Archivio del Tag ‘governance’
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Pelanda: il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue
Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.Non sarà facile, perché ciò implica un’inversione imbarazzante dei leader della maggioranza dai loro linguaggi che disprezzano i “numerini” e antagonizzano l’Ue. Ma il Quirinale sembra aiutarli, guidando Conte e Tria nel negoziato con la Commissione, ad arrendersi senza perdere la faccia. Bene che vada, comunque, la politica economica risultante comporterà stagnazione. Pertanto l’inversione della tendenza recessiva nel 2019 dipende dalla ripresa della domanda globale, cioè dell’export. La tregua nella guerra dei dazi concordata tra America e Cina sabato sera fa tornare un certo ottimismo che, se produttiva di un accordo pur nel confronto geopolitico duraturo tra le due potenze, stimolerà nuovamente gli investimenti. Altrettanto importante per l’industria italiana è l’accordo tra America e Germania, di cui è fornitrice, per evitare dazi sull’export europeo. Trump vuole un trattato di libero scambio simmetrico e bilaterale con l’Ue che, però, mette in grave difficoltà il modello protezionista europeo. Questo è un motivo in più di riconvergenza rapida dell’Italia con l’Ue allo scopo di contribuire a un compromesso con l’America, interesse vitale per Roma e Berlino, ma che Parigi non vuole.(Carlo Pelanda, “Così il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue”, da “Il Sussidiario” del 2 dicembre 2018. Politico ed economista, Pelanda è specializzato in studi strategici e scenari internazionali ed economici. Insegna scienze politiche e relazioni internazionali alla University of Georgia di Athens, ed è co-direttore di Globis (Centro per gli studi globali) presso la medesima università. In Italia è editorialista de “Il Foglio”, “Libero”, “La Verità”, “L’Arena” e “Il Sussidiario”. Fa parte della Fondazione Italia-Usa. In campo politico, si legge nel suo profilo su Wikipedia, Pelanda è portatore dell’ideologia liberista, «ma con la consapevolezza che la libertà è conseguenza di un investimento di qualificazione della società e va organizzata entro istituzioni che la difendano». In generale, propugna l’idea di “nuovo progresso” basato sulla fiducia che tecnologia e conoscenza siano i risolutori più potenti dei problemi della condizione umana. Fin dal 2007, con il saggio “La grande alleanza”, ha avvertito che è ormai in via di esaurimento il sistema di governo mondiale centrato sul predominio degli Stati Uniti, sul dollaro e sui criteri occidentali nelle istituzioni internazionali. Pelanda propone «un nuovo soggetto di governance globale che non sia il G-20, o analogo tavolo di potenze troppo diluito, ma un’alleanza tra le democrazie fondata sulla convergenza euroamericana»).Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.
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Questa Ue a pezzi attacca l’Italia? Farà volare Salvini e soci
L’Unione Europea di recente si è trovata a dover gestire non pochi problemi in quanto, alcuni suoi membri, tra i quali Polonia e Ungheria, hanno sfidato apertamente l’ordine stabilito. Questa volta siamo di fronte ad una situazione molto seria: Bruxelles deve affrontare le sfide da parte dell’Italia, la terza potenza economica nazionale nell’Eurozona e l’ottava economia globale in termini di Pil nominali. Con una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti, l’Italia è una nazione europeista e membro fondatore dell’Ue. Il governo italiano ha respinto le richieste da parte dell’Ue di rivedere la bozza di bilancio per l’anno 2019, proposta che prevede un deficit Pil al 2,4% e che potrebbe minacciare il debito pubblico nazionale. La coalizione di governo di Roma, costituita dalla Lega e dal Movimento populista 5 Stelle, ha deciso di incrementare il prestito allo scopo di poter finanziare le promesse elettorali, come la riduzione dell’età pensionabile e l’aumento dei pagamenti delle prestazioni previdenziali. Lo scorso mese la Commissione Europea ha lamentato che questi obiettivi di spesa vanno contro le norme dell’Ue. Su Roma pesa un enorme debito pubblico che la posiziona al secondo posto nell’Eurozona.La differenza tra prestiti e produzione economica è al 131,8% ma il governo è comunque convito che riuscirà a raggiungere una crescita economica sostanziale, sebbene le previsioni europee siano piuttosto cupe. Il 13 novembre scorso era il termine per presentare una revisione della bozza di bilancio; Roma non si è attenuta a tale termine. Ora la leadership europea sta minacciando l’Italia con sanzioni, fino a quando questa non risulterà adempiente: uno schiaffo per l’Italia che potrebbe dover versare una multa pari a 3,4 miliardi di euro. Il governo italiano sta intraprendendo una linea indipendente in merito a diverse tematiche. Viene visto come filo-russo nelle sue richieste di abolizione, o almeno di diminuzioni, delle sanzioni contro la Federazione russa. Il primo ministro italiano Giuseppe Conte sostiene che Mosca debba essere riammessa al G7. Il primo ministro lo scorso ottobre ha visitato Mosca, poi ha definito la Russia quale soggetto globale essenziale e ha invitato Putin a visitare l’Italia. Nonostante le misure punitive che l’Ue ha imposto, Conte ha sottoscritto diversi accordi commerciali e d’investimento.Lo scorso anno, il partito di maggioranza parlamentare russo, Russia Unita, insieme alla Lega Nord italiana, membro della coalizione di maggioranza, hanno firmato un accordo di collaborazione. Il Consiglio regionale del Veneto, dove il vice primo ministro Matteo Salvini detiene una posizione di forza, nel 2016 ha riconosciuto Crimea come parte della Russia. L’Austria è un altro membro dell’Ue amico della Russia. Persino il recente “scandalo dello spionaggio”, chiaramente messo in scena da forze esterne per rovinare quella relazione bilaterale, non è riuscito a danneggiare quel rapporto. «Siamo un paese con dei buoni contatti con la Russia, siamo aperti al dialogo: non cambierà, in futuro», ha dichiarato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, di fronte ai giornalisti il 14 novembre. Il partito popolare conservatore e l’estrema destra il Partito della Libertà – entrambi membri della coalizione di governo – sono ben disposti nei confronti di Mosca e non sono sostenitori delle politiche di sanzione promesse dall’Ue.L’Ungheria è un altro membro dell’Ue a sostenere la Russia. Lo scorso mese, il Parlamento Europeo ha votato a favore dell’avvio delle procedure di sanzione secondo l’articolo 7 contro l’Ungheria. Il governo guidato dal primo ministro Viktor Orban è stato accusato di aver messo a tacere i media, di aver bersagliato le Ong e di aver rimosso dal loro incarico giudici indipendenti. L’avvio delle procedure previste da tale articolo apre le porte alle sanzioni; l’Ungheria potrebbe, prima o poi, essere privata del suo diritto di voto all’interno dell’Ue. In realtà il paese viene punito per essersi rifiutato di accogliere immigrati. Questa è la seconda volta che le procedure secondo l’articolo 7 vengono avviate. La prima volta è stato lo scorso anno, quando la Commissione Europea ha dato il via libera all’articolo 7 contro la Polonia per le sue riforme giudiziarie. Per sospendere il diritto di voto dell’Ungheria e introdurre le sanzioni è necessaria una votazione unanime, e questa mossa rischia di venire bloccata dalla Polonia. A sua volta, l’Ungheria ha detto che starebbe a fianco di Varsavia nel caso in cui l’Ue avviasse le procedure per punirla. Le due nazioni sono unite nei loro sforzi per sostenersi a vicenda e respingere gli sconfinamenti di Bruxelles in un momento in cui l’Ue sta attraversando uno dei periodi più duri della storia.Ungheria, Polonia e Russia stanno cercando di attirare l’attenzione dell’Europa sulla minaccia alla pace e alla democrazia proveniente dall’Ucraina, problema che è stato per lo più messo a tacere dalla leadership europea. La Slovacchia è un altro membro dell’Ue che nutre quello che alcuni definiscono un “legame speciale” nei confronti della Russia. Non si è mai dimostrata a favore delle sanzioni contro la Russia e l’ha dichiarato apertamente. Lo scorso mese, Peter Pellegrini, il suo nuovo primo ministro, ha invitato l’Ue a rivedere la politica in materia di sanzioni. Anche in Grecia è scoppiato un conflitto diplomatico ma, come nel caso dell’Austria, potrebbe avere offuscato quei legami storici che comunque non è riuscita a recidere. Cipro è sempre stato un paese amico della Russia, ma sia Nicosia che Atene non sono in condizioni di poter proteggere la loro indipendenza, in quanto entrambi sono fortemente indebitate e dipendono dai prestiti esteri.La battaglia tra Bruxelles e Roma giunge nel momento in cui l’Europa si sta preparando per le elezioni del Parlamento Europeo che si terranno a maggio 2019. Le misure punitive intraprese dall’Ue contro l’Italia non potranno che condurre ad un crescente sostegno pubblico di quel governo che presta voce contro le pressioni e difende la propria gente. Questo porterà ad un aumento degli euroscettici italiani che vinceranno seggi in Parlamento. Considerando l’elevato malcontento di molte nazioni nei confronti dell’Ue, risulta difficile prevedere i risultati delle elezioni. Presto al comando ci saranno nuove persone con opinioni diverse sui problemi che incombono sull’Ue, così come sul futuro degli Stati membri. Tutto potrebbe cambiare, compreso il rapporto con la Russia e le sanzioni che sono diventate così impopolari e hanno portato molti leader nazionali a sfidare apertamente la “saggezza” di tale politica imposta da una élite di potere.