Melloni, è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi: «La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria e poi santificato a Berlino». E nel suo tour europeo, da Parigi a Londra, Renzi ha confermato la sua allergia alla spesa pubblica. «Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore». Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane «guardiano dei conti in ordine» e che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, per Melloni «nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro», sicché «la piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato». E, nel frattempo, «il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi».La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.
-
Londra: e smettetela di dire che non ci sono più soldi
Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.Il sistema continua dirci che «semplicemente non c’è abbastanza denaro per finanziare lo stato sociale», e preferisce «parlare dell’immoralità del debito pubblico o di una spesa pubblica che “svuota le tasche” al settore privato»? Tutto falso. «Il sistema della riserva frazionaria permette alle banche di prestare somme considerevolmente superiori a quelle che detengono nelle riserve». E, se i risparmi dei correntisti non bastano, «le banche possono farsi prestare altro denaro dalla banca centrale», la quale «può stampare tutto il denaro che vuole», riassume Graeber, citando il documento intitolato “La creazione della moneta nell’economia moderna”, redatto da tre economisti del dipartimento di analisi monetaria della Bank of England. «Non c’è davvero alcun limite alla quantità di denaro che una banca può creare, a patto che trovi persone che vogliano prendere in prestito quel denaro. Non rischieranno mai di finire senza soldi, per il semplice motivo che, in genere, i loro mutuatari non prenderanno mai il denaro per metterlo sotto al materasso: alla fine, tutto il denaro che una banca presta tornerà indietro in qualche modo in qualche altra banca».Le banche, sottolineano gli analisti della banca centrale britannica, non ricevono i risparmi dai privati per poi successivamente prestarli. Al contrario: «Sono i prestiti delle banche a creare i depositi», attraverso la banca centrale. «E la moneta della banca centrale non è nemmeno “moltiplicata” sotto forma di prestiti e depositi», perché viene semplicemente creata dal nulla. «Nel caso le banche avessero bisogno di prelevare denaro dalla banca centrale – scrive Graeber – possono prenderne in prestito quanto ne vogliono; tutto ciò che fa quest’ultima è determinare il tasso di interesse, il costo del denaro, non la sua quantità». Per questo, «non c’è alcuna spesa pubblica che “svuoti le tasche” al settore privato. E’ esattamente l’opposto»: è la finanza a chiudere i rubinetti, a costringere intere nazioni a tirare la cinghia. «Perché, così all’improvviso, la Banca d’Inghilterra ammette tutto ciò?».Forse, si risponde Graeber, la banca di Stato britannica ha capito che è «un lusso che non si può più permettere» il mantenere in vita «la versione “fantasilandia” dell’economia, che si è rivelata così conveniente per i ricchi». Politicamente, secondo il giornalista del “Guardian”, i banchieri centrali inglesi stanno affrontando un rischio enorme: «Immaginate cosa potrebbe succedere se i titolari dei mutui si rendessero conto che il denaro che la banca ha prestato loro non proviene in realtà dai risparmi di una vita di qualche pensionato parsimonioso, ma sia invece un qualcosa creato dal nulla da una bacchetta magica in loro possesso, che noi gli abbiamo consegnato». Certo, la Gran Bretagna non è in sofferenza quanto l’Eurozona: la sterlina sovrana consente a Londra di cambiare politica, per esempio di aumentare la spesa pubblica e la protezione dello Stato verso i cittadini. Operazione preclusa ai paesi la cui sovranità finanziaria è stata confiscata dall’euro, i cui gestori ripetono che, semplicemente, “non ci sono più soldi”. Come se il denaro fosse un bene materiale, anziché un valore convenzionale che si può liberamente immettere nel sistema economico.Se oggi si “scopre” che la fonte del credito non è certo la riserva frazionaria – cioè la percentuale di depositi accantonati per la solvibilità del sistema – a diffidare della libera emissione di moneta furono economisti di destra ma anche di sinistra. Secondo la scuola marxista, l’espansione del credito assicura una forte crescita, che però finisce per provocare crisi di sovrapproduzione o crisi economiche dovute all’insolvenza di molte imprese alla scadenza dei debiti. Più in generale, si teme che la quantità di moneta prestata possa non corrispondere ad una ricchezza reale, e quindi causare inflazione e calo della domanda. Analoghe conclusioni dalla “scuola austriaca” di economia: se si espande il credito oltre il “tesoro” della riserva frazionaria, i prezzi cresceranno molto più in fretta del Pil, generando inflazione. Tesi sostanzialmente smentite dalla storia e dalla realtà di oggi: gli Usa uscirono dalla Grande Depressione proprio espandendo il credito mediante creazione di moneta, e oggi il dramma dell’Eurozona si chiama deflazione: insufficiente quantità di denaro a disposizione delle imprese e delle famiglie, a causa dei tagli imposti agli Stati che, limitando la spesa pubblica (in fase di recessione economica) condannano il sistema all’asfissia.Fin dall’inizio della recessione, scrive il “Guardian”, le banche centrali degli Usa e della Gran Bretagna hanno ridotto quasi a zero il costo del denaro: attraverso il “quantitative easing”, cioè l’alleggerimento quantitativo, «hanno pompato quanto più denaro potevano nelle banche, senza produrre alcun effetto inflattivo». Il significato di tutto questo? «Il tetto dell’ammontare della moneta in circolazione non è dato da quanto le banche centrali siano disposte a prestare, ma da quanto denaro siano disposti a prendere in prestito governi, aziende, e cittadini ordinari». La questione è politica: «La spesa dei governi ha il ruolo principale in tutto ciò». E lo stesso documento della Bank of England «ammette, leggendolo con attenzione, che alla fine le banche centrali forniscono denaro ai governi». Certo, le banche centrali degli Stati con moneta sovrana – quindi non i paesi dell’Eurozona.