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Terza Repubblica? Giannuli: la rivolta anti-Ue la seppellirà
Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».Determinante lo scenario geopolitico, il crollo dell’Urss che «scioglieva antichi patti (ma, singolarmente, non quello Atlantico)» e rendeva superflui vecchi strumenti di mediazione sociale. L’onda neoliberista, scrive Giannuli, si è abbattuta sulla socialdemocrazia europea, «espugnandola e facendone una variante liberale». Così è finito il soffitta «il patto lavorista del welfare», vanto del benessere europeo, dei diritti acquisiti e della sicurezza sociale. «Tutto questo avanzava sugli scudi di un nuovo tipo di populismo (in gran parte alimentato dalla televisione) profondamente antipolitico, miscelato con la nuova ideologia dominante». In Italia, questa ondata populista «assunse la forma di un esasperato giustizialismo». Ovvero: «La sacrosanta richiesta di legalità nella cosa pubblica e di lotta alla corruzione venne strumentalizzata in favore di una restrizione brutale dello spazio politico nella tenaglia fra mercati finanziari e “governo dei giudici”, conforme alla nuova “lex mercatoria”». Trionfo del liberismo, confidando in un durevole ordine mondiale. «E il progetto di una Unione Europea a trazione monetaria fu la traduzione continentale di questa ondata».All’epoca, ricorda Giannuli, l’europeismo facile spopolava: «Salvo i soliti inglesi, assai perplessi sull’Europa e più attratti dal mare, francesi, tedeschi, olandesi e spagnoli facevano a gara a chi era più europeista». Gli italiani, poi, «nel 1989 plebiscitarono i trattati europei con un 88,9% in un referendum consultivo». E alle porte della Ue «si accalcavano tutti i paesi dell’Est», nonché Cipro, Turchia e Tunisia. «Persino il Kazakhstan – rivendicando il tratto rivierasco sul Caspio, mare chiuso europeo – poneva una sua improbabile candidatura alla Ue». Vent’anni dopo, in Italia, «siamo di nuovo alla crisi dell’ordine costituzionale». E, ancora una volta, «a mutare è la Costituzione materiale: i partiti cambiano collocazione, identità, forme d’azione e di comunicazione, spinti da dinamiche sociopolitiche ben diverse da quelle che avevano accompagnato il passaggio alla Seconda Repubblica». Soprattutto, «siamo in presenza di una ondata di populismo di diversa qualità». Quello degli anni ‘80 e ‘90 era «funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia», e quindi «l’abbattimento del primato della politica».Spesso, i movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali “brasseurs d’affaires” come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Sicché, la critica alle ideologie «era funzionale allo stemperamento delle identità», sbriciolando i partiti tradizionali: socialdemocratici, democristiani, liberali, conservatori, gaullisti. «Oggi, in tempo di crisi, siamo in presenza di un populismo ribellista, antisistema, antifinanziario non meno che antipolitico», scrive Giannuli. «Soprattutto, l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione Europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge». All’opposto di vent’anni fa, le dinamiche – da centripete che erano – si sono fatte centrifughe, e le “famiglie” classiche non esauriscono più lo spettro politico. Sia dove il sistema elettorale è proporzionale (Germania, Parlamento Europeo) sia dove vige il bicameralismo (Italia) l’elettorato non consegna più in modo chiaro la maggioranza assoluta dei seggi, così si ripiega sulle “larghe intese”, «le “grandi coalizioni” (che di grande ormai hanno il nome, più che i numeri)», e vengono approntate «in difesa dell’euro».Dove invece il sistema elettorale e il presidenzialismo consegnano la maggioranza assoluta al partito più forte, continua Giannuli, accadono altri fenomeni: quello che era il “secondo” partito del sistema tende a diventare il terzo (conservatori in Inghilterra, socialisti in Francia e Spagna) e, per effetto delle stesse leggi elettorali maggioritarie, a marginalizzarsi, dovendo affrontare una «insorgenza populista» che oggi non è così compatta: c’è «una destra radicale dichiarata» (Fn in Francia, Lega e FdI in Italia, Alba Dorata in Grecia), «una destra più moderata e “conciliabile” con il sistema» (Afd in Germania, Ukip in Inghilterra), nonché partiti più dichiaratamente di sinistra e alternativi (Podemos in Spagna, Kke in Grecia, Pcp in Portogallo) e partiti eurocritici ma più disposti a coalizzarsi con la sinistra tradizionale (Syriza in Grecia, Sel e Rifondazione in Italia, Izquierda Unida in Spagna, Sinistra Verde Nordica), mentre «casi particolari rappresentano, per diverse ragioni, la Linke in Germania e il M5S in Italia». A dettare i tempi è la crisi internazionale, ormai anche sociale: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti antisistema dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia».Per altri versi, anche i casi di Portogallo, Grecia e Italia, con l’elevato rischio di default di ciascuno di essi, pongono seri interrogativi sulla capacità di resistere dell’attuale assetto istituzionale europeo, aggiunge Giannuli. Anche sul piano interno ai singoli Stati si manifestano tendenze implosive non trascurabili: «Le formazioni politiche populiste ed “eurocritiche”, nella maggior parte dei casi, non esprimono programmi politici organici: spessissimo la politica estera è semplicemente assente dal loro orizzonte, le ricette in materia di crisi economiche e finanziarie non di rado si mostrano assai semplicistiche, quasi mai esiste un discorso sulla ricerca e l’innovazione, e anche i discorsi sull’assetto costituzionale sono spesso generici e fumosi». Salvo i casi francese e greco, «non sembra che nessuno di questi movimenti sia in grado – almeno per un tempo politicamente prevedibile – di andare oltre una certa soglia di consensi». In altri casi, la presenza contemporanea di più forze anti-sistema, non coalizzate tra loro, ne frena l’impatto politico. «Almeno per ora, i movimenti populisti sembrano in grado di mettere in crisi l’egemonia dei partiti tradizionali, ma non di costruirne una propria». Ma guai a pensare che si tratti di temporali passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura. E l’Italia potrebbe essere il test decisivo».Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».
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Pubblico impiego, assumere subito un milione di giovani
Pensate che i dipendenti pubblici in Italia siano troppi? Errore: sono troppo pochi. Nel 2011 erano 3 milioni e 435.000, di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite Iva, contro i 6 milioni e 217.000 della Francia e i 5 milioni e 785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile alla nostra e un Pil non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Usa i dipendenti pubblici sono più numerosi che in Italia, rispettivamente 65,6 e 71,1 ogni mille abitanti, contro i 56,9 del nostro paese. Solo il dato tedesco è simile a quello italiano (54,7 ogni mille abitanti), ma è influenzato verso il basso dal regime privatistico della sanità. Se consideriamo il solo personale amministrativo, affermano gli economisti delle università di Torino e del Piemonte Orientale, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici pro capite che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di uno stock attuale di 1.337.000: un incremento del 31%. E per raggiungere gli stessi livelli degli Usa bisognerebbe assumerne addirittura un milione e 310.000. Obiettivo, quindi: stabilizzare i precari già in servizio e, in più, assumere subito almeno 800.000 giovani nel pubblico impiego.E’ ovvio, premettono i docenti piemontesi, che nella pubblica amministrazione ci siano anche esuberi: la commissione di Carlo Cottarelli sulla “spending review” ne ha contati 58.000, cioè «un numero quasi trascurabile rispetto alle esigenze qui prospettate». Esempio: nel servizio sanitario nazionale, le dotazioni di organico nel 2012 erano di 760.000 posti, contro una presenza di 670.000 addetti. Oggi, il numero di addetti si è ridotto di altre 50.000 unità. Più dipendenti pubblici possono sicuramente rilanciare l’economia nazionale, spiegano su “Micromega” Bruno Contini, Nicola Negri, Francesco Scacciati e Pietro Terna dell’Università di Torino, insieme ai colleghi Angela Ambrosino, Maria Luisa Bianco e Guido Ortona dell’Università del Piemonte Orientale (Novara e Alessandria). «Se ammettiamo che un’economia non può funzionare bene senza uno Stato che funzioni bene, la ripresa della crescita del paese richiede contestualmente una altrettanto vigorosa crescita dell’efficienza della amministrazione pubblica in quasi tutti i suoi settori». Il malfunzionamento del pubblico impiego, infatti, «costituisce uno degli ostacoli più rilevanti alla competitività dell’Italia».Il vero problema, aggiungono i professori, è che risulta velleitaria qualsiasi ipotesi di modernizzazione della pubblica amministrazione che contempli solo una crescita di efficienza, e non anche di personale. «Se l’ordine di grandezza “giusto” di pubblici dipendenti è quello dei paesi con cui solitamente ci confrontiamo, un aumento consistente del loro numero è una condizione necessaria (anche se certo non sufficiente) per riavviare la tanto sospirata crescita», anche in chiave di riduzione della disoccupazione. La loro proposta? «E’ che la pubblica amministrazione assuma in tempi rapidi da ottocentomila a un milione di nuovi addetti, con contratti che tengano conto della situazione di emergenza in cui versa la nostra economia». Per i docenti, è inoltre indispensabile tener conto che oggi l’età media dei dipendenti pubblici si avvicina a 50 anni, e che il 48% del personale attuale andrà in pensione prima del 2029 e il 27% prima del 2024. Ricambio generazionale urgente: «Bisogna che le assunzioni avvengano là dove servono, cioè dove sono più utili per lo sviluppo dell’economia», cioè nella giustizia civile, nella formazione tecnica e professionale, nella ricerca, nella sanità e nei servizi di assistenza extra-ospedaliera, nei servizi per l’impiego, nell’ordine pubblico e nei progetti miranti al riassetto del territorio e alla manutenzione dei beni culturali.Negli altri paesi, il settore pubblico rappresenta una quota cospicua della domanda di laureati, grazie anche all’elevata scolarità della forza lavoro. Al contrario, in Italia, al sotto-dimensionamento della pubblica amministrazione si accompagna un livello di scolarità del personale particolarmente basso: solo il 26% degli addetti è in possesso di una laurea, cui si deve aggiungere un 4% con la laurea triennale, a fronte, per esempio, di una percentuale del 54% in Gran Bretagna, dove i “civil servants” laureati sono oltre 3 milioni (i pubblici dipendenti laureati italiani sono soltanto un milione). «Se si volesse adeguare il settore pubblico agli standard europei si riassorbirebbe completamente la disoccupazione dei laureati». Fondamentale, ovviamente, evitare di assegnare il personale a compiti non prioritari ed effettuare le assunzioni sulla base delle pressioni politiche locali più che delle reali necessità. Soluzione: «Gli enti e gli uffici locali interessati dovrebbero fare delle proposte di aumenti del personale sulla base di progetti o programmi dettagliati, che dovrebbero essere valutati e approvati da un ente centrale, rigorosamente non politico».Le risorse umane sono sterminate: una massa enorme di disoccupati e inoccupati, laureati e diplomati, qualificabili in tempi brevi con un addestramento orientato al nuovo lavoro. Quanto ai costi, non supererebbero i 15-20 miliardi l’anno: una cifra «consistente, ma reperibile, tanto più in quanto l’imposizione fiscale necessaria sia una vera imposizione di scopo». Parte del finanziamento potrebbe provenire da fondi europei, e un’altra parte da una limitata imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria, che – cosa per nulla trascurabile – non confliggerebbe coi vincoli europei sul rapporto deficit/Pil. I docenti ipotizzano un’aliquota progressiva compresa tra il 2 e il 6 per mille – da cui sarebbero completamente esenti metà dei nuclei familiari, poichè la loro ricchezza finanziaria è inferiore ai 150.000 euro – sarebbe sufficiente a finanziare tre quarti dell’intero progetto, che “varrebbe” 28 miliardi in tre anni. Ovvero: «Se il finanziamento straordinario durasse tre anni, genererebbe per ciascuno dei tre anni una crescita di quasi un punto e mezzo di Pil». Di conseguenza, «alla fine dei tre anni le risorse finanziarie straordinarie per sostenere l’occupazione aggiuntiva non sarebbero più necessarie».Le assunzioni sarebbero un toccasana: per il pubblico impiego che è sottodimensionato, per i giovani laureati e disoccupati, quindi per la domanda interna che è in crisi e mette in difficoltà le aziende, il Pil, il gettito fiscale e di conseguenza il debito pubblico. I contribuenti? Pagherebbero volentieri una mini-tax, «qualora potessero essere sicuri che il gettito vada realmente ed esclusivamente a creare posti di lavoro utili alla collettività per i disoccupati, soprattutto giovani». In Italia vi sono oggi 22,5 milioni di nuclei familiari, di cui 11-12 che sarebbero chiamati a contribuire alla “patrimoniale di scopo” per sostenere l’occupazione. E sono 3 milioni i “Neet” (giovani tra i 18 e i 29 anni che non studiano né lavorano), ancora ospitati dai genitori. Di fatto, un milione e mezzo di famiglie con figli ormai adulti ancora a carico. Ovvio che il consenso sarebbe largo, se un piccolo sacrificio contributivo desse l’ossigeno necessario alla campagna di assunzioni. Soluzione perfettibile? Parliamone, dicono i professori, ma le difficoltà tecniche «non possono in alcun modo esimere il potere politico dalla necessità di affrontare i problemi che abbiamo citato».Pensate che i dipendenti pubblici in Italia siano troppi? Errore: sono troppo pochi. Nel 2011 erano 3 milioni e 435.000, di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite Iva, contro i 6 milioni e 217.000 della Francia e i 5 milioni e 785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile alla nostra e un Pil non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Usa i dipendenti pubblici sono più numerosi che in Italia, rispettivamente 65,6 e 71,1 ogni mille abitanti, contro i 56,9 del nostro paese. Solo il dato tedesco è simile a quello italiano (54,7 ogni mille abitanti), ma è influenzato verso il basso dal regime privatistico della sanità. Se consideriamo il solo personale amministrativo, affermano gli economisti delle università di Torino e del Piemonte Orientale, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici pro capite che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di uno stock attuale di 1.337.000: un incremento del 31%. E per raggiungere gli stessi livelli degli Usa bisognerebbe assumerne addirittura un milione e 310.000. Obiettivo, quindi: stabilizzare i precari già in servizio e, in più, assumere subito almeno 800.000 giovani nel pubblico impiego.
