Archivio del Tag ‘Gran Bretagna’
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Mandela e la vergogna dell’altro apartheid: Israele
L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.L’impero britannico da allora non ha smesso di sollecitare la diaspora ebraica e di proporre la creazione di uno stato ebraico, come fece Benjamin Disraeli, primo ministro della regina Vittoria alla Conferenza di Berlino (1884). Le cose cambiarono con il teorico dell’imperialismo britannico, il “molto onorevole” Cecil Rhodes – il fondatore dei diamanti De Beers e della Rhodesia – che trovò in Theodor Herzl il lobbista di cui aveva bisogno. I due uomini si scambiarono una fitta corrispondenza, la cui riproduzione fu vietata dalla Corona in occasione del centenario della morte di Rhodes. Il mondo doveva essere dominato dalla «razza germanica» (ossia secondo loro gli inglesi, irlandesi inclusi, gli statunitensi e canadesi, gli australiani e neozelandesi e i sudafricani), che dovevano estendere il loro impero conquistando nuove terre con l’aiuto degli ebrei.Theodor Herzl non solo era riuscito a convincere la diaspora a partecipare a questo progetto, ma rovesciò il parere della sua comunità utilizzando i suoi miti biblici. Lo Stato ebraico non sarebbe stato una terra vergine in Uganda o in Argentina, ma in Palestina, con Gerusalemme come sua capitale. Ne deriva che l’attuale Stato di Israele sia il figlio tanto dell’imperialismo quanto dell’ebraismo. Israele, fin dalla sua proclamazione unilaterale, si è rivolto verso il Sud Africa e la Rhodesia, gli unici Stati assieme ad esso che manifestavano il colonialismo di Rhodes. Poco importa da questo punto di vista che gli Afrikaneers avessero sostenuto il nazismo, perché si erano nutriti con la stessa visione del mondo.Benché il primo ministro John Vorster fece viaggi ufficiali nella Palestina occupata solo nel 1976, già nel 1953 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva condannato «l’alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo». I due Stati lavorarono con una collaborazione stretta tanto in materia di manipolazione dei media occidentali, quanto nei trasporti per aggirare l’embargo, o ancora per sviluppare la bomba atomica. L’esempio di Nelson Mandela dimostra che è possibile superare questa ideologia e ottenere la pace civile. Oggi Israele è l’unico erede al mondo dell’imperialismo alla maniera di Cecil Rhodes. La pace civile presuppone che israeliani e palestinesi trovino il loro De Klerk e il loro Mandela.(Thierry Meyssan, “Mandela e Israele”, da “Megachip” dell8 dicembre 2013).L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.
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L’accordo con l’Iran prelude alla guerra: sarà violato?
Attenti: lo storico accordo con l’Iran sul nucleare potrebbe addirittura preludere a una guerra. Ovvero: sembra fatto apposta per provocare una reazione militare, nel caso in cui Teheran dovesse disattenderlo. Lo sostiene Tony Cartalucci, rileggendo il perverso rapporto 2009 della Brooking Institutions, alla voce “Which path to Persia”. «Qualsiasi operazione militare contro l’Iran sarà probabilmente molto impopolare in tutto il mondo e richiederà un adeguato contesto internazionale, sia per garantire supporto logistico all’operazione che per ridurre al minimo il contraccolpo», sostenevano solo qualche anno fa gli strateghi americani, ben consapevoli di dover costruire a tavolino un casus belli sufficientemente solido. «Il modo migliore per ridurre al minimo lo sdegno internazionale e massimizzare il sostegno (anche riluttante o dissimulato)», secondo gli analisti statunitensi consiste nel «colpire solo quando vi sia una diffusa convinzione che agli iraniani è stati fatta un’offerta superba, ma che essi hanno respinto – un’offerta così buona che solo un regime determinato a dotarsi di armi nucleari ed a farlo per motivazioni malvagie poteva rifiutare».In tali circostanze, continua il rapporto, «gli Stati Uniti (o Israele) potrebbero presentare le loro operazioni come prese con dolore, non con rabbia, e almeno alcuni nella comunità internazionale concluderebbero che gli iraniani “se la sono cercata”, rifiutando un buon affare». Il documento, ricorda Cartalucci, è stato scritto anni fa, «quando gli Usa, l’Arabia Saudita e Israele già stavano complottando per invadere con Al-Qaeda il vicino Iran, alleato della Siria, allo scopo di indebolire la Repubblica islamica prima di una guerra inevitabile». Il documento «mostra integralmente come l’“affare nucleare iraniano” sia in effetti una farsa». Secondo Cartalucci, autore di un’analisi su “Information Clearing House”, in realtà l’Occidente non ha alcuna intenzione di fare alcun accordo duraturo con l’Iran, riguardo alla capacità nucleare, e anche l’acquisto di armi nucleari da parte di Teheran non è mai stato veramente una minaccia esistenziale per le nazioni occidentali o i loro partner regionali.«Il problema dell’Occidente con l’Iran è la sua sovranità e la sua capacità di proiettare i propri interessi in ambiti tradizionalmente monopolizzati dagli Stati Uniti e dal Regno Unito in tutto il Medio Oriente», continua Cartalucci. «A meno che l’Iran pianifichi la rinuncia alla propria sovranità ed alla propria influenza regionale, insieme con il suo diritto di sviluppare e utilizzare la tecnologia nucleare, il tradimento di un “accordo sul nucleare” è semplicemente inevitabile, come inevitabile è la guerra che deve seguire subito dopo la disdetta dell’accordo». Denunciare la doppiezza che accompagna gli “sforzi” occidentali per raggiungere un accordo significherà «minare gravemente il loro tentativo di utilizzare l’accordo come leva per giustificare le operazioni militari contro l’Iran». Sia Teheran che i suoi alleati «devono essere preparati per la guerra», tanto più quando l’Occidente «finge interesse per la pace». La Libia? E’ un esempio perfetto: chi non abbassa la testa di fronte all’Occidente firma la propria condanna a morte.Attenti: lo storico accordo con l’Iran sul nucleare potrebbe addirittura preludere a una guerra. Ovvero: sembra fatto apposta per provocare una reazione militare, nel caso in cui Teheran dovesse disattenderlo. Lo sostiene Tony Cartalucci, rileggendo il perverso rapporto 2009 della Brooking Institutions, alla voce “Which path to Persia”. «Qualsiasi operazione militare contro l’Iran sarà probabilmente molto impopolare in tutto il mondo e richiederà un adeguato contesto internazionale, sia per garantire supporto logistico all’operazione che per ridurre al minimo il contraccolpo», sostenevano solo qualche anno fa gli strateghi americani, ben consapevoli di dover costruire a tavolino un casus belli sufficientemente solido. «Il modo migliore per ridurre al minimo lo sdegno internazionale e massimizzare il sostegno (anche riluttante o dissimulato)», secondo gli analisti statunitensi consiste nel «colpire solo quando vi sia una diffusa convinzione che agli iraniani è stati fatta un’offerta superba, ma che essi hanno respinto – un’offerta così buona che solo un regime determinato a dotarsi di armi nucleari ed a farlo per motivazioni malvagie poteva rifiutare».
