Archivio del Tag ‘governo’
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Le Pen, Rivoluzione Francese: via da euro, Ue e Nato
Addio all’euro, all’Ue a anche alla Nato, e largo ai referendum come strumento di democrazia diretta a supporto del governo. «Io sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini». A pochi mesi dalle elezioni, Marine Le Pen annuncia che, se diverrà presidente, procederà a due referendum. Uno sull’Europa, per uscire dall’euro e dall’Unione Europea: «Spero che il sistema europeo diventi per tutti solo un brutto ricordo». La Francia – altra notizia, clamorosa – si sgancerebbe anche dall’Alleanza Atlantica, tuttora impiegata in chiave anti-Russia: la Le Pen lascerebbe il “comando integrato” della Nato, con una decisione che rievoca il sovranismo anche militare di Charles De Gaulle. In più, Marine Le Pen – data in testa al primo turno, in programma per il 23 aprile – annuncia anche un referendum istituzionale, per introdurre la possibilità di andare alle urne, con un minimo di 500.000 firme, per chiedere di fare una nuova legge o per bocciarne una già adottata dal Parlamento. «Le Pen e la Francia scoprono i referendum come strumenti di democrazia partecipativa», scrive “La Stampa”, commentando il discorso con cui, a Lione, la Le Pen ha lanciato la campagna elettorale che sta facendo tremare Bruxelles.«Da quando sono venute fuori le rivelazioni sugli stipendi intascati dalla moglie di Fillon per un’attività di assistente parlamentare, che probabilmente non ha mai svolto», la leader francese «è data sempre prima nei sondaggi relativi al primo turno delle presidenziali», scrive Leonardo Martinelli sul quotidiano torinese. «La sua battaglia, comunque, non è vinta, perché nelle stesse inchieste appare costantemente sconfitta al ballottaggio». In ogi caso, la Le Pen suona la carica: annuncia da subito 144 misure di governo, alcune rivoluzionarie, e si presenta in modo «altamente battagliero». Tanto per chiarire: «Da queste elezioni dipende il futuro della Francia come nazione libera», dice. «Non mi interesso solo al patrimonio materiale dei francesi – precisa – ma anche al loro capitale immateriale». Sul piano economico, Marine Le Pen vuole imporre una tassa del 3% su tutte le importazioni per finanziare l’aumento degli stipendi e delle pensioni più basse. E, come Trump, parla di «protezionismo intelligente», un sistema che permetterà, ad esempio, di tassare le società francesi che hanno delocalizzato all’estero per fabbricare prodotti da vendere poi sul mercato nazionale.«Madame Le Pen ha scoperto le sue carte», prende nota Marco Bresolin, sempre sulla “Stampa”. «L’annuncio del referendum per uscire dalla Ue (e dalla Nato) conferma un’intenzione nota da tempo». Tutti sapevano che prima o poi sarebbe arrivato, «ma forse in pochi si aspettavano un’uscita netta così in anticipo, destinata a trascinare l’Europa al centro della campagna elettorale francese, per molto tempo». Mancano infatti ancora più di tre mesi all’elezione del nuovo presidente (il ballottaggio è fissato per il 7 maggio) e «sull’asse Bruxelles-Parigi, idem su quello tra Bruxelles e le altre capitali, saranno tre mesi di fibrillazioni». I sondaggi danno Marine Le Pen al primo posto davanti a tutti gli altri candidati alle presidenziali francesi. Solo lei raggiunge il 25%, il che – per contro – significa che il 75% le sarebbe avverso: «E i precedenti rivelano che in casi come questi i francesi si sono già dimostrati pronti a costruire una coalizione anti-Front nel nome del “voto utile” (Chirac fu sostenuto dai socialisti nel 2002 al ballottaggio con Le Pen padre)». Già, ma erano altri tempi: l’euro e Bruxelles non avevano ancora “terremotato” la vita dei francesi.In ogni caso, Bruxelles «non può far finta di nulla, non può attendere il 7 maggio per preparare le eventuali contromosse», scrive Bresolin, perché – in contemporanea con la campagna elettorale francese – l’agenda a dodici stelle prevede una serie di appuntamenti-chiave: «In questi novanta giorni l’Ue dovrà iniziare a trattare il divorzio con la Gran Bretagna, che notificherà ufficialmente la sua intenzione di uscire dall’Unione entro la fine di marzo». Attenzione: «L’atteggiamento riservato a Londra sarà un messaggio anche alle altre capitali tentate dalla fuga». Ma non è tutto: «Tra meno di due mesi (il 25 marzo) Roma ospiterà il summit che avrà il compito di ridisegnare l’Europa del futuro. Domanda: che futuro potrebbe avere un’Europa che, dopo la Gran Bretagna, si trovasse orfana anche della Francia, uno dei sei paesi fondatori?». Il pensiero dominante a Bruxelles è che una “Frexit” non sarebbe la stessa cosa della Brexit, «semplicemente per il fatto che, già oggi, i ruoli di Francia e Gran Bretagna nella Ue sono molto diversi tra di loro. Parigi è uno dei pilastri dell’Unione e – a fasi alterne – anche locomotiva», aggiungre Bresolin. Londra, al contrario, si è sempre defilata, ottenendo un trattamento di favore: mai entrata nell’euro, e neppure nell’area Schengen.Anche vista delle elezioni francesi, continua Bresolin, assume un’importanza speciale il vertice europeo di Roma. «Paul Magnette, leader della Vallonia, balzato agli onori delle cronache in autunno per aver tenuto sotto scacco il Ceta (accordo commerciale Ue-Canada), ha buttato lì una soluzione radicale: per il bene dell’Europa, il socialista belga ha auspicato che altri Stati prendano la strada della Gran Bretagna». Magnette ha citato la Polonia, l’Ungheria, la Romania e la Bulgaria, «paesi che alcuni governi considerano ancora come “zavorre”», ma ha anche parlato di Danimarca e Svezia, «con cui si potrebbe restare legati solo da un meno vincolante accordo commerciale». L’Italia è invece allineata al suo maggiore avversario, Angela Merkel, che sostiene «un’Europa disegnata a cerchi concentrici, con gradi di integrazione variabili». Un’Europa che Bresolin definisce «più flessibile e dunque più dinamica», e che sarebbe «la ricetta per reagire alla Brexit», e anche «per scongiurare un risultato simile se anche i francesi, in caso di clamorosa vittoria di Le Pen, si trovassero a decidere il loro destino europeo con un referendum», cioè con un esercizio di democrazia: roba da mandare nel panico i signori dell’Ue, che hanno pianificato la devastazione neoliberista dell’economia europea a cominciare da quella italiana, rovinata dall’austerity.Addio all’euro, all’Ue a anche alla Nato, e largo ai referendum come strumento di democrazia diretta a supporto del governo. «Io sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini». A pochi mesi dalle elezioni, Marine Le Pen annuncia che, se diverrà presidente, procederà a due referendum. Uno sull’Europa, per uscire dall’euro e dall’Unione Europea: «Spero che il sistema europeo diventi per tutti solo un brutto ricordo». La Francia – altra notizia, clamorosa – si sgancerebbe anche dall’Alleanza Atlantica, tuttora impiegata in chiave anti-Russia: la Le Pen lascerebbe il “comando integrato” della Nato, con una decisione che rievoca il sovranismo anche militare di Charles De Gaulle. In più, Marine Le Pen – data in testa al primo turno, in programma per il 23 aprile – annuncia anche un referendum istituzionale, per introdurre la possibilità di andare alle urne, con un minimo di 500.000 firme, per chiedere di fare una nuova legge o per bocciarne una già adottata dal Parlamento. «Le Pen e la Francia scoprono i referendum come strumenti di democrazia partecipativa», scrive “La Stampa”, commentando il discorso con cui, a Lione, la Le Pen ha lanciato la campagna elettorale che sta facendo tremare Bruxelles.