(Arkady Savitsky, “L’Italia getta il guanto di sfida all’establishment di Bruxelles”, da “Strategic Culture” del 12 novembre 2018, ripreso da “Come Don Chisciotte” il 22 novembre grazie alla traduzione di Elena Scapin).L’Unione Europea di recente si è trovata a dover gestire non pochi problemi in quanto, alcuni suoi membri, tra i quali Polonia e Ungheria, hanno sfidato apertamente l’ordine stabilito. Questa volta siamo di fronte ad una situazione molto seria: Bruxelles deve affrontare le sfide da parte dell’Italia, la terza potenza economica nazionale nell’Eurozona e l’ottava economia globale in termini di Pil nominali. Con una popolazione di oltre 60 milioni di abitanti, l’Italia è una nazione europeista e membro fondatore dell’Ue. Il governo italiano ha respinto le richieste da parte dell’Ue di rivedere la bozza di bilancio per l’anno 2019, proposta che prevede un deficit Pil al 2,4% e che potrebbe minacciare il debito pubblico nazionale. La coalizione di governo di Roma, costituita dalla Lega e dal Movimento populista 5 Stelle, ha deciso di incrementare il prestito allo scopo di poter finanziare le promesse elettorali, come la riduzione dell’età pensionabile e l’aumento dei pagamenti delle prestazioni previdenziali. Lo scorso mese la Commissione Europea ha lamentato che questi obiettivi di spesa vanno contro le norme dell’Ue. Su Roma pesa un enorme debito pubblico che la posiziona al secondo posto nell’Eurozona.
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Popolo, non people: democratizzare il globalismo di Davos
Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».Migliorare la comprensione per pianificare il cambiamento. I risultati della ricerca sociale di orientamento costruttivista e psicoanalitico evidenziano come il comportamento umano sia guidato dai significati condivisi dell’esperienza sociale soggettiva (Blumer 1969, Mead 1934, Berger and Luckmann 1966, Moscovici 1961, Matte Blanco 1975, Carli 1993). Questa prospettiva di analisi dei fenomeni sociali può essere utilizzata per comprendere i fattori culturali alla base dell’azione politica ed economica delle élites globali, che ci ha portato all’attuale stato di crisi sociale, economica ed ambientale. La comprensione di questi significati, infatti, può consentire di identificare possibili efficaci strategie di intervento per indurre un cambiamento mirato dello status quo, orientato a sviluppare una maggiore democrazia nei processi di governance globale, una maggiore giustizia economico-sociale e qualità della vita, volte a rafforzare i processi di convivenza civile a livello globale. Questo tipo di conoscenza orientata all’intervento per il cambiamento, come evidenziato dalla recente letteratura di matrice psicosociologica (Carli e Paniccia 2002), può essere ottenuta attraverso l’analisi dei discorsi socialmente prodotti intorno a temi di rilevanza collettiva, come in questo caso quello della globalizzazione, considerabile come il comune orizzonte di senso (weltanschauung) che guida l’azione sociale nel mondo di oggi. Sulla base di questi presupposti, ho condotto un’analisi del discorso sulla globalizzazione del World Economic Forum.L’immagine della globalizzazione. La rappresentazione della globalizzazione nell’élite di Davos che emerge da questa ricerca non appare univoca e monolitica, ma piuttosto composta da quattro differenti dimensioni culturali corrispondenti ai raggruppamenti (cluster) di parole dense ottenuti attraverso l’analisi statistica dei testi in esame. La prima dimensione è caratterizzata dai seguenti elementi: una rappresentazione negativa dell’altro da sé come una massa anonima di persone che agisce esclusivamente sulla base di fattori emotivi, invece che razionali, sulla base di parole dense quali people e believe; la proposizione di tre principali frame simbolici per l’attribuzione di significato alle esperienze di vita nell’era della globalizzazione, espressi dalle parole dense world, time e growth; l’impatto concreto che la globalizzazione ha sulla vita delle persone e soprattutto su quella dei giovani (in relazione a parole dense quali impact e young people); una forma di pensiero basata sul determinismo genetico e una conoscenza pragmatica orientata a prendere possesso della realtà attraverso la tecnologia (sulla base di parole dense quali engineer, think, history, ready, accelerate, life, industry).La seconda dimensione ruota attorno ai seguenti tre aspetti: la speranza messianica nella dimensione della grandezza o grandiosità, espresse dalle parole dense big e hope, in relazione ad istituzioni finanziarie internazionali quali l’African Development Bank e l’International Monetary Fund); la dinamica di dipendenza che queste istituzioni istituiscono con i loro interlocutori, in funzione di un obbligo a pagare (in termini di “condizionalità” ed interessi per restituire i prestiti ricevuti) che appare quasi come un dono riparatore volto a placarne le possibili ritorsioni, rappresentate dalla minaccia dell’inflazione e dell’imposizione di condizioni di vita al limite della sopravvivenza (l’austerity), che tengono costantemente sotto pressione i paesi europei (in relazione a parole dense quali stress, European countries, inflation, growth, strong, pay, price, Greece, shock); il predominio del fattore economico nella definizione delle politiche pubbliche, secondo i dogmi del libero mercato e del vantaggio personale (relativi a parole dense come policy, interest, Gdp, economy).La terza dimensione è focalizzata sui seguenti cinque punti: il perseguimento del rafforzamento della capacità di fornire, investire e gestire budget e fondi (relativo a parole dense come strengthen, invest, budget, fund, manage, provide); una visione distorta della competizione, basata sulla ricerca di condizioni di privilegio per battere i propri concorrenti attraverso l’eliminazione di ogni costrizione alla propria espansione, quali ad esempio le tasse, vissute come un’imposizione autoritaria che limita la soddisfazione dei propri bisogni (legata alle parole dense competition, advantage, need, tax); la conseguente esigenza di sviluppare un ordine sociale basato su un’idea di libertà concepita come assenza di restrizioni alla continua espansione e sviluppo di potere delle élites, ai danni però dei suoi interlocutori, rappresentati ad esempio da lavoratori posti in condizioni di sempre maggiore precariato (espressa dalle parole dense freedom, forecast, rule, boost, employee); l’importanza chiave degli strumenti cognitivi riguardo a capacità come percepire, riconoscere, distinguere, scegliere e stabilire, nel perseguimento di questo ideale di successo (relativi alle parole dense know, crisis, solve).La quarta dimensione comprende i seguenti elementi fondamentali: il ruolo delle istituzioni finanziarie sovranazionali (esemplificate in questo caso dall’InterAmerican Development Bank Group) nella creazione di un nuovo tipo di colonialismo attraverso la pratica degli aiuti allo sviluppo, che di fatto si traduce in uno scambio tra la condizione di sicurezza (psicologica, oltre che economica) fornita ai paesi beneficiari (qui esemplificati dalla parola densa Latin America & Caribbean) mediante i finanziamenti e la graduale espropriazione del potere politico ed economico di questi ultimi, che li pone in una condizione di dipendenza e sudditanza (sempre psicologica, oltre che