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Amoroso: via l’euro, se vogliamo democrazia in Europa
Monete sovrane svalutabili, o sarà la fine: dobbiamo uscire immediatamente dall’euro, per salvare la nostra economia e ripristinare la democrazia in Europa. Lo sostiene l’economista italo-danese Bruno Amoroso: l’euro non è che un dogma smentito dai fatti, mentre in realtà rappresenta un fattore devastante di disgregazione. Prima ha spaccato l’Europa in due, opponendo i 17 paesi dell’Eurozona ai 10 rimasti fuori, e ora ha diviso la stessa Eurozona, scavando un solco incolmabile tra nord e sud. La disastrosa moneta della Bce? Con la sua rigidità «è la causa prima dell’attuale situazione di crisi del progetto europeo». Un piano oligarchico, i cui gestori oggi hanno “gettato la maschera”: il rigore promosso dalla Troika formata da Bce, Fmi e Ue non è altro che l’esecuzione, in Europa, dell’ideologia neoliberista imposta dalla globalizzazione, che comprime i diritti del lavoro e mortifica lo Stato sovrano, disabilitandolo come garante dei cittadini. Fiscal Compact, Patto di Stabilità: sono gli strumenti con cui l’oligarchia finanziaria ha deciso di metterci in crisi.
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Destinazione Italia, grande svendita del nostro paese
“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.Ma aldilà dell’umorismo, il Piano Destinazione Italia è un documento “strategico” con l’obiettivo, attraverso una serie di riforme, di rendere il paese un luogo attraente per i grandi investimenti finanziari dall’estero. Attraverso quali misure? Il Piano Destinazione Italia prevede alcuni provvedimenti “quadro”, dai quali si comprende subito dove si voglia andare a parare: la svendita dei diritti e dei beni comuni. Infatti, si prevedono, per investimenti oltre una certa soglia, accordi fiscali particolari (misura 1), la radicale modifica della conferenza dei servizi sulle grandi opere (misura 2), accordi specifici in materia di condizioni di lavoro, come quello già approvato per Expo 2015 (misura 4), completa liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas (misura 12). Conseguentemente a questi passaggi, l’Italia, a quel punto irresistibilmente sexy, può mettere in vendita le sue grazie.La seconda parte del piano si intitola infatti “Un Paese che valorizza i propri asset” e prevede: un piano di privatizzazioni di società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato e un piano di privatizzazione e accorpamento in grandi mutiutility dei servizi pubblici locali (misura 17); un piano di rivitalizzazione del mercato borsistico attraverso il collocamento delle piccole e medie imprese (misura 19); l’affidamento a privati della gestione dei beni culturali (misura 23); la dismissione dei beni demaniali (misura 24); la totale liberalizzazione del mercato immobiliare (misure 25-29); la consegna della formazione e della ricerca universitaria agli investimenti delle imprese (misure 30-32); il rilancio delle grandi opere infrastrutturali, i cui relativi investimenti verranno esclusi dai vincoli del Patto di Stabilità (misura 36); l’abrogazione (misura 40) dei procedimenti di Via (Valutazione di Impatto Ambientale), Vas (Valutazione Ambientale Strategica) e Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale); la valorizzazione della green economy, attraverso lo sviluppo dei biocarburanti e della chimica verde, la termovalorizzazione dei rifiuti e la modernizzazione (leggi privatizzazione) del servizio idrico (misura 43).Siamo di fronte ad un vero e proprio piano di svendita del paese, attraverso la drastica riduzione dei diritti sociali e del lavoro, la consegna dei beni comuni ai mercati finanziari, la privatizzazione di ogni funzione pubblica e la prostituzione dell’intelligenza collettiva. Il tutto per rispondere ai diktat monetaristi di un’Europa in mano ai grandi interessi finanziari, che, attraverso le catene imposte col Trattato di Maastricht e con lo shock, creato ad arte, del debito pubblico, ha deciso, tra i profitti in Borsa delle grandi multinazionali e la vita delle persone, di scegliere senza ombra di dubbio, i primi. In pratica, e all’unico scopo di perpetuare il capitalismo finanziarizzato, si è deciso di dichiarare una vera e propria guerra alla società, basata sulla trappola del debito pubblico e sul mantra “i soldi non ci sono”, da contrapporre ad ogni rivendicazione sociale. Tanto più contro un paese che, solo due anni fa, ha osato, con la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua, mettere in discussione il pensiero unico del mercato e l’ideologia del “privato è bello”, affermando a maggioranza assoluta la volontà di riappropriazione sociale dell’acqua, dei beni comuni e della democrazia.A quel paese va detto ora e a chiare lettere che, se anche fosse vero che “privato” non è bello, privato è in ogni caso obbligatorio e ineluttabile. È in questo quadro che avanza a livello istituzionale il tentativo di mettere mano alla Costituzione, permettendone, come recentemente affermato dalla banca d’affari Jp Morgan, la sua “modernizzazione”, attraverso la progressiva espunzione di tutti i richiami alla cultura antifascista, socialista ed egualitaria, di cui sarebbe ancora intrisa. D’altronde, come conciliare le politiche di feroce austerità, di spoliazione dei diritti, di privatizzazione dei beni comuni con il mantenimento di una Costituzione che quei diritti afferma, per quanto nel tempo ripetutamente violati? Serve una democrazia “austeritaria”, ovvero che usi l’autoritarismo per imporre le politiche di austerità e che risponda all’autolegittimazione del potere, quando quest’ultimo non possa più basarsi sul consenso.Oltre venti anni fa, il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, lo yacht reale Britannia incrociava al largo dell’Argentario, con a bordo non principi e regine, né valletti o dame di compagnia, ma banchieri d’affari inglesi, banchieri italiani, boiardi e grand commis di Stato. L’evento venne organizzato da una società allora chiamata “British Invisibles”, una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie che oggi raggruppa 150 aziende del settore sotto il nome di International Financial Services. Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono Beniamino Andreatta, dirigente dell’Eni e futuro ministro, Riccardo Galli, dirigente dell’Iri, Giulio Tremonti, allora ancora in veste di avvocato fiscalista, e soprattutto Mario Draghi, chiamato da Guido Carli alla Direzione Generale del Tesoro all’inizio del 1991, che si presentò come punto di riferimento italiano per la finanza internazionale. E così, tra un’orchestrina della Royal Navy e un lancio di paracadutisti, che scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà, prese il via la stagione delle privatizzazioni italiane. Oggi, senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze di un governo di “larghe intese e zero consenso”, il premier Enrico Letta ci ripropone lo stesso scenario e un nuovo mastodontico processo di dismissione del paese. Dobbiamo impedirlo.(Marco Bersani, “Destinazione Italia: povertà”, intervento pubblicato dal sito di “Attac” e ripreso da “Megachip” il 25 novembre 2013).“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.