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Soviet 5 Stelle, è il trucco perfetto per non governare mai
Avete presente quei vecchi film sulla guerra fredda, in cui i militari dell’esercito dell’Urss, anche i più alti in grado, agivano timidamente sotto l’occhio vigile dell’ufficiale politico, a cui bastava una parola per mandare chiunque nei campi di concentramento siberiani? Il nuovo diktat lanciato dal blog dell’ex comico diventato leader maximo è in pratica la stessa cosa: tutte le comunicazioni pubbliche degli eletti 5 Stelle, siano a mezzo stampa, tv o web, dovranno essere vagliate ed autorizzate dal sov, ehm, dagli addetti appuntati da Grillo in persona. Pena il “licenziamento”. Con buona pace della lotta di anni contro chi voleva mettere il bavaglio al web. Grillo, ai suoi, il bavaglio glielo mette prima che arrivino al web. «Com’è democratico, Lei…», direbbe Fracchia. L’imposizione arriva con la scusa delle trappole che i giornalisti cattivoni tendono ai giovani virgulti pentastellati. Ma forse a Grillo non sono andate giù le esternazioni degli europarlamentari del suo partito, che un paio di settimane fa erano rimasti sconcertati dalle manovre fatte alle loro spalle per portare via il partito dal gruppo degli euroscettici e farlo unire ai montiani di ferro.Alcuni europarlamentari avevano dichiarato il loro dissenso sui loro account social, e sono usciti dal partito dopo la votazione bulgara sulla piattaforma di Casaleggio, nonostante che poi i montiani dell’Alde hanno almeno avuto la coerenza di mandare Grillo a stendere. E così, tutti sottoposti a censura preventiva. Tutti tranne il capo, ovviamente, che poi spesso è quello che ne avrebbe più bisogno, viste certe sue uscite infelici. L’ultima delle quali è «la politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come Donald Trump e Vladimir Putin», frase che Grillo ha immediatamente smentito accusando i giornalisti di avere tradotto male le sue parole. Peccato solo che l’autore dell’articolo apparso su un giornale francese abbia, a quanto pare, una copia dell’articolo firmata da Grillo stesso dopo averlo riletto e approvato. Forse ha bisogno lui di un addetto personale che gli ficchi un tappo in bocca quando serve, più che ai suoi parlamentari. In realtà però anche queste spiegazioni sono insoddisfacenti. Chiunque abbia occhi non può non aver notato che i più grandi autogol del Movimento 5 Stelle non sono venuti dai parlamentari, anzi!Ciò che allontana sempre più persone dal sogno a 5 stelle è principalmente colpa dello stesso Grillo e dei suoi più intimi: le espulsioni dei dissidenti, poi il voltafaccia fallito in Europa, e ora la censura preventiva modello Stalin, sembrano proprio misure fatte apposta per perdere consensi. E in effetti dopo il fallimento di Renzi al referendum, i 5 Stelle corrono il rischio di essere il primo partito in ipotetiche elezioni. “Fortuitamente”, Gentiloni & Co. faranno in modo che si vada a votare il più tardi possibile, di modo che Grillo abbia tutto il tempo di ridurre i consensi dei 5 Stelle. D’altronde la strategia è chiara da anni: evitare il rischio di potere/dovere andare davvero al governo, e mantenere un contenitore del dissenso di dimesioni adeguate che sia formato il più possibile da individui fideizzati e poco critici. D’altronde Grillo stesso ha confermato che non farà mai alleanze con «i partiti che hanno devastato l’Italia», il che, a meno che i 5 stelle non prendano la maggioranza assoluta, significa che vuole stare all’opposizione pure dopo le prossime elezioni.I pentastellati di spicco blaterano di voler portare avanti il programma votato dai loro elettori nel 2013, ma come si fa a portare avanti un qualsiasi programma quando si è sempre in minoranza e non si fanno accordi? Se avessero voluto realmente portare avanti il programma, si sarebbero accordati con il debole Bersani all’epoca, potendo imporre molte condizioni; in quel modo di certo avrebbero avuto l’opportunità ed il peso per farne attuare almeno una parte. Si chiama democrazia, e la Costituzione che abbiamo appena difeso si basa proprio sul principio dell’ingovernabilità, ovvero è stata progettata per garantire che le varie fazioni si mettano d’accordo a tutti i livelli, i belli con i brutti, i santi coi peccatori, e nel periodo in cui è stata applicata ha funzionato benissimo. Invece la scelta infausta di 4 anni fa sembra che sarà ripetuta anche la prossima volta. E non ci sembra che in questi 4 anni siano state portate avanti parti rilevanti del programma grillino. La pena maggiore è per quei tanti bravi parlamentari che credevano veramente di stare partecipando ad una forza di cambiamento. Che hanno lavorato e lavorano sodo, ma che poi non vedono mai frutti realmente importanti.(Enrico Carotenuto, “Soviet a 5 stelle: tutte le comunicazioni dei parlamentari dovranno essere vagliate dagli ‘ufficiali politici””, da “Coscienze in Rete” del 25 gennaio 2017).Avete presente quei vecchi film sulla guerra fredda, in cui i militari dell’esercito dell’Urss, anche i più alti in grado, agivano timidamente sotto l’occhio vigile dell’ufficiale politico, a cui bastava una parola per mandare chiunque nei campi di concentramento siberiani? Il nuovo diktat lanciato dal blog dell’ex comico diventato leader maximo è in pratica la stessa cosa: tutte le comunicazioni pubbliche degli eletti 5 Stelle, siano a mezzo stampa, tv o web, dovranno essere vagliate ed autorizzate dal sov, ehm, dagli addetti appuntati da Grillo in persona. Pena il “licenziamento”. Con buona pace della lotta di anni contro chi voleva mettere il bavaglio al web. Grillo, ai suoi, il bavaglio glielo mette prima che arrivino al web. «Com’è democratico, Lei…», direbbe Fracchia. L’imposizione arriva con la scusa delle trappole che i giornalisti cattivoni tendono ai giovani virgulti pentastellati. Ma forse a Grillo non sono andate giù le esternazioni degli europarlamentari del suo partito, che un paio di settimane fa erano rimasti sconcertati dalle manovre fatte alle loro spalle per portare via il partito dal gruppo degli euroscettici e farlo unire ai montiani di ferro.
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Bella democrazia, se il popolo italiano non conta più niente
Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo. Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), «l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher». Camusso ha ragione: «Non c’è libertà nel lavoro senza diritti». Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: «Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita»). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5 Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale? È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così.Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo. Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastallati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.(Angelo Cannatà, “Democrazia, se il popolo non conta più nulla”, da “Micromega” del 16 gennaio 2017).Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo. Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?
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Sicuri che Matteo Renzi si chiami davvero Matteo Renzi?
Il Cazzaro ha passato la campagna referendaria a promettere che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato dalla politica. Naturalmente non l’ha fatto. Indovinate perché. Vi do un aiutino. Perché è un cazzaro. È rimasto qualcuno che creda ancora alle parole di Matteo Renzi? A questo punto c’è persino da chiedersi se si chiami davvero Matteo Renzi. Invece di rendere conto della disfatta, mercoledì scorso ha liquidato la direzione del suo partito con un surreale comizietto trionfalistico pieno delle sue solite millanterie miste a spiritosaggini da cena aziendale, lasciando basiti i convocati, a cui è stato impedito di controbattere. Dopodiché ha ricominciato immediatamente a intrigare per restare al potere, personalmente come segretario del Pd, e al governo attraverso un suo fedelissimo, Paolo Gentiloni Silveri, rampollo dei Conti Gentiloni Silveri di Filottrano, Cingoli e Macerata, sessantottino pentito, ed ex delfino di Rutelli come Renzi. Quale migliore risposta all’incazzatura popolare che affidare la presidenza del Consiglio a un conte?Esecutore degli stessi mandanti, come pattuito il governo del conte Gentiloni è programmato per essere la fotocopia in bianco e nero di quello del Cazzaro, e durare almeno sei mesi. La scusa ufficiale è che occorrano soprattutto per rifare la legge elettorale. Indovinate un po’. Vi do un altro aiutino. È una cazzata. L’Italicum è una legge ordinaria, per abrogarla basta un voto parlamentare a maggioranza semplice, non c’è bisogno d’aspettare il parere della Consulta, volendo non ci vogliono sei mesi e nemmeno sei giorni. Abrogando l’Italicum, e ripristinando anche alla Camera il cosiddetto Consultellum, il proporzionale risultato dalle modifiche della Consulta al Porcellum, si potrebbe votare subito. Per quanto il Consultellum sia racchio, l’Italicum fa schifo al cazzo, come tutte le cose prodotte dal governo Renzi. È l’ultimo rimasuglio di quella controriforma fascistoide e golpista che abbiamo giustamente appena respinto a calci in culo.L’unico motivo per cui Grillo adesso sembra gradirlo, seppure corretto, è perché pensa di poterci vincere le elezioni. Originariamente confezionato dai renziani apposta per garantire il potere assoluto al loro spocchioso ducetto, l’Italicum s’è invece rivelato di fatto della taglia del M5S di Grillo. E i renziani danno degli incapaci ai grillini. Nei prossimi mesi, con l’aiuto dei berlusconiani più esperti di loro in riformaialate, i renziani cercheranno di scucire l’Italicum e ricucirlo di nuovo su misura del Cazzaro, che nel frattempo dovrà però faticare per non finire divorato dalle formiche carnivore della minoranza Pd che ha cercato di schiacciare per anni, e che ovviamente non vedono l’ora di vendicarsi. Se “Bastonare il Cazzaro che affoga” sarà il loro motto, per una volta avranno qualcosa da insegnarci. Infatti, benché la nostra del No al referendum sia stata una grande, epocale vittoria, finora è soltanto una mezza misura. No alla Cazzariforma, e anche alla sua continuazione con altri mezzi. No half measures.(Alessandra Daniele, “Il Patto Cazzaroni”, da “Carmilla online” dell’11 dicembre 2016).Il Cazzaro ha passato la campagna referendaria a promettere che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato dalla politica. Naturalmente non l’ha fatto. Indovinate perché. Vi do un aiutino. Perché è un cazzaro. È rimasto qualcuno che creda ancora alle parole di Matteo Renzi? A questo punto c’è persino da chiedersi se si chiami davvero Matteo Renzi. Invece di rendere conto della disfatta, mercoledì scorso ha liquidato la direzione del suo partito con un surreale comizietto trionfalistico pieno delle sue solite millanterie miste a spiritosaggini da cena aziendale, lasciando basiti i convocati, a cui è stato impedito di controbattere. Dopodiché ha ricominciato immediatamente a intrigare per restare al potere, personalmente come segretario del Pd, e al governo attraverso un suo fedelissimo, Paolo Gentiloni Silveri, rampollo dei Conti Gentiloni Silveri di Filottrano, Cingoli e Macerata, sessantottino pentito, ed ex delfino di Rutelli come Renzi. Quale migliore risposta all’incazzatura popolare che affidare la presidenza del Consiglio a un conte?
