Archivio del Tag ‘Gran Bretagna’
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Münchau: buone notizie, questa orribile Ue sta per rompersi
Mentre entriamo nella seconda metà del secondo decennio di questo secolo, l’Unione Europea si sta spezzando lungo tre linee di faglia. Una divide il prospero Nord dall’indebitato Sud. La seconda divide una periferia euroscettica da un centro eurofilo. La terza divide un Ovest liberale da un Est sempre più autocratico. Questa è la scena della disintegrazione e della frattura dell’Ue. È difficile fare delle previsioni specifiche per il 2016. Ci sono certamente molti rischi noti: il referendum britannico sull’appartenenza all’Ue; il costante flusso dei profughi; l’ampliarsi degli squilibri economici; il tracollo della Grecia; il sistema bancario italiano sull’orlo dell’insolvenza e le incombenti tensioni tra la Germania e i paesi periferici sulla politica fiscale; la crescita del terrorismo jihadista; l’incertezza politica in Spagna e in Portogallo; la crisi in Ucraina, lungi dall’essere risolta; lo scandalo Volkswagen sulle emissioni, che è passato in secondo piano ma minaccia di sconquassare uno degli ultimi pilastri della forza industriale del continente.Con tutte queste crisi che si svolgono nello stesso momento, mi pare più utile guardare alla figura d’insieme – al rischio sistemico che non viene da una singola crisi in particolare, ma dal fatto di doverne affrontare così tante nello stesso momento. Se fate un passo indietro, vi accorgete che la molteplicità delle crisi non è poi così accidentale. Se create un’unione monetaria senza delle istituzioni economiche, delle politiche fiscali e dei sistemi giudiziari condivisi, alla fine siete condannati a schiantarvi contro un muro. Allo stesso modo, una zona dove le persone possono circolare liberamente senza passaporto, ma priva di un controllo condiviso delle frontiere esterne, non può durare a lungo. C’è uno schema comune sottostante a tutto questo. L’Ue ha una tendenza innata ai cattivi compromessi e alle costruzioni adatte solo al bel tempo. Nell’ultimo anno non è cambiato sostanzialmente niente, eccetto il fatto che il problema è diventato evidente a un maggior numero di persone.La rottura, quando verrà, potrebbe ancora scioccarci. Ma offre anche delle opportunità. Penso che la cosa peggiore che l’Ue possa fare sia quella di continuare a procedere nella stessa direzione in cui è andata finora. I grandi cambiamenti è più facile che siano forzati direttamente dagli elettori – tramite un referendum, come quello che presto si terrà nel Regno Unito – che dai politici e dai diplomatici. Il processo dell’Ue ha la tendenza ad evitare disconinuità improvvise. Le cose andranno in frantumi solo quando le pressioni provenienti dai singoli paesi saranno diventate troppo forti. C’è il rischio che ciò spinga verso una disintegrazione incontrollata. Ma c’è anche una buona possibilità che i leader politici europei siano abbastanza avveduti da muoversi in avanti con spirito costruttivo. L’eventuale scelta del Regno Unito di abbadonare l’Ue potrebbe, alla fine, portare ad una più ampia trasformazione dell’Ue stessa, con un gruppo di paesi più interni che perseguono una maggiore integrazione, e un gruppo di paesi più esterni, come il Regno Unito, che potrebbero trovarsi tranquillamente a proprio agio.Una rottura dell’Eurozona, che tuttora mi aspetto presto o tardi di vedere, offrirebbe anch’essa l’opportunità per un più ampio riaggiustamento. Una volta che vedete l’euro come un sistema di tassi di cambio fissi con una moneta condivisa, anziché come un’unione monetaria irreversibile, la nebbia mentale si dipana. Un tale sistema può funzionare solo tra un piccolo gruppi di paesi con economie fortemente convergenti. L’Austria e la Germania mantengono un tasso di cambio quasi fisso fin dagli anni ’70. Perché non potrebbero continuare a farlo per altri 50 anni? La Francia e la Germania hanno mantenuto un tasso di cambio essenzialmente stabile fin dagli anni ’80. Perché dovrebbero finire sui lati opposti di un sistema di tassi di cambio proprio adesso?L’argomento a favore di una maggiore integrazione economica e politica tra Germania e Francia rimane ancora forte – certamente molto più forte dell’argomento a favore di un’integrazione economica e politica in una Ue dove alcuni paesi sono parte dell’Eurozona, e altri non hanno nessuna intenzione di entrarci. Ma non c’è mai stata una base logica convincente nell’argomento secondo il quale un mercato unico avrebbe bisogno di una moneta unica. Piuttosto è vero l’inverso. I paesi con una moneta unica devono avere un’integrazione dei mercati molto più profonda dei paesi che mantengono la propria moneta. Se accettiamo che l’Ue sia un’unione che contiene diverse monete, e lo dobbiamo fare, dobbiamo anche accettare che essa non sia un unico mercato, ma un insieme di mercati.Al di là della frammentazione economica, per l’Europa c’è la divisione politica tra Est e Ovest. Ungheria e Polonia hanno eletto governi euroscettici di destra. Hanno entrambi ridotto l’indipendenza della magistratura e la libertà di stampa. Da tempo ritengo che l’allargamento dell’unione non sia stata una grande opportunità storica, come si dice di solito, ma invece un errore storico. L’allargamento ha solo aggiunto divisione all’interno dell’Europa, e ha reso l’Ue più disfunzionale. Vedo quindi frammentazioni e rotture non come delle minacce da evitare, ma come delle opportunità da cogliere. La mia previsione per il 2016 è che si vedranno ancora più rotture. La mia speranza è che siano gestite bene.(Walter Munchau, “Una rottura dell’Eurozona sarebbe un’opportunità da cogliere”, dal “Financial Times” del 3 gennaio 2016, tradotto da “Voci dall’estero”).Mentre entriamo nella seconda metà del secondo decennio di questo secolo, l’Unione Europea si sta spezzando lungo tre linee di faglia. Una divide il prospero Nord dall’indebitato Sud. La seconda divide una periferia euroscettica da un centro eurofilo. La terza divide un Ovest liberale da un Est sempre più autocratico. Questa è la scena della disintegrazione e della frattura dell’Ue. È difficile fare delle previsioni specifiche per il 2016. Ci sono certamente molti rischi noti: il referendum britannico sull’appartenenza all’Ue; il costante flusso dei profughi; l’ampliarsi degli squilibri economici; il tracollo della Grecia; il sistema bancario italiano sull’orlo dell’insolvenza e le incombenti tensioni tra la Germania e i paesi periferici sulla politica fiscale; la crescita del terrorismo jihadista; l’incertezza politica in Spagna e in Portogallo; la crisi in Ucraina, lungi dall’essere risolta; lo scandalo Volkswagen sulle emissioni, che è passato in secondo piano ma minaccia di sconquassare uno degli ultimi pilastri della forza industriale del continente.
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Craig Roberts: sono pazzi, vogliono una guerra atomica
Il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 ha dato vita ad una pericolosa ideologia statunitense chiamata neoconservatorismo. L’Unione Sovietica era servita fino ad allora come vincolo alle azioni unilaterali da parte degli Usa. Con la rimozione di questo vincolo su Washington, i neoconservatori hanno intrapreso il loro piano di egemonia statunitense sul mondo. Gli Usa erano improvvisamente diventati “l’unica superpotenza”, “l’unico potere”, che avrebbe potuto agire “senza limiti, ovunque nel mondo”. Il giornalista neoconservatore del “Wahington Post” Charles Krauthammer ha riassunto la “nuova realtà” come segue: «Abbiamo uno schiacciante potere a livello mondiale. Siamo i custodi designati dalla storia del sistema internazionale. Quando l’Unione Sovietica è caduta, è nato qualcosa di nuovo, qualcosa di totalmente nuovo – un mondo unipolare dominato da una sola superpotenza scevra dal controllo di rivali e con possibilità di raggiungere ogni angolo del globo. Questo è uno sconvolgente sviluppo nella storia, mai visto dai tempi della caduta di Roma. Persino Roma non può essere presa a modello di quello che rappresentano gli Usa oggi».L’incredibile potere unipolare che la storia ha dato a Washington deve essere protetto ad ogni costo. Nel 1992 uno dei massimi ufficiali del Pentagono, il sottosegretario Paul Wolfowitz, ha scritto la Dottrina Wolfowitz, la quale è diventata la base della politica estera degli Usa. La Dottrina Wolfowitz sentenzia che il “primo obiettivo” della politica estera e militare degli Stati Uniti è «prevenire il riemergere di un nuovo rivale, sia sul territorio dell’ex Unione Sovietica o da qualche altra parte, che possa creare minaccia [alle azioni unilaterali degli Stati Uniti] nell’ordine di quella creata precedentemente dall’Unione Sovietica. Questa considerazione è fondamentale per sottolineare la nuova strategia di difesa regionale e richiede