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Ciao Usa, l’oro di Putin rottama l’impero militare del dollaro
L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.«La vera politica di Putin non è pubblica», afferma Kalinichenko in post ripreso da “Megachip”. Per questo, pochissimi capiscono le attuali mosse del Cremlino. «Oggi, Putin vende petrolio e gas russi solo in cambio di “oro fisico”», ma «non lo grida ai quattro venti, e naturalmente accetta ancora il dollaro come mezzo di pagamento». Ma, attenzione, «cambia immediatamente tutti i dollari ottenuti dalla vendita di petrolio e gas con l’oro fisico». Basta osservare la vorticosa crescita delle riserve auree della Russia e confrontarle con le entrate in valuta estera della Federazione Russa dovute alla vendita di petrolio e gas nello stesso periodo. Nel terzo trimestre 2014, gli acquisti da parte della Russia di “oro fisico” sono i più alti di tutti i tempi, a livelli record. Nello stesso periodo, le banche centrali di tutti i paesi del mondo hanno acquistato 93 tonnellate del prezioso metallo, dopo 14 trimestri di acquisti ininterrotti. Ma, di queste 93 tonnellate, ben 55 sono state acquisite dalla Russia.Per gli scienziati britannici e la “Us Geological”, l’Europa non potrà sopravvivere senza l’offerta energetica russa, cioè se il petrolio e il gas della Russia saranno sottratti dal bilancio globale dell’offerta energetica. «Così, il mondo occidentale, costruito sull’egemonia del petrodollaro, si trova in una situazione catastrofica, non potendo sopravvivere senza petrolio e gas dalla Russia. E la Russia – aggiunge Kalinichenko – è pronta a vendere petrolio e gas all’Occidente solo in cambio dell’oro fisico». La svolta, nel gioco di Putin, è che il meccanismo della vendita di energia russa all’Occidente solo con l’oro «funziona indipendentemente dal fatto che l’Occidente sia d’accordo o meno nel pagare petrolio e gas russi con il suo oro, tenuto artificialmente a buon mercato». Questo perché la Russia, avendo un flusso regolare di dollari dalla vendita di petrolio e gas, «in ogni caso potrà convertirli in oro ai prezzi attuali, depressi con ogni mezzo dall’Occidente», attraverso le manovre della Fed e dell’Esf, (Exchange Stabilization Fund), che abbassano il prezzo dell’oro per sorreggere un dollaro dal potere d’acquisto artificialmente gonfiato dalle manipolazioni nel mercato.Nel mondo finanziario, continua Kalinichenko, è assodato che l’oro sia un fattore anti-dollaro: nel 1971, Richard Nixon chiuse la “finestra d’oro”, ponendo fine al libero scambio tra dollari e oro, garantito dagli Stati Uniti nel 1944 a Bretton Woods. Ma ora, «Putin ha riaperto la “finestra d’oro”, senza chiedere il permesso a Washington». Premessa: «In questo momento, l’Occidente spende gran parte di sforzi e risorse nel comprimere i prezzi di oro e petrolio. In tal modo, da un lato distorce la realtà economica esistente a favore del dollaro statunitense, e d’altra parte vuole distruggere l’economia russa che si rifiuta di svolgere il ruolo di vassallo obbediente dell’Occidente». Oggi, oro e petrolio sono molto sottovalutati, rispetto al dollaro. Sicché, «Putin vende risorse energetiche russe in cambio di quei dollari artificialmente gonfiati dagli sforzi dell’Occidente, e con cui compra oro artificialmente svalutato rispetto al dollaro». Idem per l’uranio russo, da cui dipende «una lampadina americana su sei». Attenzione: «Putin usa questi dollari solo per ritirare “oro fisico” dall’Occidente al prezzo denominato in dollari Usa e quindi artificialmente abbassato dallo stesso Occidente». Ma la mossa dell’Occidente – svalutare l’oro per rivalutare il dollaro – gli si ritorce contro: quell’oro, Putin lo sta comprando sottocosto.Il cervello della «trappola economica dell’oro tesa all’Occidente», aggiunge Kalinichenko, probabilmente è il consigliere economico di Putin, Sergej Glazev, non a caso incluso da Washington nella lista nera dei “sanzionati”. Minacce inutili: il piano è perfettamente condiviso dal leader cinese Xi Jinping. Dalla Banca Centrale di Russia, intanto, Ksenia Judaeva fa sapere che la Bcr può utilizzare l’oro delle sue riserve per pagare le importazioni, se necessario: importazioni ovviamente provenienti dai Brics, date le sanzioni occidentali. Conviene a tutti, a cominciare da Pechino: per la Cina, la volontà della Russia di pagare le merci con l’oro occidentale è molto vantaggiosa. Infatti, spiega Kalinichenko, Pechino ha annunciato che cesserà di aumentare le riserve auree e valutarie denominate in dollari. Considerando il crescente deficit commerciale tra Usa e Cina (la differenza attuale è cinque volte a favore della Cina), questa dichiarazione tradotta dal linguaggio finanziario dice: “La Cina non vende più i suoi prodotti in cambio dei dollari”.«I media mondiali hanno scelto di non far notare questo storico passaggio monetario», rileva Kalinichenko. «Il problema non è che la Cina si rifiuti letteralmente di vendere i propri prodotti in dollari Usa». Come la Russia, anche la Cina continuerà ad accettare i dollari come mezzo di pagamento intermedio per i propri prodotti. «Ma, appena presi, se ne sbarazzerà immediatamente, sostituendoli con qualcosa di diverso», cioè l’oro. Di fatto, Pechino non acquisterà più titoli del Tesoro degli Stati Uniti con i dollari guadagnati dal commercio mondiale, come ha fatto finora. Così, «sostituirà i dollari che riceverà per i suoi prodotti, non solo dagli Usa ma da tutto il mondo, con qualcos’altro» appositamente «per non aumentare le riserve valutarie in oro denominate in dollari Usa». D’ora in poi solo oro, quindi, anche per i cinesi. Politica di fatto già inaugurata da Russia e Cina, per i loro scambi bilaterali: «La Russia acquista merce direttamente dalla Cina con l’oro al prezzo attuale, mentre la Cina compra risorse energetiche russe con l’oro al prezzo attuale». Il dollaro? Archiviato.Tutto questo non sorprende, dice Kalinichenko, perché il biglietto verde non è un prodotto cinese, né una risorsa energetica russa. «È solo uno strumento finanziario intermedio di liquidazione». E se l’intermediario non conviene più, visto che i partner sono ormai in relazione diretta, viene escluso. Le speranze occidentali che Russia e Cina, per le loro risorse energetiche e beni, accettino in pagamento “shitcoin” o il cosiddetto “oro cartaceo” di vario genere, non si sono concretizzate: «Russia e Cina sono interessate solo all’oro, metallo fisico, come mezzo di pagamento finale». Il fatturato del mercato dell’oro cartaceo, quello dei “futures” sull’oro, è stimato sui 360 miliardi di dollari al mese, ma le consegne fisiche di oro sono pari solo a 280 milioni di dollari al mese. «Il che fa sì che il rapporto tra commercio di oro cartaceo contro oro fisico sia pari a 1000 a 1». Sicché, «utilizzando il meccanismo di recesso attivo dal mercato, artificialmente ribassato dall’attività finanziaria occidentale (oro), in cambio di un altro artificialmente gonfiato dall’attività finanziaria occidentale (dollaro), Putin ha così iniziato il conto alla rovescia della fine dell’egemonia mondiale del petrodollaro».In questa maniera, prosegue Kalinichenko, il presidente russo «ha messo l’Occidente in una situazione di stallo, priva di alcuna prospettiva economica positiva». L’Occidente, infatti, «può usare la maggior parte dei suoi sforzi e risorse per aumentare artificialmente il potere d’acquisto del dollaro, nonché ridurre artificialmente i prezzi del petrolio e il potere d’acquisto dell’oro», ma il suo problema è che «le scorte di oro fisico in suo possesso non sono illimitate». Risultato: «Più l’Occidente svaluta petrolio e oro contro dollaro statunitense, più velocemente svaluterà l’oro dalle sue non infinite riserve». Il metallo prezioso detenuto da Usa ed Europa, e pesantemente svalutato, finisce quindi rapidamente in Russia e in Cina, ma anche in Brasile, in India, in Kazakhstan e negli altri paesi Brics. «Al ritmo attuale di riduzione delle riserve di “oro fisico”, l’Occidente semplicemente non avrà tempo di fare nulla contro la Russia di Putin, fino al crollo dell’intero mondo del petrodollaro occidentale». Scacco matto?«Il mondo occidentale non ha mai affrontato eventi e fenomeni economici come quelli attuali», sostiene Kalinichenko. «L’Urss vendette rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», mentre la Russia di Putin, al contrario, «acquista rapidamente oro durante la caduta dei prezzi del petrolio», minando il monopolio finanziario del dollaro statunitense. «Il principio fondamentale del modello mondiale basato sul petrodollaro permette che i paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti vivano a spese del lavoro e delle risorse di altri paesi e popoli, grazie al ruolo della moneta statunitense, dominante nel Sistema Monetario Globale (Smg). Il ruolo del dollaro Usa nell’Smg consiste nell’essere il mezzo ultimo di pagamento. Ciò significa che la moneta nazionale degli Stati Uniti, nella struttura dell’Smg, è l’accumulatore finale degli attivi patrimoniali, e scambiarlo con qualsiasi altro bene non avrebbe senso». Quel che fanno ora i paesi Brics, guidati da Russia e Cina, consiste invece nel cambiare, di fatto, il ruolo e lo status del dollaro Usa nel sistema monetario globale: da «ultimo mezzo di pagamento e accumulazione del patrimonio», la moneta Usa «viene trasformata in un mero mezzo di pagamento intermedio, destinato solo allo scambio con un’altra attività finanziaria ultima: l’oro», che come il dollaro è «un bene monetario riconosciuto», col vantaggio di essere «denazionalizzato e depoliticizzato».Impensabile, ovviamente, che gli Stati Uniti accettino una sconfitta epocale e planetaria così bruciante. E qui, infatti, entriamo in zona-pericolo. «Tradizionalmente, l’Occidente utilizza due metodi per eliminare la minaccia all’egemonia mondiale del modello fondato sul petrodollaro e ai conseguenti eccessivi privilegi occidentali. Uno di questi metodi è costituito