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Meno democrazia, più diseguaglianze. Così saltiamo in aria
Se vince il Sì, il governo sarà più forte e i cittadini conteranno ancora di meno. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede «la democrazia come un ostacolo», e il bene comune come «una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi». Come siamo arrivati a questo? La risposta, per Tomaso Montanari, è racchiusa in una parola: diseguaglianza. Secondo l’Istat, l’Italia è il paese in cui – tra 1990 e 2010 – la diseguaglianza sociale è aumentata di più. «Succede in tutto l’Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese». Anche per Joseph Stiglitz, «la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme», mentre l’1% accumula fortune. «Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli – osserva Montanari – l’establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero». E i ricchi, osserva lo storico britannico Tony Judt, «non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri». La cosa più semplice, per il potere? Silenziare il 99%, restringendo la democrazia.«Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi», scrive Judt in “Guasto è il mondo”. «Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico». E se i poveri votano tutti insieme, il sistema può essere rovesciato, conclude Montanari, in una riflessione sull’“Huffington Post”. «Fino a un certo punto la soluzione è a portata di mano: incoraggiare l’astensione di massa». Non a caso il messaggio (dalla Thatcher a Blair, a Renzi) è: “non c’è alternativa”. Tradotto: “non votate, tanto è inutile”. Ma, da un certo punto in poi, l’astensione non basta più: «Per tenere il conflitto sociale fuori dai luoghi in cui si decide bisogna separare questi luoghi (il Parlamento e il governo) dal suffragio popolare, dai cittadini. È per questo che non voteremmo più il Senato e i governi delle Provincie, che le leggi di iniziativa popolare sarebbero in balìa della maggioranza parlamentare, che le Regioni verrebbero espropriate di ogni potere reale».In breve, continua Montanari, «se la diseguaglianza è tale da rendere “pericolosa” la democrazia ci sono due soluzioni: diminuire la diseguaglianza, o diminuire la democrazia. Il governo Renzi ha scelto quest’ultima strada». Il progetto di Renzi è chiaro: ridurre la partecipazione per consentire il perdurare della diseguaglianza. «È per questo che Confindustria, Marchionne, Jp Morgan, l’establishment tedesco e in generale il mercato votano Sì», mentre «la Fiom e tutta la Cgil, Libera, l’Arci, l’Anpi e infinite associazioni di cittadini votano No». Le poche riserve del mondo della finanza (per esempio quelle dell’“Economist”) «non vengono certo da un disaccordo politico, ma dal dubbio (fondato) che le riforme siano così mal congegnate che rischiano di dare un potere blindato nelle mani non dell’establishment», ma di un soggetto percepito come non-complice, cioè Grillo. Per Montanari, votare No significa «aver compreso che così non si può andare avanti: se restringiamo ancora la democrazia, invece di ridurre la diseguaglianza, lo schianto sarà ancora più forte».Secondo Montanari, «una vera classe dirigente» dovrebbe capire che, «se vogliamo evitare lo schianto, gli Stati devono ricominciare a esercitare la sovranità». Ovvero: «La libera circolazione delle merci non può continuare a essere l’unico dogma che regge il mondo: se la Cina continuerà a inondare il mondo di prodotti a costo zero (perché frutto di schiavitù di massa) l’Africa non avrà alcuna possibilità di sviluppo, con conseguenze drammatiche sulle migrazioni». E dato che le sfide sono di questa portata, «il Sì è come un’aspirina per uno che ha bisogno di un trapianto: il No vuol dire mettersi in lista per l’operazione». Ancora: «Il Sì è come mettere il dito nel buco della diga: il No vuol dire avviarsi a svuotare il bacino che sta per tracimare». Qualcuno pensa davvero che si possa andare avanti così? Qualcuno sì, e cioè «chi ha qualcosa da difendere», soprattutto «i benestanti anziani, che preferiscono non chiedersi come faranno i loro figli e i loro nipoti a tenere insieme diseguaglianza e democrazia». Magari «pensano che non ci saranno più quando tutto questo salterà in aria».Se vince il Sì, il governo sarà più forte e i cittadini conteranno ancora di meno. Come ha scritto don Ciotti, chi ha voluto questa “nuova” Costituzione vede «la democrazia come un ostacolo», e il bene comune come «una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi». Come siamo arrivati a questo? La risposta, per Tomaso Montanari, è racchiusa in una parola: diseguaglianza. Secondo l’Istat, l’Italia è il paese in cui – tra 1990 e 2010 – la diseguaglianza sociale è aumentata di più. «Succede in tutto l’Occidente: pochi ricchi sono sempre più ricchi, mentre si allarga la fascia degli impoveriti e la classe media non arriva agevolmente alla fine del mese». Anche per Joseph Stiglitz, «la stragrande maggioranza sta soffrendo insieme», mentre l’1% accumula fortune. «Ma quando la diseguaglianza arriva a questi livelli – osserva Montanari – l’establishment ha un problema: la democrazia. Perché in democrazia il voto di un ricco vale quanto quello di un povero». E i ricchi, osserva lo storico britannico Tony Judt, «non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri». La cosa più semplice, per il potere? Silenziare il 99%, restringendo la democrazia.