«Storicamente – rileva Graeber – la Banca d’Inghilterra tende a essere un precursore, esternando quelle che possono sembrare posizioni radicali ma che poi finiscono per diventare la nuova ordotossia». E’ come se gli analisti inglesi avesso detto, chiaro e tondo, che bisogna bocciare la Bce e tutte le politiche restrittive dell’Unione Europea. Non è vero che “non ci sono più soldi” per gli Stati. E’ vero il contrario: Bruxelles ha deciso che gli Stati, e i loro cittadini, devono soffrire. Solo degradando le condizioni generali di vita, abolendo diritti sociali e diritti del lavoro, l’élite può sperare di disporre di “sudditi” docili, disposti a tutto per un salario schiavistico. Il paradiso in terra per i monopolisti della moneta ex-sovrana, super-tecnocrati al servizio degli oligarchi planetari, i grandi privatizzatori del nostro futuro.Spiacenti, non ci sono più soldi. E quindi: rigore, tagli alla spesa pubblica, spending review. Per colpire, solo e sempre, il settore pubblico: il welfare, la spesa vitale per i cittadini, da cui dipende strettamente la salute dell’economia privata di aziende e famiglie. Stando a politici, tecnocrati e banchieri, è come se il denaro «fosse una risorsa limitata, alla stregua della bauxite o del petrolio». Errore: il denaro è inesauribile, illimitato. Perché può essere creato dal nulla, in qualsiasi momento, a una sola condizione: che venga accettato come valore di scambio, per acquistare beni e servizi e pagare le tasse. Quella che a prima vista può sembrare la scoperta dell’acqua calda, secondo David Graeber del “Guardian” è un’esternazione epocale: perché proviene dalla Banca d’Inghilterra, che ammette ufficialmente che la quantità di denaro circolante – quella in nostro possesso, e a disposizione dei nostri Stati – non dipende assolutamente da un ammontare frutto di risparmi, ma da una semplice decisione politica, attuata dalle banche centrali e dai super-banchieri che le gestiscono.
-
Cos’è l’euro-regime l’han capito tutti, tranne la sinistra
La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».L’Italia è allo stremo, riconosce l’analista di “Micromega”: neppure la crisi del ‘29 era stata così violenta. Oggi le famiglie non sanno come arrivare alla fine del mese, la disoccupazione e la povertà dilagano, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive. E l’opposizione di sinistra? Non pervenuta: «Chiede con grande moderazione “meno austerità” e “più democrazia in Europa”». Ridicolo, di fronte all’attuale catastrofe. Martin Schulz, l’euro-candidato del Pd, «dice che occorre invertire la rotta e fare finalmente le riforme per lo sviluppo, ma non fa nessuna autocritica sulla folle austerità imposta dalla sua alleata di governo Angela Merkel». Lo stesso presidente del Parlamento Europeo «giustifica ed esalta l’euro di Maastricht e tace sul fatto che con questi trattati e con il Fiscal Compact uscire dalla crisi è impossibile». Aggiunge Grazzini: «Questa Europa fa male, molto male. Ormai una forte minoranza dell’opinione pubblica che sta diventando maggioranza non sopporta più l’euro ed è sempre più critica verso questa Ue che impone una crisi che non finisce più».L’elettorato si sta polarizzando e radicalizzando, e mentre dilaga «la rabbia contro questa Europa della disoccupazione e della povertà». Problema: se i ceti popolari votano massicciamente “a destra”, significa che la sinistra è considerata disattenta o, peggio, complice del sistema. La sinistra di potere: quella che cantava le lodi dell’euro e delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea, il mostro giudirico di Maastricht che sta radendo al suolo intere nazioni, intere economie, con politiche antidemocratiche e ferocemente liberiste, che aggravano la crisi. «Queste politiche, senza abolire Maastricht, sono irriformabili», conclude Grazzini. «Per uscire dalla crisi è necessario rivendicare la sovranità economica e monetaria degli Stati». Beninteso: sovranità parziale, per quanto consentito dalla globalizzazione. La sovranità a cui pensa Grazzini non va confusa col nazionalismo della Le Pen o l’isolazionismo britannico: «Battersi per la sovranità nazionale deve significare semplicemente che esigiamo la democrazia e non vogliamo essere diretti da tecnocrazie opache asservite alla finanza e ai governi dei paesi dominanti».Solo recuperando l’autonomia degli Stati in campo economico e monetario, nonché la sovranità nazionale in campo politico, è possibile difendersi, in sintonia con gli altri popoli europei oppressi dal regime di Bruxelles. Ma è inutile sperare che la sinistra italiana cambi posizione: «Scartata l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro, considerata come catastrofica», nella sinistra «prevale l’allineamento alle tesi pro-euro e pro-Ue». L’euro, la