dalle “rivoluzioni colorate”. Il secondo metodo, di solito applicato dall’Occidente se il primo fallisce, sono le aggressioni militari e i bombardamenti. Ma nel caso della Russia entrambi questi metodi sono impossibili o inaccettabili per l’Occidente», afferma Kalinichenko. Intanto, tutta la popolazione russa è con Putin: impossibile fabbricare una “rivoluzione colorata” per eliminare il capo del Cremlino. Restano le armi, cioè i missili. Ma la Russia non è la Jugoslavia, né l’Iraq, né la Libia. «In ogni operazione militare non-nucleare contro la Russia, sul territorio della Russia, l’Occidente guidato dagli Stati Uniti è destinato alla disfatta. E i generali del Pentagono che esercitano la vera guida delle forze della Nato ne sono consapevoli». Una guerra nucleare? «Sarebbe egualmente senza speranza», perché la Nato «non è tecnicamente in grado di infliggere un colpo che disarmi completamente la Russia del potenziale nucleare». La rappresaglia equivarrebbe all’apocalisse: sarebbe «la nota finale e l’ultimo punto dell’esistenza della Storia», cioè «la fine della vita sul pianeta, fatta eccezione per i batteri».I principali economisti occidentali, conclude Kalinichenko, sono certamente consapevoli di quanto grave e disperata sia la situazione in cui si trova l’Occidente, caduto nella trappola economica d’oro predisposta da Putin. «Sin dagli accordi di Bretton Woods conosciamo tutti la regola aurea, “Chi ha più oro detta le regole”. Ma in Occidente stanno tutti zitti. Sono silenziosi perché nessuno sa come uscire da tale situazione». Se si svelassero all’opinione pubblica occidentale tutti i dettagli del disastro economico incombente, l’élite del sistema basato sul petrodollaro si troverebbe a dover rispondere alle domande più terribili. Ovvero: per quanto ancora l’Occidente potrà acquistare petrolio e gas dalla Russia in cambio di oro fisico? E cosa accadrà ai petrodollari Usa dopo che l’Occidente esaurirà l’oro fisico per pagare petrolio, gas e uranio russi, così come per pagare le merci cinesi? «Nessuno in Occidente oggi può rispondere». E questo, aggiunge Kalinichenko, si chiama davvero scacco matto.L’oro di Putin contro le atomiche di Obama. Chi vincerà? La Russia, facendo crollare l’impero del dollaro, avendo con sé la Cina e la maggior parte della popolazione terrestre, a cominciare dalle economie emergenti dei Brics. Washingon è in trappola, sostiene Dmitry Kalinichenko, perché l’unica scorciatoia possibile – la guerra contro Mosca – non è un’opzione realistica: la Nato e il Pentagono non riuscirebbero né a invadere la Russia, né a uscire indenni da un eventuale attacco atomico contro il Cremlino. In ogni caso la situazione è drammatica, avverte Kalinichenko, anche se «tutti i media occidentali e i principali economisti occidentali non ne parlano, come fosse un segreto militare ben custodito». Parla da solo il fallimento dell’offensiva occidentale in Ucraina: «Non è né militare né politico, ma risiede nel rifiuto di Putin di finanziare i piani occidentali per l’Ucraina». Questione di soldi: Putin scommette sulla fine accelerata del dollaro. Come? Accumulando oro, comprato a basso costo: oro svalutato artificialmente dall’Occidente per tenere alto il valore del dollaro.
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L’antispreco è servito, tra gli chef anche Serge Latouche
Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.«Mangiare meglio, non meno», raccomanda il caposcuola francese del pensiero della decrescita. «Partiamo dalla pratica, dalle piccole cose quotidiane: abbandonare l’abitudine di sprecare, di acquistare cibo che arriva dall’altra parte del mondo, rivestito di imballaggi in plastica». Latouche è il maître della tavola (digitale) imbandita da Alessandra Mazzotta, “L’antispreco è servito”, agile manuale in formato ebook. L’autrice, giornalista specializzata in comunicazione ambientale e sostenibilità, si definisce «pessima cuoca, ma buona forchetta». In città si sposta in bici e «viaggia come ecoturista anche in sogno», secondo l’editore, “Bookrepublic”. Sogni? Quello di Latouche è «un’utopia socialista» chiamata decrescita, per «aiutarci a sperare», fuori dal totalitarismo consumistico. Intanto, “L’antispreco è servito” propone ricette domestiche per un risveglio anche immediato. Formule divertenti, come quella del “mago” Ercolini che trasforma in funghi i fondi di caffè. E prodigi sensazionali come il miracolo di Todmorten, vicino a Manchester, dove due donne si sono inventate la rivoluzione verde di “Incredible Edible”, il villaggio dove gli ortaggi a disposizione degli abitanti crescono persino nelle aiuole della stazione di polizia.«In un mondo paradossale in cui un miliardo di persone soffre di fame e un altro miliardo di malattie connesse con l’obesità, le distorsioni pesano troppo nel piatto e assumono un sapore di immoralità», scrive Mazzotta. «Nei paesi industrializzati, solo per fare qualche esempio, si cestinano 222 milioni di tonnellate di cibo, che equivalgono – tonnellata più, tonnellata meno – alla produzione alimentare disponibile dell’intera Africa sub-sahariana». Gli sprechi alimentari sono ovunque: dalla produzione agricola fino alla distribuzione. «Per non parlare di quelli che avvengono a livello domestico, nelle nostre cucine», sui cui antidoti è concentrata la mappa operativa del libro, utilissima per orientarsi da subito, cercare maestri, trovare alleati preziosi. Associazioni, campagne antispreco, Last Minute Market. Un mondo, navigabile partendo dal computer. Dalla piccola distribuzione alla ristorazione, la spesa consegnata in bicicletta e il locale aperto a Leeds dallo chef Adam Smith, dove vengono serviti piatti di ogni genere, dalla bistecca alla zuppa, a base di ingredienti scartati dagli stabilimenti alimentari della città. «Buon cibo salvato dalla discarica, che aiuta anche a nutrire chi fatica ad arrivare alla fine del mese».Il libro propone una geografia confortante, dalla rete milanese dei ristoranti “ad avanzi zero”, ai sommelier dell’Ais che spiegano come portarsi a casa il vino avanzato. Cresce la rete del “food sharing”: negli Usa, puoi fotografare gli avanzi nel piatto per segnalarli e riciclarli. In Germania, via web, gli abitanti di sette città si scambiano il cibo in eccesso. Stessa cosa a Londra, grazie al “Casseroleclub”. In Italia, “Food Share” è una piattaforma web che permette a privati, produttori e rivenditori di offrire gratuitamente prodotti alimentari in eccedenza a scopi solidali. A Trento basta un’app sul telefonino per ritirare gli avanzi, a Torino provvede una piattaforma web, “NextDoorHelp”, mentre a Treviso lo smistamento dell’antispreco è affidato al frigorifero virtuale di “Ratatouille”, da cui esplorare l’offerta della dispensa eco-solidale. Sono tutti avamposti, per un futuro meno grigio: «Nonostante la crisi, noi italiani buttiamo via ancora troppo cibo: il 55% viene sprecato nella filiera agroalimentare e il restante 45% nel consumo domestico, mense e ristoranti compresi», scrive Alessandra Mazzotta. «Ogni anno, lo spreco domestico ci costa più di 8 miliardi di euro. In media, ogni famiglia getta nella spazzatura più di 500 euro in alimenti».Maurizio Pallante, leader dei decrescisti italiani, punta il dito contro «stili di vita ancora irresponsabili», e spiega: «Manca la consapevolezza del legame tra cibo e stagioni», e in più «non viene data sufficiente attenzione a quanto costa il cibo, produrlo, distribuirlo. Per cui si spreca tanto, con impatti ambientali altissimi». D’altra parte, «chi vende il cibo ha interesse a che se ne venda e se ne sprechi sempre di più». Colpa anche della vecchia agricoltura industriale, pensata come “industria estrattiva” per spremere la terra, allo scopo di vendere e guadagnare sempre di più, grazie anche all’autismo demenziale di una politica che pensa solo al Pil, gonfiato di veleni. L’antidoto si chiama «riscoperta della piccola produzione contadina, con la vendita delle eccedenze, in un’ottica di filiera corta come massima espressione della sovranità alimentare a livello territoriale». Questo, aggiunge Pallante, «favorisce la maturazione della consapevolezza e della responsabilità verso il cibo». Perché, ricordiamolo, l’accesso al cibo è un diritto. Dunque, «non sprecarlo è un dovere», chiarisce Lorenzo Bairati, docente di diritto degli alimenti all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, creata da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.Se il sistema produce ancora passività sprecona, il “decalogo antispreco” di Alessandra Mazzotta propone una via d’uscita praticabile subito, da chiunque: pianificare i pasti, controllare il frigo, verificare etichette e scadenze, gestire gli avanzi e condividerli. C’è un mondo sconosciuto, nel frigorifero: dallo yogurt al tonno, si tratta di decifrare e vigilare sulle date, sulle modalità di conservazione. E di imparare: per esempio, a far “risorgere” ortaggi che ci stanno salutando. Patate e aglio che germogliano? Basta saperci fare, «la natura ha del miracoloso». Sedani, insalate, cipollotti: con poche mosse, un possibile rifiuto diventa una risorsa che ricresce sul davanzale. «Non ricordo di aver mai visto mia nonna buttare via del cibo avanzato», dice Alessandra. «Male che andava, c’era sempre il cane. Chi ha visto la guerra faceva così». Oggi, la “guerra” che abbiamo attorno è un’altra. Per fortuna, «complice forse la crisi e una maggiore coscienza, stanno fiorendo iniziative antispreco un po’ a ogni latitudine». E anche ottimi libri, che ti spiegano come fare. E intanto ti regalano la certezza di essere parte di una comunità. Un’umanità consapevole, che conosce le parole di Gandi: la Terra è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di pochi.(Il libro: Alessandra Mazzotta “L’antispreco è servito”, Bookrepublic, 625,8 Kb, euro 1,99. Mazzotta è redattrice del newmagazine “Econote” e gestisce il blog “Ecoavoi”).Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.