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Il No non salva l’Italia? Vero, ma il Sì la peggiora (e molto)
Il voto del 4 dicembre si riduce a un referendum contro Renzi? Ovvio: è stato proprio lui a personalizzare la sfida. E inoltre: la riforma che propone finisce per allontanare ulteriormente il potere dai cittadini. Tutto questo, senza ancora una legge elettorale. Nel caso venisse varato l’Italicum, chi vince si prende tutto. E, con il Sì al referendum, non sarà più ostacolato né dal Senato né dalle Regioni, cui saranno state sottratte molte competenze. Il “fronte del No” spiega così la sua mobilitazione: una sola Camera eletta dai cittadini, l’altra no. E meno voti necessari a eleggere il presidente della Repubblica. Più voti, invece, saranno indispensabili per poter proporre una legge di iniziativa popolare. Inoltre: il governo avrà più poteri, oggi affidati alle Regioni, e le Province saranno definitivamente abolite. A ciò si aggiunge la cancellazione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un ente statale che può proporre iniziative legislative in materia di economia e lavoro, fornendo pareri non vincolanti e solo su richiesta delle istituzioni: Renzi lo presenta come un carrozzone da rottamare.Molte critiche si addensano alla vigilia: Renzi accusa gli oppositori di restare aggrappati a vecchi privilegi di casta, mentre da sinistra a destra di accusa il premier di voler piegare la Costituzione a fini autocratici. Molte voci, poi, considerano la sfida semplicemente inutile e solo retorica, dal momento che la Costituzione è largamente superata dalla legislazione Ue, che ha già ampiamente svuotato nella sostanza la sovranità democratica italiana, col pieno consenso anche degli attuali oppositori di Renzi. Nulla cambierà davvero, in ogni caso, sostengono in molti, perché il vero potere non risiede più a Roma. Per contro, ribattono altri, è proprio il vero potere ad aver imposto a Renzi questa drastica semplificazione istituzionale, che centralizza le grandi decisioni “suggerite” dall’élite finanziaria. Di fatto, quindi, il Sì consegnerebbe alla politica un’Italia ancora più docile e manipolabile dal demiurgo di turno, “l’uomo solo al comando”. Questo, insieme all’ostilità verso Renzi, sembra spingere larghi strati dell’opinione pubblica a scegliere il No, che – stando agli ultimi sondaggi – sarebbe in vantaggio sul Sì di almeno 5 punti.Se vincesse il Sì, alle elezioni politiche si voterebbe solo per la Camera, la sola autorizzata a votare la fiducia al governo. Il nuovo Senato, composto di 100 membri (95 scelti dalle Regioni, tra cui 21 sindaci, e 5 dal presidente della Repubblica) potrebbe pronunciarsi solo sulle leggi costituzionali, quelle che riguardano minoranze linguistiche, i referendum, i trattati Ue, gli enti territoriali. Non è prevista indennità aggiuntiva per i neo-senatori (non avrebbero doppio stipendio), ma resterebbe l’immunità parlamentare. Scomparirebbe anche il limite di età per essere eletti: si potrebbe avere anche meno di 40 anni. Se vincesse il Sì, poi, il capo dello Stato verrebbe eletto solo da deputati e senatori, senza più i 59 delegati regionali. Nelle prime tre votazioni, servirebbero ancora i 2/3 degli aventi diritto, cioè circa 500 elettori; dal 4° al 6° scrutinio basterebbero invece i 3/5 degli aventi diritto (circa 440 elettori); dal 7° in poi, la maggioranza dei 3/5 dei votanti (cioè quelli che presenti in aula e votanti). Il presidente della Repubblica potrebbe sciogliere solo la Camera e non più il Senato. E sarebbe il presidente della Camera (non più quello del Senato) a fare le veci del Quirinale durante l’assenza del Capo dello Stato.Più poteri, inoltre, verrebbero conferiti al governo: nella Costituzione sarebbe inserita una “via preferenziale”, ossia il “voto a data certa”, per consentire all’esecutivo di accelerare l’iter di approvazione di leggi ritenute importanti. Palazzo Chigi potrebbe chiedere alla Camera di inserire un testo tra le priorità, per arrivare al voto definitivo in 70 giorni al massimo, ma starebbe alla Camera accogliere o meno questo iter. Per proporre le leggi di iniziativa popolare, poi, occorrerebbero 150.000 firme, mentre oggi ne bastano 50.000; in compenso, la Camera dovrebbe prounciarsi su ogni legge proposta dai cittadini. Quanto all’abolizione definitiva delle Province – oggi ancora esistenti ma non più elettive, come il futuro Senato previsto dal Sì – il governo propone la loro cancellazione completa (se vince il No, invece, le Province mantengono la loro struttura). Infine, il risidegno delle competenze delle Regioni: tornerebbero di esclusivo appannaggio statale materie come energia, trasporti e infrastrutture strategiche, sicurezza sul lavoro, protezione civile e ricerca scientifica. Alle Regioni resterebbero sanità, politiche sociali, scuola e sicurezza alimentare, ma lo Stato potrebbe intervenire anche su queste materie esercitando una “clausola di supremazia”, scavalcando le Regioni.Mentre il governo Renzi presenta questo pacchetto di riforme come una sorta di snellimento della struttura burocratica statale, il “fronte del No” lo smonta pezzo a pezzo: il bicameralismo resterebbe, con possibili conflitti di competenze, e il costo del Senato sarebbe ridotto solo di un quinto. Chiedere il triplo delle firme per una legge di iniziativa popolare? Significa ostacolare i cittadini. Un accentramento di potere che emerge in modo ancora più netto con l’abolizione delle materie condivise tra Stato e Regioni: è facile prevedere che aumenteranno ricorsi e contenziosi, mentre il livello decisionale – sempre più centralizzato – si allontanerà ulteriormente dai cittadini. Tutto questo, senza neppure sfiorare il problema della legge elettorale, ancora assente: secondo Massimo Fini, si sarebbero dovute invertire le due questioni. E cioè: prima varare una legge elettorale, e poi, semmai, pensare alla Costituzione. «Almeno, sapremmo qual è la consistenza dei partiti che a questa Costituzione dovrebbero poi porre mano». La partita è in mano a sigle come Ncd, Ala e Udc, e non conosciamo neppure la reale consistenza delle due principali formazioni, Pd e 5 Stelle. «Elezioni subito, questa è la questione. Tutto il resto è fuffa». Massimo Fini si dichiara «un astensionista, convinto a votare No» proprio dalla pessima qualità dei fautori del Sì.Il voto del 4 dicembre si riduce a un referendum contro Renzi? Ovvio: è stato proprio lui a personalizzare la sfida. E inoltre: la riforma che propone finisce per allontanare ulteriormente il potere dai cittadini. Tutto questo, senza ancora una legge elettorale. Nel caso venisse varato l’Italicum, chi vince si prende tutto. E, con il Sì al referendum, non sarà più ostacolato né dal Senato né dalle Regioni, cui saranno state sottratte molte competenze. Il “fronte del No” spiega così la sua mobilitazione: una sola Camera eletta dai cittadini, l’altra no. E meno voti necessari a eleggere il presidente della Repubblica. Più voti, invece, saranno indispensabili per poter proporre una legge di iniziativa popolare. Inoltre: il governo avrà più poteri, oggi affidati alle Regioni, e le Province saranno definitivamente abolite. A ciò si aggiunge la cancellazione del Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un ente statale che può proporre iniziative legislative in materia di economia e lavoro, fornendo pareri non vincolanti e solo su richiesta delle istituzioni: Renzi lo presenta come un carrozzone da rottamare.
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Scalfari sdogana l’oligarchia e i dogmi dell’élite reazionaria
L’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Continua la campagna di Scalfari – tanto caro a certa (sedicente) sinistra da salotto – che, attraverso un altro ragionamento contorto e surreale, non solo giustifica l’oligarchia, ma la accomuna di nuovo alla democrazia, compiendo un’opera di mistificazione. Ci aveva già provato, infatti, con un articolo scritto all’indomani del confronto Renzi vs Zagrebelski, di cui consiglio vivamente la lettura. Ci sarebbero tante cose da dire, ma mi soffermo su di una in particolare. Innanzitutto, la democrazia (quella rappresentativa, s’intende) è sì una delega del potere (dai “molti” ai “pochi”), ma pro-tempore: questa è la prima cosa che bisogna sottolineare, visto che si parla di un mandato a scadenza, pensato apposta per non conferire permanentemente poteri a nessuno. Dopodiché, i cittadini hanno il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti, tramite elezioni: la delega, dunque, segue la logica – di derivazione illuminista – del “contratto sociale”, secondo la tradizione inaugurata dal giusnaturalismo (o scuola del diritto naturale laico).La democrazia – almeno in via di principio – afferma il diritto da parte di tutti di concorrere per una carica politica (elettorato passivo), così come il diritto di voto universale (elettorato attivo). Le oligarchie, invece, il governo “dei pochi”, non contemplano la partecipazione popolare alle decisioni collettive. Possono essere manifeste, occulte, agiscono dentro e/o fuori dalle strutture preposte