economica) nei confronti dei propri finanziatori (in relazione alle parole dense sure, respect, establish, make decisions, benefit); gli effetti di schemi di finanziamento innovativi, come l’impact investment, che pur essendo mirati a generare benefici sociali (insieme ai rendimenti finanziari), diventano di fatto un modo per impossessarsi degli ultimi campi di intervento pubblico restanti quali il welfare, la salute, l’istruzione e l’energia (relativi alle parole dense impact-investors, tool, investor, finance, impact-investing); la necessità di integrare i paesi beneficiari degli aiuti allo sviluppo nel mito di fare soldi nelle loro regioni, che però potrebbe anche essere letto come fare soldi delle/o attraverso le loro regioni (rispetto alle parole dense making money e Region); la tendenza ad interfacciarsi esclusivamente con l’élite imprenditoriale di questi paesi, quale strategia efficace per perseguire i propri obiettivi e tenersi al riparo dal rischio di crisi (espressa dalle parole dense vis à vis, Ceo, seek, approve, full, completely).La cultura dell’élite di Davos: tra pretesa e adempimento. La caratteristica centrale della cultura della globalizzazione dell’élite di Davos emersa da questa analisi è la carenza di democrazia nei processi decisionali, sia a livello relazionale che organizzativo. A livello relazionale, questo è espresso da specifici modelli di dinamiche intersoggettive emozionali e motivazionali. Le prime si caratterizzano per i seguenti elementi: la provocazione rappresentata dalla pretesa di imporre una visione dogmatica della realtà, il controllo dell’adempimento degli obblighi che ne derivano, la sfiducia verso l’altro da sé (per la sua connotazione negativa ed il rischio di mancato rimborso dei finanziamenti ricevuti), la preoccupazione e la lamentela contro i limiti. Queste dinamiche emozionali rivelano un approccio alle relazioni sociali orientate al possesso dell’altro piuttosto che a uno scambio produttivo e creativo con lui, che può essere letto come espressione della paura nei confronti dell’altro e della sua ignota imprevedibilità, derivante dalla sua rappresentazione come nemico. Ciò porta alla tendenza di tentare di trasformare l’altro sconosciuto in un amico noto, dato per scontato e assimilato alle proprie categorie, nel tentativo di eliminare la sua imprevedibilità ed il rischio delle sue possibili manifestazioni di ostilità.Ciò, tuttavia, implica inevitabilmente la negazione delle differenze e la perdita delle opportunità che esse offrono. Lo schema motivazionale risulta caratterizzato dalla prevalenza del bisogno di potere come motivazione sociale dominante, articolata in tre dimensioni: un modello gerarchico che contrappone l’élite ai suoi interlocutori, la dimensione di grandiosità a chi spera in essa, gli amministratori delegati ai lavoratori, i finanziatori ai beneficiari dei finanziamenti; una dinamica polarizzata di appartenenza/esclusione dal sistema di potere, basata sulla dipendenza affettiva verso l’altro (espressione del bisogno motivazionale di affiliazione nel modello di Mc Clelland), indotta dalla logica del sostegno finanziario ai programmi di sviluppo; ed una dinamica manipolativa basata sulla contrapposizione tra apparenza e realtà, come evidenziato dal contrasto tra l’immagine positiva delle politiche di assistenza allo sviluppo e l’espropriazione del potere politico ed economico locale prodotto dalla sua logica esclusivamente finanziaria.Per quanto riguarda il livello organizzativo, la carenza di democrazia è espressa da una concezione dogmatica e aprioristica delle istituzioni finanziarie internazionali, radicata in una dimensione mitica che le fa percepire come immutabili e poco inclini al cambiamento e al miglioramento. Il funzionamento di queste organizzazioni appare infatti basato quasi esclusivamente su un mandato sociale legato al rispetto di sistemi di valori socialmente fondati, conformi ai loro fini, e su una funzione sostitutiva nella fornitura dei loro servizi (aiuto allo sviluppo e gestione delle crisi del debito sovrano), legata alla dimensione fortemente tecnocratica che le caratterizza, in virtù della quale i tecnici (gli esperti) si sostituiscono agli utenti dei loro servizi, espropriandoli del loro potere decisionale. In tal modo, queste organizzazioni operano senza una vera committenza da parte dei loro beneficiari e quindi non rispondono né sembrano ritenersi responsabili delle esigenze, aspettative e obiettivi di questi ultimi, né dell’efficacia dei servizi ad essi forniti.Cosa è possibile fare per cambiare questo stato di cose? Sulla base di queste considerazioni, possono essere ipotizzate diverse strategie di intervento per mutare lo scenario sin qui evidenziato. L’implementazione di queste strategie richiede tuttavia un coinvolgimento attivo e responsabile di tutti gli interlocutori delle élites globali. L’obiettivo principale legato alla dimensione relazionale concerne la definizione e la messa in atto, in maniera partecipativa, di nuove regole di gioco per la convivenza sociale che consentano di contenere le possibili manifestazioni di ostilità entro la relazione tra sistemi di appartenenza e l’ignota alterità dell’estraneo. Questo richiede di configurare l’altro non più come nemico o amico noto, ma come amico sconosciuto, da conoscere in una relazione di scambio reciproco, producendo creativamente insieme per il bene comune. Questo modello di relazioni sociali permette di liberare il proprio potere creativo (potere del fare), evitando il rischio di trasformare la propria eventuale impotenza creativa e produttiva in forme di potere su qualcuno o qualcosa (inteso come una forma di possesso).Per quanto riguarda la motivazione al potere, il passaggio da un modello relazionale basato sul potere sull’altro a quello caratterizzato dallo scambio produttivo con lui, consente di aggirare il modello gerarchico di relazione, dirigendo l’attenzione su obiettivi e prodotti del rapporto con l’altro e sullo sviluppo delle competenze necessarie per perseguirli in modo efficace. Di conseguenza, anche la dinamica dell’appartenenza, radicata nelle emozioni del potere e dell’appartenenza, può cambiare, passando dal modello del possesso dell’altro a quello dello scambio con l’altro. In tal modo, superando il possesso dell’altro come espressione dominante del potere, si possono anche contrastare le forme manipolative del potere (come le attuali forme di assistenza allo sviluppo che portano all’esproprio del potere locale), poiché il potere viene indirizzato verso una più creativa costruzione del bene comune. A livello organizzativo, l’obiettivo principale del miglioramento riguarda il passaggio da una logica di azione basata sull’adempimento ad una orientata ad obiettivi e prodotti concordati, considerati come mezzi di verifica dell’efficacia dell’azione sociale. Ciò consentirebbe di passare da una modalità organizzativa interamente basata sulla legittimazione sociale ad una guidata dalla committenza di prodotti e servizi verificabili da parte dei loro destinatari, in base alle loro esigenze e ai loro obiettivi.Di conseguenza, i destinatari potrebbero aumentare il loro ruolo attivo nella relazione con la funzione tecnica, che quindi potrebbe essere orientata ad integrare il loro potere decisionale, facilitando lo sviluppo delle loro competenze nel raggiungimento autonomo dei propri obiettivi. Questo richiede la messa in discussione, in modo sempre più dialettico e argomentativo, del dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite e di lavorare sulla definizione e l’attuazione di ipotesi e modelli alternativi, ad esempio volti a re-inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto da Polanyi (1944) e Granovetter (1985). Per promuovere questo processo di cambiamento della cultura organizzativa dell’élite di Davos, è necessario, ad esempio, che i beneficiari delle istituzioni finanziarie internazionali cambino il loro atteggiamento nei confronti di queste organizzazioni, proponendosi come committenti che richiedono loro servizi, sulla base di specifiche esigenze, obiettivi e prodotti attesi. Questi ultimi rappresentano, infatti, i mezzi di verifica per valutare l’efficacia di queste organizzazioni nel realizzare gli obiettivi proposti e promuovere il cambiamento ed il miglioramento delle loro modalità di funzionamento.La precondizione per procedere efficacemente in questa direzione è il cambiamento dell’immagine sociale degli interlocutori dell’élite, superando la connotazione negativa ad essi attribuita dall’élite con la parola densa people, (etimologicamente riconducibile all’idea della classe infima della popolazione), attraverso il recupero del senso della parola greca démos, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici di governo (in termini sia di democrazia partecipativa che rappresentativa), in una prospettiva di costruzione collettiva e condivisa del futuro comune. Ciò comporta il recupero del senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa. Il perseguimento di questo processo di trasformazione culturale richiede lo sviluppo di competenze specifiche, orientate allo sviluppo di una cittadinanza attiva e consapevole; il che può diventare anche l’obiettivo e il prodotto su cui ricostruire il senso dello scopo sociale dell’educazione pubblica e della sua efficacia produttiva.