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Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
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Germania e Olanda fuori dall’euro, piani pronti dal 2011
Nel 2011, in piena tempesta-Eurozona, l’Olanda aveva pronto un piano per uscire dalla moneta unica e tornare alla valuta sovrana nazionale, il guilder, già all’inizio del 2012. Analogo piano-B era stato preparato anche dalla Germania, nel caso in cui la crisi mortale imposta alla Grecia avesse travolto anche Spagna e Italia. Georgios Papandreou e Silvio Berlusconi si erano appena dimessi. Chiari sintomi del pericolo, scrive “Goldcore”: la situazione poteva finire fuori controllo, con possibile effetto-domino sull’intero sistema. Lo rivela un recente reportage televisivo e lo conferma l’attuale ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, oggi presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista per “Eu Observer” e “Bloomberg”. «E’ vero che il ministro delle finanze e che il governo si prepararono per il peggiore degli scenari», afferma Dijsselbloem. «I capi di governo, incluso quello olandese, lo hanno sempre detto: vogliamo che i paesi dell’Eurozona restino uniti. Ma il governo olandese si è anche domandato: cosa succederebbe se non ce la facessero? E si è preparato a questa evenienza».Mentre Dijsselbloem ha detto che ora non c’è più nessun bisogno di mantenere il “segreto” su questi piani, scrive “Goldcore” in un post su “Zero Hedge” tradotto da “Come Don Chisciotte”, all’epoca queste ipotesi furono tenute in segreto per evitare di spargere panico sui mercati finanziari. Racconto confermato anche da Jan Kees de Jager, ministro delle finanze tra il 2010 e il 2012. Non tutti i partner dell’Eurozona, però, si prepararono all’uscita dall’euro: «Siamo stati uno dei pochi paesi, insieme alla Germania», ha detto de Jager nel reportage, «e avevamo anche una squadra congiunta, Germania-Olanda, per parlare di questi scenari». Il governo tedesco non smentisce: «Noi e i nostri partner della zona euro, tra cui i Paesi Bassi, eravamo e siamo determinati a fare tutto il possibile per prevenire qualsiasi rottura della zona euro», si limita a dichiarare il ministero delle finanze di Berlino. «Questa è una vera rivelazione», sostiene “Goldcore”, perché nel 2011 il super-ministro Wolfgang Schauble aveva detto che l’euro avrebbe potuto sopravvivere anche senza la Grecia. «Ma che avrebbe potuto sopravvivere senza l’Olanda è tutta un’altra cosa».Un euro senza l’Olanda – e soprattutto senza la Germania – è attualmente inconcepibile, continua “Zero Hedge”. «De Jager afferma anche che altri paesi trovarono che la prospettiva di una disgregazione dell’euro fosse una cosa spaventosa, tanto che misero la testa sotto la sabbia piuttosto che affrontare la situazione di petto». Sembra che non siano stati preparati analoghi piani di emergenza nei paesi “Piigs”, cioè Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. «Bisogna chiedersi se questi piani sarebbero stati resi pubblici, se questo documentario televisivo non avesse costretto il governo olandese a dare una conferma alle sue affermazioni». Da notare che in Germania e Olanda «la cittadinanza è stata in prima linea nella richiesta del movimento di rimpatrio dell’oro, che attualmente percorrere tutta Europa», Francia compresa. «In un clima in cui si è persa fiducia nelle valute “fiat”, qualsiasi ritorno ad un “fiat-fiorino” o ad un “fiat-marco” sarebbe rischioso, in mancanza della fiducia che può dare invece il supporto delle riserve auree».La prospettiva di un dissolvimento dell’euro sarebbe «spaventosa», secondo “Zero Hedge”, ma sembra che la maggior parte delle nazioni dell’Eurozona si siano preparate malamente a questo evento e anzi siano del tutto impreparate. «Per tutti gli investitori e i risparmiatori che utilizzano altre valute “fiat” di qualsiasi nazione, si pone una importante domanda: avete un piano di emergenza in caso di fallimento della valuta in cui avete investito?». Il disfacimento dell’euro, continua il blog, potrebbe anche avvenire qualora il popolo tedesco o i suoi politici decissero che non vale più la pena salvare il progetto monetario europeo. «In questo caso, tutte le nazioni indebitate in modo più significativo, i cosiddetti Piigs ma anche Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, sarebbero a rischio di svalutazioni monetarie». Secondo “Zero Hedge”, ci sarebbero «svalutazioni monetarie competitive e l’abbattimento del valore di alcune valute per ottenere dei vantaggi competitivi», al punto che «comincerebbe una guerra delle monete che produrrebbe seri rischi per la stabilità a lungo termine e per la prosperità di tutte le democrazie del mondo, nonché delle finanze e dei risparmi della gente comune». Ben noti, invece, i rischi (in realtà certezze) del perdurare dell’Eurozona: per i paesi come l’Italia, il declino è segnato e senza speranze.Nel 2011, in piena tempesta-Eurozona, l’Olanda aveva pronto un piano per uscire dalla moneta unica e tornare alla valuta sovrana nazionale, il guilder, già all’inizio del 2012. Analogo piano-B era stato preparato anche dalla Germania, nel caso in cui la crisi mortale imposta alla Grecia avesse travolto anche Spagna e Italia. Georgios Papandreou e Silvio Berlusconi si erano appena dimessi. Chiari sintomi del pericolo, scrive “Goldcore”: la situazione poteva finire fuori controllo, con possibile effetto-domino sull’intero sistema. Lo rivela un recente reportage televisivo e lo conferma l’attuale ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, oggi presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista per “Eu Observer” e “Bloomberg”. «E’ vero che il ministro delle finanze e che il governo si prepararono per il peggiore degli scenari», afferma Dijsselbloem. «I capi di governo, incluso quello olandese, lo hanno sempre detto: vogliamo che i paesi dell’Eurozona restino uniti. Ma il governo olandese si è anche domandato: cosa succederebbe se non ce la facessero? E si è preparato a questa evenienza».
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Trotsky e Cia, rivoluzione e golpe: da Kiev alla rivolta Usa
Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?Altro autunno caldo, quello russo del 1917. Si scontrano due visioni di come portare a compimento la rivoluzione: quella di Vladimir Lenin e quella di Leon Trotsky. Il primo si affida alle circostanze russe in quel preciso momento storico per rovesciare il governo Kerenskij e instaurare la dittatura del proletariato. Il secondo, vera mente grigia della rivoluzione d’ottobre, sostiene che sarebbe in grado di abbattere un governo indifferentemente a Londra, Berna o Amsterdam: le condizioni sociali del paese passano in subordine rispetto alla corretta tecnica di colpo di Stato. Serve una élite di rivoluzionari, vere truppe d’assalto, che colpiscano i gangli dello Stato: la miglior polizia del mondo non potrebbe nulla contro un colpo di mano che esuli dal mantenimento dell’ordine pubblico ed attacchi il sistema nervoso della cosa pubblica. Vince Trotsky, che, espugnato il Palazzo d’Inverno, è premiato con il comando della neonata Armata Rossa: il suo potere crescerà a tal punto da costringere la troika (quella originale, con l’omonimo direttorio neo-sovietico di Bruxelles) a esiliarlo.Morirà nel 1940, ucciso in Messico da un agente sovietico. I suoi insegnamenti continuano però ad essere studiati e siamo certi che alla Cia, dove sono stati coltivate in vitro le rivoluzioni di Libia, Siria, Egitto, Tunisia ed Ucraina, le tecniche del vecchio Trotsky siano ancora accuratamente sviscerate. Torniamo alla domanda di prima: le rivolte che infuocano il Missouri e la periferie della grandi città americane sono i prodromi di una potenziale rivoluzione americana, seguita a ruota da un regime change in stile ucraino? La risposta è sì. La differenze sostanziale è che nel caso di Euromaidan, qualcuno (Washington e Berlino) ha applicato correttamente i vecchi principi di Trotsky, investendo denaro, mezzi e uomini. Nel caso del Missouri, manca una potenza straniera o un partito politico autoctono che abbia la volontà e la capacità di giocare fino in fondo la partita, espugnando la Casa Bianca. Con il denaro e gli uomini giusti, tutto è però possibile, anche l’impensabile. Ci cimenteremo quindi in una partita di fantacalcio sui generis e proveremo a rovesciare il presidente Barack Obama e ad instaurare un governo rivoluzionario, amico delle minoranze colorate e rispettoso della nostra sfera di influenza sullo scacchiere internazionale. Emuleremo quanto fatto dalla Cia in Ucraina, ricordando però che il maestro in materia, diamo a Cesare quel che è di Cesare, rimane sempre Leon Trotsky.Euromaidan e le rivolta di Ferguson: l’antefatto. Ogni rivoluzionario, ieri come oggi, ha come obbiettivo il rovesciamento dell’ordine vigente e dei suoi rappresentanti che, giustamente, si difendendo con le unghie e con i denti prima di soccombere. Di norma i rivoluzionari, se escono vivi e vittoriosi dall’avventura, abbelliscono con un manto di costituzionalità il neonato sistema, ma la loro azione è sempre illegale, finché non assurgono loro stessi a legislatori. Ciascun rivoluzionario, invece, opera in un contesto storico, politico e geografico ben preciso. Vediamo i casi dell’Ucraina e del Missouri. In Ucraina il terreno di coltura per l’insurrezione è rappresentato dalle tensioni tra ucrainofoni dell’ovest e russofoni dell’est, mentre lo scopo della rivoluzione è il posizionamento di Kiev nell’orbita Ue-Nato, sottraendola all’influenza di Mosca e alla nascente Unione Euroasiatica. Il 28 novembre 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovich rifiuta di siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, firmando così la sua condanna: a Washinton si decide di rovesciarlo contando sulla complicità del governo tedesco guidato da Angela Merkel. Nella piazza centrale di Kiev, ribattezzata Euromaidan dall’emittente radiofonica americana “Radio Free Europe”, compaiono i primi assembramenti. La tensione, giorno per giorno, sale.In Missouri il fattore scatenante della rivolta è l’omicidio dell’afroamericano Michael Brown, ucciso a Ferguson il 9 agosto del 2014 da un agente di polizia bianco dopo un presunto furto di sigari. La morte di Brown riaccende tensioni da sempre latenti negli Usa: la segregazione razziale, il Southern Manifesto, l’assassinio di Martin Luther King, il disagio sociale, etc. Le proteste richiedono un primo intervento delle forze speciali per sedare la rivolta: l’ordine pubblico è “militarizzato”. Poi riesplodono dopo la controversa decisione del gran giurì della contea di St. Louis di non processare il poliziotto per l’omicidio di Michael Brown: i disordini si diffondono a macchia d’olio nelle periferie delle principali città americane ed agli afroamericani si uniscono gli indigenti bianchi. Lo scopo della nostra rivoluzione sarà rovesciare l’establishment americano e istaurare un governo che smantelli la rete di basi americane in giro per il mondo e dirotti sulla spesa sociale le risorse assorbite dal complesso militare-industriale. Sarà una rivoluzione al grido di “più burro e meno cannoni!”Euromaidan e Missouri-maidan: lo svolgimento. Se il congresso dei Soviet avesse fatto affidamento su Lenin e sull’ineluttabilità della dittatura del proletariato, oggi la coppia più glamour sarebbero senza dubbio il rampollo di casa Romanov e un’hostess di San Pietroburgo. Le rivoluzioni non cascano dall’albero come pere mature e, perché siano coronate da successo, insegna Leon Trotsky, servono veri esperti della sovversione. Vediamo come la Cia si è mossa in Ucraina e come agiremo noi negli Usa. Prima regola: niente soldi, niente rivoluzione. Creare un nucleo di professionisti della rivoluzione, pagare loro uno stipendio, studiare e diffondere la propaganda, spostare e istruire gli attivisti, distribuire telefoni, radio, armi ed esplosivo, costa. E tanto. Il Dipartimento di Stato americano, per ammissione di Victoria Nuland, e la “Open Society Foundation”, un’organizzazione Cia di cui probabilmente George Soros è solo un prestanome, hanno investito diversi miliardi di dollari nelle due rivoluzione ucraine: quella arancione del 2004, poi abortita, e quella contro Yakunovich del 2013.Se l’obiettivo della rivoluzione ucraina è disarcionare gli oligarchi filorussi per sostituirli con oligarchi filoamericani, ai media compiacenti e all’opinione pubblica si vende merce più appetibile: lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e la brutalità del regime oppressore, poco importa se legittimamente eletto. Quindi, impostata l’insurrezione sulla dialettica “libertà vs. oppressione”, bisogna esacerbare lo scontro di piazza, provocando le forze dell’ordine o addossando loro efferati crimini. Per quest’operazione la Cia si serve dei nazionalisti di “Settore Destro” e degli hooligans con un lungo curriculum di guerriglia alle spalle: i cecchini che aprono il fuoco sulla folla nel febbraio del 2014 e preparano il terreno per la precipitosa fuga di Yakunovich provengono dalle file dei movimenti di estrema destra. Ne parlano in una telefonata intercettata Catherine Ashton ed il ministro degli esteri estone Urmas Peat.Ora, prendiamo in mano la caotica rivolta dei sobborghi afro-americani e trasformiamola in una coesa ed efficiente macchina rivoluzionaria. Dobbiamo per prima cosa dare loro qualche spicciolo per fare la guerriglia. Come il mecenate della Leopolda renziana, David Serra, apriamo una società finanziaria alla Cayman, oppure a Singapore o Abu Dhabi, dove dirottiamo le risorse che il nostro governo destina ai paesi del terzo mondo e alla cooperazione economica. Quindi apriamo tre Ong in altrettanti Stati africani (Etiopia, Sudan, Angola) su cui convogliano i fondi. Le Ong sono scatole vuote e a rappresentarle ci sarà un solo impiegato, seduto in un modesto ufficio, che risponda al telefono e gestisca il sito Internet. Le organizzazioni, infatti, denominate “Amici africani del Missouri”, “Fratelli