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Offsetting: finanziarizzare la natura per rapinare la Terra
Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.Una pratica simile a quella dei famigerati “crediti di carbonio”, che permette alle aziende responsabili del danno di dichiararsi “investitori nella protezione dell’ambiente”, con conseguente ritorno d’immagine e “greenwashing” dei loro prodotti e servizi. Così, la protezione dell’ambiente si trasforma in un sottoprodotto commerciale. «Il paradosso è che le più grandi aberrazioni in tema di ambiente vengono concepite proprio in occasione dei grandi vertici internazionali, spacciati per momenti di bilancio e autocritica, per ricercare soluzioni alle drammatiche emergenze dell’umanità e del pianeta». Già il Protocollo di Kyoto aveva sostenuto la logica dei “permessi di inquinamento” per il carbonio, ma il peggio è avvenuto nel giugno 2012 al vertice di Rio +20: la “Dichiarazione sul Capitale Naturale e sui Servizi resi da un ecosistema”, elaborata dalla grande finanza, sdogana ufficialmente il “mercato delle indulgenze ambientali”.Cibo, fibre, acqua, aria, salute, energia, sicurezza climatica: i beni e i servizi degli ecosistemi del “capitale naturale” ogni anno ammontano a trilioni di dollari. Sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, anche se il loro immenso beneficio non è “registrato all’interno dei nostri sistemi economici”. Grosso problema, per chi non conosce altra misura che il denaro. Che il vero benessere non influisca sul Pil, ai “padroni dell’universo” non sta bene: non è “sostenibile”, letteralmente, il mancato conteggio – in soldoni – di tutto quanto ci è davvero indispensabile per vivere. «Non esiterei a paragonarla a una dichiarazione di guerra al pianeta e ai suoi abitanti», protesta Rebecca Rovoletto: la pretesa mercificazione finale dell’habitat «impone una sofisticata e sordida “anschluss” semantica», dove anche la natura viene assorbita dal mondo del mercato. «E questo sta avvenendo mentre ovunque nel mondo ci si batte per la difesa dei territori, per la sovranità alimentare e l’accesso alla terra, per il diritto alla gestione e tutela dei beni comuni naturali da parte delle comunità».Mentre sale la protesta dei movimenti sovranisti organizzati, coi contro-vertici di Bruxelles e Edimburgo, nel sistema globalizzato non c’è istituzione che non sostenga questa nuova, perversa visione: si va dall’Unesco al Wwf, che ha sottoscritto la Dichiarazione di Rio e «sposato questa falsa soluzione in un’ottica di investimento di capitali finanziari in alcune riserve protette, a discapito però di tutte le altre aree aggredite». Per Rovoletto, si aprono scenari inimmaginabili: «La natura è unica e complessa, è impossibile misurarne la biodiversità: allora chi e come stabilisce il valore di un ecosistema?». Alcuni ecosistemi hanno impiegato migliaia di anni per raggiungere il loro stato attuale: «Possono essere riproducibili? E che valore hanno i loro abitanti, umani e non umani? Che fine faranno la sussistenza, le economie, la cultura?». Attenzione: «La natura ha un ruolo sociale, spirituale e di sostegno per le comunità, che definiscono il proprio territorio sulla base di interrelazioni tradizionali con la terra: come si può pensare di sfollare intere comunità?».Per il mercato, tutto questo si traduce in un prezzo, «calcolato da discutibili software», con simulatori che conteggiano, al volo, i “crediti di natura”. Il “pallottoliere digitale” è destinato ai proprietari di terreni e foreste intenzionati a mettere all’asta, come “offset”, i loro tesori naturali: «Nasceranno istituti per certificare i valori degli habitat, società di rating per stabilire le classifiche degli investimenti più redditizi, broker e intermediari per un mercato dalle infinite e infernali potenzialità». I casi studiati, aggiunge “Democrazia Km Zero”, dimostrano come questa pratica incentivi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, minando ogni tipo di pianificazione “verde”: «La logica dell’offsetting della biodiversità separa le persone dall’ambiente e dai territori in cui vivono, marginalizzandole fino a minacciare lo stesso diritto alla vita».In Brasile, per esempio, il nuovo codice forestale permette ai proprietari di terre di distruggere i boschi contro l’acquisto di “certificati di riserve ambientali” emessi dallo Stato e commercializzati alla Borsa Verde di Rio, cioè, il “mercato di titoli verdi” creato di recente dal governo brasiliano. Si sta muovendo il super-potere mondiale, regista della disastrosa globalizzazione del pianeta: la Banca Mondiale e la Bei, Banca Europea per gli Investimenti, puntano a includere l’offsetting della biodiversità nei propri standard, «come strumento per “compensare” il danno permanente causato dalle grandi infrastrutture che queste stesse istituzioni finanziano». E mentre Londra sta cercando di introdurre l’offsetting nel proprio quadro normativo, «compromettendo l’iter decisionale democratico e indebolendo le voci delle comunità», in Francia fa scandalo il progetto aeroportuale di Notre Dame des Landes: l’agenzia Biotope ha ricalcolato il “valore” dell’ecosistema considerando le sue “funzioni” e non la sua estensione, così il maxi-costruttore Vinci dovrà provvedere all’offsetting di appena 600 ettari di zona umida, anziché 1.000.«Da 40 anni l’opposizione degli abitanti ha permesso di bloccare il progetto e ha messo in discussione lo schema di offsetting», ma ora la Commissione Europea sta intervenendo anche sul caso francese: attraverso la “strategia europea 2020 sulla biodiversità”, Bruxelles vuole dotarsi di una legislazione sull’offsetting che includa la creazione di una “banca degli habitat” per consentire l’offsetting di specie e habitat naturali all’interno dei confini europei. «Lo scopo è quello di annullare la “perdita netta” (no net loss) della biodiversità, obiettivo assolutamente diverso da quello precedentemente perseguito di garantire “nessuna perdita” (no loss)». E’ la stessa filosofia iper-liberista della Banca Mondiale, che ha finanziato il mega-progetto di estrazione mineraria di nichel e cobalto Weda Bay in Indonesia.L’azienda mineraria francese Eramet dichiara di coniugare “business e biodiversità”, dal nome dell’ambiguo progetto europeo che punta a raccogliere fondi anche dalla Banca Asiatica di Sviluppo, dalla Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (Jpic) e dalle francesi Coface e Agenzia di sviluppo (Afd). L’impatto sulle persone e sul territorio? Enorme: infatti, «il progetto è contestato dalle comunità indonesiane e da organizzazioni della società civile internazionale». Per Rebecca Rovoletto, «è chiaro che ci troviamo di fronte a un giro di boa fondamentale nella folle corsa che sta sistematizzando il paradigma della finanziarizzazione globale della natura, all’interno del noto orizzonte sviluppista-speculativo e della retorica mistificante che si appella alla sostenibilità e alla salvaguardia, alla partecipazione e all’equità. Un paradigma dalle profonde implicazioni, queste sì, davvero eversive dell’ordine naturale del creato».Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.