(Mario D’Andreta, “L’immagine della globalizzazione dell’élite di Davos: conoscere per intervenire”, da “Libreidee” del ….. . Nel suo blog, D’Andreta propone alcune riflessioni intorno ai temi della convivenza sociale, dello sviluppo locale, della globalizzazione, del benessere psicosociale e di ecologia acustica. Può essere contattato alla mail mario.dandreta@libero.it).https://mariodandreta.net/Riferimenti bibliografici per lo studio su Davos:Berger, P. L. and T. Luckmann (1966), The Social Construction of Reality: A Treatise in the Sociology of Knowledge, Garden City, NY: Anchor BooksBlumer, Herbert. (1969), Symbolic Interactionism; Perspective and Method. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall Print.Carli, R. (1993) (a cura di), L’analisi della domanda in psicologia clinica, Giuffré, MilanoCarli, R., & Paniccia, R. M. (2002). L’Analisi Emozionale del Testo. Milano: Franco Angeli.Granovetter, M. (1985). Economic Action and Social Structure: The Problem of Embeddedness. American Journal of Sociology. 91 (3): 481–510.Matte Blanco, I. (1975) The Unconscious as Infinite Sets. London: KarmacMcClelland, D.C. (1987). Human motivation. New York: University of CambridgeMead, George H. (1934). Mind, Self, and Society. The University of Chicago PressMoscovici, S. (1961). La psychanalyse, son image et son public. Paris: Presses Universitaires de France.Polanyi, K. (1944). The Great Transformation. New York: Farrar & RinehartTransnational Institute (2015), Who are the Davos class? Disponibile all’indirizzo http://davosclass.tni.org, ultimo accesso dicembre 2015Democratizzare la globalizzazione: mettere in discussione il dogma della visione di sviluppo proposta dall’élite. La chiave: tornare a inglobare l’economia nella società e nella cultura, come proposto già nel 1944 dall’economista e filosofo ungherese Karl Polanyi, e poi nel 1985 dallo statunitense Mark Granovetter, ideologo della “nuova sociologia economica”. Sono le conclusioni alle quali perviene Mario D’Andreta, autore di una ricerca condotta sulle rappresentazioni sociali della globalizzazione all’interno del World Economic Forum di Davos. Dal suo resoconto, scritto per “Libreidee”, emergono alcune ipotesi interpretative su cui «fondare ipotesi di intervento per il cambiamento sociale». Psicologo clinico e delle organizzazioni, D’Andreta si occupa di ricerca indipendente sulle dimensioni psicosociali del potere e della globalizzazione. Cambiare, scrive nel suo intervento, significa innanzitutto eliminare una “parola densa” come “people”, recuperando il senso della parola greca “demos”, che si riferisce invece al potere di governo democratico dei cittadini. «Così riconfigurati in termini di cittadinanza globale, gli interlocutori dell’élite possono riacquistare autonomia decisionale e di autogoverno e promuovere la democratizzazione dal basso dei sistemi politici», verso la condivisione di un futuro comune, valorizzando «il senso del bene pubblico, concepito come appartenente alla collettività, in contrasto con il bene privato, che si riferisce a un possesso esclusivo, che priva qualcuno di qualcosa».
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Magaldi: la montagna gialloverde ha partorito un topolino
Diciamola tutta: alla fine, la montagna gialloverde «ha partorito il classico topolino». Dove lo vedete, il sacrosanto taglio delle tasse promesso dalla Lega in campagna elettorale? E qualcuno sa che fine ha fatto, esattamente, il mitico reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei 5 Stelle per sostenere le fasce sociali più in affanno? Sembra arrivata l’ora del disincanto, per Gioele Magaldi, tenace difensore d’ufficio del governo Conte, pur privato di un uomo come Paolo Savona al dicastero dell’economia. E se si passa per la capitale, si scopre che il disincanto è letteralmente esploso, ma non da oggi: «E’ insensato che si festeggi Virginia Raggi per aver evitato una condanna penale, peraltro solo in primo grado, quando la giunta capitolina non ha mai neppure cominciato a occuparsi seriamente di Roma». La sindachessa pentastellata «ha disatteso tutte le aspettative di chi l’aveva votata, sperando in un cambio radicale nella governance della città». Ma poi, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, scopri che – sul fronte opposto – il rimedio è peggiore del male. Vedasi il referendum (abortito) sull’Atac, promosso dai radicali: ancora una volta, si è tentato un assalto neoliberista per privatizzare un servizio pubblico, magnificando le immaginarie virtù del privato. «Come se non esistesse l’esempio dell’Atm di Milano, municipalizzata, indicata anche all’estero come modello perfetto di trasporto pubblico efficiente».Questa è l’Italia dell’autunno 2018, sintetizza Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”: da un lato il “governo del cambiamento” riesce a cambiare ben poco, e dall’altro gli oppositori (partiti-zombie, media mainstream e vecchio establishment) continuano, in modo piuttosto penoso, a demonizzare Di Maio e in particolare Salvini, presentato come una specie di orco, un vero e proprio mostro di cinismo, a causa della sua politica muscolare nei confronti dell’immigrazione incontrollata. Bei sepolcri imbiancati, i detrattori di Salvini, «di manica larga con i migranti, ma pidocchiosi con gli italiani». Tradotto: «Va benissimo aiutare chi sbarca da paesi disastrosamente poveri, a patto però che non si lasci indietro quella fetta di popolazione italiana che fatica ad arrivare alla fine del mese». L’ideale? «Più soldi per tutti, in una sana prospettiva “rooseveltiana”, cioè post-keynesiana. Ma certo, bisogna espandere il deficit. E la cosa non piace, agli avversari del governo, sempre allineati ai diktat della sedicente Europa».Calcisticamente: il possesso palla è ancora al governo, ma tiri in porta non se ne vedono. E se i gialloverdi non entusiasmano, nella metà capo opposta è buio pesto. Zero idee, nessuna alternativa all’euro-catechismo della crisi. Che fare? Tanto per cominciare, investire con più coraggio su un sistema-paese che ha un disperato bisogno di interventi pubblici strategici, in ogni settore, incluso quello delle infrastrutture. I migranti? «Ottimo il Salvini che accusa l’Ue di scaricare il problema solo sull’Italia, peccato che poi i nostri partner continuino a far finta di niente». E a Salvini si può rimproverare qualcosa? «Certo: la mancanza, finora, di una “pars construens”. Va bene ripetere “aiutiamoli a casa loro”, gli africani, ma poi bisogna cominciare a farlo per davvero. Tanto più che una sorta di Piano Marshall per l’Africa darebbe un ruolo importante, all’Italia, anche in termini di leadership euro-mediterranea». L’immobilismo non aiuta. E anzi fa montare polemiche che poi sfociano anche nel complottismo di chi vede, nell’esodo incoraggiato da Soros, l’attuazione del meticciato forzoso vagheggiato dal massone reazionario Richard Coudenhove-Kalergi, precursore del dominio delle élite poi sfociato in questa Disunione Europea, «concepita come Sacro Romano Impero affidato alla manovalanza neo-feudale dei tecnocrati».Fantasmi a parte, Magaldi si richiama a un sano realismo: «L’accoglienza incontrollata di immigrati può mettere in difficoltà i lavoratori italiani, è ovvio. Quello che non è accettabile – dice – è che non si vogliano trovare soluzioni eque, in un mondo che non è mai stato così ricco». Insiste: «La fiaba della penuria è un’invenzione del neoliberismo: virtualmente, nella storia del pianeta, non c’è mai stata tanta disponibilità di risorse, grazie alle tecnologie di cui disponiamo. Ed è inammissibile – sottolinea il presidente del Movimento Roosevelt – che queste risorse vengano