moneta unica prevista per tutti i 28 stati dell’Unione Europea ma utilizzata solo da 12 paesi, sul piano economico «è una solenne bestemmia: infatti significa che 12 paesi molto differenti, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Olanda, dal Portogallo alla Lettonia, sono soggetti allo stesso tasso di interesse, devono avere la stessa base monetaria e subiscono lo stesso tasso di cambio verso i paesi extraeuropei». Ovvio che non funziona: «Un paese che corre troppo, in cui l’inflazione è elevata, ha bisogno di alti tassi di interesse; invece un altro paese (come l’Italia) che è fermo necessita di tassi bassi per stimolare gli investimenti. Un paese come la Germania può riuscire ad esportare con l’euro a 1,40 sul dollaro; altri paesi invece con lo stesso tasso di cambio non riescono più ad esportare e a compensare l’import, e sono quindi costretti ad accendere debiti».La moneta unica fa esplodere le differenze, aggravando gli squilibri: «La Germania diventa sempre più competitiva; gli altri paesi invece perdono industria». La Germania impone una politica deflattiva per ridurre i deficit altrui e per garantirsi che le siano restituiti i debiti, «ma la politica deflattiva comprime l’economia, provoca la crisi fiscale dello Stato, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la riduzione dei redditi, della domanda e degli investimenti». Risultato: diventa sempre più difficile restituire i debiti. «Non a caso, i debiti pubblici dei paesi mediterranei continuano ad aumentare inesorabilmente nonostante l’austerità». Perché ostinarsi a non riconoscere la verità? Secondo Grazzini, «per molta parte della sinistra il sogno di un’Europa unita e federata, degli Stati Uniti d’Europa, ha sostituito il sogno fallito del comunismo. La sinistra ha perso la testa e si è innamorata perdutamente dell’idea di Europa, una Europa che però la tradisce spudoratamente con la finanza».Se questo vale per la base elettorale della sinistra, secondo molti altri analisti i leader del centrosinistra italiano sono stati semplicemente cooptati dall’élite franco-tedesca: hanno trascinato l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona, sperando di guidare la Seconda Repubblica dopo il crollo del vecchio sistema Dc-Psi, funzionale alla guerra fredda e liquidato da Mani Pulite. Troppo sospetta, la reticenza del centrosinistra di fronte al disastro dell’Unione Europea – guidata peraltro anche da uomini come Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs benché uomo simbolo dell’antagonismo contro Berlusconi. Ora siamo all’ultima mutazione genetica, quella di Matteo Renzi: che per prima cosa vara il Jobs Act, cioè la frammentazione del lavoro super-precarizzato, in ossequio ai dettami (“riforme strutturali”) che l’élite europea ha imposto, piegando gradualmente i sindacati. «Insieme al lavoro si svaluta anche il capitale nazionale», avverte Grazzini. «Così è più facile per le aziende estere conquistare le banche e le industrie di un paese in debito, magari privatizzate in nome dell’Europa: e così i paesi più deboli cadono nel sottosviluppo, nella subordinazione e nella povertà».Sempre secondo Grazzini, la sinistra che si vorrebbe marxista o alternativa «non si accorge del pericolo», neppure di fronte all’assalto di Telefonica verso Telecom. Eppure, «il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia». Patriottismo economico: non è forse la parola d’ordine del Front National che la sinistra italiana continua a emarginare come vieta espressione sciovinista, xenofoba e fasciosta? «Si dice che gli Stati non contano più nulla – scrive Grazzini – perché la finanza ormai è globalizzata e quindi l’Europa e l’euro sono necessari per difendersi dalla globalizzazione». Favole: l’euro e l’Ue sono esattamente gli ostacoli che hanno frenato la nostra economia. La riprova: «I paesi europei che non hanno adottato l’euro (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Polonia) e hanno una loro moneta nazionale stanno molto meglio di noi. In Italia in cinque anni di crisi abbiamo perso circa l’8,5% del Pil e il 30% degli investimenti». I redditi crollano, la disoccupazione dilaga, un terzo delle famiglie è a rischio povertà, ma l’Ue impone i tagli alla spesa pubblica e il Fiscal Compact, facendo esplodere il debito pubblico che – senza moneta sovrana – ci scava la fossa giorno per giorno.Democrazia? Scomparsa dai radar. «Nessuno della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) è stato eletto dai cittadini». Il Parlamento Europeo? «Non ha praticamente poteri: serve soprattutto a dare una patina di legittimità alle decisioni della Commissione». Un referendum sull’euro? «Sarebbe giusto farlo. In Francia e in Olanda i popoli si sono già espressi contro una falsa Costituzione Europea per salvaguardare la loro sovranità. E la Svezia e la Danimarca con un referendum hanno deciso di non entrare nell’Eurozona. Beati loro». La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’euro, la Gran Bretagna si tiene stretta la sterlina. «Solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle politiche neocoloniali della Ue e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile: senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia». Questo lo dicono Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di “Fratelli d’Italia”. «Purtroppo – ammette Grazzini – buona parte della sinistra ritiene che la sovranità nazionale sia da demonizzare perché sempre di destra».La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».