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Galtung: è un impero di assassini, il mondo ora si ribella
Il mondo si sta ribellando agli Usa: lo scandalo Datagate conferma che il centro dell’impero sta perdendo il controllo della periferia. Nel suo libro “This Town”, Mark Leibovich ritiene improbabile che il conglomerato politica-media di Washington riesca a trovare soluzioni a calamità tanto drammatiche come quelle che oggi ha di fronte Obama. La superpotenza sta letteralmente evaporando, sostiene Johan Galtung. Basta misurare la stizza di Angela Merkel di fronte alla scoperta di esser stata spiata dalla Nsa. O prendere alla lettera quello che ha dichiarato il generale Keith Alexander, direttore dell’intelligence digitale smascherata da Snowden: «Alla Nsa era stato richiesto da responsabili delle politiche Usa di scoprire le “intenzioni delle leadership” dei paesi stranieri». Alleati di cui Washington non si fida più: sta saltando il patto su si è retto l’Occidente per oltre mezzo secolo, protezione militare in cambio di obbedienza. Anche perché frana la moneta di scambio: il benessere, minacciato dalla grande crisi.Finora, scrive Galtung in un post ripreso da “Megachip”, il sistema ha funzionato con élite di periferia disposte a servire il centro: «Per dire, uccidere in Libia, in Siria, quando richiesto; assicurare gli interessi economici del centro in cambio di un taglio sostanzioso, servendo culturalmente da testa di ponte». Affinché ciò funzioni, le élite devono credere nell’impero. «Si nascondono dietro belle parole – democrazia, diritti umani, Stato di diritto – usate come scudi umani». Ma attenzione: «I costi possono essere ingenti, i benefici in calo». Periferie irrequiete, rivendicazioni. O peggio: cresce «la sensazione che l’impero non stia funzionando, che avanzi verso il declino e la caduta», e quindi i satelliti «vogliono uscirne». E’ per questo che la Nsa li ha “marcati a uomo”. Certo, resta il club esclusivo degli “affidabili”: Canada e Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda. Chi sono? Famigerati stragisti e genocidi, risponde senza esitazioni il grande sociologo norvegese.Per Galtung, gli Usa e gli eredi del Commonwealth sono «un circolo di paesi selezionati su base razzista-culturalista». Sono tutti «bianchi e anglo, uccisori di popoli indigeni ovunque», gli Usa degli indiani nativi, il Canada idem. L’Australia ha sterminato gli aborigeni, la Nuova Zelanda ha emarginato i maori. Quanto al Regno Unito, ha compiuto stragi dappertutto, «facendo sì che gli altri si lanciassero su quel pendio scivoloso del genocidio e del sociocidio». Attenzione: «Lo sanno. Sanno che la maggioranza del mondo è costituita da quel tipo di genti che loro hanno ucciso, e sentono intensamente di dover restare insieme, diffidando dei non-membri». Ma gli Usa «spiano il partito laburista e il Parlamento britannici». E, insieme, Washington e Londra a loro volta spiano Canada, Australia e Nuova Zelanda. La Germania? Grosso problema: «Vuole entrare nel circolo al fine di un altro 5+1, per godere del potere di veto del Consiglio di Sicurezza Onu». Dettaglio: «La razza non è un problema, ma la cultura sì», perché i tedeschi «non sono anglo».Tanto più l’impero declina, osserva Galtung, quanto più ci si aspetta di spiare ancora per identificare il nemico all’interno. «Com’è la condizione dell’impero? Non buona». In Afghanistan, gli Usa «hanno guadagnato delle basi e un oleodotto», ma possono anche perdere tutto. L’Iran sta accrescendo la sua leadership in Medio Oriente e nel Golfo, le conquiste imperiali in Iraq non sono al sicuro, l’operazione di spaccatura della Siria è fallita. Un vero disastro in Egitto: «Gli Usa hanno frainteso la situazione nel suo insieme, sono arenati in una scelta fra due mali che non padroneggiano». In Libia, «altro fraintendimento, senza capire come un imperialismo laico occidentale (Italia-Regno Unito-Francia-Usa-Israele) abbia acceso un risveglio islamista (anziché arabo) e berbero-tuareg (anziché arabo)». Poi, ovviamente Israele: che spia la stessa élite Usa («la politica della coda che muove il cane»), mentre Tel Aviv ha contro anche i media, e si contorce «nella morsa angosciosa fra uno Stato ebraico e la democrazia», con di fronte «uno scenario sudafricano».Quanto ai Brics, siamo di fronte a una vera e propria orchestra sinfonica anti-Usa. In Brasile, la presidente Dilma Rousseff, è stata la prima a parlare all’Assemblea Generale dell’Onu con una critica devastante del programma spionistico Nsa, richiedendo server Internet alternativi. In Russia, Putin «può aver posto termine alla crisi siriana in quanto parte di una crisi generale del Medio Oriente – come Gorbaciov pose fine alla guerra fredda, non alla perenne guerra e minaccia di guerra Usa – richiedendo una fine alle armi di distruzione di massa, comprese quelle nucleari, nella regione». In Cina, l’agenzia mediatica Hsinhua si è appellata a una deamericanizzazione generale e a una fine del dollaro come “valuta di riserva mondiale”, proponendo «un paniere di valute», non più una sola moneta. «I “capi esteri” lo sanno – conclude Galtung – e tradirebbero i rispettivi popoli qualora non esplorassero le opzioni. La questione è come, quando». I satelliti di Washington «possono usare lo spionaggio Nsa come pretesto per ritirarsi dall’impero». Prima mossa: cancellare, o ritardare, il super trattato Ttip (Trans-Atlantic Partnership) con cui le multinazionali Usa progettano di sostituirsi – per gli arbitrati legali – alla magistratura dei paesi vassalli. Come uscirne? Servirebbe una leadership straordinaria, di cui non c’è traccia.Il mondo si sta ribellando agli Usa: lo scandalo Datagate conferma che il centro dell’impero sta perdendo il controllo della periferia. Nel suo libro “This Town”, Mark Leibovich ritiene improbabile che il conglomerato politica-media di Washington riesca a trovare soluzioni a calamità tanto drammatiche come quelle che oggi ha di fronte Obama. La superpotenza sta letteralmente evaporando, sostiene Johan Galtung. Basta misurare la stizza di Angela Merkel di fronte alla scoperta di esser stata spiata dalla Nsa. O prendere alla lettera quello che ha dichiarato il generale Keith Alexander, direttore dell’intelligence digitale smascherata da Snowden: «Alla Nsa era stato richiesto da responsabili delle politiche Usa di scoprire le “intenzioni delle leadership” dei paesi stranieri». Alleati di cui Washington non si fida più: sta saltando il patto su si è retto l’Occidente per oltre mezzo secolo, protezione militare in cambio di obbedienza. Anche perché frana la moneta di scambio: il benessere, minacciato dalla grande crisi.