concentrate in poche mani, le stesse che poi ci raccontano la favola della scarsità, che serve per declinare le politiche artificiose dell’austerity». C’è un’intera narrazione, da smantellare. Ed è un lavoro che richiede lucidità, determinazione e una buona dose di fegato, assai più di quello finora dimostrato dal governo gialloverde con il suo “rivoluzionario” deficit al 2,4%, ben al di sotto del già inaccettabile tetto del 3% stabilito da Maastricht esclusivamente sulla base della fandonia neoliberista. Roma caput mundi, comunque, almeno a titolo di esempio negativo: fischiare la Raggi per l’ipotetico reato di falso, anziché per il fallimento politico della sua giunta, è come insultare Salvini per la guerra alle Ong anziché pretendere che il governo, finalmente, mandi a stendere con ben altro piglio il rigore Ue, in nome della sovranità democratica cui l’Italia ha diritto.Diciamola tutta: alla fine, la montagna gialloverde «ha partorito il classico topolino». Dove lo vedete, il sacrosanto taglio delle tasse promesso dalla Lega in campagna elettorale? E qualcuno sa che fine abbia fatto, esattamente, il mitico reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dei 5 Stelle per sostenere le fasce sociali più in affanno? Sembra arrivata l’ora del disincanto, per Gioele Magaldi, tenace difensore d’ufficio del governo Conte, pur privato di un uomo come Paolo Savona al dicastero dell’economia. E se si passa per la capitale, si scopre che il disincanto è letteralmente esploso, ma non da oggi: «E’ insensato che si festeggi Virginia Raggi per aver evitato una condanna penale, peraltro solo in primo grado, quando la giunta capitolina non ha mai neppure cominciato a occuparsi seriamente di Roma». La sindachessa pentastellata «ha disatteso tutte le aspettative di chi l’aveva votata, sperando in un cambio radicale nella governance della città». Ma poi, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, scopri che – sul fronte opposto – il rimedio è peggiore del male. Vedasi il referendum (abortito) sull’Atac, promosso dai radicali: ancora una volta, si è tentato un assalto neoliberista per privatizzare un servizio pubblico, magnificando le immaginarie virtù del privato. «Come se non esistesse l’esempio dell’Atm di Milano, municipalizzata, indicata anche all’estero come modello perfetto di trasporto pubblico efficiente».
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Giulietto Chiesa in Rai con Messora, Dijsselbloem al Corsera
«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.Ovvio per tutti, salvo che per il “Corriere”, secondo cui Giulietto Chiesa ha travisato le parole dell’apollineo, impeccabile, meraviglioso Dijsselbloem. Niente di strano, peraltro: secondo Trocino, Chiesa non sarebbe altro che una specie di mentecatto. Allo storico corrispondente da Mosca (prima per “l’Unità”, poi per la “Stampa” e per il Tg5), il “Corriere” dedica un affondo che merita di essere letto come capolavoro comico, sia pure del genere neo-orwelliano inaugurato dalla popstar Colin Powell, irresistibile nel famoso numero con la fialetta all’antrace. Il grande Powell poté esbirsi all’Onu solo grazie all’altra vicenda spettacolare del secolo, altrettanto cristallina: il crollo delle Torri Gemelle, notoriamente collassate su se stesse in pochi secondi per colpa di aerei dirottati da oscuri energumeni arabi, armati di taglierini e capaci di schiantare a velocità folle, con manovre da top-gun, velivoli che non sapevano pilotare e che la stessa azienda costruttrice, la Boeing, dichiara che – semplicemente – non potrebbero volare a 900 chilometri orari, a quote così basse, senza sbriciolarsi in aria prima ancora dell’impatto.Certo si tratta di trascurabili amenità, sulle quali è impensabile si soffermi il “Corriere della Sera”, impegnato com’è a formulare vaticinii e profezie sui governi italiani, specie l’inguardabile esecutivo gialloverde, i cui azionisti politici osano mancare di rispetto ai sacerdoti della santa eurocrazia, i bramini dai nomi impossibili – Dijsselbloem, Oettinger, Dombrovskis – che gli italiani hanno tuttavia imparato ad amare, in questi anni di benessere, prosperità e serenità per tutto il continente. Come sarebbe bello, cinguetta Massimo Mazzucco – altro incorreggibile mascalzone, del calibro di Giulietto Chiesa – se finalmente, grazie alla presidenza della Rai affidata a Marcello Foa, lo stesso Chiesa potesse lasciare per un attimo la redazione di “Pandora Tv” e partecipare ogni tanto, magari in terza serata, a programmi come quelli che un tempo persino la televisione di Stato produceva, all’epoca in cui faceva anche vera informazione, con signori come Biagi, Minà, Zavoli.Pensate, dice Mazzucco, se – magari all’una di notte – ci fosse la possibilità di assistere a un confronto tra Chiesa e, per dire, il fondatore di “ByoBlu”, Claudio Messora, capace di realizzare servizi su YouTube visionati ogni volta anche da 200.000 utenti. Numeri enormi, sottolinea Mazzucco, se paragonati agli standard televisivi (per esempio, i 600.000 spettatori che faceva registrare “Matrix”, ai bei tempi). Non c’è paragone, conferma Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming con Mazzucco, anche perché la potentissima e ricchissima Tv basta accenderla, mentre un video-blog devi andartelo a cercare: quei click valgono mille volte tanto. E lo sanno, i signori dei “giornaloni”, al punto – oggi – da attaccare Giulietto Chiesa, anche a costo di fare involontariamente pubblicità alla sua web-tv. Lo sanno così bene, che il vento è cambiato, da applaudire a scena aperta l’eroico bavaglio imposto al web da Bruxelles, su iniziativa dei soliti noti – su tutti Oettinger, l’uomo che sussurra ai mercati, proprio come il suo socio Dijsselbloem.Poi, si sa, è noto che le minacce mafiose le fanno appunto i capimafia, non certo i cardinali e ciambellani del superclan euro-finanziario che ha coordinato, sul campo, il più vasto trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, che la storia moderna ricordi. Un’operazione ammantata di misticismo e ispirata dal Bene, cioè il rigore di bilancio che vieta i deficit e quindi obbliga ad aumentare le tasse, producendo le meraviglie che fanno dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona il paradiso terrestre a cui il mondo intero guarda con invidia, non potendo fare a meno di ammirare il commovente spirito di cooperazione e solidarietà che oggi affratella i popoli europei, pronti a correre in soccorso del più debole e a risolvere insieme, da buoni amici, ogni controversia, a cominciare dal problema dei migranti. Un’Europa così sublime non può che primeggiare anche nell’arte del bel canto, visti i soavi gorgheggi giornalistici che si levano da giornali e talkshow. Troppo bello, lo spettacolo del Bene che celebra se stesso, per rischiare di offuscarlo con sgraziate stonature, profeti di sventura e blogger, così impudenti da insolentire il divo Dijsselbloem, l’affabile Juncker, il garbato Moscovici.A chi si fosse curiosamente convinto che lo show quotidiano sia soltanto una tragica farsa piuttosto scadente, affidata a interpreti la cui mediocrità è pari solo all’immenso potere di cui dispongono, protetto dall’anonimato finanziario che ha sequestrato la democrazia nel vecchio continente, Mazzucco va ripetendo un consiglio pratico: insistere, nel raccontare quello che si è scoperto, perché soltanto l’impegno di migliaia di neo-sudditi potrebbe un giorno restituire agli europei lo status di cittadini, a buon diritto membri di una comunità civile vera e propria, con le sue sue regole fondamentali – una su tutte: governa chi è stato designato dai cittadini, mediante regolari elezioni. Il giorno che la maggioranza si accorgesse dell’insostenibile anomalia europea, costituita da mezzo miliardo di persone governate da un consiglio di amministrazione, probabilmente i solisti come Oettinger e Dijsselbloem si troverebbero senza uno spartito e senza più nemmeno il coro, cartaceo e radiotelevisivo, al quale sono abituati: una clacque preziosa e imprescindibile, per evitare fischi e pomodori. E’ come se una lunga marcia fosse cominciata, dice Mazzucco, fino a giungere di fronte alle mura del palazzo, seminando allarme: non si spiega altrimenti tanta permura nel prendere a sberle, in pubblico, gli storici tribuni della trasparenza. Ma in caso di rivoluzione, niente paura: il grande Dijsselbloem potrebbe sempre cantare ancora, nel coro degli autorevolissimi editorialisti del “Corriere”.«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.