Etiopi per l’America” e “Marxisti-leninisti d’Africa”, sono solo il paravento dietro cui occulteremo il trasferimento di soldi alla protesta afro-americana negli Usa.I nostri attivisti iniziano quindi una capillare opera di sensibilizzazione e proselitismo tra le minoranze di colore americane: fondazioni, convegni, manifestazioni, giornate della memoria, spettacolari azioni di protesta, campagne virali su Internet, inserzioni pubblicitarie, etc. Due sono i punti su cui ci focalizziamo: la discriminazione delle minoranze e la rapacità del governo federale che, con le insostenibili spese militari, sottrae soldi al welfare. La fascia più ampia possibile della popolazione deve famigliarizzare con il nostro messaggio, in modo che non ci sia ostile quando entreremo in azione, mentre nel frattempo selezioneremo una minoranza che sia politicamente attiva. Quindi, ricordando la massima che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ci occorre l’equivalente del “Settore Destro” in Ucraina: la truppa d’assalto che faccia il lavoro sporco. Nel nostro caso, mentre la Cia ha pescato nell’estremismo di destra, noi faremo affidamento sugli eredi dei “Black Panthers”, un movimento di ispirazione socialista che abbracciò anche la lotta armata per difendere i diritti dei negri negli anni ’60 e ‘70. La punta di diamante sarà il redivivo “Black Liberation Army”, il superclan dentro i “Black Panthers”: i nostri istruttori militari ne addestreranno i membri nei campi allestiti in Venezuela e Bolivia. Tutte le pedine sono al loro posto: Viktor Yakunovich e Barack Obama, tremate!Euromaidan e Missouri-maidan: l’epilogo. I colpi di Stato bonapartisti (Napoleone che circondato dai granatieri scioglie il Direttorio, oppure Benito Mussolini che riceve dal Re la guida dell’esecutivo sull’onda della Marcia su Roma) si addicono ormai solo ai dei paesi in via di sviluppo, dove per il presidente di turno controllare l’aeroporto internazionale è ancora di gran lunga più importante che controllare l’account Twitter. In Occidente, oggi, i colpi di Stato si giocano sul concetto di legittimità: il governo in carica può disporre delle forze armate al loro completo, controllare centrali elettriche, acquedotti, snodi ferroviari e stradali, telecomunicazioni e dorsali Internet, ma non può approntare nessuna difesa se la rivoluzione lo ha delegittimato. Privato dell’autorevolezza, il governo è svuotato di ogni potere e, come un novello Cesare, cade senza reagire sotto le pugnalate dei congiurati. Come la Cia ha rovesciato Viktor Yakunovich creando una situazione dove la difesa di un governo democraticamente eletto è resa impossibile da un’opinione pubblica indignata dalle presunte brutalità della polizia, così noi rovesceremo Barack Obama. Serve a poco disporre della Swat, della Sesta Flotta o degli F-35, se l’opinione considera criminale qualsiasi azione compiuta dal governo: la delegittimazione è l’arma del nuovo rivoluzionario occidentale.Nel dicembre del 2013 Viktor Yakunovich, spaventato dai moti di piazza di Kiev, torna sui propri passi e si dice pronto a firmare l’accordo di associazione con la Ue: Washington giudica la mossa un semplice diversivo e procede con il rovesciamento del presidente. A gennaio volano le molotov, si contano i primi morti tra i manifestanti e l’opposizione “politicamente presentabile” chiede le immediate dimissioni di Yakunovich. Il presidente dispiega le teste di cuoio, i Berkut, in Piazza dell’Indipendenza, dove fronteggiano assalti sempre più aggressivi. Il crescendo rossiniano culmina con l’azione dei cecchini che aprono il fuoco sui manifestanti e sulle forze di polizia: è il 20 febbraio. Il 21 febbraio Yakunovich lascia Kiev e il 22 il Parlamento nomina un presidente ad interim, filoamericano, ça va sans rien dire. La tecnica dei cecchini che aprono il fuoco sulla folla è stata largamente impiegata anche in Tunisia, Libia, Egitto e Siria durante la “primavera araba” targata Cia.Vediamo ora come concludere il nostro regime change americano. Per tutto il mese di dicembre la tensione è mantenuta alta attraverso la protesta: i manifestanti reclamano la fine della discriminazione razziale, pari opportunità di lavoro, investimenti per le periferie e più controlli sulla condotta della polizia. Negli Stati dove la presenza di afro-americani è più forte la tensione sale: dal Missouri alla Florida, dal Texas a New York gli scontri con le forze dell’ordine avvengono a cadenza giornaliera. La nostra rete è due volte attiva: da una parte organizza le proteste e alza il tono dello scontro, dall’altro documenta con dovizia di particolari la reazione della polizia, esasperandone l’aspetto brutale e repressivo. Si diffonde il malcontento tra le forze dell’ordine e si ricorre con meno remore alla violenza. Verso la fine di dicembre c’è il salto di qualità: un nostro agente della “Black Liberation Army” piazza una bomba in una stazione di polizia di Atlanta. Si contano decine di morti e gli ambienti politici più oltranzisti evocano misure straordinarie per riportare l’ordine. Il presidente Obama, già politicamente debole, precipita nei sondaggi: pusillanime per i repubblicani e incapace di leggere la realtà per i “liberal”.Quindici gennaio 2015: una grande folla marcia per le vie di Atlanta commemorando la nascita di Martin Luther King. Il corteo è seguito passo a passo dalle forze dell’ordine. La tensione è palpabile. Scoppia un tafferuglio e si sentono spari: i cecchini della “Black Liberation Army” hanno abbattuto due agenti di polizia che si accasciano esanimi al suolo. Le forze dell’ordine, prese dal panico, rispondono al fuoco. È strage. La situazione negli Stati Uniti è fuori controllo. La Casa Bianca è circondata da una folla inferocita che esige giustizia e degne condizioni di vita: la rivolta da razziale è diventata sociale, e alle minoranze di colore si sono aggiunti i giovani disoccupati e il popolo dei padri di famiglia costretti a un lavoro part-time. A Barack Obama, rifugiatosi a Camp David, sottopongono l’ordine esecutivo per la proclamazione della legge marziale. Qualche giorno dopo, un solitario visitatore, camminando negli ambienti spogli e vandalizzati della ex-villa presidenziale, trova sul pavimento l’ordine esecutivo con la firma in calce del presidente. Missouri-maidan si è conclusa con successo. Euromaidan è realtà, Missourimaidan è finzione. Ma come la Cia ha pilotato la “primavera araba” e la cacciata di Yakunovich, non abbiamo nessuno dubbio che un efficiente servizio segreto saprebbe guidare una rivoluzione anche negli Usa. Leon Trotsky insegna che non sono le circostanze a rendere il terreno fertile alla rivoluzione, ma i bravi rivoluzionari che sanno coltivare anche il terreno meno fertile.(Federico Dezzani, “Missouri-Maidan”, da “Come Don Chisciotte” del 27 novembre 2014).Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?
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Gli scienziati: folle Ue, taglia la ricerca e suicida il futuro
I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.Hanno scelto di ignorare che la ricerca non segue cicli politici; che a lungo termine, l’investimento sostenibile in R&S è fondamentale perché la scienza è una gara sulla lunga distanza; che alcuni dei suoi frutti potrebbero essere raccolti ora, ma altri possono richiedere generazioni per maturare; che, se non seminiamo oggi, i nostri figli non potranno avere gli strumenti per affrontare le sfide di domani. Invece, hanno seguito politiche cicliche d’investimento in R&S con un unico obiettivo in mente: abbassare il deficit annuo a un valore artificiosamente imposto dalle istituzioni europee e finanziarie, ignorando completamente i devastanti effetti che queste politiche stanno avendo sulla scienza e sul potenziale d’innovazione dei singoli Stati membri e di tutta l’Europa.Hanno scelto di ignorare che l’investimento pubblico in R&S è un attrattore d’investimenti privati; che in uno “Stato innovatore” come gli Stati Uniti più della metà della crescita economica è avvenuta grazie all’innovazione, che ha radici nella ricerca di base finanziata dal governo federale. Invece, essi mantengono l’irrealistica aspettativa che l’aumento della spesa in R&S necessaria per raggiungere l’obiettivo della Strategia di Lisbona del 3% del Pil sarà raggiunto grazie al solo settore privato, mentre l’investimento pubblico in R&S viene ridotto. Una scelta in netto contrasto con il significativo calo del numero di aziende innovative in alcuni di questi paesi e con la prevalenza di aziende a dimensione familiare, tra le piccole e medie imprese, senza alcuna capacità d’innovazione.Hanno scelto di ignorare il tempo e le risorse necessarie per formare ricercatori. Al contrario, facendosi schermo della direttiva europea mirante la riduzione del personale nel settore pubblico, hanno imposto agli istituti di ricerca e alle università pubbliche drastici tagli nel reclutamento che, insieme alla mancanza di opportunità nel settore privato, stanno innescando una “fuga di cervelli” dal Sud al Nord dell’Europa e al di fuori del continente stesso. Questo si traduce in un’irreversibile perdita d’investimenti e aggrava il divario in R&S tra gli Stati membri. Scoraggiati dalla mancanza di opportunità e dall’incertezza derivante dalla concatenazione di contratti a breve termine, molti scienziati stanno pensando di abbandonare la ricerca, incamminandosi lungo quella che, per sua natura, è una via senza ritorno. Invece di diminuire il deficit, questo esodo contribuisce a crearne uno nuovo: un deficit nella tecnologia, nell’innovazione e nella scoperta scientifica a livello europeo.Hanno scelto di ignorare che la ricerca applicata non è altro che l’applicazione della ricerca di base e non è limitata a quelle ricerche con un impatto di mercato a breve termine, come alcuni politici sembrano credere. Invece, a livello nazionale ed europeo c’è una forte pressione per concentrarsi sui prodotti commercializzabili che non sono altro che i frutti che pendono dai rami più bassi dell’ intricato albero della ricerca: anche se alcuni dei suoi semi possono germinare in nuove scoperte fondamentali, affossando la ricerca di base si stanno lentamente uccidendone le radici. Hanno scelto di ignorare come funziona il processo scientifico; che la ricerca richiede sperimentazione e che non tutti gli esperimenti avranno successo; che l’eccellenza è la punta di un iceberg che galleggia solo grazie alla gran massa di ghiaccio sommerso. Invece, la politica scientifica a livello nazionale ed europeo si è spostata verso il finanziamento di un numero sempre più limitato di gruppi di ricerca ben affermati, rendendo impossibile la diversificazione di cui avremmo bisogno per affrontare le sfide della società di domani. Inoltre, questo approccio basato sull’eccellenza sta aumentando il divario nella R&S tra gli Stati membri, poiché un piccolo numero di istituti di ricerca ben finanziati sta sistematicamente reclutando questo piccolo e selezionato gruppo di vincitori di finanziamenti.Hanno scelto di ignorare la sinergia critica tra ricerca e istruzione. Anzi, hanno reciso il finanziamento della ricerca per le università pubbliche, abbassandone la qualità complessiva e minacciandone il ruolo di soggetti atti a favorire lo sviluppo di pari opportunità. E soprattutto, hanno scelto di ignorare il fatto che la ricerca non ha solo il compito di essere funzionale all’economia, ma anche di incrementare la conoscenza e il benessere sociale, anche per coloro che non hanno le risorse per pagarlo. Hanno scelto di ignorare tutto questo, ma noi siamo determinati a ricordarglielo perché la loro ignoranza può costare il nostro futuro. Come ricercatori e come cittadini, formiamo una rete internazionale per promuovere lo scambio d’informazioni e di proposte. Ci stiamo impegnando in una serie d’iniziative a livello nazionale ed europeo per opporci fermamente alla distruzione sistematica delle infrastrutture di R&S nazionali e per contribuire alla costruzione di un’Europa sociale costruita dal basso. Sollecitiamo gli scienziati e tutti i cittadini a difendere questa posizione con noi. Non c’è altra possibilità. Lo dobbiamo ai nostri figli, e ai figli dei nostri figli.(“Senza ricerca non si esce dalla crisi”: l’appello, ripreso da “Micromega”, è stato lanciato da importanti scienziati europei come Amaya Moro-Martín, astrofisico dello “Space Telescope Science Institute di Baltimora”, Usa, nonché di “EuroScience” di Strasburgo e del Digna, per la Spagna; Gilles Mirambeau, virologo Hiv della Sorbona di Parigi oltre che dell’Idipbas di Barcellona e di “EuroScience”; Rosario Mauritti, sociologo dell’Iscte e del Cies-Iul di Lisbona; Sebastian Raupach, fisico tedesco; Jennifer Rohn, biologa cellulare dell’University College di Londra; Francesco Sylos Labini, fisico del Centro Enrico Fermi e del Cnr di Roma; Varvara Trachana, biologa cellulare dell’Università di Thessaly a Larissa, Grecia; Alain Trautmann, immunologo e oncologo del Cnrs e dell’Institut Cochin di Parigi; Patrick Lemaire, embriologo del Cnrs e dell’Università di Montpellier).I responsabili delle politiche nazionali di un numero crescente di Stati membri dell’Ue hanno completamente perso contatto con la reale situazione della ricerca scientifica in Europa. Hanno scelto di ignorare il contributo decisivo che un forte settore della ricerca può dare all’economia, contributo particolarmente necessario nei paesi più duramente colpiti dalla crisi economica. Al contrario, essi hanno imposto rilevanti tagli di bilancio alla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S), rendendo questi paesi più vulnerabili nel medio e lungo termine a future crisi economiche. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiacente delle istituzioni europee, più preoccupate del rispetto delle misure di austerità da parte degli Stati membri che del mantenimento e del miglioramento di un’infrastruttura di R&S, che possa servire a trasformare il modello produttivo esistente in uno, più robusto, basato sulla produzione di conoscenza.