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Neoliberisti: bugiardi e falliti, ma ancora guru sui media
Michael Joffe, professore di economia all’Imperial College di Londra, ha scatenato una polemica sui media britannici, imbarazzando molti suoi colleghi con una domanda formulata nel corso di una conferenza organizzata dal Tesoro sul tema dell’insegnamento dell’economia in tempi di crisi: perché, si è chiesto Joffe, tanti professori continuano a insegnare teorie che la realtà sta smentendo? A un collega ha chiesto: perché hai inserito nel tuo ultimo libro di testo una teoria palesemente falsificata? Risposta: l’ho fatto perché l’editore se l’aspettava. Nel frattempo, segnala Carlo Formenti, qualcosa si muove: l’Istituto per il rinnovamento del pensiero economico (Inet), presieduto da un altro docente di economia della Oxford University, Eric Beinhocker, si è fatto promotore di una campagna per rompere l’egemonia del pensiero mainstream (rigorosamente liberista) nelle università. Obiettivo: restituire serietà scientifica all’economia, tornando a dare spazio alle teorie di Keynes e Marx – che spiegano la crisi attuale assai meglio di altre.Queste posizioni, come riferisce il “Guardian”, sono state accolte con simpatia dagli studenti di alcune facoltà di economia che contestano i loro docenti con le stesse motivazioni. «Sarebbe auspicabile che qualcosa di analogo succedesse finalmente anche in Italia», scrive Formenti su “Micromega”, ma sa che un ravvedimento è improbabile: «Non perché da noi manchino professori di economia che esprimono posizioni radicalmente critiche nei confronti delle teorie mainstream, ma perché la totale convergenza ideologica fra destra, centro e sinistra che si è determinata nel nostro paese, che vede l’intera classe dirigente schierata a difesa dei dogmi liberisti, si rispecchia in un sistema dei media che si è trasformato in un vero e proprio ufficio di propaganda di quegli stessi dogmi, negando ogni spazio a posizioni alternative».I vari Alesina e Giavazzi – ironicamente battezzati “Bocconi Boys” dall’americano Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, «impazzano quotidianamente sulle pagine del “Corriere della Sera”, mentre i loro omologhi occupano militarmente quelle di quasi tutti gli altri quotidiani oltre agli spazi dei telegiornali». Sono gli eredi dei “Chicago Boys”, la scuola ultra-liberista alla radice dell’attuale sfacelo: hanno sbagliato tutte le previsioni, ma nessuno lo ammette. «Si crea così una situazione che la studiosa tedesca di comunicazione Noelle Neumann definiva “spirale del silenzio”, situazione che si determina quando un’opinione fortemente sostenuta dai media e dal potere politico diventa talmente maggioritaria da “zittire” ogni opinione contraria», aggiunge Formenti. Così, in attesa che si aprano spiragli per rompere l’assedio, «siamo costretti a subirci lezioni come quelle del “naziliberista” Lord Nigel Lawson – ex ministro del governo Thatcher – il quale, intervistato da Danilo Taino (“Corriere della Sera”), ci spiega che in Italia le cose vanno male perché da noi lo Stato pesa ancora troppo (!?) e che la salvezza potrà venire solo se e quando anche noi potremo usufruire a nostra volta di un “Momento Thatcher”».Michael Joffe, professore di economia all’Imperial College di Londra, ha scatenato una polemica sui media britannici, imbarazzando molti suoi colleghi con una domanda formulata nel corso di una conferenza organizzata dal Tesoro sul tema dell’insegnamento dell’economia in tempi di crisi: perché, si è chiesto Joffe, tanti professori continuano a insegnare teorie che la realtà sta smentendo? A un collega ha chiesto: perché hai inserito nel tuo ultimo libro di testo una teoria palesemente falsificata? Risposta: l’ho fatto perché l’editore se l’aspettava. Nel frattempo, segnala Carlo Formenti, qualcosa si muove: l’Istituto per il rinnovamento del pensiero economico (Inet), presieduto da un altro docente di economia della Oxford University, Eric Beinhocker, si è fatto promotore di una campagna per rompere l’egemonia del pensiero mainstream (rigorosamente liberista) nelle università. Obiettivo: restituire serietà scientifica all’economia, tornando a dare spazio alle teorie di Keynes e Marx – che spiegano la crisi attuale assai meglio di altre.