all’esercizio del potere e, a seconda dei casi, si basano su un diritto divino di governare le masse (oligarchie religiose: ad es. caste sacerdotali), su uno “status d’ascrizione” (aristocrazie di sangue), sulla gestione della governance economica globale (oligarchie finanziarie: banche d’affari, multinazionali, conglomerati vari), su una gestione burocratica dei processi politico-economici e sociali (oligarchie tecnocratiche: Bce, Commissione Europea) o su una presunta superiorità spirituale (oligarchie iniziatiche: società misteriosofiche/esoteriche varie; in primis la massoneria, in riferimento alle sue declinazioni interne di stampo conservatore, neo-aristocratico e reazionario, lontane dall’ideale democratico-progressista).La questione, poi, si fa ancora più sottile e malefica, se pensiamo che negli ultimi 40 anni in Occidente c’è stato questo tentativo (riuscito, ad oggi) di piegare la democrazia, lasciandola nelle forme ma svuotandola nella sostanza – dopo quello fallito di eliminarla ovunque, anche dal punto di vista formale, con l’esperimento nazifascista – facendola diventare una “oligarchia de facto”. Come? Delegittimando la politica e il ruolo dello Stato e, contemporaneamente, legittimando il mercato; grazie alle sue leggi (domanda-offerta, “mano invisibile”, ecc), una comunità di individui sarebbe in grado di auto-regolarsi, senza il bisogno di un intervento governativo. Idea, questa, che sta alla base di una vera e propria teologia dogmatica – il neoliberismo – intrinsecamente anti-democratica, neo-oligarchica e falsamente liberale. Dunque, nel momento in cui Eugenio Scalfari accomuna i due concetti sopra esposti, non solo dice qualcosa di non vero, ma è anche in malafede.Egli, infatti, cerca – in maniera assai subdola – non tanto e non solo di screditare la democrazia, quanto soprattutto (e qui sta la chiave del discorso) di legittimare – da un punto di vista filosofico – oltre che difendere, l’oligarchia stessa. Che è, in sostanza, la modalità di governo attualmente dominante in Occidente. Almeno finché la democrazia non verrà smantellata anche nelle sue forme. Prima di chiudere, riprendo un attimino la citazione iniziale e vi sottopongo una riflessione: l’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Non sentite anche voi puzza di “teorie trioculari”? Questa citazione non vi ricorda – almeno vagamente – le affermazioni contenute in “The Crisis of Democracy”, famigerato rapporto della Trilateral Commission redatto nel 1975? A me sì.(Rosario Picolla, “Scalfari, l’oligarchia e la democrazia”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 14 ottobre 2016).L’oligarchia «è il governo dei pochi ma è la sola forma d’un governo democratico». Continua la campagna di Scalfari – tanto caro a certa (sedicente) sinistra da salotto – che, attraverso un altro ragionamento contorto e surreale, non solo giustifica l’oligarchia, ma la accomuna di nuovo alla democrazia, compiendo un’opera di mistificazione. Ci aveva già provato, infatti, con un articolo scritto all’indomani del confronto Renzi vs Zagrebelski, di cui consiglio vivamente la lettura. Ci sarebbero tante cose da dire, ma mi soffermo su di una in particolare. Innanzitutto, la democrazia (quella rappresentativa, s’intende) è sì una delega del potere (dai “molti” ai “pochi”), ma pro-tempore: questa è la prima cosa che bisogna sottolineare, visto che si parla di un mandato a scadenza, pensato apposta per non conferire permanentemente poteri a nessuno. Dopodiché, i cittadini hanno il diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti, tramite elezioni: la delega, dunque, segue la logica – di derivazione illuminista – del “contratto sociale”, secondo la tradizione inaugurata dal giusnaturalismo (o scuola del diritto naturale laico).
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Soros con Renzi: Sì al referendum, cioè al diktat della Bce
Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.La legge Boschi sistematizza processi di riduzione dei poteri e dei diritti popolari e del lavoro, di centralizzazione del potere, iniziati negli anni ‘80 del secolo scorso con i governi di Bettino Craxi. Non a caso è in quegli anni che si comincia a parlare di governabilità e decisionismo. Allora si lanciò il progetto di una “grande riforma” che superasse il sistema costituzionale uscito dalla sconfitta del fascismo e rafforzasse il potere di decidere del governo e del suo capo. Craxi accompagnò questo suo disegno con il taglio per decreto legge del salario determinato dalla scala mobile. Questo per chiarire quale fosse il segno sociale ed economico del decisionismo rivendicato. Nel mondo della globalizzazione dei mercati e della speculazione finanziaria dominante sarebbe stato necessario un nuovo tipo di governo, più simile all’amministrazione di una grande impresa che al governo democratico della società.Contemporaneamente allo smantellamento di quei lacci e lacciuoli, per usare la definizione di Guido Carli, che limitavano mercato e potere d’impresa, negli anni ‘80 si diede il via alla piena affermazione del potere della finanza sul bilancio pubblico. Nel 1982 venne decisa la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, per cui da quel momento l’amministrazione pubblica per i suoi bisogni avrebbe dovuto indebitarsi con le banche e la finanza internazionale a prezzi di mercato, invece che ricorrere alla Banca d’Italia come nei decenni di crescita precedenti. Insomma negli anni 80 si misero in campo tutte le basi delle politiche liberiste contro il lavoro e i diritti sociali, poi sviluppatesi nei trenta anni successivi. Ora Renzi riprende e porta a conclusione tutti i progetti di riforma autoritaria della democrazia nati oltre trenta anni fa, contemporaneamente ed assieme all’affermazione delle politiche economiche e sociali liberiste. Il suo quindi non è un cambiamento, ma il compimento sul piano istituzionale delle politiche che da trenta anni colpiscono il lavoro.Roberto Benigni e altri sostengono però che la legge Boschi possa essere accettata proprio perché inerisce alla organizzazione del potere e non ai suoi fini, che resterebbero ancora quelli definiti nella prima parte, che non viene toccata. La Costituzione più bella del mondo resterà, dicono costoro, sarà solo più efficiente. Ma come si può sostenere che la completa riscrittura di 47 articoli della Costituzione in una volta sola lasci inalterata la nostra Carta? Se in una automobile conservo un po’ della carrozzeria esterna e cambio motore e parti meccaniche io ho un’altra vettura e anche la carrozzeria ne risentirà, sempre che non si vada a sbattere. La prima parte della Costituzione, cioè i principi sul lavoro, sulla salute, sul rapporto pubblico privato, sull’ambiente, da tempo viene devastata dalle normali leggi dei governi. Forse che acquistare un operaio come un pacchetto di sigarette dal tabaccaio, con i voucher, ha qualcosa a che vedere con il concetto costituzionale di lavoro? E la distruzione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e tutte le forme di precarietà previste per legge, non espellono forse i diritti costituzionali dai luoghi di lavoro?Di Vittorio chiedeva di far entrare la Costituzione nelle fabbriche per realizzarla davvero, oggi la si estromette dal rapporto di lavoro ridotto a merce, per poi renderla vuota e inutile ovunque. E lo Sblocca Italia, la Buona Scuola, i tagli alla sanità che costringono milioni di poveri a non curarsi, quelli alle pensioni, le privatizzazioni non devastano ogni principio della prima parte della Costituzione? E la guerra in violazione plateale dell’articolo 11? Da tempo la politica quotidiana dei governi vìola i principi della prima parte della Carta, la controriforma della sua seconda parte istituzionalizza e rende permanente il pratico smantellamento della prima. La nostra non è una Costituzione liberale che stabilisca semplicemente le regole del gioco per l’accesso al potere politico. Quello era lo Statuto Albertino, che permise venti anni di dittatura fascista nel rispetto delle sue regole. La nostra è una Costituzione democratica a forte caratterizzazione sociale, è una costituzione sociale.Voglio ricordare quello che secondo me è l’articolo che meglio caratterizza il senso e lo scopo della nostra Carta, l’articolo 3. All’inizio quell’articolo afferma semplicemente il principio dell’eguaglianza formale: tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, fin qui siamo nel solco delle costituzioni liberali e borghesi. Ma poi nel secondo comma cambia tutto, leggiamolo: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ecco, qui la nostra Costituzione afferma che senza eguaglianza sociale non c’è davvero neppure quella formale. Marchionne che guadagna 50 milioni di euro all’anno ed un operaio Fiat che ne prende 25000 non sono eguali. L’uno ha infinitamente più potere dell’altro. Per questo il diritto del lavoro non è eguale a quello commerciale, perché la compravendita della prestazione di lavoro non avviene tra contraenti con pari forza contrattuale.Il diritto del lavoro parte dal presupposto che i rapporti di forza