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La crisi del sapere umanistico: non leggiamo più il mondo
La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.Il neoliberismo ha prodotto una vistosa regressione culturale: la visione pan-economicista e la riduzione della stessa economia al solo filone walrasiano e derivati sono stati il brodo di coltura del maggior arretramento intellettuale mai registrato in epoca moderna. A questo si sono sommati, a ricaduta: la delegittimazione di ogni pensiero che non fosse quello liberista-liberale, che ha inaridito ogni confronto di idee; la pretesa di imporre comunque e dovunque la lingua inglese, funzionale solo alla dittatura culturale della produzione culturale made in Usa; una versione assai pedestre dell’utilitarismo, per cui qualsiasi attività è valutata in funzione del guadagno immediato. Da questo discendono i tagli alle spese culturali e per l’istruzione, di cui oggi gli intellettuali umanisti si risentono, ma dopo anni di acquiescenza. L’ondata neoliberista si è accompagnata ai cori festanti degli economisti massicciamente convertitisi a questo verbo, ma non ha trovato resistenze neppure fra i giuristi, gli storici, i sociologi, i politologi, che non hanno manifestato che rare e occasionali obiezioni, spesso improprie o più arretrate del fenomeno che avrebbero voluto criticare.E già questa scarsa attitudine a confrontarsi con l’ondata neoliberista è assai eloquente sulla capacità degli umanisti di confrontarsi con il tempo presente. La produzione storica, sociologica, politologica, giuridica, filosofica dell’ultimo quarto di secolo è, nella maggior parte dei casi, paccottiglia di nessun valore intellettuale. E’ tutto molto ripetitivo, stantio, privo di originalità e le opere di valore, per ciascuna disciplina, si contano sulle dita di un paio di mani. Diciamocelo sinceramente: se si trattasse di questo attuale assetto delle scienze umane, la loro scomparsa non sarebbe un gran danno. Il punto è che le discipline umanistiche non si sono adeguatamente confrontate con le vastissime conseguenze culturali della globalizzazione. Non che manchino studi sul fenomeno in sé (ad esempio quelli, peraltro non sempre soddisfacenti, di Zygmunt Bauman, Manuel Castells, Ulrich Beck, Alain Touraine), ma si tratta di punte individuali, che non si innestano su un solido reticolo di opere minori indispensabili a determinare una svolta complessiva di questa area di studi.E infatti si tratta in larga parte di opere che non si sottraggono ad un’ottica eurocentrica e non sfuggono ad un taglio specialistico disciplinare, che precludono molti sviluppi alla ricerca. La globalizzazione implica sia la mondializzazione dei rapporti, sia una stretta interdipendenza fra le sfere politica, economico-finanziaria, sociale, culturale, militare, e se il primo aspetto richiede imperiosamente un punto di vista più “centrale” e meno sbilanciato verso occidente, il secondo impone una capacità di analisi transdisciplinare, che allo stato si intravede solo in pochissime opere. Occorre un cambio di passo complessivo nei metodi; ripensare, soprattutto, la storica frattura fra scienze umane e scienze logiche, matematiche e naturali: i fisici, i biologi, i neurologi lo hanno capito e fanno sempre più frequenti incursioni nel mondo delle scienze umane, mentre gli umanisti (con l’eccezione di quei filosofi e psicologi che partecipano a progetti di scienze cognitive) tardano a comprenderlo e si tengono ancora troppo al di qua della linea di demarcazione che li separa dall’ “altra metà del cielo”.Quanti storici, sociologi e politologi immaginano di poter lavorare usando un modello di simulazione? E quanti di loro sono in grado di misurarsi con il campo delle scienze cognitive? Nelle nostre università si respira un’aria viziata perché da troppo tempo non si aprono le finestre. Certo che occorre continuare a studiare la letteratura greca e la Guerra dei Sette Anni, Leopardi e Weber, la secessione austriaca e la Riforma protestante, ma occorrerà ripensarli comparativamente agli sviluppi delle altre civiltà che, naturalmente, bisognerà studiare. Da due secoli e mezzo l’Europa (e tutto l’Occidente) ha costruito la sua identità intorno all’idea di modernità: l’Occidente è moderno per definizione e la modernità è occidentale allo stesso modo. E la globalizzazione è stata pensata come “modernizzazione del mondo” cioè come progetto di omologare tutto il mondo al modello occidentale. Ma le cose non stanno andando così: quello che le nostre scienze sociali pensavano fosse un modello universale si è rivelato solo il racconto di “come è andata in Europa”.La modernità è stata pensata come l’intreccio organico di sviluppo economico e urbanizzazione, di specificazione individuale e secolarizzazione, di affermazione dello Stato di diritto e disincanto del mondo, di nazione e acculturazione di massa, un insieme in cui ogni aspetto presuppone e rafforza l’altro. E abbiamo pensato che tutto questo avesse regole precise, che permettessero di replicarlo in ogni contesto, salvo trascurabili varianti locali. Ebbene, non sta andando affatto così: lo sviluppo economico non trascina dietro di sé quei processi di democratizzazione e secolarizzazione di cui si diceva, e ogni contesto sta avendo un suo sviluppo particolare. Questo obbliga a ripensare anche molte delle nostre convinzioni sulla nostra storia e sul modo con cui l’abbiamo interpretata ma, più ancora, ci obbliga ad un’opera di mediazione e di traduzione culturale: sia noi che i cinesi, gli indiani o gli egiziani abbiamo il concetto di nazione, ma siamo sicuri di dire tutti la stessa cosa? E lo stesso potremmo dire per concetti come classe, popolo, potere, secolarizzazione. E questo lavoro di riesame non riguarda solo storici, politologi e sociologi, ma anche giuristi, filosofi, letterati.Questo è il piano su cui le scienze umanistiche devono impegnarsi trasformandosi, ed è quello che ci dà la misura esatta del ritardo accumulato in questi anni, in gran parte dovuto allo statuto sociale dei nostri intellettuali umanisti, che da troppo tempo non hanno stimoli verso l’innovazione. Dopo gli anni ottanta, cessate le passioni politiche, che costituivano l’unico vero stimolo alla ricerca, gli umanisti si sono seduti sulla rendita di posizione di intellettuali burocratici retribuiti dallo Stato. Tutto oggi si riduce alla stucchevole rivendicazione del ruolo del “sapere inutile che ci renderà liberi”. Questa emerita sciocchezza, in realtà, vorrebbe dire che ci sono altre utilità oltre quelle economiche, il che è giusto, ma questo non implica che non debba esserci un calcolo dei costi e dei benefici dell’investimento e, se anche è accettabile l’idea che non sempre i benefici di un investimento culturale siano misurabili in termini monetari, non ce la si può cavare con i luoghi comuni sul “sapere critico” e simili.Un po’ di rapporto con il mercato non guasterebbe, per dare una scossa ai nostri intellettuali sedentarizzati. Non sto pensando all’università privata, che è un disastro anche peggiore che ha prodotto autori terribili come Francis Fukuyama, Niall Ferguson o Samuel Huntington. Sto pensando ad imprese autogestite degli intellettuali umanisti che si misurino con il mercato. Servirebbero anche cose minime, come ad esempio retribuire i docenti in base al numero di studenti che hanno, lasciando ovviamente gli studenti liberi di scegliere. Vediamo quante aule restano disperatamente vuote? Concludendo: certo che occorre difendere le materie umanistiche, ma questo sarà possibile solo cambiandole profondamente e mutando altrettanto radicalmente lo stato sociale dei suoi operatori, da “intellettuali” in “lavoratori della cultura”. La cultura non serve per i salotti.La crisi del sapere umanistico è ormai conclamata: negli Usa 54 membri dell’“American Academy of Arts and Sciences” hanno denunciano il rischio della rapida scomparsa delle materie umanistiche dalle università americane; in Inghilterra la storia è stata esclusa da quasi tutti i corsi di studio; la geografia è quasi scomparsa dai corsi di insegnamento di metà Europa e resiste qua e là solo come geografia economica; gli studenti disertano i corsi di lettere, filosofia, storia, persino scienze politiche e giurisprudenza anche in Francia, Italia, Spagna. Resisticchiano le facoltà di lingue e letterature straniere o simili. Trionfa solo economia. Questo collasso è uno dei fenomeni culturali più inquietanti del tempo presente, contro il quale non servono a nulla le solite geremiadi. Esso è determinato da due cause principali fra loro connesse: le caratteristiche proprie del neoliberismo e il rifiuto degli umanisti di reinventarsi le loro discipline e ridefinire la loro figura sociale.