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Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito
Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro. E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.(Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
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Pritchard: se resta nell’euro, nel 2014 l’Italia collassa
Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente. E il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.Per l’Italia, il disastro è imminente: «Senza un cambio di strategia forte», si prevede lo tsunami già nel 2014. «Il paese ha un avanzo primario del 2,5% del Pil, e ciononostante il suo debito continua ad aumentare: il dramma dell’Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro», dice Pritchard nell’intervista concessa ad Alessandro Bianchi e ripresa da “Come Don Chisciotte”. «La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell’euro in Germania. Ma oggi c’è una minaccia più grande. E se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema». Fuori dall’euro, dunque. «Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff e i paesi dell’Europa meridionale devono smascherarlo. L’ora del confronto è arrivata». E Letta? Non pervenuto. Pritchard l’ha incontrato a Londra. «Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri paesi dell’Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del sud».Per l’analista inglese, «si tratta di un approccio assolutamente deludente», perché «come anche Hollande in Francia, Letta è un fervente credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l’attuale situazione sia un completo disastro». Chi agita la paura dell’uscita dall’euro dice che la svalutazione produrrebbe iper-inflazione, e questo metterebbe ko la nostra industria di fronte alla concorrenza della Cina. E’ vero esattamente il contrario, dice Pritchard: Pechino ha gioco facile col super-euro proprio perché mantiene lo yuan sottovalutato. La moneta europea è il nostro vero handicap: «L’euro è un’autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio». Da quando vige la moneta della Bce, l’Europa ha perso rilevanti quote di mercato e l’export italiano è crollato. E a chi sostiene che un’uscita disordinata dall’euro produrrebbe iper-inflazione e impennate nei prezzi, Pritchard risponde che già ora i prezzi sono fuori controllo. Eppure, continuiamo a farci del male: in Italia il rapporto debito-Pil in soli due anni è schizzato dal 120 al 133%. E’ la trappola che sta portando il paese al collasso: «Il problema da combattere oggi è la deflazione, e non l’inflazione».Dalla stessa trappola, ricorda il giornalista del “Telegraph”, la Gran Bretagna uscì due volte – negli anni ’30 del Gold Standard e poi durante la crisi dello Sme nel ’91-92 – con lo stesso strumento: rafforzamento della sovranità monetaria e svalutazione per stimolare la ripresa. Il fantasma-inflazione? Smentito dai fatti: lo stimolo monetario ha prodotto nuova economia, senza alcun “impazzimento” dei prezzi. Per cui, «se dovesse lasciare l’euro, l’Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d’Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo: questa combinazione garantirebbe al paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo». Ritorsioni da Berlino? «Niente di più falso», replica Pritchard: «Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche e le assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento». Inoltre, «le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali». Quindi, la Bundesbank correrebbe ad acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo.«Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell’interesse dei paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica». Lo sanno bene gli economisti di Parigi che ispirano la svolta sovranista di Marine Le Pen, che a partire dalle europee 2014 potrebbe dare la scossa necessaria all’inversione di rotta. «Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall’euro – con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi: se questi non l’accetteranno, la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania». Poi c’è la proposta di un referendum sull’Ue sul modello inglese proposto da Cameron. Prima reazione a Bruxelles: gli inglesi sarebbero “stupidi suicidi”. «Argomentazioni ridicole», afferma Pritchard: tutti sanno che, senza Londra (più l’Olanda e la Scandinavia), l’Ue sarebbe finita, e salterebbe anche l’equilibrio tra Francia e Germania. «La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l’integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri».La Costituzione europea, continua Pritchard, è stata rigettata dai referendum in Francia e in Olanda. Trattati imposti contro la volontà popolare? «Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito». Problema fondamentale: la confisca della politica economica nazionale. A imporre le tasse e i tagli alla spesa non può essere un organismo non eletto democraticamente. «Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a stati come Virginia o il Massachusetts». Quello che sta facendo Bruxelles è «pericoloso e antidemocratico». L’alibi è la salvezza dell’euro? «E’ ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non alla salvezza di una moneta. I paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare».Con buona pace degli eurocrati alla Enrico Letta, l’orizzonte decisivo è quello delle europee 2014, col previsto boom degli euroscettici. «Oggi il pericolo maggiore per i paesi dell’Europa meridionale si chiama crisi deflattiva», cioè: mancanza di liquidità, tagli alla spesa, asfissia dell’economia. La recessione «potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica, in grado di rendere fuori controllo la traiettoria debito-Pil: è un potenziale disastro». In questo contesto, per il giornalista inglese, la politica si deve porre l’obiettivo del ritorno di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles. Le elezioni del maggio prossimo? «Saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell’attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi paesi – l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia». Parleranno i popoli: gli elettori potranno «esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles». Così, «un blocco politico importante potrà distruggere questo “mito artificiale” che si è costruito: l’Ue non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali». In altre parole: «I governi di Italia, Spagna e Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all’allargamento all’Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell’ultima battaglia».Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente, e il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.
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Nato economica: giudici scavalcati, il business sarà legge
«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».Il meccanismo attraverso cui si arriva a tutto ciò, scrive Monbiot in un servizio ripreso da “Megachip”, è noto come “investor-State dispute settlement”, cioè: risoluzione delle controversie tra Stati e investitori. «E’ già utilizzato in molte parti del mondo per togliere di mezzo le regolamentazioni a tutela delle persone e del pianeta vivente». Primo esempio, l’Australia: dopo un lungo dibattito dentro e fuori del Parlamento, il governo ha deciso che le sigarette avrebbero dovuto essere vendute in semplici pacchetti, contrassegnati solo con delle scioccanti avvertenze per la salute. Decisione convalidata dalla Corte Suprema australiana. «Ma, in seguito a un accordo commerciale tra l’Australia e Hong Kong, la società del tabacco Philip Morris ha agito presso un tribunale offshore per ottenere una ragguardevole somma a titolo di risarcimento per la perdita di quella che definisce una sua proprietà intellettuale». Altro caso, l’Argentina: durante la crisi, in risposta alla rabbia popolare, Buenos Aires aveva imposto il congelamento delle tariffe dell’energia e dell’acqua. Anche lì, però, il governo è stato citato in giudizio da quelle stesse società (internazionali) decise a lucrare sui servizi. Morale: «L’Argentina è stata costretta a pagare più di un miliardo