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Magaldi: coraggio, e l’Italia non sarà più preda di stranieri
Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia del bunker europeo, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.«Bisogna abbandonare lo stile consueto dell’Italia», sottolinea Magaldi nella diretta web-streaming “Magaldi Racconta”, su YouTube, con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «L’Italia – dichiara Magaldi – ha ricevuto un ruolo: quello di essere una preda, pur essendo un paese forte e importante sul piano politico ed economico». Una preda: bottino da saccheggiare. Temi e rivelazioni che lo stesso Magaldi, massone progressista, ha concentrato nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere), che svela ad esempio il ruolo della P2 di Gelli come terminale locale della potente superloggia sovranazionale “Three Eyes”, espressione della supermassoneria neo-feudale più reazionaria, incubatrice della globalizzazione universale fondata sulle privatizzazioni, sulla confisca dei diritti democratici e sulla precarizzazione del lavoro. L’Italia? Azzoppata dalla strategia della tensione affidata a operatori come Gladio, poi assaltata con la tabula rasa di Tangentopoli che aprì la strada al superpotere eurocratico. Risultato: declino industriale e svendita dei gioielli di famiglia. «La verità è che è stato disegnato per l’Italia un ruolo subalterno. Nessun altro grande paese sarebbe mai stato trattato così, e questo – aggiunge Magaldi – è stato fatto con la complicità delle classi dirigenti, centrodestra e centrosinistra, di questi ultimi decenni».Adesso, ribadisce il presidente del Movimento Roosevelt, «si tratta di cambiare passo». E naturalmente, aggiunge, «i media e tutta la filiera di cortigiani politici e burocratici continuano a muoversi come se l’Italia fosse ancora un’espressione geografica, più che un’entità statuale democratica e repubblicana, dotata di una sua dignità». Ringhia, l’establishment spiazzato dal governo gialloverde: «Tutti quelli che sono abituati a fare i proconsoli di poteri apolidi e predatori masticano amaro, e tutti i giorni propinano a reti unificate questa canzone stonata sull’Italia, sul governo populista e cialtrone che non vuole rispettare i patti. Ma è una menzogna: i patti verso la democrazia e verso la dignità del popolo – scandisce Magaldi – li hanno violati quelli che hanno spacciato questa pessima costruzione europea per il grande sogno di Altiero Spinelli e di altri illustri europeisti, da Victor Hugo a Mazzini e Garibaldi». Loro, gli usurpatori dell’ipotesi-Europa (in realtà mai nata), oggi prendono nota: persino le grandi testate, ovvero «il mondo finanziario che conta», iniziano a fare dei distinguo, sull’Italia. Dicono: ma chi l’ha detto che questa manovra è inaccettabile? Chi l’ha detto che quelle del governo Conte sono le proposte di una “cicala” che vuole mettere in crisi il risparmio, la tenuta dei conti, il futuro delle nuove generazioni?«E’ un segnale importante – rileva Magaldi – il fatto che queste voci inizino a venire da mondi che si sono troppo spesso allineati al coro globale, intonato al contenimento e quindi anche alla devastazione dell’economia italiana». Wall Street non è unanime nel suo giudizio sull’Italia, il governo Usa si mostra indulgente verso Conte, lo stesso Steve Mnuchin (il ministro del Tesoro di Trump) dichiara che la strada del “deficit spending” è la via maestra, intrapresa anche dagli States. Cattive notizie, insomma, per gli euro-tecnocrati che vorrebbero spegnere sul nascere il timido tentativo dei gialloverdi, la loro piccola insubordinazione sul rigore di bilancio. Peccato, aggiunge Magaldi, che Lega e 5 Stelle si limitino al piccolo cabotaggio sul deficit, rinunciando a fare da battistrada – come Italia – nel chiedere una drastica riforma dell’Unione, basata sulla richiesta di una vera Costituzione Europea, finalmente democratica. Non mancano gli ultra-pessimisti, che ritengono irriformabile l’Ue: «Sono frange comunque minoritarie, a livello di consenso: la maggioranza dei cittadini è delusa dal modo in cui l’Unione è gestita, ma certo resta favorevole all’idea di una integrazione europea». E quelli che vorrebbero farla finita, con Bruxelles? «Secondo me sbagliano, magari in buona fede», dice Magaldi: «Senza accorgersene, fanno il gioco degli avversari: gli uni dicono che l’Ue non può cambiare, gli altri sostengono che non deve cambiare. Risultato: ragionando così, niente cambierà».Magaldi propone un altro approccio: «Andiamo oltre la moderazione del governo Conte, in questa fase». Lo dice «agli amici del governo, alla maggioranza gialloverde» che nel futuro prossimo, alle europee e poi in Italia, dovrà affrontare un quadro politico mutevole. «Io dico: facciamo partire dall’Italia una radicale trasformazione del progetto europeo. Cioè: andiamo verso una Costituzione politica, a fondamento dello stare insieme in Europa. E’ un dogma di fede, l’irriformabilità di un’Unione nata male? Sembra speculare al dogma del potere, che oggi ci ripete che non si può cambiare nulla». L’Europa, Magaldi la ritiene «riformabilissima», gettando a mare «lo spirito compromesso con cui è stata costruita questa Ue, economicistica e tecnocratica». Storia: «I padri di questa costruzione post-democratica sono Jean Monnet e Richard Coudenhove-Kalergi. Monnet era un ex massone progressista, Kalergi un uomo ambivalente che prima ancora della Seconda Guerra Mondiale aveva radunato attorno al progetto paneuropeo personalità anche progressiste, non chiarendo però quale fosse la sua idea di Europa». E poi invece, di concerto con Monnet, proprio Kalergi «ideò e diede avvio a un progetto neo-feudale, quasi una sorta di nuovo Sacro Romano Impero».Un dominio pre-democratico, «dove il potere imperiale fosse nelle mani di alcune oligarchie apolidi, coi loro terminali (come vassalli e valvassori) incarnati in burocrati chiamati a occupare posti non elettivi di gestione della governance». E tutto, a partire dalla costituzione della Ceca (la comunità dell’acciaio e del carbone) è stato svolto in modo unilaterare, economicistico. Spinelli e gli europeisti, invece, volevano «qualcosa di armonioso, da costruire insieme ai cittadini, non al di sopra dei cittadini». Una Costituzione da scrivere insieme, «coinvolgendo la popolazione in consultazioni e referendum su ciascuno degli articoli». Di Costituzione Europea si era parlato ma poi non si è fatto nulla: «Ci sono solo dei trattati, in quella che è una posticcia costruzione continentale dove, mai come adesso, le nazioni sono una contro l’altra armate. E’ veramente una gabbia, dis-utile per l’interesse popolare ma utile per gli oligarchi globali». Rinunciare all’Europa e distruggere tutto per tornare alle nazioni? Falso problema, secondo Magadi: «Che sia globale, europea, nazionale, regionale o locale, la governance non cambia se il paradigma che la ispira non è democratico». Un esempio? I nostri Comuni: «Sono strangolati dal Patto di Stabilità, voluto in sede europea ma discendente da una visione neoliberista che pervade tutte le istituzioni politiche e economiche internazionali più