-
Renzi tassa le rendite finanziarie? Non servirà a nulla
Tassare le rendite finanziarie per sostenere provvedimenti anti-recessione? Intanto, premette Guglielmo Forges Davanzati, non è detto che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari bastino a coprire il taglio dell’Irap. Inoltre, in mercati finanziari globali pressoché senza regole, l’aumento della tassazione delle rendite attuata da un singolo Stato rischia di generare fughe di capitali, vanificando il recupero delle risorse. E mentre le imprese sono favorite dalla riduzione dell’Irap, la tassazione finanziaria può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese. Difficile aspettarsi un aumento di investimenti, e quindi di occupazione. In ogni caso quello di Renzi «resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza».Tutto comunciò con la Grande Depressione del 1929, quando venne introdotta negli Stati Uniti una normativa notevolmente stringente sull’attività bancaria come il “Glass-Steagal Act”, che stabilì la separazione fra banche commerciali (risparmi e finanziamenti a imprese e famiglie) e banche d’investimento (operazioni speculative sui mercati finanziari). Quella legge, ricorda Davanzati su “Micromega”, fissò un limite all’aumento dei tassi di interesse. «La “repressione finanziaria” – come fu definita – contribuì a generare il più lungo periodo di stabilità del capitalismo. Erano gli anni nei quali Roosevelt scriveva che “il pericolo rappresentato dalla finanza organizzata è pari a quello del crimine organizzato”». Poi, il “contrordine” negli anni ‘90 con Bill Clinton, che abolì il “Glass-Steagal Act”. Tesi: la finanza “buona” può aiutare l’economia. Ovvero: «Essendo gli agenti economici perfettamente razionali e perfettamente informati, acquistano titoli di imprese efficienti e vendono di titoli di imprese inefficienti, così che l’attività speculativa svolge la funzione di “premiare” gli operatori maggiormente produttivi e, operando di fatto una selezione darwiniana, “punire” gli operatori meno produttivi».Così, proprio a partire dagli anni ‘90 – legittimata dall’ipotesi dei mercati finanziari efficienti – la politica economica innanzitutto negli Usa dà spazio a un modello di riproduzione capitalistica caratterizzato da crescente “finanziarizzazione”. Risultato: se negli anni ‘80 il denaro “virtuale” della finanza valeva 3 volte il Pil, nel 2006 il suo valore era più che triplicato. «Ciò a dire che, nel momento in cui viene effettuato uno scambio nell’economia “reale”, si effettuano 10 transazioni nella sfera finanziaria». In tutti i paesi Ocse, a partire dagli Usa, il rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un paese e il corrispondente valore del Pil degli stessi anni è costantemente aumentato. La finanziarizzazione, aggiunge Davanzati, deriva dal combinato di misure di deregolamentazione della sfera finanziaria e di riduzione della quota dei salari sul Pil. Negli Usa, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio.«E’ palese che, in questo contesto, le imprese tendono a disinvestire, dal momento che la produzione e la vendita di beni diventa sempre meno conveniente a ragione della caduta della domanda di beni di consumo e, per contro, trovano sempre più conveniente destinare quote crescenti dei profitti accumulati all’acquisto e alla vendita di titoli». La finanziarizzazione delle imprese «è causata dal peggioramento della distribuzione del reddito, ovvero dalla riduzione dei consumi conseguente alla riduzione dei salari». Del resto, se la speculazione diventa sempre più conveniente rispetto alla produzione di beni e servizi, le imprese – finanziarizzandosi – ottengono profitti in tempi più rapidi, dal momento che la produzione richiede tempo e che è invece possibile accedere ai mercati finanziari su scala globale in ogni momento. Riducendo i mercati di sbocco delle imprese, la contrazione della domanda ne riduce i profitti, generando aspettative negative sull’andamento dei profitti futuri. Questo induce le banche a ritenere sempre più probabile il rischio di insolvenza delle imprese e, dunque, a ridurre i finanziamenti erogati.Contrariamente alle previsioni, continua Davanzati, la speculazione si è rivelata tutt’altro che stabilizzante: al contrario, è proprio uno dei principali fattori all’origine della crisi in corso. Lo “sciame” dei piccoli risparmiatori resta in balia delle ondate emotive pilotate dai mercati finanziari, che in realtà «non sono altro che aggregazioni collusive composte da poche grandi istituzioni finanziarie (Goldman Sachs, Lloyds, innanzitutto)». Inoltre, «in un regime nel quale imprese e banche destinano quote crescenti dei profitti accumulati per attività speculative, gli investimenti si riducono, generando un circolo vizioso di caduta della domanda aggregata, riduzione dell’occupazione e dei profitti, ulteriore incentivo alla finanziarizzazione e riduzione del tasso di crescita». Morale: oogi, «agire con la leva fiscale per provare a contenere gli effetti perversi della finanziarizzazione appare inutile e per certi versi controproducente». La manovra di Renzi? Esigua, irrilevante, forse anche pericolosa.Tassare le rendite finanziarie per sostenere provvedimenti anti-recessione? Intanto, premette Guglielmo Forges Davanzati, non è detto che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari bastino a coprire il taglio dell’Irap. Inoltre, in mercati finanziari globali pressoché senza regole, l’aumento della tassazione delle rendite attuata da un singolo Stato rischia di generare fughe di capitali, vanificando il recupero delle risorse. E mentre le imprese sono favorite dalla riduzione dell’Irap, la tassazione finanziaria può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese. Difficile aspettarsi un aumento di investimenti, e quindi di occupazione. In ogni caso quello di Renzi «resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza».
-
Navarro: crisi finita, se la Bce finanziasse gli Stati
Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.La maggior parte della popolazione ottiene i propri redditi dal lavoro. E quando questi diminuiscono (tagli ai salari, disoccupazione), anche la domanda di prodotti e servizi, e quindi la loro produzione, decresce. L’economia subisce una caduta: è quello che si chiama recessione. La “scoperta” di questo nesso tra discesa della domanda e crisi economica, scrive Navarro in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”, viene spesso attribuita al celebre economista inglese John Maynard Keynes, ma in realtà fu Karl Marx il primo ad avvertire che «l’accumulazione di capitale, a scapito del lavoro, porta alla crisi del capitalismo». Tesi approfondita da uno dei suoi più brillanti seguaci, il polacco Michael Kalecki, il quale a sua volta influenzò economisti come Joan Robinson e Paul Sweezy. Sintetizza Navarro: «Quando la gente non ha soldi, li chiede in prestito. E questo spiega la crescita del sistema bancario». Il super-indebitamento delle famiglie e delle piccole e medie «si deve precisamente alla diminuzione dei redditi da lavoro». Attenzione: «Sin dagli anni ‘80, c’è un’opposta relazione tra la diminuzione dei redditi da lavoro di un paese e la crescita del sistema bancario». Più calano i primi, più cresce il secondo.I dati parlano da soli, continua Navarro. Negli anni ‘80, in relazione al Pil, in Spagna i redditi da lavoro sono diminuiti dal 68%, con valori analoghi negli Usa. Stessa tendenza in tutta l’area Ocse, dalla Grecia alla Svezia, dall’Italia all’Irlanda. «In tutti questi paesi, i redditi da lavoro sono scesi rapidamente a scapito dell’incremento dei redditi da capitale. Questa è la realtà, ignorata, sconosciuta o occultata. E non è sicuramente casuale che Grecia, Irlanda, Italia e Spagna siano i paesi dove la Grande Recessione è stata più forte». Dove crolla la domanda, esplode la recessione. Il credito bancario può sopperire alla diminuzione dei redditi da lavoro e sostenere la domanda di consumi, ma fino a un certo punto. Perché poi, se l’economia si inceppa, chi ha molto denaro cessa di investire nell’economia produttiva e ripiega «in aree dove il rendimento è maggiore, come nelle attività speculative, come ad esempio, il settore immobiliare».Così «si producono le grandi bolle speculative, facilitate dalla deregolamentazione del sistema bancario». E quando la bolla scoppia, «la banca collassa o si paralizza, il credito sparisce e anche l’economia entra in crisi, perché senza credito, anche la domanda tracolla, poiché i salari, sempre più bassi, in assenza di credito, non possono sostenerla. Ed è così che nasce la Grande Recessione». Aggiunge Navarro: «L’enorme concentrazione della ricchezza ha creato la Grande Recessione, così come prima, agli inizi del secolo XX, creó la Grande Depressione». La soluzione? Tecnicamente semplice: «Ribaltare le politiche pubbliche che si sono andate sviluppando, in maggior parte dal 1980 ad oggi, cambiando il segno di questi interventi, favorendo i redditi da lavoro al posto dei redditi da capitale». Aumentare salari, occupazione e impiego, e sfavorire le rendite finanziarie, a cominciare da quelle del settore bancario: «Non ha senso che il sistema bancario privato ottenga prestiti a tassi molto bassi dalla Bce, affinché dopo le banche private possano prestare questo denaro con interessi molto alti alle autorità pubbliche, come lo Stato, o alle imprese». Molto meglio se la Bce prestasse gli euro direttamente agli Stati, incaricati di finanziare famiglie e imprese. «Che tutto ciò accada o meno, dipende da una volontà politica», conclude Navarro. «Affinché accada, si ha bisogno di un cambiamento profondo delle relazioni di potere, includendo le relazioni di potere di classe, nelle quali una minoranza controlla la maggioranza di istituzioni mediatiche e politiche dei paesi dell’Ocse, imponendo politiche ultra-liberali che stanno danneggiando grandemente la popolazione».Da almeno trent’anni, il nostro potere d’acquisto è in caduta libera, mentre le ricchezze finanziarie sono aumentate in modo esplosivo. Per metter fine alla crisi, ovvero alla Grande Recessione, basterebbe invertire semplicemente la rotta: aumentare i redditi da lavoro e tagliare le unghie alla finanza. Nel solo modo possibile: restituendo sovranità finanziaria agli Stati. Lo sostiene l’economista Vicenc Navarro, docente dell’università Upf “Johns Hopkins” di Baltimora, analizzando le cause della depressione economica. Certo, la deregulation ha creato uno sviluppo “mostruoso” del capitale finanziario, non puù legato alla produzione. Ma chi l’ha voluto? Semplice: gli stessi super-poteri che, dagli anni ‘80, hanno costantemente colpito i lavoratori, tagliando i salari. Di qui la «enorme crescita delle disuguaglianze di reddito» negli Stati dell’Ocse, «il club dei paesi più ricchi del mondo». La causa? La diminuzione dei redditi da lavoro, cioè i redditi del 99% della popolazione. Un dramma, perché proprio un’equa distribuzione dei redditi è il fattore determinante per l’evoluzione economica, sociale e politica di un paese.
-
Padoan, il “dolore utile” che stermina i bambini greci
«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».“Lancet” non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di “Repubblica”), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista». Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.Né è solo «questione di comunicazione» sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su “Lancet” dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi come Islanda e Finlandia che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro.Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. “Lancet” non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali» – «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale». Nessuno sa quale contributo. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza [...], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.(Barbara Spinelli, “Gli invisibili d’Europa”, da “La Repubblica” del 26 febbraio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).«Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
-
Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.
-
Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
-
Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
-
Mistero della Fed, il super-potere che domina il mondo
Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.Tutto chiaro: nuovo ordine mondiale. Ovvero: il capitalismo finanziario sfratta le sovranità nazionali, cioè l’economia pubblica e democratica, smantellando il potere degli Stati. Scomparso nel ’77, Quigley era un membro molto influente del “Council on Foreign Relations”, il super-salotto che detta l’agenda economica, finanziaria e geopolitica americana attraverso le sue sedi di Washington e New York. Tra i suoi 1.4000 membri, il vero super-potere mondiale, figurano militari e grandi banchieri, rettori universitari e direttori di giornali e televisioni, i vertici delle fondazioni Ford e Rockefeller, presidenti americani (Hoover, Eisenhower, Johnson e Nixon) e segretari di Stato come Edward Reilly Stettinius, Dean Acheson, John Foster Dulles, Christian Archibald Herter e Dean Rusk. Essendo la banca centrale più potente al mondo, la Federal Reserve – che ha appena compiuto cent’anni – era dunque destinata, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, a un ruolo egemone per portare a termine il progetto globalista. Obiettivo: imporre la sua agenda ai governi, scavalcando la funzione pubblica.Murray Rothbard, economista americano di scuola austriaca, descrive così la banca centrale Usa: «L’operazione più segreta e meno riconducibile al governo federale non è, come ci si potrebbe aspettare, la Cia, la Dia, o qualche altra agenzia di intelligence super-segreta», perché tutte le strutture di intelligence sono comunque sottoposte al controllo democratico del Congresso. In segretezza, la Fed batte ogni altra struttura: «Il Federal Reserve System non è riconducibile a nessuno, non ha un budget, non è soggetto a nessun controllo e nessuna commissione del Congresso conosce le sue operazioni o le può davvero supervisionare». La Federal Reserve, che ha il controllo totale del sistema monetario statunitense, «non deve rendere conto a nessuno». Ecco perché per la Fed, come anche per le altre banche centrali, «è sempre stato importante investirsi di un’aura di solennità e di mistero». Infatti, «se la popolazione sapesse ciò che sta succedendo, se fosse in grado di strappare la tenda che copre l’imperscrutabile Mago di Oz, scoprirebbe ben presto che la Fed, lungi dall’essere la soluzione indispensabile al problema dell’inflazione, è essa stessa il cuore del problema».Nessuna sorpresa che un liberale puro con Rothbard abbia in odio la Fed, ammette Bottarelli su “Il Sussidiario”, ma il cuore del problema è: le banche centrali, Fed in testa, anche grazie a questa crisi sono oggi il potere principale a livello politico ed economico. «Cosa sarebbe oggi Wall Street senza la Fed e la sua liquidità? Dove sarebbero i tassi dei Treasuries e quindi il cuore stesso del sistema immobiliare dei mutui, già massacrato dai subprime? Cosa sarebbe l’America senza gli stop-and-go della Fed sul “taper”, capaci di livellare tassi e far sgonfiare e rigonfiare – evitando l’esplosione – la bolla di liquidità? Temo sarebbe un paese schiantato dalla più colossale crisi finanziaria dal 1929, superata – un eufemismo, vista l’economia reale e le sue grida di dolore – creando la più grossa bolla speculativa e di credito della storia. E, di fatto, rendendo il Congresso poco più che un’appendice, cui far recitare melodrammi a soggetto come quello dello “shutdown” o del “debt ceiling”, pantomime che tornano ciclicamente».La leva del comando è nelle mani della Fed, molto più che all’epoca di Alan Greenspan: «Lo sta diventando ora, grazie a questa crisi che ha reso tutti – finanza, economia, politica – dipendenti dalla Fed e dalle sue azioni. Se la Fed vuole crolla tutto, se non vuole gonfia bolle come bambini durante una festa e fa sfondare a Wall Street un record dopo l’altro, visto che comunque i suoi “azionisti di maggioranza” grazie a quei record e a quella liquidità fuori controllo, macinano soldi su soldi». E la stessa Bce? «Non è forse diventata il fulcro dell’intero sistema Europa, politico ed economico, grazie a questa crisi?». Unione bancaria, supervisione unica, regolamenti per i fallimenti e le nazionalizzazioni di istituti, tassi d’interesse, operazioni di finanziamento e rifinanziamento: «Quale Stato può andare contro la Bce? Nessuno, e l’Italia ne sa qualcosa. Chi ha creato, infatti, se non l’Eurotower, il cordone ombelicale tra debito sovrano e sistema bancario, con la liquidità offerta a costo zero alle banche affinché con quei soldi comprassero titoli di Stato dei paesi in crisi, abbassando artificialmente lo spread?».Quello che Bottarelli chiama «incesto» è oggi sotto gli occhi di tutti: «Solo le banche italiane hanno 450 miliardi di debito pubblico nei bilanci, quelle greche hanno ricomprato il 99% del debito ellenico detenuto da soggetti esteri, spalancando le porte al fallimento del paese senza conseguenze, quelle spagnole pure, quelle portoghesi anche». I governi di questi paesi possono forse fare qualcosa al riguardo? «No, devono sottostare alle regole della Bce, la quale può uccidere o lasciare in vita un governo come una banca con una semplice decisione sui tassi, visto che non esiste più alcuna leva di sovranità per le nazioni». La Bce di Trichet era così forte? «No, lo sta diventando sempre più e sempre più in fretta quella di Mario Draghi, uomo Goldman Sachs». Eccesso dietrologico? «Forse, ma rileggete le parole di Carroll Quigley, datate 1966». Nient’altro che un’unica, colossale “coincidenza”? Certo, ha il suo peso l’insaziabile avidità dei banchieri affaristi. Ma c’era soprattutto un duplice obiettivo da centrare: «Far purgare un sistema ormai marcio, tra derivati e altre porcherie, e contestualmente preparare il campo per l’ascesa della Fed e delle altre banche centrali a nuovi riferimenti politici».Perché chi ha visto nascere questa crisi è stato deriso e isolato? Evidente: rischiava di rivelare la vera natura dell’operazione. La verità è che il 15 settembre 2008 qualcuno ha deciso che la crisi doveva prendere un’altra piega e un’altra velocità, insiste Bottarelli. Chi ha deciso di far morire Lehman Brothers, salvando tutti gli altri? E’ stata proprio la Fed di Ben Bernanke, di concerto con l’ex segretario al Tesoro, Henry Paulson. Quel fallimento, aggiunge Bottarelli, aveva un scopo preciso: «Tramutare la Fed