di dollari di risarcimento».Stesso copione nel Salvador, dove le comunità locali hanno pagato un caro prezzo (tre attivisti uccisi) per convincere il governo a rifiutare la concessione per una grande miniera d’oro che minacciava di contaminare le riserve idriche. «Una vittoria per la democrazia? Non per molto, forse», annota Monbiot. «La società canadese che aveva chiesto la concessione ora sta citando El Salvador per 315 milioni di dollari – per la perdita dei suoi profitti futuri». Dal Salvador al Canada: un tribunale aveva revocato due brevetti di proprietà della società americana Eli Lilly, perché la società non aveva prodotto prove sufficienti sui presunti effetti benefici dei suoi prodotti. Eli Lilly ora sta facendo causa al governo canadese per 500 milioni di dollari, e chiede che le leggi sui brevetti del Canada siano cambiate. «Queste aziende (insieme a centinaia di altre) stanno utilizzando le regole sulla risoluzione delle controversie investitore-Stato incorporate nei trattati commerciali firmati dai paesi», scrive il giornalista del “Guardian”. «Le regole sono applicate da giurie che non offrono nessuna delle garanzie assicurate nei nostri tribunali».Le audizioni si svolgono a porte chiuse e i giudici sono avvocati aziendali, molti dei quali lavorano per le stesse società che agiscono in giudizio. I cittadini e le comunità colpite dalle loro decisioni non hanno più alcun valore legale: attraverso quei “giudici del business”, le aziende «possono rovesciare la sovranità dei Parlamenti» e perfino le sentenze delle corti supreme nazionali. Ammette uno dei giudici di questi tribunali: «A tre individui privati è affidato il potere di rivedere, senza alcun limite e senza possibilità di appello, tutte le azioni dei governi, tutte le decisioni dei tribunali, e tutte le leggi di regolamentazione emanate dal Parlamento. Non ci sono dei corrispondenti diritti dei cittadini, osserva Monbiot. «Non possiamo agire in questi tribunali per chiedere una migliore protezione dall’avidità delle società». Come dice il Democracy Centre, questo è «un sistema di giustizia privatizzata per società globali». Parlando delle regole introdotte dal North American Free Trade Agreement, un funzionario del governo canadese rivela: «Ho visto lettere in arrivo da New York e da studi legali con sede a Washington, praticamente su tutte le nuove normative e proposte a tutela dell’ambiente degli ultimi cinque anni. Riguardano prodotti chimici per lavaggio a secco, prodotti farmaceutici, pesticidi, diritti dei brevetti. Praticamente tutte le nuove iniziative sono state prese di mira e la maggior parte non ha mai visto la luce del giorno».Tecnicamente, è la fine della democrazia. E questo, aggiunge Monbiot, è esattamente «il sistema che ci governerà se il trattato transatlantico va avanti». Gli Usa e la Commissione Europea? Entrambi “catturati” dalle multinazionali. Per Bruxelles, i tribunali nazionali non offrono alle aziende una protezione adeguata perché «potrebbero essere prevenuti o non indipendenti». E’ vero il contrario, scrive il “Guardian”: «E’ proprio perché i nostri tribunali generalmente non hanno pregiudizi e sono indipendenti che le imprese vogliono bypassarli». Così, le nuove regole sulle controversie tra investitori e Stati «potrebbero essere utilizzate per distruggere ogni tentativo di salvare il sistema sanitario nazionale dal controllo societario, di regolamentare di nuovo le banche, di frenare l’avidità delle compagnie energetiche, di rinazionalizzare le ferrovie, di lasciare i combustibili fossili nel terreno». Queste regole, sintetizza Monbiot, «distruggono le alternative democratiche» e «mettono fuorilegge le politiche di sinistra», decretando la fine del welfare e della sicurezza sociale, storico pilastro dell’Europa nella quale siamo tutti cresciuti. “Riforme” clandestine, sostenute di soppiatto dai nostri attuali politici: «Questo è il motivo per cui non vi è stato alcun tentativo da parte del governo britannico di informarci su questa mostruosa aggressione alla democrazia, per non parlare poi di fare una consultazione popolare». A tacere sono i politici che «sbuffano a sentir parlare di sovranità», conclude Monbiot. «Svegliamoci, gente: ci stanno fregando».«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».
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Sapelli: ripulire i nostri risparmi, per mettere l’Italia ko
I dati che giungono dalla Commissione Europea con le sue previsioni economiche di autunno sono disarmanti: più debito e più deficit, meno crescita. È un circolo vizioso che si alimenta da sé. Se non vi è domanda aggregata, la crescita è possibile solo se vi è una via per le esportazioni. Ma la via dell’export è stretta e solo pochi alpinisti possono scalare quei sentieri. Il dato spagnolo è impressionantemente efficace. La cosiddetta ripresa di quel paese deriva da una crescita della produzione automobilistica – non solo, naturalmente, ma soprattutto – in particolare degli stabilimenti Ford. Ma se si vanno a vedere i numeri degli occupati – anche il “Financial Times” ha dovuto ammetterlo – la situazione è sconcertante: solo duemila i lavoratori in quegli impianti, grazie a condizioni salariali basse e precarie. I sindacati spagnoli (i socialisti dell’Ugt in testa, gli ex comunisti del Ccco un po’ più cauti) le hanno accettate perché considerano essenziale dare lavoro costi quel che costi!Quindi, la ripresa nell’Europa del Sud è una temperata sospensione della caduta, e non un recupero, del Pil, ossia dello stock di capitale fisso che è andato perduto negli ultimi venti anni. La causa di ciò è la deflazione imposta dalla Germania a tutta l’Europa. L’Italia è colpita in pieno. I dati statistici su cui si litiga anticipano la vera battaglia che inizierà con l’unione bancaria. Si coglierà – da parte di molteplici troike – l’occasione della verifica sui bilanci per reclamare, come sempre ha fatto Mario Draghi dal 1992 a oggi, la privatizzazione delle banche. Ed essa sarà fatta, come si ripete dopo Cipro, grazie al risparmio (per chi ancora lo ha) delle famiglie e delle piccole imprese. Lo si drenerà spietatamente con ogni mezzo.Saccomanni è stato chiaro alcune settimane or sono, poco intelligentemente disvelando il piano. Le banche sono esauste, che giungano quindi le shadow banks e le dark pools, cioè un sistema parabancario speculativo che i nostri governanti amano! E pure ancor si predica la ripresa! Bruxelles ha il pudore di spostarla al 2014-2015, ma il pericolo è che tra un anno non rimanga più nulla. Naturalmente un’alternativa a questa sorta di distruzione del credito per l’economia reale esiste. È il ritorno alla separazione tra banca commerciale e banca d’investimento, evitando l’eccesso di capitalizzazione che sarà richiesto alle banche non separate. La super-capitalizzazione non elimina il rischio e drena capitale produttivo trasformandolo in capitale come costo. Il risultato sarà il contrario di quello che si vuol produrre. Paradossalmente, pur tra mille ostacoli, il mondo anglosassone va dritto verso la separazione; solo l’Europa della Bce va dritta verso la rovina.(Giulio Sapelli, “C’è un piano per mettere in ginocchio l’Italia”, da “Il Sussidiario” del 6 novembre 2013).I dati che giungono dalla Commissione Europea con le sue previsioni economiche di autunno sono disarmanti: più debito e più deficit, meno crescita. È un circolo vizioso che si alimenta da sé. Se non vi è domanda aggregata, la crescita è possibile solo se vi è una via per le esportazioni. Ma la via dell’export è stretta e solo pochi alpinisti possono scalare quei sentieri. Il dato spagnolo è impressionantemente efficace. La cosiddetta ripresa di quel paese deriva da una crescita della produzione automobilistica – non solo, naturalmente, ma soprattutto – in particolare degli stabilimenti Ford. Ma se si vanno a vedere i numeri degli occupati – anche il “Financial Times” ha dovuto ammetterlo – la situazione è sconcertante: solo duemila i lavoratori in quegli impianti, grazie a condizioni salariali basse e precarie. I sindacati spagnoli (i socialisti dell’Ugt in testa, gli ex comunisti del Ccco un po’ più cauti) le hanno accettate perché considerano essenziale dare lavoro costi quel che costi!