tra impresa e lavoratore vadano riequilibrati a favore di quest’ultimo; ed è proprio per questo che le riforme liberiste degli ultimi trenta anni smantellano il diritto del lavoro e lo sostituiscono con il diritto commerciale. Secondo la controriforma liberista il lavoro va trattato come qualsiasi altra merce e non deve essere sostenuto da leggi e tutele speciali, altrimenti verrebbero violate le sacre leggi del mercato. L’articolo 3 riconosce la disparità sociale delle classi come limite assoluto della democrazia e affida alla Repubblica il compito di “rimuovere”, apprezziamo bene la forza di questa parola, gli ostacoli economici all’eguaglianza. Chi sono i soggetti a cui la Repubblica deve offrire la sua tutela particolare, i cittadini svantaggiati genericamente intesi? No,sono proprio i lavoratori perché evidentemente per la nostra Costituzione il grado di libertà reale del paese si misura innanzitutto con quello del lavoro. Una Costituzione classista? No, democratica nel senso ampio assunto da questa parola dopo la sconfitta del fascismo.Si noti bene poi che il compito di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza non è affidato al governo o al suo capo, ma alla Repubblica. Cioè al governo, al Parlamento, alla magistratura, agli enti locali, a tutte le istituzioni politiche che compongono la Repubblica, comprese le organizzazioni che la Costituzione riconosce come fondamentali, sindacati, partiti, libere associazioni. Tutto questo è la Repubblica, che si dà il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono la reale eguaglianza. La repubblica prefigurata ed organizzata dalla controriforma di Renzi è invece tutta un’altra cosa. Prima di tutto nella Costituzione renziana c’è un uomo solo al comando. Il Parlamento è composto di nominati, direttamente il Senato, indirettamente ma egualmente la Camera. Che viene eletta con una legge elettorale che concede il potere assoluto alla migliore minoranza, che potrà decidere quello che vuole, o meglio quello che vuole il suo capo, contro la maggioranza del paese che non l’ha scelta per governare. Un colpo di Stato permanente, frutto del golpe bianco che ha prodotto la stessa legge di riforma.Non dimentichiamo infatti che un Parlamento dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale, con una maggioranza che rappresenta poco più del 20% del paese reale, ha smontato un Costituzione votata nel 1947 da oltre il 90% di una Assemblea eletta dal 90% dei cittadini. Il potere autoritario che scaturisce dai 47 nuovi articoli della Costituzione renziana distrugge l’autonomia di tutte le istituzioni della Repubblica, dal parlamento, alla magistratura, agli enti locali. I sindaci diventano impiegati del governo, visti i vincoli nazionali ed europei cui sono sottoposti secondo il nuovo articolo 119. I sindacati, anche per le complicità di Cgil, Cisl e Uil, vengono anch’essi soggiogati al sistema di potere. Che a sua volta deve obbedire a vincoli e ordini superiori, quelli dettati dal vincolo europeo. In sintesi, la controriforma della Costituzione è un tavolo a tre gambe. Quella centrale, su cui siamo chiamati ad esprimerci con il referendum, organizza il sistema di potere attorno al capo. Un’altra gamba è l’Italicum, la legge elettorale truffa che determina chi sarà il capo.La terza gamba è il nuovo articolo 81, che impone anche al capo un vincolo superiore: quello del Fiscal Compact europeo, il pareggio di bilancio obbligatorio costituzionalmente. Una repubblica autoritaria a sovranità limitata, questo è ciò che sta sul tavolo della controriforma costituzionale. Altro che rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e la partecipazione dei lavoratori, la nuova repubblica si dà un altro mandato, quello di rimuovere gli ostacoli alla libertà d’impresa. Nel nome del mercato e della austerità europea, il capo supremo deve fare sì che la repubblica sia sempre più appetibile per gli investimenti della finanza e delle multinazionali, che devono essere attirati come dice la propaganda liberista dominante. È la repubblica del Ttip, il trattato internazionale che vorrebbe concedere il diritto alla extraterritorialità giudiziaria alle multinazionali, prima di tutto sui diritti del lavoro e sulla tutela della salute e dell’ambiente.Le fonti ispiratrici di questa Costituzione di mercato sono chiaramente rintracciabili nei centri del potere finanziario europeo e multinazionale. Basta rileggersi la lettera del 5 agosto 2011, indirizzata al governo italiano da Draghi e Trichet, cioè dalla Banca Centrale Europea. Quel testo definiva un preciso programma di governo e di riforma costituzionale, realizzati poi in gran parte dagli esecutivi che si sono succeduti da allora alla guida del paese. E poi bisogna ricordare il documento del 28 maggio 2013 stilato dalla Banca Morgan, una delle grandi istituzioni della finanza speculativa mondiale. Quella banca allora scrisse in un suo documento che le riforme liberiste nei paesi europei periferici, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, non si erano potute realizzare pienamente a causa degli ostacoli frapposti dalle relative costituzioni nazionali. Quelle Costituzioni, ricordava sempre la banca, figlie della sconfitta del fascismo e della parte rilevante avuta in essa dalle forze di sinistra socialiste e comuniste.Per questa ragione storica le Costituzioni antifasciste tutelano troppo il lavoro, danno troppo potere alle opposizioni così come alle regioni e ai comuni, garantiscono i sindacati e in definitiva danno potere di veto a chiunque scenda in piazza per difendere i propri interessi. Le riforme liberiste della economia e della società non avrebbero mai potuto dispiegarsi con tutta la loro efficacia senza cambiare quelle costituzioni, concludeva infine la banca. Non può esservi dubbio che la legge Boschi corrisponda meticolosamente agli indirizzi di riforma costituzionale rivendicati dalla Banca Morgan e che la sua messa in opera cancellerebbe la sostanza della Costituzione antifascista. Bisogna votare No alla controriforma, affinché l’Italia sia ancora una repubblica democratica fondata sul lavoro e non sulle banche.(Giorgio Cremaschi, “Il referendum costituzionale è popolo contro banche”, da “Micromega” del 31 luglio 2016).Pochi giorni fa George Soros sul “Corriere della Sera” dispensava buoni consigli a Renzi su come vincere il referendum costituzionale. In questo modo il più famoso di quei moderni pirati che sono gli speculatori finanziari internazionali confermava ciò che in molti sappiamo. Che la finanza e le banche, quell’1% di super-ricchi che oggi ha in mano il potere, abbiano diretto interesse nella vittoria della controriforma della nostra Costituzione. E che per vincere questi signori siano disposti a fare carte false e anche per questo, dopo mesi di campagna per il Sì a reti unificate, ancora non sappiamo quando si andrà a votare. Il pronunciamento di Soros, che segue quello di Confindustria, top manager di multinazionali, banchieri italiani ed europei, ci porta direttamente alla dimensione sociale dello scontro sulla controriforma costituzionale. Cioè al fatto che, contrariamente a quanto affermato dai suoi estensori, la controriforma di Renzi abbia proprio il fine ultimo di affossare la prima parte della Costituzione del 1948.
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Rodotà: contro il regime, ci resta l’arma dei referendum
Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.I referendum possono essere inutili, si aggirano, si ignorano? Ma non è certo colpa dei cittadini. È il governo, e il Parlamento, che dovrebbero lavorare per dare attuazione a quanto indicato dalle consultazioni. Ma non succede, con effetti pericolosi: e non solo per lo strumento referendario. Perché il ridursi degli spazi di partecipazione istituzionale produce reazioni extra istituzionali: quando si demonizza il referendum, che sia proposto da una raccolta firme o dalle regioni non cambia, si sta dicendo ai cittadini che è inutile rivolgersi alle istituzioni e alla politica. Quello sull’acqua pubblica è un referendum che ha bloccato un processo di privatizzazione ma che si sta cercando di tradire. Senza peraltro preoccuparsi di farlo in maniera smaccata. Scandaloso, ad esempio, è l’articolo 25 del decreto Madia sui servizi pubblici che prevede “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, usando esattamente le parole cancellate dal voto sul secondo quesito referendario. È palese l’illegalità costituzionale. Nel 2012 la Corte Costituzionale aveva già dichiarato illegittime le norme che riproducono norme abrogate con il referendum.Oggi si dice con superficialità: il voto non ha escluso la via di una gestione privata. Ma quello che il voto ha stabilito è però che quella privata non può essere la via preferenziale, come stabiliva il decreto Ronchi, con Berlusconi, e come vuole stabilire nuovamente il governo Renzi, sempre con il decreto Madia e con l’emendamento che ha riscritto la legge in discussione in Parlamento, che originariamente riprendeva quella di iniziativa popolare. L’indicazione che si fa finta di