uno sforzo atto a prevenire che qualsivoglia potenza ostile possa controllare una regione, le cui risorse potrebbero, se sfruttate a dovere, essere sufficienti a generare un potere globale». (Una “potenza ostile” è una nazione abbastanza forte da avere una politica estera indipendente dai dettami di Washington).La dichiarazione unilaterale del potere statunitense è iniziata seriamente durante l’amministrazione Clinton, con l’intervento in Yugoslavia, Serbia, Kosovo e la “no-fly zone” imposta sull’Iraq. Nel 1997 i neoconservatori hanno stilato il “Progetto per un nuovo secolo statunitense”. Nel 1998, tre anni prima dell’11 Settembre, i neocon hanno inviato una lettera al presidente Clinton chiedendo un cambio di regime in Iraq e «la rimozione di Saddam Hussein dal potere». I neoconservatori hanno preparato un programma per rimuovere sette governi in cinque anni. Gli eventi dell’11 Settembre 2001 sono considerati dalla gente informata come “la nuova Pearl Harbor”, che i neocon hanno definito come necessari per iniziare le loro guerre di conquista in Medio Oriente. Paul O’Neil, il primo segretario del Tesoro del presidente George W. Bush, ha dichiarato pubblicamente che il programma del primo meeting con il suo gabinetto riguardava l’invasione dell’Iraq. Questa invasione era stata pianificata prima dell’11 Settembre. Dall’11 Settembre Washington ha distrutto in toto o in parte 8 nazioni e ora si oppone alla Russia sia in Siria sia in Ucraina.La Russia non può permettere che un Califfato jihadista si stabilisca nell’area tra Siria e Iraq, perché sarebbe la base per esportare le destabilizzazioni nella parte musulmana della Federazione Russa. Henry Kissinger stesso lo ha detto ed è abbastanza chiaro ad ogni persona dotata di buon senso. Comunque i neocon, fanatici e impazziti per il potere, che hanno controllato le amministrazioni Clinton, Bush e ora controllano l’amministrazione Obama, sono così presi dalla loro stessa arroganza che per pungolare la Russa sono stati disposti a far abbattere un aereo russo da un loro burattino, la Turchia, e a rovesciare un governo eletto democraticamente in Ucraina, il quale era in buoni rapporti con la Russia, sostituendolo con un governo fantoccio, controllato dagli Usa. Con questo background, possiamo capire che la situazione pericolosa a cui si affaccia il mondo è il prodotto delle arroganti politiche dei neoconservatori di egemonia statunitense sul mondo. La mancanza di giudizio e i pericoli nei conflitti siriano e ucraino sono conseguenze stesse dell’ideologia neoconservatrice.Per perpetuare l’egemonia, i neocon hanno gettato al vento le garanzie che Washington aveva dato a Gorbachev che la Nato non si sarebbe spinta nemmeno di un centimetro verso est. Questi hanno fatto in modo che gli Usa si tirassero fuori dal Trattato anti-missili balistici (Abm), il quale specificava che né Usa né Russia avrebbero sviluppato o dispiegato missili anti-balistici. I neocon hanno riscritto la dottrina militare statunitense e innalzato le armi nucleari dal loro ruolo di minaccia a forza di attacco preventiva. Hanno iniziato a posizionare basi Abm ai confini russi, sostenendo che le basi servivano per difendere l’Europa da inesistenti missili balistici intercontinentali (Icbm) iraniani. La Russia e il suo presidente Putin sono stati demonizzati dai neocon e dai loro burattini del governo e dei media. Per esempio, Hillary Clinton, un candidato presidente del Partito Democratico, ha definito Putin “il nuovo Hitler”. Un ex ufficiale della Cia ha inneggiato all’omicidio di Putin. I candidati alle presidenziali di entrambi gli schieramenti litigano per chi sarebbe più aggressivo nei confronti della Russia e il più scurrile contro il presidente russo.L’effetto è stato la distruzione della fiducia tra potenze nucleari. Il governo russo ha imparato che Washington non rispetta le proprie stesse leggi, men che meno il diritto internazionale, e che non può essere considerata affidabile nel rispettare gli accordi. Questa mancanza di fiducia, unita alle aggressioni contro la Russia vomitate da Washington e dai media prostituiti, ripetuti a pappagallo nelle capitali europee, hanno preparato il terreno per una guerra nucleare. Dato che la Nato (di base gli Usa) non ha la possibilità di sconfiggere la Russia in una guerra convenzionale, ancor meno in caso di alleanza Russia-Cina, la guerra sarebbe nucleare. Per evitare la guerra, Putin evita le rappresaglie e mantiene un basso livello quando risponde alle provocazioni occidentali. Il comportamento responsabile di Putin, comunque, è mal interpretato dai neocon come segno di debolezza e paura. Questi suggeriscono al presidente Obama di mantenere la pressione sulla Russia, per farla arrendere. Putin, tuttavia, ha dichiarato chiaramente che non intende mollare.Il messaggio è stato mandato in più occasioni. Per esempio il 28 settembre 2015, al settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, Putin ha affermato che la Russia non può più tollerare la situazione a livello mondiale. Due giorni dopo Putin ha preso il comando della guerra contro l’Isis in Siria. I governi europei, specialmente Germania e Regno Unito, sono complici del declino verso una guerra nucleare. Questi due stati vassalli degli Usa spingono l’aggressione senza sosta da parte di Washington contro la Russia, ripetendone la propaganda e supportandone le sanzioni e gli interventi militari contro altri paesi. Fino a che l’Europa non sarà altro che un’appendice di Washington, la prospettiva dell’Apocalisse sarà sempre più concreta. A questo punto della storia una guerra nucleare può essere evitata solo in due modi. Uno è che Russia e Cina si arrendano ed accettino l’egemonia di Washington. L’altro è che un leader indipendente in Germania, Regno Unito o Francia decida di abbandonare la Nato. Ciò scatenerebbe un fuggi-fuggi dalla Nato, la quale è il primo mezzo che Washington possiede per creare conflitto con la Russia e, dunque, è la forza più pericolosa sulla faccia della Terra per qualsiasi nazione europea e per l’intero globo. Se la Nato continuerà ad esistere, questa e l’ideologia neoconservatrice di egemonia statunitense renderanno la guerra nucleare inevitabile.(Paul Craig Roberts, “Perché la Terza Guerra Mondiale si profila all’orizzonte”, da “Information Clearing House” del 29 dicembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Il collasso dell’Unione Sovietica nel 1991 ha dato vita ad una pericolosa ideologia statunitense chiamata neoconservatorismo. L’Unione Sovietica era servita fino ad allora come vincolo alle azioni unilaterali da parte degli Usa. Con la rimozione di questo vincolo su Washington, i neoconservatori hanno intrapreso il loro piano di egemonia statunitense sul mondo. Gli Usa erano improvvisamente diventati “l’unica superpotenza”, “l’unico potere”, che avrebbe potuto agire “senza limiti, ovunque nel mondo”. Il giornalista neoconservatore del “Wahington Post” Charles Krauthammer ha riassunto la “nuova realtà” come segue: «Abbiamo uno schiacciante potere a livello mondiale. Siamo i custodi designati dalla storia del sistema internazionale. Quando l’Unione Sovietica è caduta, è nato qualcosa di nuovo, qualcosa di totalmente nuovo – un mondo unipolare dominato da una sola superpotenza scevra dal controllo di rivali e con possibilità di raggiungere ogni angolo del globo. Questo è uno sconvolgente sviluppo nella storia, mai visto dai tempi della caduta di Roma. Persino Roma non può essere presa a modello di quello che rappresentano gli Usa oggi».
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Isis, Cia, Mossad e gli altri gangster al potere con Obama