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Magaldi: super-fratelli d’Italia, élite occulta del vero potere
Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».Laura Maragnani, giornalista di “Panorama” che ha collaborato con Magaldi e scrivendo anche una lunga prefazione, spiega che il libro è frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali Magaldi ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti, depositati in studi legali in Europa e negli Usa. «Tra le superlogge progressiste – premette il “Fatto” – la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha». Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges. E persino i vertici della fu Unione Sovietica, da Lenin a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. «Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario».In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: «Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi», scrive Magaldi. «E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti». Più tardi, Berlusconi avrebbe poi creato una sua Ur-Lodge, la Loggia del Drago. Altri affiliati eccellenti, sempre secondo Magaldi, sarebbero Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. «C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie», osservano Barbacetto e D’Esposito.La tesi: il vero potere è massone. E, descritto nelle pagine di Magaldi, «spaventa e fa rizzare i capelli in testa». Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici: persino il “papa buono”, Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama Bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. «In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista». Nell’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: «Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi».Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Secondo Magaldi, Draghi sarebbe peraltro in ottima compagnia. Le Ur-Lodges, infatti, sarebbero gremite di italiani importanti. Come l’ex banchiere centrale e poi ministro Fabrizio Saccomanni, l’industriale Gianfelice Rocca (Techint), l’economista e già ministro Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi (Eni, Exor, Confindustria), Marta Dassù (Aspen Institute, già sottosegretario agli esteri). E poi l’attuale governatore di Bankitalia Ignazio Visco, il banchiere Enrico Tommaso Cucchiani (Intesa Sanpaolo), Alfredo Ambrosetti (patron del summit di Cernobbio), l’ex presidente confindustriale Emma Marcegaglia. E infine il banchiere Matteo Arpe (Lehman Brothers, Capitalia), l’ex ministro Vittorio Grilli (ora Jp Morgan), l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (marina militare) e Federica Guidi, ministro dello sviluppo economico del governo Renzi. Ma fino a ieri il dominus della vita italiana non era un certo Berlusconi? In attesa di conferme o smentite, se non altro, il libro di Magaldi contribuisce a dare un volto preciso ai componenti dell’élite: un affollatissimo ritratto di famiglia.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Lo rivela Gioele Magaldi, quarantenne “libero muratore” di matrice progressista, nel libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”, pubblicato da Chiarelettere, editrice che figura tra gli azionisti del “Fatto Quotidiano”. Proprio sul “Fatto”, Gianni Barbacetto e Fabrizio D’Esposito presentano l’operazione editoriale, soffermandosi sul sottititolo dell’opera di Magaldi, basata su documenti custoditi a Londra, Parigi e New York: “La scoperta delle Ur-Lodges”. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico in polemica con il Goi (Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro paese), in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: «Tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici, e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli».
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Il marcio Juncker? Perfetto per imporre all’Europa il Ttip
Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.L’anello debole, oggi, si chiama innanzitutto Juncker. Qualcuno, scrive Raffone sul “Sussidiario”, dovrebbe ricordarsi dello scandalo Clearstream (“flusso pulito”), esploso grazie a un giornalista tra il 2001 e il 2002, che dimostrava come dagli anni ‘70 era stata creata una “camera di compensazione” per rendere non tracciabili le transazioni finanziarie. «Clearstream serviva da piattaforma “legale” per le compensazioni inter-bancarie (attività perfettamente illegale) che offriva soluzioni mondiali per l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro». Finite nel nulla le prime inchieste giudiziarie avviate in Lussemburgo e in Francia. Seguì una seconda indagine francese, nota come “Clearstream 2”, che attorno alla costituzione di fondi neri dell’industria franco-tedesca della difesa, Eads, coinvolse il presidente Jacques Chirac e il ministro Dominique De Villepin, ma anche indirettamente il presidente Nicolas Sarkozy e numerosi membri dell’establishment francese, oltre a oligarchi russi e narcotrafficanti colombiani. Nel 2013 si concluse con l’assoluzione dei molti politici coinvolti e la condanna di alcuni alti dirigenti della Eads.Un’indagine parlamentare, diretta dall’ex ministro socialista Arnaud Montebourg (poi silurato da Hollande perché contrario al rigore della Troika) si è limitata alla pubblicazione di un rapporto sul riciclaggio, mentre un’indagine del Parlamento Europeo «ricevette l’incredibile risposta dell’allora commissario Frits Bolkestein che ritenne che “non vi erano ragioni di non credere alle autorità del Lussemburgo”». Nel 2006, continua Raffone, l’eurodeputato olandese Paul Van Buitenen, famoso per aver denunciato lo scandalo di corruzione che fece cadere la Commissione Santer, contestò a Barroso la presenza di Frits Bolkestein nella Commissione, visto che lo stesso era nel consiglio di amministrazione della Shell che aveva conti “occulti” con Clearstream. La risposta di Barroso? Burocraticamente evasiva, in pieno stile Ue: un altro lussemburgese, Jacques Santer, nel 1999 fu costretto a dimettersi da presidente della Commissione Europea per un caso di corruzione. Dal 2002, aggiunge Raffone, Clearstream è controllata al 100% da Deutsche Borse. E, insieme alla consorella Euroclear, che fu di Jp Morgan, è il secondo oligopolista mondiale come “depositario centrale internazionale”, cioè dove si trattano tutti gli eurobond e si opera la “clearence” delle transazioni, dai derivati ai conti bancari.Nel 2011, dopo 10 anni, Clearsteram ha perso tutte le cause contro Denis Robert, il giornalista che aveva reso nota la “lavanderia del Lussemburgo”. Clearstream è da sempre legalmente basata in Lussemburgo, continua Raffone, mentre Euroclear è in Belgio, dove dal 1973 risiede anche Swift, cioè il monopolista mondiale della rete di telecomunicazione per le relazioni finanziarie interbancarie, con oltre 9.000 istituzioni collegate in più di 209 paesi. «Coincidenze o il Benelux ha qualcosa di “speciale”?». Per Raffone, l’offensiva anti-Juncker coincide con la grave sconfitta di Obama nelle elezioni di midterm. E i finanziatori della Icij sono tutti anglosassoni, «ampiamente membri delle élites della mondializzazione e del “nuovo ordine mondiale”», mai teneri con l’Europa. Tra loro spiccano la Open Society Foundation (americana, legata a Soros), la Ford Foundation (americana, con collegamenti israeliani), la Adessium Foundation (famiglia Van Vliet, olandese naturalizzata americana e specializzata in asset management), il Sigrid Rausing Trust (famiglia di origine svedese proprietaria della Tetra Pack, basata nel Regno Unito), la David and Lucile Packard Foundation (la famiglia americana fondatrice di Hp), e poi Pew Charitable Trusts (americana, svolge attività di lobbying nel settore pubblico e possiede il terzo più influente think tank di Washington) e la Waterloo Foundation (britannica, impegnata nelle cause ambientaliste).Quanto allo scandalo attuale, che coinvolge «la reputazione e la credibilità di Jean-Claude Juncker nella sua nuova funzione di presidente della Commissione Europea», per Raffone bisogna partire dal passato recente di Juncker che, nel luglio 2013, dopo 18 anni da primo ministro del Lussemburgo, ha dovuto rassegnare le sue dimissioni in seguito allo scandalo delle “intercettazioni segrete” che, per sua negligenza e omesso controllo e vigilanza, i servizi segreti del Granducato avevano compiuto per alcuni anni. «I fatti dell’inchiesta riferiscono che tra il 2004 e il 2009, oltre alle 300 schede personali di politici e imprenditori e almeno 13.000 “fiches d’information” sui 500.000 abitanti, erano state eseguite violando tutte le leggi vigenti». Secondo il capo dei servizi lussemburghesi, durante la guerra fredda erano oltre 300.000 le “note d’ascolto” collezionate dall’agenzia statale. «Inoltre, sono emerse anche commistioni tra il mondo dell’intelligence lussemburghese, gli affari finanziari, il dipartimento delle imposte e alcune aziende che forniscono beni di lusso».Decisamente grave, per il leader di un paese fondatore dell’Ue. «Possibile che nessuno abbia trovato che già questo evento fosse sufficiente a far dubitare dell’onorabilità di Jean-Claude Juncker prima della sua recente elezione a capo della Commissione Europea?». Eppure era persona ben conosciuta, premier dal 1995 al 2013, poi ministro delle finanze, e infine (dal 2005 al 2013) primo presidente dell’Eurogruppo. «Nessuno sapeva? La spiegazione – afferma Raffone – è che a livello dell’Unione Europea vige la regola dell’omertà, che si cristallizza nella relazione incestuosa tra le alte burocrazie nazionali e le tecnocrazie europee». Pletoriche e tardive le proteste di politici come Gianni Pittella o del belga Guy Verohstadt, del gruppo Alde. Juncker dovrebbe “fare chiarezza” al Parlamento Europeo? «È una farsa che avrebbero potuto risparmiarci. Più dignitosa è stata la difesa d’ufficio del capogruppo Ppe, il tedesco Manfred Weber, che reclama “l’imparzialità” di Juncker.», mentre «la voce più chiara è stata quella di Marine Le Pen, del Fn francese, che ha chiesto le dimissioni incondizionate di Juncker e della sua Commissione».Strada senza uscita, scrive Raffone: se Juncker cade, crolla tutto. Ma se resta al suo posto, la credibilità delle istituzioni europee «sarà indecentemente rovinata». Ipotesi: «Un aiuto a quella creazione del “caos” che a certa parte dell’establishment americano, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani, fa molto comodo per “disciplinare” gli europei nell’alleanza transatlantica?». Scandaloso non è solo il regime fiscale del Lussemburgo, ma anche il fatto che Juncker, come premier, abbia concluso oltre 340 accordi con multinazionali perché la loro tassazione fosse inesistente oppure dell’1%. E ancor più grave, aggiunge Raffone, è che questi accordi fossero segreti. «Le solite società di auditing hanno fatto il resto. La patetica difesa della Pwc ricorda quella della blasonata Arthur Andersen quando nel 2007 esplose il caso della Aig americana, che portò alla chiusura di quella “casa di contabili”. Perché Juncker lo ha permesso? E per conto di chi?». Niente di nuovo, comunque: «Per qualsiasi piccolo investitore che cercasse di “ottimizzare” la propria tassazione, era ben noto che in Lussemburgo si potesse “triangolare” con estrema facilità e compiacenza del governo per fare schemi di elusione fiscale trans-europei, coinvolgendo società di comodo in Belgio, Olanda, Polonia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, senza disdegnare la Svizzera e lo Stato americano del Delaware. Insomma, un gioco fai da te, disponibile anche su Internet».C’è da chiedersi perché la Germania abbia fatto la voce grossa con il principato del Liechtenstein – i famosi nomi trafugati dai servizi tedeschi – mentre sul “suo” Lussemburgo tace. Probabilmente, ipotizza Raffone, il Liechtenstein era uno specchietto per le allodole, mentre la “ciccia” era chiaramente nel Granducato. «Nella guerra finanziaria in corso tra il sistema angloamericano, che in Europa è rappresentato dalla City di Londra, e quello “Ost” rappresentato dalla Germania, per capirci tra Euroclear e Clearstream, questa volta i falchi anglosassoni hanno colpito l’Ue per punire la Germania». Quest’ultima è rea di pensare a un eventuale “Eurogruppo 2” e si è permessa di sfidare il Regno Unito, chiedendo che «decida subito cosa fare, se stare o meno nell’Ue». Detto fatto, reazione puntuale: «A farne le spese non sarà solo la Germania, ma tutti i paesi dell’Eurozona». Juncker? «E’ stato una pessima scelta anche per la Germania», che si è affidata a un politico iper-ricattabile da troppi poteri. Per esempio, gli americani: «Obama deve rabbonire i suoi falchi, ormai vincitori a casa sua. Quindi può avere una sola possibilità per farlo: la resa incondizionata e definitiva dell’Unione Europea all’egemone americano. Primo passo, la firma del Ttip prima del prossimo Consiglio Europeo di dicembre». Forse, conclude Raffone, Renzi e la Mogherini lo avevano intuito, e quindi sin da subito avevano dichiarato che «il Ttip non è solo un accordo commerciale, ma strategico, una scelta culturale».Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.