nel motore immobile del sistema economico-politico-finanziario Usa e mondiale». Inutili le proteste di Dick Fuld, già capo di Lehman Brothers: «Paulson ha fornito dati compromessi agli altri istituti di credito quando c’era bisogno di aiutarci, non avevamo problemi di liquidità». Il riferimento di Fuld è noto: nella notte del 14 settembre 2008, quindi il giorno prima della bancarotta, ci fu un meeting fra Paulson e i vertici delle principali banche di Wall Street. Erano presenti anche il presidente della Fed di New York, Timothy Geithner, il numero uno di Bank of America, Kenneth Lewis, e il capo della Sec, Christopher Cox. Per tenere in piedi la Lehman Brothers servivano 100 miliardi di dollari. Ma a porre il veto furono Paulson e la Merrill Lynch. Gli altri non mossero un dito e Lehman fallì.Attenzione: nella stessa settimana della bancarotta di Lehman Brothers, aggiunge Bottarelli, sono state salvate American International Group e la stessa Merrill Lynch, mentre fu concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding bancarie. Perché invece a Lehman Brothers fu impedito di cambiare statuto? La Lehman non era certo la sola a ottenere liquidità a breve termine “esternalizzando” le perdite, «ma la differenza è che affondando Lehman Brothers si affondava un simbolo e si rimetteva Wall Street, così come il Congresso, nelle mani della Fed, inviando anche uno scossone globale agli altri sistemi finanziari esposti verso l’ex gigante». All’epoca, un maxi-salvataggio pubblico non sarebbe ancora stato facilmente digeribile dagli americani, dalla politica e dai mercati. «Ma poi i tempi cambiano», e alla Casa Bianca arriva il primo presidente di colore, che «promette di far pagare il conto della crisi a Wall Street», e invece «la facilita con ogni mossa, lasciando campo sempre più libero allo strapotere della Fed». Un altro democratico, Bill Clinton, grande alfiere della globalizzazione, fu il primo «a creare le condizioni della crisi subprime con la sua politica di mutui a cani e porci con garanzie zero», facendo «pagare il conto dei fallimenti ai cittadini che compravano qualsiasi cartaccia gli venisse proposta come investimento». Tutte coincidenze?Le potenze del capitalismo finanziario avevano un piano chiarissimo, un obiettivo di lungo termine: «Creare un sistema mondiale di controllo finanziario in mani private, capace di dominare il sistema politico di ogni nazione e l’economia del mondo». Questo sistema «doveva essere controllato con modalità feudali delle banche centrali del mondo, attraverso accordi segreti». Cardine del sistema, la Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, privata e controllata dalle banche centrali mondiali, a loro volta privatizzate. «Ogni banca centrale punta a dominare il suo governo attraverso la capacità di controllare i prestiti sui titoli di Stato, manipolare le valute estere, influenzare il livello di attività economica del paese e condizionare politici cooperativi e compiacenti attraverso ricompense economiche nel mondo del business». A scattare questa fotografia dello scenario attuale è il globalista Carroll Quigley, nel libro “Tragedia e speranza. Una storia del mondo nel nostro tempo”. L’aspetto sconvolgente, fa notare Mauro Bottarelli, è che quel libro uscì nel lontano 1966.
-
Allarme Italia, la soluzione c’è ma Napolitano non la vede
Secondo Citigroup, l’Italia resterà bloccata in depressione: crescita dello 0,1% nel 2014, crescita zero nel 2015 e limitata allo 0,2% nel 2016. Se è così, prende nota Ambrose Evans-Pritchard, dopo otto anni di crisi ininterrotta e la produzione crollata del 10%, quella del nostro paese sarà «una performance di gran lunga peggiore di quella avuta durante la Grande Depressione». Se anche l’Eurozona dovesse riprendersi nei prossimi tre anni, «il meglio che l’Italia possa sperare è la stabilizzazione su livelli di disoccupazione di massa – al 20% se si considera l’altissimo livello di lavoratori italiani scoraggiati (numero tre volte superiore alla media Ue) che sono usciti fuori dalle statistiche». La domanda è: quanto tempo la società potrà tollerare tutto questo? «Nessuno di noi sa la risposta», ammette Pritchard, che registra – e critica – l’allarme rosso lanciato da Napolitano: il presidente denuncia il pericolo di rivolte violente, ma evita di indicare le cause del disastro italiano, cioè l’euro e i vincoli imposti da Bruxelles.Mentre la recessione si trascina, Napolitano evoca il rischio concreto di «tensioni sociali e disordini diffusi» nel 2014, visto il peso crescente di masse ormai emarginate, disponibili a compiere «atti di protesta indiscriminata e violenta, verso una forma di opposizione totale». Migliaia di aziende sono «sull’orlo del collasso», mentre grandi masse di persone «prendono il sussidio di disoccupazione o rischiano di perdere il posto di lavoro». L’altissimo tasso di disoccupazione giovanile (41%) sta portando verso un pericoloso stato di alienazione. «La recessione sta ancora mordendo duro, e c’è la sensazione diffusa che sarà difficile sfuggirle, e trovare il modo per tornare alla crescita». Soluzioni? Napolitano non ne indica, scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Niente soluzioni, anche perché dal Quirinale non proviene nessuna analisi sulla cause della catastrofe socio-economica. E cioè: l’Italia «ha una moneta sopravvalutata del 20% o più», ed è «intrappolata in un sistema di cambi fissi stile anni ‘30, gestito da una banca centrale anni ‘30, che sta lì a guardare (per motivi politici)», mentre l’aggregato monetario ristagna, il credito si contrae e la deflazione incombe.