Perché il mondo dovrebbe preoccuparsi della politica estera americana? La risposta è piuttosto semplice: se morirete mentre siete a casa vostra, se sarete fatti a pezzi insieme alla vostra famiglia, probabilmente sarà stata l’America ad uccidervi. Gli americani sono consapevoli di tutto questo. La maggioranza della popolazione non approva la folle politica estera americana, ma l’“opposizione” costituita dalla destra repubblicana non solo la sostiene, ma crede che Obama non stia ammazzando a sufficienza – e certamente non ovunque sia necessario. Il mondo, di conseguenza, è costretto a vivere e a morire all’ombra della politica di Washington, minacciato dalle spaventose politiche di Obama (che rappresenta, oltretutto, il punto di vista ‘moderato’) e da una dozzina di pazzi che, dietro le quinte, è in attesa sia degli eserciti promessi dagli americani in Africa e in Medio Oriente che dell’imposizione dell’egemonia statunitense in tutta l’Asia – oltre che dell’annientamento nucleare di tutti coloro che osassero disapprovare. E’ davvero questa la situazione? La risposta è un sonoro ‘sì’. E’ un pezzo di storia che si sta ripetendo.Le migliori informazioni che potete trovare là fuori, i dettagliati rapporti investigativi trapelati dal governo degli Stati Uniti, indicano tutti che le vicende del 9/11 furono una congiura internazionale e che, sì, l’Arabia Saudita era pienamente coinvolta. Nel maggio del 2014, quando i documenti prodotti dalla Russia furono pubblicati (peraltro solo da “Veterans Today”, dopo essere stati rifiutati dalla Cnn), nessuno prestò attenzione a quello che non voleva sentirsi dire. Quei documenti facevano riferimento non solo all’Arabia Saudita, ma anche ad una ‘cabala’ costituita da leader politici e finanziari americani, canadesi, israeliani e sudafricani – sostenuta dai gruppi-canaglia presenti nella Cia e nel Pentagono, ma anche dai servizi segreti sauditi e israeliani. In quei documenti non si parlava degli ‘Stati estremisti islamici’ (e nemmeno di Osama Bin Laden), ma si faceva il nome di alcuni personaggi riservati e potenti, come ad esempio ‘Bronfman’ o ‘Netanyahu’. Nessuno si nascondeva nelle caverne, non i veri colpevoli, gli stessi che oggi sostengono l’Isis. Questo gruppo terroristico proviene dalle sale di rappresentanza di Zurigo e Londra, non dai tunnel sotto Mosul.La ragione per cui ancora una volta torniamo su questa vicenda [9/11] è che ‘l’era di Bush’ potrebbe ripetersi. Suo fratello Jeb è uno dei capofila nelle elezioni presidenziali statunitensi. Anche Donald Trump potrebbe essere eletto e, insieme a lui, anche degli altri … ma lavorano tutti per la ‘Koch Brothers’ e per il losco padrone israeliano del gioco d’azzardo, Sheldon Adelson. Sono tutti alla ricerca di una nuova guerra mondiale. Hanno tutti questa cosa in comune, vogliono dichiarare guerra alla Russia. Vogliono che il mondo diventi uno Stato di polizia caratterizzato dalla sorveglianza universale ed auspicano (fatto che si capisce ancor meno) il collasso ambientale che, a sua volta, porterebbe inesorabilmente allo spopolamento del mondo. La ragione per cui sto citando gli eventi del 9/11 ed alcuni fatti largamente provati (l’esplosivo posto sulle ‘tre torri’, l’arresto in tutta New York di personaggi appartenenti al Mossad, il disturbo ed il blocco delle trasmissioni-radio, la ‘fuga’ dal paese delle persone ‘sospette’, i due aerei carichi di sauditi e israeliani etc.), è che quelle vicende si stanno ripetendo.Vengono raggruppate sotto il nome di ‘Isis’, ma si tratta della stessa ‘unione’ fra i servizi segreti israeliani e sauditi che abbiamo visto all’opera il 9/11 – che questa volta coinvolge anche Erdogan. Lavorando a stretto contatto con la Cia ed il Pentagono, ‘l’unione’ comanda le unità dell’Isis, le rifornisce di armi e paga il petrolio in contanti, nell’ambito di ‘quell’enorme commercio’ che è stato provato dalla Russia, ma di cui tutti sapevano da molto tempo. I protagonisti sono sempre gli stessi, che si parli di Isis, di Ucraina, di Boko Haram o di al-Shebab in Kenya e in Africa Orientale, di ‘guerra allargata’ in Afghanistan o di ‘guerra al terrore’ in Europa e negli Stati Uniti. E allora, cos’è che tutto questo ha a che fare con la politica americana e con Barak Obama? Sette anni fa il presidente americano, entrando sulla scena politica, si rivolse al mondo offrendo ai musulmani la ‘pace’ e agli americani una migliore ‘giustizia sociale’ ed una ‘nuova direzione’. In America, la sua politica interna ha portato a dei relativi successi economici – Obama ed il Partito Democratico hanno lottato per i diritti dei lavoratori, per la salute, per l’istruzione e, in generale, per un ritorno dei ‘diritti degli elettori’.Sotto la sua presidenza, tuttavia, gli omicidi commessi dalla polizia sono notevolmente aumentati (o hanno cominciato ad essere denunciati, dopo anni di silenzio. Non sappiamo quale delle due sia l’affermazione giusta), le ‘Primavere Arabe’ hanno portato centinaia di milioni di persone verso il disastro politico (un chiaro ‘disegno’ della Cia) ed infine una nuova ‘Guerra Fredda’, basata sull’ennesimo complotto fra Mossad e Cia, questa volta in Ucraina, incombe spaventosa su di noi. Quelle che sono delle cose un po’ da pazzi (o che almeno sembrano esserlo), sono le mosse che il presidente Obama sta facendo in direzione opposta: l’accordo nucleare con l’Iran e il recente accordo in Siria con la Russia, tanto per citarne due. E così, se da un lato Obama e Kerry sputano le bugie più goffe ed evidenti perseguendo delle palesi politiche genocide (in particolare verso Iran, Siria, Russia e Cina), dobbiamo prendere atto che, poco tempo dopo, si presentano al tavolo delle trattative con iniziative competenti e razionali! Questa è schizofrenia allo stato puro.Ad esempio, non c’è dubbio che la Russia sia stata letteralmente spinta a tracciare una linea di demarcazione in Siria, contro l’aggressione americana. Ma, qualunque cosa si possa dire al riguardo (in particolare sul fatto che Obama non sia riuscito a combattere l’Isis), coloro che sono maggiormente preoccupati per lo Stato Islamico sono gli stessi che hanno contribuito a fondarlo e che continuano a sostenerlo! Chiaramente, non stiamo parlando solo di Israele, Arabia Saudita e Turchia, ma anche della ‘destra’ degli Stati Uniti, di quelle stesse persone che hanno contribuito agli eventi del 9/11 per creare un clima di paura. Infine, come piccola ‘questione a parte’, poniamoci una semplice domanda: qual’é la differenza fra la Nsa (National Security Agency), che intercetta le comunicazioni mondiali, e la ‘Google Corporation’?. La risposta è molto semplice: nessuna. Il presidente Obama, in sette anni, non è riuscito a portare l’America al di fuori del ‘cono d’ombra’. Al contrario, ha spinto il mondo verso una nuova ‘Guerra Fredda’ e precipitato l’Europa in un periodo di follia politica, come non si vedeva dall’agosto del 1914.Ancora oggi sono gli stanchi protagonisti di allora ad esercitare il potere reale: i gangster politici americani, il ‘cartello’ McCain-Romney legato alla famiglia messicana dei Salinas, l’impero Adelson di Macao ed infine i Rothschild-Rockefeller che guidano il ‘Cartello della Federal Reserve’, che a sua volta controlla le valute mondiali e le banche. Questo è ciò a cui oggi stiamo assistendo. Un’America governata dai criminali e dagli scamster [coloro che ingannano gli altri per prendere i loro soldi, ma non solo], dagli interessi dell’industria del petrolio, della difesa, delle assicurazioni, dell’energia nucleare e del carbone, dei cartelli della droga e di alcune potenti famiglie, come quella del gruppo Walton-Walmart. E dietro a tutto questo non c’è l’America in quanto tale, ma un ‘fronte’ sottile che vuol porre la potenza militare [americana] nelle mani della criminalità organizzata globale, più in senso ‘millenario’ che ‘multi-generazionale’.(Gordon Duff, “Il mondo sopravviverà all’ultimo anno di Obama?”, intervento pubblicato da “Neo”, New Eastern Outlook, e “Veterans Today” il 27 dicembre 2015, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Perché il mondo dovrebbe preoccuparsi della politica estera americana? La risposta è piuttosto semplice: se morirete mentre siete a casa vostra, se sarete fatti a pezzi insieme alla vostra famiglia, probabilmente sarà stata l’America ad uccidervi. Gli americani sono consapevoli di tutto questo. La maggioranza della popolazione non approva la folle politica estera americana, ma l’“opposizione” costituita dalla destra repubblicana non solo la sostiene, ma crede che Obama non stia ammazzando a sufficienza – e certamente non ovunque sia necessario. Il mondo, di conseguenza, è costretto a vivere e a morire all’ombra della politica di Washington, minacciato dalle spaventose politiche di Obama (che rappresenta, oltretutto, il punto di vista ‘moderato’) e da una dozzina di pazzi che, dietro le quinte, è in attesa sia degli eserciti promessi dagli americani in Africa e in Medio Oriente che dell’imposizione dell’egemonia statunitense in tutta l’Asia – oltre che dell’annientamento nucleare di tutti coloro che osassero disapprovare. E’ davvero questa la situazione? La risposta è un sonoro ‘sì’. E’ un pezzo di storia che si sta ripetendo.
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Anonymous contro l’Isis (e King Kong contro Godzilla)