non vedere è che la gestione dell’acqua deve essere in via prioritaria pubblica, pur nelle forme variamente partecipate, e slegata da logiche di mercato. L’argomento del governo è che il pubblico produce inefficienza e non ha le risorse per i necessari investimenti sulla rete? Ancora una volta è la dimostrazione che si vuole ignorare l’esito referendario: l’argomentazione usata è la stessa di cinque anni fa, come se non ci fosse stato il dibattito.E, esattamente come quando si discusse all’epoca, si dice che la gestione pubblica è giocoforza pessima, rimuovendo che i luoghi dove la gestione dell’acqua è migliore sono invece Milano e Napoli, dove è completamente pubblica. Il dialogo è ritenuto pericoloso. Ma il discorso sui beni comuni si sta svolgendo in tutto il mondo ed è un percorso opposto a quello che si vorrebbe imporre in Italia, dove le multiutility vogliono impedire che si avvii. Se si leggessero i libri, se ne troverebbero di scritti con particolare attenzione alle modalità di gestione, senza inconsapevolezza né ideologia. Anche l’uso plebiscitario del prossimo referendum costituzionale sembra indicare una crisi dello strumento. Indica invece l’uso congiunturale che si è ormai soliti fare delle istituzioni. Il referendum viene usato quando fa comodo, quando può essere utilizzato per misurare il consenso del leader, mentre nelle altre occasioni se ne parla male. Invece il referendum – così come lo ha voluto il costituente, che ha escluso i plebisciti perché consapevole dei rischi – è proprio quello dal basso, promosso dai cittadini o da almeno cinque regioni. Ed è quello che rivitalizza la democrazia e la politica.Intorno ai referendum si determina una ricomposizione sociale, di cui c’è molto bisogno, visto che ultimamente è stata favorita invece la frammentazione sociale, considerando superflui, ad esempio, i corpi intermedi. La scelta di invitare a disertare le urne referendarie fa il paio con le riforme costituzionali ed elettorali volute da Matteo Renzi? Mi pare evidente. Anche se a voler legger bene la riforma Boschi c’è persino una contraddizione rispetto a quello che è l’atteggiamento di Renzi, che invita all’astensione scommettendo sul mancato raggiungimento del quorum, con una furbizia che prima di lui hanno usato in tanti, dalla Chiesa a Craxi. La riforma invece modifica i requisiti per la validità dei referendum proprio per scoraggiare il gioco dell’astensione. C’è più modernità nei referendum, in questo sulle trivelle e in quelli che avremo nel prossimo anno, per cui si stanno raccogliendo le firme, dal Jobs Act alla scuola, che in tutta la riforma Boschi. Che è anzi una riforma conservatrice, che accentra il potere. Innumerevoli politologi hanno studiato il progressivo accrescimento del potere esecutivo e si sono chiesti come ricostruire gli equilibri costituzionali, come organizzare la politica e le istituzioni nell’era della sfiducia. Una delle principali risposte è quella dei referendum, che riportano il potere nelle mani del cittadino, fosse anche come legislatore negativo.(Stefano Rodotà, dichiarazioni rilasciate a Luca Sappino per l’intervista “Referendum, che fastidio i cittadini”, pubblicata da “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 30 marzo 2016).Il fastidio di Matteo Renzi questa volta non è per qualche singolo oppositore ma è direttamente per uno strumento costituzionale. Renzi ce l’ha con i referendum, e dice che sono inutili, perché sa che oltre agli effetti concreti sulle norme, quando sono promossi dal basso verso l’alto, dai cittadini o dalle regioni, e non sono plebiscitari come quello che avremo sulla riforma costituzionale, i referendum producono ricomposizione sociale. Ed è invece sulla disgregazione della società che il presidente del Consiglio ha impostato la sua strategia di governo, come dimostra la politica dei bonus, che dà qualcosa a ognuno – il bonus ai giovani, il bonus ai poliziotti, il bonus ai professori – e non a tutti. E con l’attacco frontale ai referendum, cercando ogni modo per non attuarli, come nel caso dell’acqua pubblica, o dicendo che non bisogna andare a votare, come sulle trivellazioni, Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Che è una strada che percorriamo da anni. Si diceva che i cittadini sono ormai carne da sondaggio, ma è un’espressione vecchia. Ora sono carne da tweet o da slide.
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Magaldi: Isis e austerity, doppia impostura e identici registi
Non credete a quello che vi dicono, non date retta alla verità ufficiale. Non lo dice un “complottista”, ma un massone atipico come Gioele Magaldi, che da un anno gira l’Italia presentando il suo libro sconcertante, edito da Chiarelettere, che mette in piazza i misfatti di alcune delle 36 Ur-Lodges che reggono i destini del mondo, dietro le quinte, manovrando leader che spesso hanno direttamente fabbricato. Leader e “nemici da abbattere”, come la loro ultima creatura, l’Isis, fatta apposta per generare paura, odio e guerra, rimestando nel torbido stagno dello “scontro di civiltà”, evocato per la prima volta dal massone Samuel Huntington, autore del saggio “La crisi della democrazia” voluto dalla Commissione Trilaterale, organismo “paramassonico” e cinghia di trasmissione semi-ufficiale dei voleri dell’élite-ombra, il cui obiettivo, da quarant’anni, è sempre lo stesso: sabotare la sovranità degli Stati, per consegnare tutto il potere nelle mani dei signori del “mercato”. Il traffico di petrolio denunciato clamorosamente da Putin, che collega l’Isis alla famiglia presidenziale turca? Verità svelate da almeno un anno, tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: Erdogan fa parte a pieno titolo della superloggia “Hathor Pentalpha”, nel cui nome c’è già l’Isis (Hathor, secondo nome della dea egizia Iside).Loro, gli uomini del clan fondato dai Bush all’epoca dell’elezione di Reagan, avrebbero organizzato il disastro dell’11 Settembre. E oggi serebbero alle prese col nuovo copione del terrore, quello del Califfato. Per questo non bisogna mai credere all’Uomo Nero, aggiunge un altro massone, Gianfranco Carpeoro, schierato con Magaldi nel “Movimento Roosevelt”, associazione sorta per “risvegliare alla verità” la politica italiana (clamorosa la proposta, rivolta al Movimento 5 Stelle, di candidare a sindaco di Roma un valoroso combattente della democrazia come il grande economista Nino Galloni). L’Uomo Nero – ieri Bin Laden, oggi Al-Baghdadi – è sempre una creazione “magica” del potere: «Il loro obiettivo – ricorda Carpeoro a “Border Nights”, trasmissione radio via web – è sempre lo stesso: indurci a odiare il “nemico” di turno, anziché il sistema che l’ha prodotto». Ma l’Uomo Nero, per farci paura, ha bisogno di vaste coperture: politiche, diplomatiche, industriali, militari, finanziarie, mediatiche. I cosiddetti poteri forti. Attenzione, avverte Magaldi: non si tratta di una semplice élite di potere. I grandi burattinai sono tutti massoni, affiliati a superlogge segrete internazionali. E convinti che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi. Solo loro, gli “eletti”, auto-promossi in una sorta di “aristocrazia spirituale”, si credono in grado di stabilire cos’è bene e cos’è male.Sono gli uomini come il “venerabile” Mario Draghi, che Magaldi chiama “contro-iniziati”, cioè traditori della missione massonica originaria: “libertè, egalitè, fraternitè”, ideali su cui le logge del ‘700 basarono la storica guerra sotterranea contro l’assolutismo monarchico, innescando la Rivoluzione Francese e quella americana, quindi i Risorgimenti dell’800 e le grandi rivoluzioni del ‘900, compresa quella russa. Magaldi l’ha ripetuto in una lunga video-intervista che Claudio Messora ha realizzato e pubblicato sul seguitissimo blog “Byoblu”, vicino all’area grillina. Un’ora di rivelazioni a catena, per spiegare (anche) la candidatura romana di Galloni: «Se fosse eletto sindaco della capitale, esordirebbe con un gesto necessario e dirompente: la rottura del “patto di stabilità” che costringe artificiosamente gli enti pubblici a deprimere la spesa, mettendo in sofferenza i cittadini, non in nome di criteri economici ma solo di diktat ideologici imposti da quell’élite oligarchica che vuole semplicemente la fine della democrazia». L’autore di “Massoni” cita il politologo statunitense John Rawls e la sua “teoria della giustizia”: nulla in contrario alla ricchezza, se sudata, purché nella società non restino persone senza reddito, senza il diritto a un’esistenza dignitosa. Diritto al lavoro, da inserire nella Costituzione: «Oggi serve un’alta autorità deputata alla creazione della piena occupazione, in Italia», ben sapendo che la crisi – rigore, austerity, disoccupazione – è stata espressamente voluta: il bisogno e la paura del futuro trasformano i cittadini in sudditi, secondo la visione neo-feudale dell’élite dominante.Era un massone, Rawls, e purtroppo lo era anche Robert Nozick, il teorico dello “Stato minimo”: tagli drastici alla spesa sociale, come raccomandato anche dalla scuola austriaca, quella di Friedrich Von Hayek, altro massone, punto di