«Napolitano non offre alcuna risposta», sottolinea Pritchard. «Ex stalinista, che ha applaudito all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 (un peccato giovanile), Napolitano da tempo ha manifestato il suo fervore ideologico a favore del progetto Ue. Egli è per natura incapace di mettere in discussione le premesse dell’unione monetaria, quindi non aspettatevi nessuno spunto utile dal Quirinale su come uscire da questa impasse». Vero, l’uomo del Colle «ammette che la crisi della zona euro “ha messo a dura prova la coesione sociale”, ma lascia la questione in sospeso, e la sua argomentazione incompiuta, più sul descrittivo che sull’analitico». Così, «senza arrivare al punto di lanciare l’allarme sul rischio che corre lo Stato italiano stesso, ha detto che la crescente minaccia delle forze insurrezionali deve essere affrontata». Come? «La legge deve essere rigorosamente rispettata, il paese deve andare avanti con disciplina». Napolitano è allarmato dalla rivolta dei “Forconi”, che ha preso una piega «inquietante» per le élite italiane, tra poliziotti che si tolgono i caschi – simpatizzando coi dimostranti – e militanti di CasaPound che strappano la bandiera blu-oro dagli uffici dell’Ue a Roma.«Dove porti tutto questo nessuno lo sa», continua Pritchard. «Per ora l’Italia ha evitato un ritorno agli “anni di piombo”, il terrorismo tra gli anni ‘70 e i primi anni ‘80, quando la stazione ferroviaria di Bologna fu fatta saltare dai fascisti e l’ex premier Aldo Moro fu sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse». Per il giornalista inglese, tuttavia, «questo tipo di violenza non è poi così lontano come la gente pensa». Nel 2011 il capo dell’agenzia fiscale Equitalia è stato quasi accecato da una lettera-bomba di matrice anarchica. «Da allora ci sono stati ripetuti casi di attacchi dinamitardi». C’è il rischio di un incidente, secondo Pritchard, che inneschi reazioni esplosive. «A coloro che continuano a insistere che l’Italia deve stringere la cinghia e recuperare competitività tagliando i salari, vorrei obiettare che questo è matematicamente impossibile, in un clima di ampia deflazione o quasi deflazione in tutta l’unione monetaria europea». Secondo il giornalista economico del “Telegraph”, la politica di austerità fiscale condanna l’Italia a veder crescere in modo esponenziale il proprio debito pubblico, che negli ultimi tre anni è passato dal 119% al 133% del Pil. Sotto le attuali politiche della Troika, «questo rapporto presto sfonderà il 140%, nonostante l’avanzo primario del bilancio Italiano – un livello oltre il punto di non ritorno per un paese senza moneta sovrana o senza una propria banca centrale».Prima ancora di uscire dall’euro, sostiene Pritchard, l’Italia potrebbe cambiare completamente la sua strategia diplomatica, «spingendo per un cartello degli stati debitori del Club Med a leadership francese che prenda il controllo della Bce e della macchina politica dell’Uem. Hanno i voti, e la piena autorità legale basata sui trattati, per forzare una strategia di reflazione che potrebbe cambiato tutto, se solo osassero». Questo, continua l’analista inglese, è più o meno «il nuovo piano di Romano Prodi, ex premier italiano e “Mr. Euro”, che ora sta sollecitando l’Italia, la Spagna e la Francia a unirsi, piuttosto che illudersi di poter fare da soli, e “sbattere i pugni sul tavolo”». L’economista premio Nobel Joseph Stiglitz riprende il tema su “Project Syndicate”, dicendo: «Se la Germania e gli altri non sono disposti a fare il necessario – se non c’è abbastanza solidarietà per far funzionare la politica – allora l’euro potrebbe dover essere abbandonato per salvare il progetto europeo».Di fronte al Parlamento Europeo, Mario Draghi ha appena rinnovato le sue minacce: secondo il presidente della Bce, l’uscita dall’euro comporterebbe una svalutazione catastrofica del 40%, che metterebbe in ginocchio qualsiasi paese. «Questo – lo smentisce Pritchard – è sempre lo stesso argomento che viene portato avanti in difesa dei regimi di cambio fissi, sia del Gold Standard nel 1931, che dello Sme nel 1992, o dell’ancoraggio argentino al dollaro nel 2001. E’ stato dimostrato falso, anche nel caso dell’Italia negli anni ‘90, quando la svalutazione ha funzionato benissimo». Draghi si sofferma sul trauma immediato, «ma ignora gli effetti molto più corrosivi di una crisi permanente». I paesi, infatti, «possono recuperare molto velocemente se il tasso di cambio si sblocca: si potrebbe ugualmente sostenere che ci sarebbe una marea di investimenti, in Italia, nel momento in cui il paese prendesse risolutamente il toro dell’euro per le corna e ristabilisse l’equilibrio valutario».Inoltre, la tesi di Draghi non tiene conto che «le potenze del nord hanno un forte interesse ad assicurare un’uscita ordinata dell’Italia», e che la stessa Bce potrebbe tranquillamente «stabilizzare la lira per un paio di mesi, fino a quando la situazione si calmasse: questo eviterebbe gli eccessi, eviterebbe delle perdite rovinose per il blocco dei creditori e degli esportatori tedeschi, ed eviterebbe una crisi da deflazione in Germania, Olanda, Finlandia e Francia». Quello che Draghi sta implicitamente affermando è che la Bce si comporterebbe in maniera spericolata, “punendo” l’Italia per il gusto di farlo, anche mettendo a repentaglio l’intera stabilità europea. «Sarebbe stato bello se un deputato gli avesse chiesto perché mai la Bce dovrebbe fare una cosa del genere», ma evidentemente i parlamentari europei non sono in grado di interagire alla pari col super-banchiere. «Quello che sembra certo – conclude Pritchard – è che nessun paese democratico sopporterà uno stato perdurante di semi-recessione e disoccupazione di massa, quando esistono delle alternative plausibili».Secondo Citigroup, l’Italia resterà bloccata in depressione: crescita dello 0,1% nel 2014, crescita zero nel 2015 e limitata allo 0,2% nel 2016. Se è così, prende nota Ambrose Evans-Pritchard, dopo otto anni di crisi ininterrotta e la produzione crollata del 10%, quella del nostro paese sarà «una performance di gran lunga peggiore di quella avuta durante la Grande Depressione». Se anche l’Eurozona dovesse riprendersi nei prossimi tre anni, «il meglio che l’Italia possa sperare è la stabilizzazione su livelli di disoccupazione di massa – al 20% se si considera l’altissimo livello di lavoratori italiani scoraggiati (numero tre volte superiore alla media Ue) che sono usciti fuori dalle statistiche». La domanda è: quanto tempo la società potrà tollerare tutto questo? «Nessuno di noi sa la risposta», ammette Pritchard, che registra – e critica – l’allarme rosso lanciato da Napolitano: il presidente denuncia il pericolo di rivolte violente, ma evita di indicare le cause del disastro italiano, cioè l’euro e i vincoli imposti da Bruxelles.