“Isis, annuncio video di Anonymous: l’attentato sventato era a Firenze”. Impareggiabile, il “Corriere della Sera”. Un esempio di giornalismo autentico, un modello per tutti quelli del mestiere. Non solo crede all’esistenza di qualcosa che si fa chiamare Anonymous, ma lo adotta seriamente come fonte d’informazione. Ne riporta infatti un comunicato, come fosse vero: «Il 25 dicembre 2015 abbiamo ricevuto una segnalazione relativa ad un profilo Twitter collegato ai vertici dell’Isis dove era in corso una prima comunicazione su un possibile obiettivo italiano, già stabilito e apparentemente pronto per essere colpito. Quel breve messaggio, in quel momento, indicava che Firenze sarebbe stato un obiettivo entro capodanno», dice Anonymous, aggiungendo di «essersi subito attivato per tentare di sventare questo attacco che, comunque, risultato reale o falso, non può essere sottovalutato tenendo conto dei soggetti che ne stavano parlando». Poi la spiegazione di come il gruppo di hacker si sarebbe mosso: «Abbiamo inscenato una “talpa” all’interno dello Stato Islamico sfruttando lo stesso account accreditato e facendo credere che qualche fratello infedele ad Allah avrebbe comunicato agli italiani il “giorno del giudizio di Dio”, così impedendo che questo attacco venisse attuato».Respiriamo di sollievo, Firenze è salva. La minaccia era concretissima, “tenendo conto dei soggetti che ne stavano parlando”. Sulla identità di questi “soggetti”, Anonymous resta sulle sue, e il grande giornalismo del grande giornale italiano non ha la minima curiosità. Sarebbe un’indiscrezione pretendere nomi e cognomi, una mancanza di rispetto: la parola di Anonymous, al “Corriere”, basta. Benché anche Anonymus, a voler sottilizzare, mica sia noto con nomi e cognomi. Non si sa cosa sia, per chi lavori e perché. Ma non sarebbe da giornalisti, poniamo, sospettare che Anonymous non sia altro che un qualche apparato di propaganda, allarmismo e disinformazione – magari emanato dalle stesse centrali che hanno armato, finanziato e addestrato l’Isis o, magari, da una qualunque Rita Katz. No, questi sospetti non sono degni del grande giornalismo del “Corriere”. Li lascia ai complottisti di mezza tacca, perché gli basta la nobile battaglia che Anonymous ha sferrato contro Daesh.Lotta che è lo stesso Anonymous a documentare, e che il “Corriere” riporta come oro colato: «Attacco globale di Anonymous a Isis – A livello globale, l’operazione anti-Isis ha portato, sino ad oggi, all’oscuramento di 15.500 obiettivi, tra account sui social network e siti web legati direttamente alle operazioni o alla propaganda dell’Isis. Ma altri 4.000 account sono nati nelle ore successive: “Il nostro scopo è rallentarli”, sottolinea Anonymous». Sottolinea Anonymous. Sostiene Pereira. La polizia italiana non conferma… Del resto, il vero giornalismo di questi tempi non si stupisce di tanta vaghezza della fonte: Anonymous è vago e sfuggente perché combatte un nemico ancor più vago e sfuggente: l’Isis. No, non l’Isis che ripiega sotto i bombardamenti russi in Siria, e i cui capi a Ramadi vengono evacuati dagli elicotteri Usa. L’Isis che fa chiudere due stazioni ferroviarie a Monaco di Baviera, per un allarme terrorismo che poi è passato; che ha fatto cancellare tutti i festeggiamenti di Capodanno a Bruxelles e a Parigi.Eccome no: a Liegi e nel Brabante la polizia belga ha fatto degli arresti, «pianificavano attentati»; anche se (si rincrescono i media) «non sono stati rinvenuti armi o esplosivi durante le perquisizioni, ma materiale informatico, uniformi di tipo militare e materiale di propaganda dello Stato Islamico sono stati sequestrati e vengono attualmente esaminati». E a Vienna? «500 poliziotti hanno vigilato nel centro storico. A Berlino 900 agenti e 600 vigilantes “a guardia” dello show alla Porta di Brandeburgo»: l’Isis può colpire dovunque. «Negli Stati Uniti l’Fbi ha informato il presidente Barack Obama del rischio di attentati a New York, Washington e Los Angeles durante il veglione di Capodanno». L’Isis ha come campo il mondo. E non solo domina lo spazio, ma può viaggiare nel tempo, all’indietro. A Londra (leggo dai giornali) «cinque estremisti islamici legati ad Al-Qaeda sono stati condannati ieri all’ergastolo per aver organizzato, tra il gennaio 2003 e il marzo 2004, una serie di assalti (fortunatamente sventati) contro un centro commerciale nel Kent, il popolare night club londinese Ministry of Sound e alcune linee elettriche e del gas». Fortunatamente sventati.Ma l’Isis era già lì nel 2003, si chiamava Al-Qaeda, e aveva già la stessa ampiezza globale di azione, già la Terra intera era il suo campo di battaglia. Ha colpito a Londra, a Madrid, a New York, a Bali, a Giacarta, in Somalia… sempre imprendibile ed onnipresente. Adesso è l’Isis. E non avete ancora visto niente: «Per il 2016, l’Isis annuncia decine di migliaia di morti in decine di paesi; attiverà decine di cellule dormienti in vista della battaglia finale»: chi lo dice? Non l’Isis in persona; lo ha rivelato il dottor Theodore Karasik, un ebreo americano che lavora per la tv del Golfo “Al Arabyia” come “analista di geopolitica”, ed «ha molto studiato il comportamento dello Stato Islamico»: quasi quanto Anonymous, se non di più. Cosa aspetta il “Corriere” ad intervistarlo? Anzi, a farne un collaboratore pagato e fisso?Meglio riportare i comunicati di Anonymous che queste notizie dell’Interpol: che uno dei fucili M29 utilizzati da jihadisti massacratori di Parigi proveniva da una ditta situata in Florida, e facente capo a un Ori Zoller, indicato come «un ex membro delle forze speciali israeliane», già noto alle cronache nere per avere, con un mercante di diamanti ebreo di nome Shimon Yelinek, «trafficato in diamanti con Al-Qaeda» (ohibò) nel 2003, nel quadro di una fornitura di armi in Nicaragua: armi contro diamanti. Un classico, documentato da un rapporto della Organizzazione degli Stati Americani (Osa). Nel rapporto, Zoller è citato anche come rappresentante in Guatemala della Israel Military Industries, una compagnia controllata dal governo israeliano. Vero è che l’ex agente del Mossad adesso ha cambiato genere: vende “cyber sorveglianza” ai governi. Un’attività non lontana da quella di Anonymous?Non siamo in grado di rispondere alla domanda. Siamo invece in grado di sapere chi ha scoperto e diffuso il messaggio di Al Baghdadi, il Califfo, un audio di 24 minuti in cui il Califfo minacciava Roma e il Papa, il 26. Il messaggio è stato scoperto ed autenticato dal “Site”, come ha reso noto “Le Monde”. Senza dire che cosa è il “Site” chi è la sua fondatrice, Rita Katz. Certe volte a scavare troppo si scopre che i jihadisti di Parigi sono armati da ebrei, e che erano già noti e stranoti ai servizi di Parigi stessi. E’ meglio invece fare da grancassa all’allarmismo pubblico voluto dai governi: abbiate paura, l’Isis vi sta sul collo! Vi può colpire ovunque! Per fortuna Anonymous sventa gli attentati, la polizia vi protegge, l’esercito fa la guardia, Hollande emana leggi speciali. Vi siete chiesti perché questo megafono? Questo allarmismo pubblico?Se l’è chiesto il filosofo Giorgio Agamben, che intervistato in Francia ha detto: «Il rischio è la deriva verso la creazione di una relazione sistemica verso il terrorismo e lo Stato di emergenza: se lo Stato ha bisogno della paura per legittimarsi, bisogna allora, al limite, produrre il terrore, o almeno non impedire che si produca. Si vedono così paesi perseguire una politica estera che alimenta il terrorismo che bisogna combattere all’interno». Ma naturalmente tutte queste sono speculazioni. Che non interessano al “Corriere”. Perché questa scuola suprema di giornalismo si occupa solo della realtà concreta: Anonymous ha sventato l’ attentato dell’Isis a Firenze. Mattarella, la disoccupazione è causata dall’evasione fiscale. Maciste abbatterà a mani nude il Riscaldamento Globale. Il Pentagono ha comunicato di aver ucciso Charaffe al Moudan, noto pianificatore degli attentati di Parigi, a colpi di missili in Siria. Godzilla s’è risvegliato, ma per fortuna King Kong lo combatte. Quindi l’immancabile vittoria ci appartiene.(Maurizio Blondet, “Anonymous contro Isis, e Godzilla contro King Kong”, dal blog di Blondet del 2 gennaio 2016).“Isis, annuncio video di Anonymous: l’attentato sventato era a Firenze”. Impareggiabile, il “Corriere della Sera”. Un esempio di giornalismo autentico, un modello per tutti quelli del mestiere. Non solo crede all’esistenza di qualcosa che si fa chiamare Anonymous, ma lo adotta seriamente come fonte d’informazione. Ne riporta infatti un comunicato, come fosse vero: «Il 25 dicembre 2015 abbiamo ricevuto una segnalazione relativa ad un profilo Twitter collegato ai vertici dell’Isis dove era in corso una prima comunicazione su un possibile obiettivo italiano, già stabilito e apparentemente pronto per essere colpito. Quel breve messaggio, in quel momento, indicava che Firenze sarebbe stato un obiettivo entro capodanno», dice Anonymous, aggiungendo di «essersi subito attivato per tentare di sventare questo attacco che, comunque, risultato reale o falso, non può essere sottovalutato tenendo conto dei soggetti che ne stavano parlando». Poi la spiegazione di come il gruppo di hacker si sarebbe mosso: «Abbiamo inscenato una “talpa” all’interno dello Stato Islamico sfruttando lo stesso account accreditato e facendo credere che qualche fratello infedele ad Allah avrebbe comunicato agli italiani il “giorno del giudizio di Dio”, così impedendo che questo attacco venisse attuato».