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Aggirare l’euro: moneta sovrana a titolo di credito fiscale
Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».Gli italiani, aggiungono i due analisti su “Micromega”, stanno scoprendo sulla loro pelle che, senza moneta sovrana, lo Stato non può fare nulla per uscire dalla crisi. Uno come Renzi può solo fingere di ribellarsi, ma poi deve sottostare a tutti i diktat dell’austerity varata dai governi Monti e Letta, in esecuzione dell’euro-politica imposta dalla “moneta straniera” governata da Berlino. Retorica a parte, Renzi è un allievo modello: le sue riforme strutturali sono esattamente quelle dettate dalla politica dell’euro imposta da Bruxelles: giù il costo del lavoro, tagli al welfare, privatizzazioni dei beni pubblici, riforme istituzionali, tagli alla spesa pubblica. Tutto questo, riconoscono Cattaneo e Grazzini, avviene perché gli Stati, in particolare quelli dell’Eurozona, non hanno più il controllo della moneta, avendo perso la loro sovranità nazionale: «Solo controllando la moneta si può mettere in moto la spesa pubblica», quella che garantisce i servizi vitali e la salute dell’economia. «Se invece sono le banche private a creare e a controllare il denaro, allora lo Stato diventa inesorabilmente servo delle banche e della loro moneta».Non c’è vera democrazia, riconoscono Cattaneo e Grazzini, senza gestione nazionale della moneta da parte dello Stato e senza il controllo della società civile: «Quando uno Stato per finanziarsi dipende dal sistema finanziario nazionale o, peggio, dai mercati finanziari internazionali perché non crea e non controlla la sua moneta, allora diventa uno Stato subordinato e sostanzialmente eterodiretto, uno Stato costretto a servire i suoi creditori», coi cittadini costretti a pagare le tasse «per ripagare il debito alla finanza», senza poter godere dei servizi pubblici cui avrebbero diritto. La nostra è un’aberrante anomalia a livello planetario: «Non c’è nessun Stato che conta nel mondo che non stampi la sua moneta e non abbia la sua banca centrale per proteggere e governare la moneta nazionale. I grandi Stati e gli Stati emergenti – come Usa, Giappone, Gran Bretagna, Cina, India, Russia, Brasile, Corea, Svizzera, Israele – si basano sulla loro moneta nazionale». Con l’euro, invece, la Germania «impedisce le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni di quelli forti», esasperando gli squilibri a favore dei paesi con la bilancia commerciale in attivo.Nonostante, ciò – come i contestatori di sinistra, da Landini a Syriza fino alla formazione spagnola “Podemos” – anche Bossone, Gallino e Sylos Labini rinunciano ad affrontare la prospettiva di uscita dall’euro, che ritengono irrealistica e rischiosa, e preferiscono proporre l’emissione dei Ccf, una “quasi moneta” nazionale, parallela all’euro, capace di «aumentare la capacità di spesa dell’economia senza però creare nuovo debito, rispettando cioè i parametri (rigidi e assurdi) imposti dalla moneta unica». Un provvedimento intermedio, «in attesa di poter riformare radicalmente il sistema monetario europeo». Per i tre tecnici, i Ccf dovrebbero essere emessi dallo Stato a costo zero e distribuiti gratuitamente all’economia reale, cioè ai lavoratori e alle aziende, senza passare dal sistema bancario, espressione dell’élite finanziaria che ha spodestato la politica. Siamo o non siamo nell’era della post-democrazia? Nel regno feudale dell’Ue – grazie all’euro – è l’oligarchia finanziaria a esercitare un potere assoluto, attraverso la Bce e la Commissione Europea, che trasformano l’Italia in una colonia da comprare a prezzi stracciati, cominciando dal lavoro sottopagato delle maestranze.In più, oggi la Bce boccia le banche italiane e assolve quelle del Nord Europa, che invece «operano con leve finanziarie elevatissime, pari anche a circa 30 volte il loro capitale, e che si dedicano più di quelle italiane al trading speculativo». Così, le nostre banche «dovranno ricapitalizzarsi ricorrendo ampiamente al capitale estero». Cadranno anch’esse in mani straniere, «dopo che gran parte del sistema industriale nazionale – Fiat, Pirelli, Telecom – è migrato o sta migrando all’estero». L’economia italiana? «Si sta smembrando, e le banche italiane sono prede importanti». Inoltre la Bce sta favorendo la creazione di banche “troppo grandi per fallire”, cioè «sta esattamente creando le condizioni per la prossima grande crisi finanziaria in Europa (e la probabile rottura dell’euro)». E’ infatti chiaro che, «senza un comune fondo pubblico europeo – sul quale il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha posto il veto – qualsiasi grande banca europea in difficoltà non potrebbe essere salvata, e crollerebbe trascinando in rovina l’intero sistema bancario e l’eurosistema», aggiungono Cattaneo e Grazzini.Tutto questo, per un motivo semplicissimo: gli Stati dell’Eurozona non hanno più alcun controllo democratico sulla moneta, che ha cessato – con l’euro – di essere uno strumento a disposizione della comunità nazionale. La creazione di moneta “dal nulla” oggi è infatti prerogativa del sistema bancario privato: «Nelle economie moderne, il 95% della moneta è creata dalle banche con scrittura elettronica sotto forma di creazione di depositi». Ormai «sono le banche a creare denaro dal nulla, creando prestiti, cioè generando debiti». Nel mondo si contano 100 triliardi di debiti, «una somma insostenibile che non potrà mai essere ripagata». La moneta “fiat” «è diventata un bene privato delle banche per il profitto delle banche stesse». Continuano Cattaneo e Grazzini: «Queste semplici verità, ben conosciute dagli economisti, sono tanto incontrovertibili e clamorose quanto poco note al largo pubblico». Il meccanismo lo spiega un recente report della Bank of England: «Ogni volta che una banca fa un prestito, simultaneamente crea un deposito nel conto della banca del debitore, e perciò crea moneta». Di fatto, la banca crea dal nulla i depositi, «mentre normalmente si pensa che riceva dei depositi legati al risparmio delle famiglie, e che solo successivamente faccia dei prestiti».Più si deregolamenta il mercato finanziario, più il mercato mostra i suoi limiti: l’offerta monetaria delle banche è pro-ciclica, abbondante in caso di crescita e scarsa non appena c’è aria di crisi. «Quando i primi debiti cessano di essere ripagati, quando si verificano i primi fallimenti, improvvisamente il rubinetto delle banche commerciali cessa di fare fluire la moneta nell’economia e arriva allora la crisi». Con la crisi arriva anche la deflazione: «I prezzi stagnano o calano mentre la merce rimane invenduta e la produzione si ferma», così «la disoccupazione impedisce la ripresa dei consumi e della domanda finale». L’attuale caso europeo di “trappola della liquidità” è esemplare: la Bce cerca di dare ossigeno monetario al sistema – con i limiti imposti dal governo tedesco – ma le banche trattengono la liquidità e non fanno prestiti, in particolare alle piccole e medie imprese. Le banche? «Sono cariche di sofferenze, a causa della crisi economica». Inoltre, «preferiscono investire nei titoli di Stato o nella finanza per ottenere remunerazioni elevate piuttosto che rischiare prestando soldi all’economia reale». E’ così che «la moneta non circola, la domanda manca, le aziende chiudono e l’economia langue o va in recessione».Di qui le proposte di ritorno alla sovranità monetaria: la moneta come bene comune, gestito a costo zero dallo Stato democratico, rappresentante legittimo della comunità nazionale. Le banche commerciali, separate da quelle d’affari, dovrebbero mantenere il 100% dei depositi della clientela presso la banca centrale e fungere da intermediari puri. Oggi, sotto il dominio dell’Eurozona, si tratta di obiettivi impossibili da realizzare, Così, in attesa di riforme radicali del sistema finanziario, secondo Bossone, Gallino e Sylos Labini ci sarebbe la strada dei certificati di credito fiscale per rilanciare la domanda e immettere nuova liquidità nel sistema, ridare ossigeno ai consumi e agli investimenti privati e pubblici tagliando le tasse senza però ridurre la spesa pubblica destinata ai servizi. La proposta: emissione gratuita dei Ccf a favore dei lavoratori (occupati, disoccupati e pensionati) e delle imprese. certificati «ad utilizzo differito, validi cioè a partire da due anni dopo l’emissione per pagare qualsiasi tipo di impegno finanziario verso la pubblica amministrazione: tasse, contributi, tariffe, multe».Secondo i proponenti, il governo italiano potrebbe emettere Ccf per 90-100 miliardi di euro il primo anno, da incrementare se necessario nei due anni successivi fino a un massimo di 200 miliardi annui, «almeno fino a quando non si verifichi una consistente ripresa della domanda e dell’occupazione». I Ccf sarebbero scambiabili sul mercato finanziario come qualsiasi altro titolo di Stato. Ed essendo appunto coperti da garanzia statale, «potrebbero essere utilizzati direttamente come mezzi di pagamento nel mercato interno». Risultato: «Aumenterebbero enormemente e immediatamente la capacità di spesa dei consumatori e delle aziende», che però è esattamente quello che gli oligarchi dell’Eurozona a guida tedesca non vogliono. Certo, la proposta sarebbe «compatibile con le regole e i vincoli posti dal sistema dell’euro», ma è difficile credere che Bruxelles, Berlino e Francoforte li accetterebbero, anche se la Bce ha il monopolio sull’emissione di moneta ma non sulla creazione di “quasi-moneta”, in questo caso nient’altro che sconti fiscali.A puro titolo di esempio, spiegano Bossone, Gallino e Sylos Labini, si supponga di assegnare gratuitamente, in tre anni, a partire dal 1° gennaio 2015, circa 70 miliardi di Ccf ai lavoratori, dipendenti e autonomi, in funzione inversa del loro livello di reddito, così da stimolare la spesa per il consumo, e di assegnare l’equivalente di 80 miliardi di euro ai datori di lavoro. «Quest’ultimo importo abbatterebbe del 18% circa il costo del lavoro, una percentuale equivalente alla differenza di competitività dell’economia italiana nei confronti della Germania. Si eviterebbe così che l’espansione della domanda interna produca squilibri nei saldi commerciali con l’estero: l’aumento delle importazioni sarebbe infatti bilanciato dalla crescita delle esportazioni derivato dalla diminuzione del costo del lavoro e dall’aumento conseguente di competitività». Altri 50 miliardi di Ccf, aggiungono i proponentim, dovrebbero essere utilizzati per finanziare investimenti pubblici, forme di reddito garantito, iniziative ambientali e infrastrutture, incentivi per giovani e donne. Ovvio, aumenterebbe l’occupazione e riprenderebbe a crescere il Pil. L’Italia uscirebbe dalla depressione. Ed è esattamente quello che l’élite tedesca teme.Non ci lasciano evadere dalla prigione dell’euro? E allora, aspettando che l’Eurozona crolli, si potrebbe creare moneta fiscale, stampandone 200 miliardi all’anno. E’ la tesi sostenuta da Biagio Bossone, Luciano Gallino e Stefano Sylos Labini: li chiamano Ccf, certificati di credito fiscale. Sarebbero emessi liberamente dall’Italia, a costo zero, per sostenere l’economia reale, famiglie e aziende. Un escamotage, per aggirare i vincoli feudali europei attraverso cui la Germania, tramite l’Ue e la Bce, impone la “sua” moneta al resto d’Europa, condannando i paesi come l’Italia: persi 11 punti percentuali di Pil, produzione industriale crollata del 25%. Per chi se ne fosse dimenticato, «l’euro è infatti una moneta straniera concepita e creata a somiglianza del marco tedesco, e quindi intrinsecamente deflazionistica», scrivono Marco Cattaneo ed Enrico Grazzini: «Senza moneta nazionale, siamo ingabbiati in una doppia trappola, quella della liquidità e quella del debito».