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Il chip Nato che spia gli scolari e fa schiantare le auto
Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.«Il nostro sistema giudiziario, la polizia e i nostri giornalisti investigativi – sostiene Gosling in un post su “Rt”, ripreso da “Come Don Chisciotte” – non sono capaci di capire la tecnologia complessa», in continua evoluzione, «per non parlare della raccolta di prove sufficienti a decidere se questi eventi disastrosi siano incidenti o omicidi». La strana morte di Hastings? Un monito: le nostre libertà stanno andando in frantumi. Succede, dice Gosling, perché «in Occidente la tecnocrazia sta lentamente rimpiazzando la democrazia». Da quando «i mercati finanziari e gli oscuri gnomi di Zurigo hanno cominciato a scegliere i nostri leader politici», i super-tecnocrati, «strozzini e simpatizzanti della Goldman Sachs, la piovra che sta venendo fuori quale vero potere del mondo occidentale», utilizzano anche compagnie poco note, che però «detengono brevetti di valore» e, come prestigiatori, «producono e immettono sul mercato nuovi sfavillanti dispositivi scientifici».Tecnologia che in mano pubblica sarebbe liberatoria, mentre in mano ai “predoni” può fare disastri. E senza che ce ne rendiamo conto: «Quando i nostri deputati, giornalisti e avvocati memorizzano i dati della loro rubrica telefonica usando un servizio di sincronizzazione, o fanno un backup di documenti su “The Cloud”, non hanno nessuna idea di dove vada a finire il loro prezioso lavoro. Condividono i loro dati senza pensarci troppo con aziende che potrebbero tranquillamente copiarli, rivenderli a terzi o perfino corromperli prima di farglieli riavere». I super-tecnocrati della “rivoluzione digitale”, continua Gosling, hanno precisi progetti per i prossimi decenni: «Rubano terreno ai governi eletti usando la “riservatezza commerciale” per tenere all’oscuro la stampa, i politici e il pubblico». E oggi, cioè nell’era della sorveglianza di massa, con l’opinione pubblica narcotizzata dal mainstream, «possono acquistare le informazioni per sapere ciò che i politici eletti stanno per fare, o perfino quello che hanno intenzione di fare, e investire così vaste risorse in contromosse».Tecnologia invisibile per controllare tutti. E anche per uccidere, per esempio chi è al volante della propria auto? A confermare indirettamente i pesanti sospetti sulla fine di Michael Hastings è la rivista “Autoweek Magazine”, che si domanda: «Chi è al controllo della tua auto? Governo e privati adesso possono controllarla a distanza». I computer di bordo sono penetrabili da hacker? E se il dispositivo si inchioda, causando un’accelerazione involontaria e un incidente mortale? «Più una tecnologia è poco visibile – aggiunge Gosling – e più è alta la probabilità che rimanga non regolamentata». Non solo: a utilizzarla saranno soprattutto giovani, portati ad accettarla «senza porsi troppe domande, in quanto “cool”». Tra le tecnologie segrete meno comprese e praticamente non regolamentate c’è l’insidioso chip Rfid, “Radio Frequency Identifcation”, che rileva i movimenti tramite le frequenze radio. «Si tratta di piccoli “trasponder” wireless a circuito stampato, usati perlopiù per tracciare i movimenti in magazzino, sebbene siano in aumento per quanto riguarda il pagamento tramite carte di credito “contactless”, senza contatto». Questi chip, continua Gosling, sono elettricamente attivi per anni, alcuni anche per tempi indefiniti.Dal settembre 2013, gli scolari inglesi sono schedati in modo digitale: il governo britannico ha eseguito la scansioni dell’iride oculare, del riconoscimento facciale, dell’impronta del dito e del palmo – in una parola, la “biometria” degli alunni. Solo che sta crescendo il numero di minori che rifiutano di sottoporsi alla schedatura, introdotta per automatizzare i sistemi di ingresso alle mense e alle biblioteche. Nel caso la “biometria” venisse abbandonata, assicura Gosling, è già pronta la tecnologia Rfid: «Dal 2010 al febbraio 2013, il West Cheshire College vicino Liverpool ha dato a tutti i suoi studenti dei cartellini da indossare con dei chip compatibili, 433 Mhz». Certo, quei cartellini «permettono agli studenti di usufruire dei servizi». Ma i sensori disseminati in tutta la scuola «consentono di tracciare i movimenti degli studenti nel campus, come dei puntini da seguire sullo schermo». Attenzione: quando un giornale nel febbraio 2013 chiese chiarimenti al preside, il fornitore dei chip li fece sparire dalla scuola, eliminando ogni traccia di sensori e cartellini.Quei sensori, forniti da un’azienda che si chiama Zebra, offrivano la possibilità di monitorare i ragazzi non solo da parte delle autorità scolastiche, ma anche dai militari: l’origine Nato della tecnologia, e quindi la necessità di proteggerne la segretezza, secondo “Rt” spiega la rapidità della “sparizione delle prove” dal college inglese usato come area-test. La Nato, racconta Gosling, dispone di un sistema Rfid riservato, chiamato “In Transit Visibility Network”, con sensori 433 Mhz sparsi in tutto il nord America e l’Europa occidentale. Una mappatura che serve a «tenere d’occhio le munizioni, i serbatoi e altri armamenti quando si spostano da un posto all’altro». Fin qui, tutto bene. A patto però che, a finire “microchippate” a nostra insaputa, già al momento della fabbricazione, non siano anche le nostre auto, insieme ai nostri telefoni, le carte di credito e magari anche «i nostri figli, quando durante il giorno vanno in giro innocentemente».Anziché proteggerci, conclude Gosling, la Nato e i tecnocrati dell’industria militare «stanno trasformando ogni singolo essere umano in un sospetto criminale». E questo, senza l’autorizzazione di nessun giudice. Più che una “rivoluzione digitale”, «la loro idea è quella di una gabbia digitale: mai gli incubi malati dei peggiori tiranni sono stati così vicini all’essersi realizzati». Il mondo civile ora deve assolutamente «bloccare i veicoli computerizzati e questa tecnologia Rfid, e renderla soggetta al consenso del singolo e dei genitori, così come ha fatto la Gran Bretagna con la “biometria”». Meglio agire in fretta, «prima che le nostre scuole e le nostre strade diventino prigioni digitali e i nostri figli siano seguiti dai militari ovunque vadano».Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.