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Craig Roberts: gangster Nato e Isis, tutti uniti contro Putin
Una delle lezioni della storia militare è che, una volta che la mobilitazione bellica abbia avuto inizio, essa assume una dinamica propria e incontrollabile. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, non riconosciuto. Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la sua guerra contro l’Isis. La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’Isis e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’Isis trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale gangster che governa la Turchia stessa.Washington è stata colta di sorpresa dalla fermezza della Russia. Temendo che il rapido successo di tale decisiva azione russa avrebbe scoraggiato i vassalli Nato di Washington dal continuare a sostenere la sua guerra contro Assad e dall’usare il suo governo fantoccio a Kiev per tenere sotto pressione la Russia, Washington ha organizzato con la Turchia l’abbattimento di un cacciabombardiere russo, nonostante l’accordo tra Russia e Nato che non ci sarebbero stati scontri aria-aria nella zona delle operazioni aeree russe in Siria.Anche se nega ogni responsabilità, Washington ha usato la bassa intensità della risposta russa all’attacco, per il quale la Turchia non si è scusata, per rassicurare l’Europa che la Russia è una tigre di carta. Le “presstitute” occidentali hanno strombazzato: la Russia è una tigre di carta.La bassa intensità nella risposta del governo russo alla provocazione è stata usata da Washington per rassicurare l’Europa che non vi è alcun rischio nel continuare la pressione sulla Russia in Medio Oriente, Ucraina, Georgia, Montenegro e altrove. L’attacco di Washington ai soldati di Assad viene utilizzato per rafforzare la convinzione che si sta inculcato nei governi europei che il comportamento responsabile della Russia per evitare la guerra è invece un segno di paura e di debolezza. Non è chiaro fino a che punto i governi russo e cinese capiscano che le loro politiche indipendenti, ribadite dai presidenti di Russia e Cina il 28 settembre, siano considerate da Washington come “minacce esistenziali” per l’egemonia statunitense. La base della politica estera degli Stati Uniti è l’impegno ad evitare il sorgere di poteri in grado di condizionare l’azione unilaterale di Washington. La capacità di Russia e Cina di fare proprio questo li rende entrambi un obbiettivo.Washington non si oppone al terrorismo. Ha creato appositamente il terrorismo per molti anni. Il terrorismo è un’arma che Washington intende utilizzare per destabilizzare la Russia e la Cina esportandolo alle popolazioni musulmane in Russia e Cina. Washington sta usando la Siria, come una volta l’Ucraina, per dimostrare l’impotenza della Russia all’Europa – e anche alla Cina, essendo una Russia impotente un alleato meno attraente per la Cina. Per la Russia, la risposta responsabile alle provocazioni è diventata una forma di passività, perché incoraggia ulteriori provocazioni. In altre parole, Washington e la sprovvedutezza dei suoi vassalli europei hanno messo l’umanità in una situazione molto pericolosa, in quanto le uniche scelte rimaste a Russia e Cina sono quelle di accettare il vassallaggio americano o di prepararsi per la guerra.Putin deve essere rispettato per aver riservato più valore alla vita umana di quanto non facciano Washington e i suoi vassalli europei, e per aver evitato risposte militari alle provocazioni. Tuttavia, la Russia deve fare qualcosa per rendere i paesi della Nato consapevoli che ci sono gravi costi nel loro essere così accomodanti verso l’aggressione di Washington contro la Russia. Ad esempio, il governo russo potrebbe decidere che non ha senso vendere energia ai paesi europei che si trovano in uno stato di guerra di fatto contro la Russia. Con l’inverno alle porte, il governo russo potrebbe annunciare che la Russia non vende energia ai paesi membri della Nato. La Russia avrebbe perso i suoi soldi, ma è più conveniente che perdere la propria sovranità o una guerra. Per porre fine al conflitto in Ucraina, o per aumentarne l’intensità oltre la volontà dell’Europa a parteciparvi, la Russia potrebbe accettare le richieste delle province separatiste di ricongiungersi con la Russia. Per Kiev, continuare il conflitto significherebbe che l’Ucraina dovrebbe attaccare la stessa Russia.Il governo russo ha fatto affidamento su risposte responsabili e non provocatorie. La Russia ha adottato un approccio diplomatico, confidando su governi europei realisti, capaci di rendersi conto che i loro interessi nazionali divergono da quelli di Washington e in grado di cessare di consentire la politica egemonica di Washington. La politica della Russia non ha avuto successo. Le risposte responsabili della Russia sono state utilizzate da Washington per dipingere la Russia come una tigre di carta che nessuno deve temere. Ci ritroviamo con il paradosso che la determinazione della Russia ad evitare la guerra ci sta portando direttamente in guerra. Che i media russi, il popolo russo e la totalità del governo russo lo capiscano o meno, questo deve essere evidente per i militari russi. Tutto ciò che i capi militari russi devono fare è guardare la composizione delle forze inviate dalla Nato per “combattere l’Isis”.Come fa notare George Abert, gli aerei americani, francesi e britannici che sono stati dispiegati sono aerei da combattimento il cui scopo è il combattimento aereo, non l’attacco al suolo. I caccia non sono stati dispiegati per attaccare l’Isis a terra, ma per minacciare i cacciabombardieri russi che stanno attaccando i bersagli dell’Isis al suolo. Non vi è dubbio che Washington stia spingendo il mondo verso l’Armageddon e l’Europa ne sia l’attivatore. I pupazzi “acquistati-e-pagati-come-marionette” di Washington in Germania, Francia e Regno Unito sono stupidi, indifferenti o impotenti a sfuggire alla morsa di Washington. A meno che la Russia non svegli l’Europa, la guerra è inevitabile. I guerrafondai neocon totalmente malvagi e stronzi hanno insegnato a Putin che la guerra è inevitabile? Guardate questo video, in cui Putin dice: «Cinquant’anni fa anni fa le strade di Leningrado mi hanno insegnato una lezione: se la lotta è inevitabile, colpisci per primo!».(Paul Craig Roberts, “La guerra è all’orizzonte: è troppo tardi per fermarla?”, intervento pubblicato sul blog di Craig Roberts, tradotto da “Spondasud” e ripreso da “Megachip” il 14 dicembre 2015. Eminente economista e analista geopolitico, Craig Roberts è stato membro del governo di Ronald Reagan).Una delle lezioni della storia militare è che, una volta che la mobilitazione bellica abbia avuto inizio, essa assume una dinamica propria e incontrollabile. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, non riconosciuto. Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la sua guerra contro l’Isis. La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’Isis e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’Isis trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale gangster che governa la Turchia stessa.
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Le Pen ha perso. La cattiva notizia? Hanno vinto gli altri
«C’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che ha perso la Le Pen, quella cattiva è che hanno vinto gli altri». Secondo Aldo Giannuli, «siamo stretti fra un presente insopportabile e un’alternativa peggiore». Se il Front National non può essere definito “fascistoide”, come Alba Dorata e l’ungherese Jobbik, sul partito di Marine Le Pen – uscito sconfitto ai ballottaggi per le amministrative (nonostante gli 800.000 voti in più rispetto al primo turno) grazie all’alleanza tra Hollande e Sarkozy – pesano «il più frusto e gretto nazionalismo, la critica superficiale dei poteri finanziari che lascia intatto l’assetto capitalistico della società, il richiamo ad una tradizione più immaginaria che reale, dietro cui si nasconde una anti-modernità reazionaria». E poi «la becera xenofobia, il populismo greve che si contrappone ad ogni dimensione culturale, la richiesta ottusa della pena di morte». Ma la cattiva notizia, aggiunge Giannuli, «è che vincano quelli di sempre, le forze di sistema».Certo, i socialisti ne escono massacrati con la certificazione della loro irrilevanza politica, anche se il loro capo resta all’Eliseo. «Ma risorge la stella di Sarkozy: sai che acquisto!». Come è accaduto all’Ukip, a Podemos ed al M5S, forze diversissime fra loro ma accomunate dalla collocazione antisistema, il Fn è stato fermato quando sembrava stesse per spiccare il grande balzo, scrive Giannuli sul suo blog. «Personalmente penso che Ukip, Afd e Fn siano alternative peggiori all’esistente, mentre Podemos e M5S, al contrario, siano preferibili». In Grecia si è affermata Syriza – sappiamo a quale prezzo – e la coalizione di Tsipras è più simile alla Linke tedesca, con cui condivide l’appartenenza alla Sinistra Europea, piuttosto che a Podemos, nuovissima forza emersa come risposta alla crisi. Anche il voto francese dimostra che le forze più nuove e dichiaratamente antisistema «non riescono a sfondare, pur ottenendo risultati vistosi», anche per via del blocco delle “famiglie” politiche tradizionali (socialdemocratici, democristiani, liberali e Verdi), tutti pronti a far quadrato contro i “barbari”.In questo comportamento dell’elettorato, continua Giannuli, è evidente la paura del “salto nel buio”: «Ad esempio, l’uscita dall’euro è vista come una avventura pericolosissima che mette a rischio risparmi e redditi da lavoro, e la risposta delle forze antisistema (a parte Podemos che non mette in discussione l’euro o l’appartenenza alla Ue) non è apparsa tranquillizzante, perché non è stata prospettata alcuna credibile exit strategy che, quantomeno, attutisca l’eventuale urto». Più in generale, «queste forze sono apparse credibili più come espressione della protesta sociale che come possibile forza di governo: proposte troppo semplicistiche e al limite del miracolismo, personale politico non adeguato al ruolo, apparato organizzativo insufficiente». Per non parlare del silenzio assoluto sulla politica estera. In più, «i partiti antisistema rifiutano ogni alleanza come dimostrazione della loro “diversità”, una forma di integralismo im-politico più ancora che anti-politico».Eppure, un blocco elettorale vincente «non è una sommatoria di voti di anonimi cittadini, ma l’aggregazione di un blocco sociale, in grado di coprire uno spettro di interessi abbastanza stratificato». Neppure la Dc, partito “pigliatutto” per eccellenza, ce la faceva da sola: aveva bisogno dei partiti “laici”. «Può sembrare un paradosso che i partiti che si ergono contro il sistema, in nome degli interessi del popolo, poi non capiscano la dialettica delle forze sociali», aggiunge Giannuli. «Ma è appunto il loro essere populisti che li porta a concepire il popolo come una unità omogenea, priva di interessi differenziati e non attraversata da una dialettica interna». Insomma, «la protesta è giusta ma non basta». Per il salto – dalla protesta alla proposta – occorre «munirsi di una cultura politica di riferimento, superare le rozzezze attuali e darsi una struttura organizzativa adeguata: la tastiera di un computer non è sufficiente ad assicurare tutto questo».«C’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che ha perso la Le Pen, quella cattiva è che hanno vinto gli altri». Secondo Aldo Giannuli, «siamo stretti fra un presente insopportabile e un’alternativa peggiore». Se il Front National non può essere definito “fascistoide”, come Alba Dorata e l’ungherese Jobbik, sul partito di Marine Le Pen – uscito sconfitto ai ballottaggi per le amministrative (nonostante gli 800.000 voti in più rispetto al primo turno) grazie all’alleanza tra Hollande e Sarkozy – pesano «il più frusto e gretto nazionalismo, la critica superficiale dei poteri finanziari che lascia intatto l’assetto capitalistico della società, il richiamo ad una tradizione più immaginaria che reale, dietro cui si nasconde una anti-modernità reazionaria». E poi «la becera xenofobia, il populismo greve che si contrappone ad ogni dimensione culturale, la richiesta ottusa della pena di morte». Ma la cattiva notizia, aggiunge Giannuli, «è che vincano quelli di sempre, le forze di sistema».