importanti».Proprio il Patto di Stabilità «strangola le possibilità di intervento dei Comuni su un livello che è quello locale». In un mondo «ormai globalizzato perché interconnesso», si può scegliere «che tipo di globalizzazione si vuole». Disconettersi? Impossibile: le economie sono collegate, ogni decisione ha ripercussioni ovunque. «Puoi scegliere però come governarle, queste dinamiche: in nome della finanza e dei mercati, dell’interesse dei pochi a scapito dei moltissimi, oppure con un metodo finalmente democratico». Perché preoccuparsi se la governance è europea, italiana, regionale o cittadina? «Preoccupiamoci che a tutti i livelli vi sia una metodologia democratica», ovvero «che vi sia la primazia della politica sull’economia e sulla finanza, e la primazia della sovranità del popolo su qualunque altra forma di sovranità o di potere privato». Quel che conta, chiosa Magaldi, è che comunque il governo gialloverde abbia almeno manifestato la volontà di invertire la rotta suicida e autolesionistica degli ultimi decenni. Un possibile inizio, si spera, per cominciare a imporre la percezione di un’altra Italia, non più terra di conquista e facile preda, grazie alla complicità del vecchio establishment “collaborazionista”, al servizio di potentati economici stranieri.Vietato farsi intimorire dagli spaventapasseri a guardia dell’euro-bunker, ormai assediato da più parti: un po’ di fegato, e gli ometti del racket finanziario smetteranno di abbaiare. Juncker, Dombrovkis, Moscovici, Oettinger: «I frontman di queste istituzioni europee sono personaggi molto friabili e molto deboli: per fronteggiarli basta avere un po’ di forza, un po’ di dignità e un po’ di schiena diritta». Gioele Magaldi incoraggia il governo Conte: non si lasci intimidire dalle minacce di questi personaggi, peraltro «in scadenza», e per giunta di caratura modesta: «Non è che abbiano grande autorevolezza e prestigio per potersi imporre». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Bisogna rompere il loro paradigma: occorre avere un po’ di coraggio, e poi si scopre, come nella vicenda del Mago di Oz, che la grande magia in realtà è fatta di cartapesta». Soltanto illusionismo, «giocato più sulla paura di chi è soggetto al timore di questa magia che non sulla forza reale di chi, questa magia, la costruisce». Forza e coraggio, dunque, di fronte ai ventilati sfracelli finanziari per il deficit al 2,4%, peraltro già smentiti da Standard & Poor’s, segno di «probabili ripensamenti in corso» nella cabina di regia del potere neoliberista, non più così granitico. «Si tratta di restare sereni e tranquilli», visto che in palio c’è l’Italia: finora, il nostro paese è stato regolarmente depredato, in modo programmatico. Ecco il punto: questo film deve finire.
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Carpeoro: S&P, l’America è con l’Italia (cioè contro Draghi)
Il verdetto di Standard & Poor’s è un segnale importante, perché vuol dire che c’è una frattura, all’interno delle Ur-Lodges reazionarie, e che l’America non segue completamente l’Europa e la linea Draghi, di sconfessione del governo italiano, ma furbescamente si posiziona a metà strada: non toglie all’Italia l’etichetta di paese dal rating ancora accettabile, ma in compenso cambia le previsioni, nel senso che ci vede nero (quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte). Sta di fatto, però, che gli ambienti finanziari americani non solo completamente allineati a quelli europei, e questo è un segnale da registrare. Un segnale non necessariamente positivo, ma nemmeno negativo come quelli degli ambienti finanziari europei. Ne è consapevole, il nostro governo? Non ci mettono molto, a capirlo, se il loro unico neurone funziona. Poteva andare peggio, dite? No: “doveva” andare peggio, perché il “fratello” Draghi non se l’aspettava, questa botta. La sovragestione non è granitica, quei poteri discutono e litigano, hanno interessi diversi. Poi, l’Italia ha lanciato un messaggio giusto: perché, prima di questo giudizio, Conte è andato da Putin. Era un modo per non far emettere a Standard & Poor’s una sentenza negativa.Un verdetto totalmente negativo avrebbe avuto, come conseguenza, di far salire ulteriormente lo spread, o comunque di non farlo salire quanto sarebbe salito in caso di verdetto negativo. Un aiutino al governo? Per certi aspetti sì, ma è un aiutino basato sulle menzogne. Lo spread stesso è una menzogna. Soprattutto, vorrei contestare ufficialmente, a Draghi, di essere un bugiardo. Se rivelo pubblicamente la sua idenità massonica, è perché lui stesso è venuto meno alle regole della massoneria. Tutti quelli che stanno facendo questa operazione sono dei bigiardi: lo spread non può incidere sui risparmi degli italiani, che sono in euro, e l’euro non si è mai svalutato in vita sua. Quindi la smettano, di mentire. Quella sullo spread è una manipolazione, anche mediatica. Con Berlusconi gli era pure andata bene. Allora la cosiddetta opinione pubblica si allarmò molto. Questa volta lo spauracchio dello spread farà presa quasi solo nell’elettorato del Pd? Be’, le iniziative giudiziarie allora intraprese nei confronti di Berlusconi mi sembrano di entità ben diversa, rispetto a quelle nei confronti di Conte, Salvini e Di Maio. All’epoca avevano creato il terreno, per la capitolazione.Dove porterà l’asse con Putin? Innanzitutto, Putin si è prestato ad aiutarci lanciando il segnale. Poi, vedremo dove questo potrà portare. Standard & Poor’s è un organo occulto del governo americano. E’ un organo di governo, non un’entità indipendente come si vorrebbe far credere: ha sempre fatto quello che conviene al governo statunitense. Attraverso S&P, è come se il governo americano dicesse: attenzione, l’Italia appartiene alla Nato, quindi non possiamo permettere che l’emergenza induca gli italiani a stringere legami forti con i russi, quindi vediamo di fare qualcosa che non crei all’Italia una situazione straordinariamente difficile, costringendola poi a dichiararsi alleata di Putin in tutto e per tutto. Trump e Putin? Hanno interessi comuni e interessi opposti. I loro rapporti sono molto controversi. Putin ha avuto interesse che Trump venisse eletto, anche perché Trump ha fatto un dispetto a tutti i partiti americani: era odiato dagli stessi conservatori, di cui pure fa parte. Dopodiché, candidandosi, Trump aveva fatto un accordo sulla base della previsione di non essere eletto (non di esserlo: non se l’aspettava neanche lui, l’elezione). Poi lo scenario è cambiato, e adesso Trump deve difendersi anche da un’accusa di connivenza con i russi sulla sua elezione, quindi Trump e Putin devono anche mostrarsi ostili – ma la loro non è un’ostilità profondissima.Se lo stesso spread può essere considerato un’applicazione della sovragestione, un altro caso di sovragestione è quello della Banca Centrale Europea – che non è un organo politico né un organo democratico, eppure governa l’Europa. Sempre a proposito di sovragestione: vi chiedete che fine ha fatto l’Isis? E’ dormiente, prima o poi si sveglierà. Certo, ieri l’Isis è stato usato per finalità oscure, di potere, e oggi non sta avvenendo. L’Isis resta uno strumento: e la sovragestione non lo usa, uno strumento, quando non le serve. Sarebbe “utile”, da parte di qualcuno, rispolverare lo strumento degli attentati terroristici, magari per colpire l’Italia anche da quel lato? Secondo me, no: perché oggi il pericolo, per l’establishment, sono i partiti cosiddetti sovranisti, ed eventuali attentati targati Isis li aiuterebbero. Piuttosto, consiglio al governo di non toccare i servizi segreti. Ho sentito parlare di rimozioni e sostituzioni, ma sarebbero un errore. Da anni, i servizi italiani sono leali verso lo Stato e straordinariamente efficienti: ci hanno risparmiato decine di attentati, lavorando per la nostra sicurezza quotidiana.