riferimento di un esponente nostrano della massoneria neo-oligarchica, Mario Monti. Proprio la “libera muratoria”, insiste Magaldi, è il convitato di pietra dei nostri giorni: benché assente, clamorosamente, dalla storiografia, la massoneria ha letteralmente “fatto la storia”, creando le basi della modernità (democrazia, elezioni, Stato di diritto), e poi ha partorito un’élite di potere di segno opposto, reazionario, che ha dominato gli ultimi decenni. Un’élite di rinnegati e “contro-iniziati”, appunto: «Tradiscono l’ispirazione umanitaria della massoneria storica, che ha conferito ad ogni singolo cittadino, prima la prima volta, una quota di sovranità: prima non esistevano cittadini, ma solo sudditi, esposti all’arbitrio del monarca». Se non ci si decide a riconoscere finalmente il ruolo positivo e decisivo della “libera muratoria” come leva dello sviluppo civile democratico, fino alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo promossa da Eleanor Roosevelt, è impossibile capire fino in fondo chi abbiamo di fronte oggi, insiste Magaldi: è fondamentale la matrice massonica del nuovo super-potere, quello delle Ur-Lodges apolidi e affaristiche, pronte a manipolare la storia sociale del mondo in nome delle proprie convinzioni iniziatiche, corrotte dal suprematismo neo-aristocratico.Enorme, comunque, anche tra i commenti sul blog di Messora, la diffidenza nei confronti di Magaldi e della massoneria in generale. «In materia, in Italia, c’è un’ignoranza abissale», ammette lo stesso Magaldi, che nel suo libro denuncia il ruolo di Gelli e della P2 come longa manus della superloggia reazionaria e golpista “Three Eyes”, quella di Kissinger, a cui sarebbe stato affiliato anche Giorgio Napolitano. In polemica col “Grande Oriente d’Italia”, Magaldi ha condotto una battaglia per la trasparenza, fondando il “Grande Oriente Democratico”. Poi ha concepito il progetto editoriale “Massoni”, per scuotere le acque, affiliandosi anche alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Il “Movimento Roosevelt” è l’ultima creatura, apertamente politica, per contrastare l’emergenza attuale, fondata sull’artificio ideologico del rigore. Non è casuale, ovviamente, il richiamo al grande presidente americano: «Quando gli Usa agonizzavano, in preda alla Grande Depressione, il repubblicano Hoover condusse la sua campagna elettorale nel silenzio imbarazzato del suo stesso partito: nessuno più credeva alla ricetta dell’austerity, ed era il 1929. La riscossa venne proprio dal massone Roosevelt, grazie al genio economico di un altro massone, John Maynard Keynes, l’uomo della spesa pubblica espansiva: solo lo Stato ha il potere di risollevare le sorti dell’economia. A loro, l’Europa deve lo sviluppo e la prosperità del dopoguerra».Grandi personaggi, leader storici indiscussi, di cui però viene sempre regolarmente omessa l’appartenenza massonica. Un “buco nero” a cui probabilmente ha contribuito la massoneria stessa, con la sua tradizionale riservatezza, ereditata dall’epoca in cui gli inventori della democrazia rischiavano il cercere e la forca. Oggi la massoneria torna a fare notizia, ma generalmente in negativo: sinonimo di potere occulto, di network deviato e pericoloso. «Io sono orgogliosamente massone», protesta Magaldi, «e, come me, tanti “fratelli”, in Italia e nel mondo, decisi a contrastare questa leadership egemonica nefasta». Grande complotto, da parte dei neo-aristocratici? L’autore di “Massoni” preferisce parlare di “progetto”: «E’ comprensibile che, chi ha creato la modernità, pensi di poterla pilotare a suo piacimento. Comprensibile, ma sbagliato: il potere deve assolutamente e rapidamente tornare al popolo, per via democratica. E questo, anche se i libri di storia non lo spiegano, è un orientamento non soltanto giusto, ma anche profondamente massonico, nonostante il pessimo esempio fornito dai contro-iniziati come Draghi e Monti». Il viaggio di Gioele Magaldi continua, come le tappe della presentazione del suo libro, oscurato dai media mainstream. «Lei non ha paura?», gli domanda Messora. «Ricevo minacce di morte, ma vado avanti», assicura Magaldi, deciso a completare la missione: strappare il velo che ci impedisce di vedere che i burattinai dell’Isis e quelli dell’austerity europea sono le stesse persone.Non credete a quello che vi dicono, non date retta alla verità ufficiale. Non lo dice un “complottista”, ma un massone atipico come Gioele Magaldi, che da un anno gira l’Italia presentando il suo libro sconcertante, edito da Chiarelettere, che mette in piazza i misfatti di alcune delle 36 Ur-Lodges che reggono i destini del mondo, dietro le quinte, manovrando leader che spesso hanno direttamente fabbricato. Leader e “nemici da abbattere”, come la loro ultima creatura, l’Isis, fatta apposta per generare paura, odio e guerra, rimestando nel torbido stagno dello “scontro di civiltà”, evocato per la prima volta dal massone Samuel Huntington, autore del saggio “La crisi della democrazia” voluto dalla Commissione Trilaterale, organismo “paramassonico” e cinghia di trasmissione semi-ufficiale dei voleri dell’élite-ombra, il cui obiettivo, da quarant’anni, è sempre lo stesso: sabotare la sovranità degli Stati, per consegnare tutto il potere nelle mani dei signori del “mercato”. Il traffico di petrolio denunciato clamorosamente da Putin, che collega l’Isis alla famiglia presidenziale turca? Verità svelate da almeno un anno, tra le pagine del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”: Erdogan fa parte a pieno titolo della superloggia “Hathor Pentalpha”, nel cui nome c’è già l’Isis (Hathor, secondo nome della dea egizia Iside).
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L’Italia obbedisce, con Renzi e il Re Travicello al Quirinale
Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.Poi ha ceduto anche quella che le rimaneva, cioè anche quella monetaria, legislativa e di bilancio, ad istituzioni dominate da capitali stranieri. Con le riforme della legge elettorale e della Costituzione attuate dal governo Renzi, viene molto ridotto il contenuto del potere di scelta politica da parte del popolo, perché i poteri dello Stato vengono in gran parte riuniti nelle mani del primo ministro e il Parlamento diviene un Parlamento di nominati diretto dal medesimo grazie a un ampio premio di maggioranza, che gli consente persino di trasformare la Costituzione. Quindi adesso è il primo ministro, ovviamente non eletto dal popolo, che assicura l’obbedienza dell’Italia agli interessi stranieri dominanti e alle loro direttive europee e bancarie. Un leone in casa, un cagnolino all’estero. Renzi in effetti ruggisce in Italia ma poi, nel vertici europei, se ne sta tranquillo fuori dalla porta chiusa, con la ciotola vuota, ad aspettare per le decisioni e le direttive: un vero Amministratore Capo della colonia Italia.A seguito del suddetto spostamento di funzioni e di poteri, il presidente della Repubblica, che ora viene praticamente nominato dal primo ministro, può svolgere semplicemente il ruolo notarile, di rappresentanza e supporto moralmente legittimante, a favore del primo ministro stesso. Anche il primo ministro britannico ha vasti poteri, è quasi un dittatore temporaneo sul Parlamento e sul suo partito, però non nomina e non controlla il capo dello Stato, ovviamente, dato che questi è il re o la regina. Lo stesso Mussolini, a differenza di Hitler, era sottoposto al re, il quale in effetti, al momento opportuno, lo fece arrestare. Il primo ministro che esce dalle riforme dell’attuale governo non ha questo limite. E così, finito il regno di re Giorgio, inizia la dinastia dei re Travicelli.(Marco Della Luna, “Re Travicello”, dal blog di Della Luna dell’11 novembre 2015).Da diversi anni vado spiegando che la funzione reale del presidente della Repubblica italiano, nell’ordinamento reale, è quella di assicurare l’obbedienza del governo e del Parlamento, cioè delle istituzioni elettive, ai suoi padroni stranieri e ai loro interessi. In questo senso, il presidente Napolitano dapprima impose con la cosiddetta “moral suasion” a Berlusconi di partecipare alla per noi rovinosa guerra contro la Libia, con la quale aveva appena stretto un trattato di riconciliazione e collaborazione, e poco dopo lo sostituì con l’altrettanto rovinoso governo non eletto di Mario Monti, che egli prima fece senatore a vita. Ossia, il presidente della Repubblica sinora ha assicurato che chiunque il popolo avesse messo al potere con il suo voto elettorale, si sarebbe conformato alle direttive delle potenze dominanti sull’Italia. Molti ritengono che i suddetti interventi di re Giorgio costituissero colpi di Stato, ma si sbagliano, perché per fare un colpo di Stato bisogna che prima ci sia uno Stato indipendente, mentre l’Italia, dalla sua capitolazione nel 1943, è un paese a sovranità limitata.
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Saskia Sassen: è il golpe dei predatori, ci vogliono espellere
La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.(Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro).La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.