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Tutti in guerra, contro l’Isis (anzi, no: contro la Russia)
Fingono, ancora una volta, di contrastare l’Isis. Ma l’unico vero obiettivo da colpire è la Russia. Per questo, il gioco si sta facendo pericoloso. Ne è convinto Maurizio Blondet, secondo cui l’improvviso attivismo militare occidentale in Siria ha il solo scopo di proteggere “Daesh” e i suoi sponsor, cominciando dalla Turchia, e ostacolare l’offensiva di Mosca che ha costretto in ritirata le truppe del Califfo. Di fatto, stiamo andando «alla guerra a passi da gigante», ma si tratta di un «gigante demente», che dopo l’atto di pirateria di Ankara – l’abbattimento del Sukhoi russo – ha deciso di schierare batterie di Patriot al confine tra Turchia e Siria, «come voleva Erdogan (e non aveva finora ottenuto)». Peggio: la Nato vuole inglobare «il microscopico Montenegro (630 mila abitanti)» e lo coinvolge in esercitazioni militari in Ucraina col regime di Kiev, a cui ha già fornito armi letali. Dal canto loro, gli ucraini si offrono di “aiutare la Turchia” con invio di «mais, girasole e petrolio», mentre la Francia si eclissa dietro gli Usa e si prepara a schierarsi con Germania e Gran Bretagna, pronte a effettuare, in Siria, bombardamenti non concertati con Mosca (contro cui Bruxelles, intanto, decide di protrarre le sanzioni).«Cameron – scrive Blondet – ha ottenuto dal suo parlamento il via a “bombardare le basi Isis” in Siria e lo fa senza coordinarsi con i russi. In pratica, un atto di ostilità». E la Ue ha deciso («a porte chiuse, senza consultare i parlamenti per volontà di Angela Merkel»), di prolungare le sanzioni contro Mosca. «Che cosa precisamente la Ue rimproveri alla Russia, non si sa più». Una cosa è evidente: «E’ la Nato a determinare totalmente la politica estera della Ue», commenta “Deutsche Wirtschaft Nachrichten”. Berlino s’impegna per la prima volta a mandare i suoi Tornado a bombardare la Siria, «ormai chiaramente una operazione occidentale per ostacolare la vittoria russa contro l’Isis», anche se dei 93 Tornado che aveva in origine acquistato ne restano operativi solo 29, «aerei vecchi anche di 34 anni, considerati obsoleti». Dei 68 Eurofighter più moderni, continua Blondet, ne restano operativi appena 37. «Però anche Berlino ha annunciato che bombarderà “senza coordinarsi con la Russia”». Conclusione: «La miserabile debolezza con cui gli europei si prestano a queste dementi provocazioni anti-Putin è dimostrata dal fatto che da quando Mosca ha posizionato gli S-400 per contrastare gli aerei turchi, la francese Charles De Gaulle ha smesso di “bombardare l’Isis”».Sono trascorsi almeno otto o nove giorni senza incursioni sulla Siria: senza il permesso di Assad, lo stesso Hollande (che aveva promesso una “risposta spietata” dopo gli attentati di Parigi) non osa rischiare la sua unica portaerei, scrive Blondet. «Per giorni, anzi, la Charles De Gaulle è stata introvabile. Poi si è scoperto che aveva lasciato il Mediterraneo orientale per “rifugiarsi dietro i Patriots Usa in Turchia”». Così Erdogan, «a cui non par vero di trovare ogni giorno più membri della Nato coinvolti nella sua sporca guerra», ha subito consentito ai caccia francesi di andare a “bombardare l’Isis” (e cioè intralciare i russi) dalla base turca di Incirlik. «Insomma tutto l’Occidente, in perfetta malafede, è schierato a dar ragione ad Erdogan e a sostenere di fatto Daesh che cede sotto i colpi russi». Secondo Blondet, il numero delle provocazioni è ormai troppo elevato, per non vedere una volontà precisa. In più, «emerge che quando gli F-16 turchi abbatterono il Sukhoi, erano appoggiati da F-16 americani come deterrente per una rappresaglia russa». Se è vero, «significa che Obama non ha alcuno scrupolo a cominciare un conflitto diretto con Mosca», ha commentato Michael Jabara Carley, docente di politica internazionale alll’Università di Montreal.L’ultima provocazione, per il momento, è forse la più inquietante: «Due sommergibili turchi (Dolunay e Burakreis), scortati dall’incrociatore americano Uss Carney che porta missili balistici Aegis, stanno tallonando la nave da guerra Moskva, armata di missili S-300, al largo di Cipro, in acque internazionali». La cosa è allarmante, sostiene Blondet, perché può essere il preludio alla ritorsione più temuta da Mosca fin dai tempi degli Zar: che la Turchia chiuda alla navigazione russa il Bosforo e i Dardanelli. Il premier turco Davutoglu ha minacciato: «Anche la Russia ha da molto da perdere», da eventuali contro-sanzioni. Se Erdogan chiudesse gli stretti, violerebbe la convenzione internazionale di Montreux, sulla libertà di navigazione, che risale al 1936. In quale sede potrebbe protestare, Mosca? L’Onu? L’Europa? La chiusura degli Stretti renderebbe arduo l’impegno militare russo in Siria. Una trappola pericolosa, secondo Blondet: ricorda le sanzioni con cui Roosevelt lasciò il Giappone con riserve di petrolio per soli 8 mesi, spingendolo in guerra: «E fu l’attesa, auspicata, desideratissima Pearl Harbor».Fingono, ancora una volta, di contrastare l’Isis. Ma l’unico vero obiettivo da colpire è la Russia. Per questo, il gioco si sta facendo pericoloso. Ne è convinto Maurizio Blondet, secondo cui l’improvviso attivismo militare occidentale in Siria ha il solo scopo di proteggere “Daesh” e i suoi sponsor, cominciando dalla Turchia, e ostacolare l’offensiva di Mosca che ha costretto in ritirata le truppe del Califfo. Di fatto, stiamo andando «alla guerra a passi da gigante», ma si tratta di un «gigante demente», che dopo l’atto di pirateria di Ankara – l’abbattimento del Sukhoi russo – ha deciso di schierare batterie di Patriot al confine tra Turchia e Siria, «come voleva Erdogan (e non aveva finora ottenuto)». Peggio: la Nato vuole inglobare «il microscopico Montenegro (630 mila abitanti)» e lo coinvolge in esercitazioni militari in Ucraina col regime di Kiev, a cui ha già fornito armi letali. Dal canto loro, gli ucraini si offrono di “aiutare la Turchia” con invio di «mais, girasole e petrolio», mentre la Francia si eclissa dietro gli Usa e si prepara a schierarsi con Germania e Gran Bretagna, pronte a effettuare, in Siria, bombardamenti non concertati con Mosca (contro cui Bruxelles, intanto, decide di protrarre le sanzioni).
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In Turchia, se indaghi sull’Isis finisci impiccato nella toilette
Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.Le vittime sono diventate imputati, in sostanza, come in altri episodi assai meno gravi ma diffusi, sotto la tirannia di Erdogan: dopo l’attentato, costui ebbe l’insolenza di dichiarare che si trattava di un atto “contro l’unità del paese”, lo stesso stucchevole, ma pericolosissimo, ritornello usato contro i partiti curdi. Tutto, in un clima di crescente intolleranza verso chi la pensava diversamente dal capo, verso magistrati che si permettevano di mettere il naso negli affari di famiglia, verso alti militari giudicati pericolosi per il potere del capo, e così via. Impressionante, la serie di chiusure di giornali e di siti internet, gli arresti e le pesanti condanne detentive di giornalisti, le intimidazioni d’ogni genere verso chi non è del partito del capo o verso chi si azzarda a esprimere, anche in modo sommesso, una critica: di questo passo in Turchia, la Turchia che vorrebbe aderire all’Ue, neppure lo ius murmurandi sarà più concesso. L’attentato contro il corteo di giovani che chiedevano la pace, ossia la fine delle azioni militari del governo contro i curdi, essenzialmente, fu un episodio che colpì enormemente l’opinione pubblica internazionale, in qualche modo evocatore della strage dei giovani socialisti norvegesi da parte del neonazista Andres Breivik, nell’estate 2011.Ma quali furono gli atti della “comunità internazionale” volti a chiedere conto dell’accaduto a Erdogan e al suo governo? E che dire della brutale eliminazione, degna di un poliziesco, della giornalista e attivista britannica Jacky Sutton, all’interno dell’aeroporto Ataturk di Istanbul? Con tanto di suicidio inscenato, per impiccagione, nella toilette… La Sutton indagava sui possibili nessi tra governo turco e Is, guarda caso. Anche in questo caso non risultano inchieste serie all’interno, né proteste “vigorose” della solita comunità internazionale, a cominciare da quella europea. Ogni volta, insomma, Erdogan alza l’asticella, e ogni volta, regolarmente, incontra acquiescenza, connivenza, al massimo imbarazzati silenzi. E stupisce anche l’assenza della stampa di inchiesta su un caso che, anche con lo sguardo cinico del professionista della comunicazione, è dannatamente “interessante”. E il rullo compressore erdoganiano procede, schiacciando tutto ciò che incontra sul proprio cammino.Nel disegno politico di colui che si considera il nuovo Ataturk, Racep Erdogan appunto, la “sua” Turchia – sua in senso proprio, proprietario, si direbbe – deve diventare potenza egemone nell’area mediorientale, per poi sedere al banchetto dei “grandi”, forte di un esercito potentissimo, e di una crescita economica che finora ha sostenuto le sorti governative; finora, ma le cose stanno cambiando. Per raggiungere lo scopo, Erdogan non ha esitato a stabilire rapporti, più o meno coperti, con Daesh, mentre conservava e rafforzava i suoi legami con Usa e Nato: non buoni invece quelli con l’Unione Europea, che stenta ad accogliere uno Stato come questo nel suo seno (con notevole ipocrisia, d’altronde). E, soprattutto, Erdogan, con straordinario cinismo, stabilisce e rompe intese ed alleanze: il suo attacco alla Russia (l’abbattimento di un aereo della Federazione impegnato in azioni contro l’Isis è stata una dichiarazione di guerra, evidentemente compiuta con l’assenso della Nato e degli Usa) e l’eliminazione dell’avvocato Tahir Elci, uno dei più noti difensori della causa del popolo curdo, è stata un’altra dichiarazione di guerra, contro un intero popolo, la cui esistenza in Turchia neppure viene riconosciuta (i curdi sono chiamati “turchi del Nord”!). Un vero e proprio “caso Matteotti” in salsa turca.Ci si sarebbe aspettato una generale levata di scudi, specie dopo aver visionato il video dell’azione: gli assassini scappano verso gli agenti di polizia che sparano verso di loro senza mai colpirli, al punto che vien da pensare che le loro armi fossero caricate a salve. “L’uccisione rimarrà un mistero”, si è subito bofonchiato. Lo rimarrà perché le autorità vogliono che nulla trapeli della verità, perché esse sono implicate direttamente nell’omicidio, che con la solita faccia tosta Erdogan ha attribuito al Pkk ossia il partito curdo di sinistra estrema, che Elci difendeva sia in tribunale, nelle tante cause in corso, sia nelle pubbliche occasioni, in una delle quali era egli stesso incappato nell’accusa di tradimento e quant’altro, ed era stato arrestato. Ma un altro video è da guardare, con estrema attenzione, quello dei suoi funerali. Esso costituisce un bellissimo quanto dolente omaggio al combattente caduto, che è anche una dimostrazione di coraggio per chi vi ha partecipato, e una lezione per chi, nelle nostre tepide case, lo guarda, ammirato della sua grandiosa semplicità, e della sua forza.Ma il potere di Erdogan e del suo cerchio magico non si lascia condizionare, come non lo aveva smosso l’ondata di proteste dello scorso anno di piazza Taksim in difesa del Gezi Park, ma in realtà di quel poco di libertà che ancora rimaneva nel paese. Proteste represse, come le precedenti e le successive, con durezza estrema dalla polizia: feriti, morti, e centinaia di arresti. Tutto ciò, ribadisco, nella silenziosa acquiescenza delle “democrazie occidentali”, che si stanno rendendo complici del tiranno. L’odio per i “comunisti” (del Pkk), da un canto, la russofobia dall’altro giocano sempre un ruolo importante. La democratica Europa tace. La democratica Italia, balbetta. I democraticissimi Stati Uniti, invece, si schierano a fianco del tiranno. E così costui, nel suo megagalattico palazzo presidenziale da 1200 stanze – il più gigantesco del mondo – una reggia fortificata, per giunta edificata in zona vietata (il diritto che nasce dalla forza, non viceversa…), sogna come “Il Grande Dittatore”, aggirandosi per saloni, corridoi, scale, parco… Sogna di avere, nelle sue avide mani adunche prima il Medio Oriente, e poi?La sua corsa tuttavia rischia di fargli fare passi falsi: colpire con un missile un aereo russo è stato un gesto a dir poco spregiudicato, volto a far schierare tutto l’Occidente al suo fianco, in nome dell’antica paura e odio per i russi; l’arroganza con cui Erdogan ha, con toni truculenti, rivendicato il “diritto” della Turchia a “difendere i propri confini”, perché un aereo che in teoria combatte dalla stessa parte turca contro l’Is, aveva sconfinato (per 27 secondi, ossia, 2,7 km), è apparso quasi grave quanto quel missile. Ma quando preso ormai da una sorta di delirio di onnipotenza, Erdogan ha sentenziato: «La Russia scherza col fuoco», allora l’inquietudine è cresciuta. Non v’è dubbio che oggi, vi sia un solo soggetto politico-militare che possa fermare Erdogan: la Federazione Russa di Vladimir Putin: piaccia o non piaccia. Così come è chiaro che soltanto la Russia oggi sta combattendo l’Is, seriamente, al di là delle motivazioni, e che solo la Russia può impedire alla Turchia di impadronirsi di un quarto del territorio siriano, di un quinto di quello iracheno e così via. Solo la Russia, in definitiva, può impedire la Terza Guerra Mondiale, verso la quale, invece, la Turchia di Erdogan sembra voler trascinare il mondo.(Angelo d’Orsi, “Crimini e misfatti, la Turchia di Erdogan”, da “Micromega” del 2 dicembre 2015).Ciò che sta accadendo in Turchia ci riguarda molto da vicino. Un tiranno, Recep Tayyip Erdogan, non un semplice dittatore, bensì una sorta di satrapo ha il potere, tutto il potere nelle sue mani avide, sue e dei familiari, a cominciare dal figlio Ahmet, coinvolto in molti loschissimi affari. Egli ha creato un vero e proprio modello politico, secondo qualche analista: l’erdoganismo, che appare una sorta di bismarckismo iperautoritario, che prova a giocare sull’inclusione delle masse e sulla messa fuori gioco, con qualsiasi mezzo, di ogni forma non solo di opposizione, ma di dissenso. Le ultime elezioni, di cui la nostra ineffabile signora Mogherini ha certificato la democraticità, sono state stravinte da Erdogan, grazie alle azioni terroristiche contro le opposizioni: la strage dei giovani che marciavano per la pace ad Ankara del 9 ottobre scorso, con 95 morti, e centinaia di feriti, è un esempio mostruoso; saranno stati anche i kamikaze, ma come si sono comportate le autorità? Quali misure prima e dopo hanno preso? La polizia addirittura impediva i soccorsi, e aggrediva i superstiti.
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Tutti contro tutti, ecco perché non nasce l’Euro-intelligence
Gli attentati parigini hanno riproposto una polemica ricorrente: ma perché non si fa l’Eurointelligence e, cioè, se non proprio una agenzia di intelligence della Ue, almeno uno stretto coordinamento delle agenzie nazionali? In effetti, se l’Europa fosse un unico Stato con un unico sistema di intelligence, ci sarebbe un apparato di vastissime proporzioni, secondo solo all’intelligence degli Usa. Sommando i soli dati dei primi 4 paesi dell’Unione (Uk, Francia, Germania e Italia) ci sarebbe un apparato forte di 28.841 uomini e di 8.265 milioni di euro annui (dati “Sole 24 Ore” del 25 novembre 2015). E invece, proprio la vicenda di Parigi ha dimostrato l’assenza o la scarsità anche del semplice scambio di dati fra due paesi vicini geograficamente come Belgio e Francia. Non si riesce neppure a mettere insieme una semplice banca dati, alimentata da contributi volontari delle singole intelligence. Come mai? In effetti, la cosa sembra piuttosto irrazionale e in molti reclamano, del tutto sterilmente, la nascita di una Eurointelligence. Che però non verrà fuori. Perché?Su un piano astratto, possiamo cavarcela con una frase: l’intelligence è una delle funzioni della sovranità più gelosamente custodita da ogni Stato, per cui esige un rapporto esclusivo fra apparato informativo e autorità politica. Un coordinamento sovranazionale avrebbe invece l’effetto inevitabile di autonomizzare i servizi dai rispettivi governi. E già questo spiega il perché i governi non vedano mai di buon occhio questo genere di coordinamenti, consentendone il funzionamento quando proprio non se ne può fare a meno, come nel caso della Nato, e solo limitatamente all’intelligence militare o con mille restrizioni. Per cui, basterebbe chiedere un potenziamento della cooperazione in sede Nato, visto che gli americani sono nostri alleati (o no?!).In concreto, la cosa si presenta di difficile attuazione per i contrasti di interesse fra i diversi paesi europei in particolare nell’area Medio Oriente-Nord Africa (Me-na): la Francia ha interessi forti in Africa occidentale e mal sopporta la concorrenza italiana in Algeria, per non dire della Libia; ha mire sulla Siria e, quindi, è da sempre ostile alla Turchia e si oppone al suo ingresso nella Ue; ha una posizione problematica sul conflitto israelo-palestinese, ha una posizione favorevole ai progetti di gasdotti russi nella zona. L’Inghilterra è ostile all’Italia per le questioni libiche, mentre ha posizioni opposte alla Francia sia per la Turchia sia per la questione dei gasdotti russi. Ha una posizione più sfumata sulla questione arabo-israeliana; ha forti interessi in Egitto, ma non per questo è disposta a rompere i legami con il Qatar che finanzia i Fratelli Musulmani; essendo contraria alla spartizione dell’Iraq, ha una politica prevalentemente filo-sunnita, per cui non vede di buon occhio le rivendicazioni indipendentiste sciite e curde.La Germania è da sempre (con l’Olanda) il paese più filoisraeliano della Ue (per la nota questione del “debito morale” seguito alla Shoah); è molto perplessa sulla questione dell’ingresso della Turchia nella Ue, temendo una valanga di immigrati (sono già 5 milioni i turchi presenti in quel paese); sin qui non ha avuto una presenza significativa nelle questioni mediorientali, ma è interessata alla politica dei gasdotti russi (anche se momentaneamente sospesi per la questione ucraina). L’Italia ha interessi prevalenti in Libia (ora seriamente messi in pericolo) e ha buoni rapporti con gli algerini; ha speranze di consolidare la presenza petrolifera in Iraq oltre che di espandersi commercialmente in Turchia (di cui ha sempre caldeggiato l’ingresso nella Ue); è il paese tradizionalmente più filo-arabo della Ue e, di conseguenza il meno vicino ad Israele; attualmente è il paese più filo-russo dell’Unione, essendo da sempre favorevole ai progetti di gasdotti russi.E potremmo aggiungere altro, ma già questo ci sembra sufficiente a dimostrare quale guazzabuglio di interesse orienti le politiche di ciascun paese e gran parte di queste politiche passano per i canali coperti dell’intelligence. Questo si riflette anche sulla partita del terrorismo, sia perché le questioni petrolifere o di strategia generale non sono così nettamente separabili da quelle del terrorismo, sia perché nella stessa gestione del problema della Jihad ci sono orientamenti opposti: gli italiani hanno sempre trattato per la liberazione degli ostaggi (sempre smentendolo), mentre inglesi e americani no (anche perché gli jihadisti non hanno mai accettato alcun dialogo con loro); i francesi sono molto più intransigenti verso gli integralisti algerini (quello che era il Fis), mentre meno intransigenti sono stati gli italiani; così come è il caso di chiederci come mai Italia e Germania siano state, sinora, risparmiate dai grandi attentati che hanno colpito invece Inghilterra, Spagna, Francia, Danimarca.E allora cosa si può pretendere, che gli italiani dicano agli altri con chi hanno trattato per Mastrogiacomo o la Sgrena? O che gli inglesi ci dicano cosa sanno dei traffici fra Isis e Turchia a costo di rompere con con Ankara? O che i tedeschi ci parlino degli eventuali compromessi per essere risparmiati? O che italiani e tedeschi riferiscano sulle attività delle rispettive industrie produttrici di armi e dei loro giochi proibiti? Se nascesse Eurointelligence, i vari servizi nazionali spenderebbero la maggior parte del loro tempo a spiarsi fra di loro o ad organizzare trappole recioproche. Lo fanno i servizi di uno stesso paese fra di loro, immaginiamoci di paesi diversi come quelli europei. Chi insiste a proporre l’Eurointelligence o non capisce assolutamente nulla del mondo dei servizi o è solo un ipocrita.(Aldo Giannuli, “Perché non si fa l’Euro-intelligence?”, dal blog di Giannuli del 1° dicembre 2015).Gli attentati parigini hanno riproposto una polemica ricorrente: ma perché non si fa l’Eurointelligence e, cioè, se non proprio una agenzia di intelligence della Ue, almeno uno stretto coordinamento delle agenzie nazionali? In effetti, se l’Europa fosse un unico Stato con un unico sistema di intelligence, ci sarebbe un apparato di vastissime proporzioni, secondo solo all’intelligence degli Usa. Sommando i soli dati dei primi 4 paesi dell’Unione (Uk, Francia, Germania e Italia) ci sarebbe un apparato forte di 28.841 uomini e di 8.265 milioni di euro annui (dati “Sole 24 Ore” del 25 novembre 2015). E invece, proprio la vicenda di Parigi ha dimostrato l’assenza o la scarsità anche del semplice scambio di dati fra due paesi vicini geograficamente come Belgio e Francia. Non si riesce neppure a mettere insieme una semplice banca dati, alimentata da contributi volontari delle singole intelligence. Come mai? In effetti, la cosa sembra piuttosto irrazionale e in molti reclamano, del tutto sterilmente, la nascita di una Eurointelligence. Che però non verrà fuori. Perché?
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Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta
I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.(Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia. Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
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Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio
“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.“Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
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L’Ue in malafede, usa il terrore per suicidare la democrazia
La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.Per mettere le mani avanti, tutti i governanti europei ora parlano di una guerra lunga. Lunga quanto, visto che dura dal 1990? È la guerra dei cento anni a cui dobbiamo attrezzarci? L’Unione Europea ha deciso di togliere dai vincoli dell’austerità di bilancio le spese aggiuntive per la guerra, ipocritamente mascherate come spese di difesa. Questa misura è stata presa quasi in contemporanea con la decisione del Parlamento greco di approvare 48 tagli draconiani a quel poco che in quel paese ancora resta dello stato sociale. In Grecia si chiuderanno ospedali e verranno pignorate le case dei poveri che non possono pagare i debiti. Questo in ottemperanza al memorandum della Troika accettato da Tsipras. Se però il governo greco decidesse di comprare dei droni per colpire il terrorismo, allora potrebbe non tenere conto dei vincoli di bilancio imposti. Quale modello di società è quello dove è virtuoso spendere in deficit per le armi e vizioso farlo per scuole o ospedali? Sono questi i valori che i governanti proclamano di voler difendere con la guerra?La guerra ha così trovato un naturale alleato nella politica di austerità, anche perché entrambe sono inconcludenti allo stesso modo. Da quanti anni si colpiscono l’occupazione, i diritti, i servizi sociali e i beni comuni con lo scopo dichiarato di sconfiggere la crisi? E da quanto lo si fa nel nome dell’Europa? Anche l’austerità, come la guerra, non solo non produce risultati contro il nemico che dichiara di voler combattere, ma anzi lo rafforza. E anche in questo caso, di fronte alla scarsità di risultati, i governanti spiegano che dobbiamo comunque abituarci a tempi lunghi. Secondo l’Ocse ci possono volere altri 20 anni per tornare ai livelli di sviluppo pre-crisi. Come dire che non ci torneremo mai, o che assieme alla guerra avremo anche la crisi dei cento anni. Possibile allora che i nostri governanti siano tutti stupidi e incompetenti e non sappiano trarre conclusioni e bilanci da ciò che fanno? No, non lo credo; da qui la mia convinzione sul peso sempre maggiore che ha la malafede nei sistemi di governo.Quando parlo di malafede non voglio affatto sostenere teorie complottiste. In una recente trasmissione televisiva, Edward Luttwak ha rivendicato che finanziare ed armare il fondamentalismo islamico sia stato comunque un buon affare, per l’Occidente, perché è servito a far crollare l’Unione Sovietica. E, aggiungo io, è un buon affare anche oggi per la politica coloniale di Israele nei confronti del popolo palestinese. Tuttavia, anche se è sicuro che il terrorismo islamista sia stato all’inizio sostenuto dall’Occidente, dagli Usa alla Francia, questo non vuole dire che oggi ne sia ancora un burattino. No, è evidente che il terrorismo sunnita è dilagato per forza propria, oltre che per il continuo appoggio da Stati, Arabia Saudita in testa, che l’Occidente considera e arma come propri indispensabili alleati. Il terrorismo sunnita ha raccolto la carica di violenza sprigionata dalla guerra in Irak, abbiamo dimenticato il massacro al fosforo bianco di Falluja? La guerra è poi diventata guerra di religione tra sunniti e sciiti, mentre la Turchia, membro autorevole della Nato, combatteva prima di tutto il solo popolo della regione organizzato su basi laiche, i curdi.In questo contesto, tutti gli interventi armati occidentali non han fatto altro che gettare benzina sul fuoco, fino a cancellare le stesse entità statali in Somalia e in Libia. Il fatto che ora al posto degli Stati Uniti compaia ora la Russia di Putin non cambia la sostanza. Infine è bene ricordare che il terrorismo esploso in Europa nasce prima di tutto nelle banlieue delle grandi città europee, tutti gli autori delle ultime stragi sono cittadini francesi, belgi, britannici. La malafede dei governanti non sta dunque in qualche oscuro complotto, ma nel sapere perfettamente che la guerra, così come l’austerità, sono risposte sbagliate a ciò che si dichiara di voler affrontare e sconfiggere. Sono risposte sbagliate e fallimentari, ma sono le sole che si continuano a dare perché sceglierne altre vorrebbe dire ammettere troppi errori e soprattutto mettere in discussione troppi affari, troppi interessi, troppo potere.L’Occidente dovrebbe ritirare le sue truppe sparse per il mondo, smetterla di armare gli alleati di oggi che diverranno i nemici di domani, e magari investire molto di più nella propria sicurezza interna. Gli Stati europei dovrebbero ribaltare la vergognosa licenza concessa dalla Ue e investire in deficit su lavoro e stato sociale, tagliando invece l’industria delle armi sulla quale in questi giorni si riversano gli acquisti in Borsa. E soprattutto si dovrebbe rispondere al terrorismo con più democrazia e non con le leggi speciali. Solo con la pace, la democrazia e l’eguaglianza sociale si può sconfiggere il terrorismo, ma i governanti europei preferiscono ingannare i propri popoli trascinandoli in una escalation di guerra e autoritarismo di cui non si vede la fine. Hollande ha fatto proprio il Patriot Act con il quale Bush jr reagì all’11 Settembre, e ora il paese simbolo della democrazia europea si prepara a mettere in Costituzione quello stato di emergenza che ha un solo precedente nella storia europea. Parlo della Germania di Weimar, dove proprio l’uso continuo di quello strumento da parte di governi formalmente democratici aprì la via istituzionale a Hitler. Quello vero, non quelli che da 25 anni pare sorgano ogni 6 mesi sui fronti delle varie guerre.D’altra parte è tutta la costruzione europea che respinge la democrazia, come ci ha ricordato Luciano Gallino nel suo ultimo libro. I parlamenti non son da tempo più sovrani, le politiche economiche le decidono Bruxelles e la Germania. Ora abbiamo scoperto che nel Trattato di Lisbona l’articolo 42.7 obbliga alla solidarietà armata nella Unione. Nel 1915 l’Italia fu trascinata in guerra dal colpo di Stato del Re, oggi il sovrano sta a Bruxelles e può portarci in guerra saltando le nostre istituzioni e la nostra Costituzione. Leggi speciali, austerità, spese di guerra, è così che l’Unione Europea oggi intende procedere. Se non fermiamo questa follia in malafede il rischio è che alla fine un’Europa democratica non ci sia più, mentre il terrorismo sia ancora più feroce e diffuso.(Giorgio Cremaschi, “Guerra e austerità, risposte sbagliate e in malafede”, da “Micromega” del 19 novembre 2015).La terribile strage di Parigi non ha solo colpito centinaia di innocenti, ma anche le nostre sempre più traballanti democrazie, che stanno rispondendo al terrorismo fondamentalista suicidandosi. Cento anni fa fece la stessa cosa l’Impero austroungarico, che nel 1914 reagì con la guerra al terrorismo serbo. Il risultato fu la distruzione di quello Stato e la catastrofe immane della Prima Guerra Mondiale. Cambiato il mondo l’Occidente, questa volta trascinato dalla Francia, sta intraprendendo lo stesso percorso. Da 25 anni, dalla prima guerra in Iraq, il mondo occidentale risponde al terrorismo con la guerra. Il risultato è che oggi il fondamentalismo musulmano sunnita ha un suo nuovo Stato terrorista. Non è il primo perché già il regime dei Talebani in Afghanistan alimentava e sosteneva il terrorismo, allora quello di Bin Laden. Rovesciato quel regime, ucciso Bin Laden, il terrorismo islamico si è rafforzato ed esteso. Ammesso quindi che i bombardamenti aerei occidentali e russi riescano a far cadere il Califfato, non c’è alcuna garanzia che il terrorismo non si diffonda ulteriormente.