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nel corso della conversazione con Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta in web-streaming “Carpeoro Racconta”, il 27 ottobre 2018 su YouTube).Il verdetto di Standard & Poor’s è un segnale importante, perché vuol dire che c’è una frattura, all’interno delle Ur-Lodges reazionarie, e che l’America non segue completamente l’Europa e la linea Draghi, di sconfessione del governo italiano, ma furbescamente si posiziona a metà strada: non toglie all’Italia l’etichetta di paese dal rating ancora accettabile, ma in compenso cambia le previsioni, nel senso che ci vede nero (quindi, un colpo al cerchio e uno alla botte). Sta di fatto, però, che gli ambienti finanziari americani non solo completamente allineati a quelli europei, e questo è un segnale da registrare. Un segnale non necessariamente positivo, ma nemmeno negativo come quelli degli ambienti finanziari europei. Ne è consapevole, il nostro governo? Non ci mettono molto, a capirlo, se il loro unico neurone funziona. Poteva andare peggio, dite? No: “doveva” andare peggio, perché il “fratello” Draghi non se l’aspettava, questa botta. La sovragestione non è granitica, quei poteri discutono e litigano, hanno interessi diversi. Poi, l’Italia ha lanciato un messaggio giusto: perché, prima di questo giudizio, Conte è andato da Putin. Era un modo per non far emettere a Standard & Poor’s una sentenza negativa.
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Il debito “spiegato” agli italiani come se fossero deficienti
A volte mi viene il dubbio di essere deficiente. Mi sintonizzo sulla televisione di stato, in un orario di massimo ascolto, e mi imbatto in Fabio Fazio che parla con Carlo Cottarelli. Essi mi spiegano che il problema degli italiani è il debito pubblico insostenibile accumulato in anni e anni di sprechi e, in subordine, la dannata piaga dell’evasione. Poi giro canale e mi tocca Barbara Palombelli la quale mi istruisce, grossomodo, su una singolare analogia: lo Stato è come un condominio e – se le tasse non coprono le spese e ci si indebita troppo per coprirle – è logico che tutto vada a rotoli. Poi accendo la radio e mi cucco Oscar Giannino e apprendo che l’idea di monetizzare il debito pubblico, come si faceva una volta quando avevamo la famosa banca nazionale prestatrice di ultima istanza, fa ridere i polli perché non abbiamo più una banca nazionale prestatrice di ultima istanza (il lucido e sofisticato argomento fa vacillare la mia modesta facoltà di comprensione); e poi siamo inseriti in un sistema di ‘governance’ globale dove le politiche di sistema, accompagnate agli stress test del comparto bancario e alla precaria patrimonializzazione delle banche, allo spreco intollerabile della mano pubblica, legittimano la sfiducia dei mercati nei nostri confronti.Allora, stremato ma non vinto, mi butto su internet e scopro – dalla viva voce di Brunetta – che il governo attuale ci getterà nella tempesta perfetta dello spread e del downgrading delle agenzie di rating. Alla fine, umiliato da cotante vette dell’ingegno universale, il dubbio canaglia si fa strada: forse, sono deficiente. Cioè, non ci arrivo proprio. Forse è davvero giusto e normale un sistema dove lo Stato – alla pari di un condominio qualunque tipo quelli del Palombelli pensiero, oppure alla pari di un buon padre di famiglia tipo quelli del Mulino Bianco di Fazio e Cottarelli, o alla pari di un debitore inaffidabile tipo quelli del Magnifico Mondo di Oscar – è ridotto al rango di una qualsiasi bottega rionale: sottoposto a una contabilità fantozziana, succube dei conti della serva, chiamato (se ci riesce!) a meritarsi un mutuo decoroso a tasso variabile. Altrimenti, fa default e porta i libri in tribunale.Perché il tema è proprio questo: non se lo Stato sia o meno una bottega: oggi lo è, a tutti gli effetti (su questo do ragione Fazio e compagnia bella). Il tema vero è se sia giusto averlo trasformato in una bottega. E se sia tollerabile e dignitoso accettarlo. E se sia naturale e lecito sopportarlo. Ma pare di sì. Allora, mi sono illuminato: se tutti intorno a me dicono cose deficienti come se fossero intelligenti, allora forse sono io a non essere intelligente, ma deficiente. Poi, però, ho trovato un articolo della Annunziata dove, più o meno, si dicono le stese cose di Fazio, Palombelli e Cottarelli. Si intitola ‘Confessioni di una deficiente’ e parla delle ‘caleidoscopiche balle’ messe in circolo dai 5 Stelle. E si chiude così: «Perché dopotutto io sono una deficiente, ma il popolo italiano ha sempre dato prova di non esserlo». Sospiro di sollievo, davanti a un reo confesso. Il deficiente non sono io.(Francesco Carraro, “Elogio del deficiente”, da “Scenari Economici” del 9 ottobre 2018).A volte mi viene il dubbio di essere deficiente. Mi sintonizzo sulla televisione di stato, in un orario di massimo ascolto, e mi imbatto in Fabio Fazio che parla con Carlo Cottarelli. Essi mi spiegano che il problema degli italiani è il debito pubblico insostenibile accumulato in anni e anni di sprechi e, in subordine, la dannata piaga dell’evasione. Poi giro canale e mi tocca Barbara Palombelli la quale mi istruisce, grossomodo, su una singolare analogia: lo Stato è come un condominio e – se le tasse non coprono le spese e ci si indebita troppo per coprirle – è logico che tutto vada a rotoli. Poi accendo la radio e mi cucco Oscar Giannino e apprendo che l’idea di monetizzare il debito pubblico, come si faceva una volta quando avevamo la famosa banca nazionale prestatrice di ultima istanza, fa ridere i polli perché non abbiamo più una banca nazionale prestatrice di ultima istanza (il lucido e sofisticato argomento fa vacillare la mia modesta facoltà di comprensione); e poi siamo inseriti in un sistema di ‘governance’ globale dove le politiche di sistema, accompagnate agli stress test del comparto bancario e alla precaria patrimonializzazione delle banche, allo spreco intollerabile della mano pubblica, legittimano la sfiducia dei mercati nei nostri confronti.
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Magaldi: all’Ue serve Keynes (e a Martina uno psichiatra)
Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».Tra i peggiori in campo, come al solito, i media mainstream: ultimamente, dice Magaldi in collegamento web-streaming su YouTube con Marco Moiso, c’è chi arriva a citare Keynes come cattivo esempio (sprechi, assistenzialismo) dopo averlo letteralmente rimosso, lo stesso Keynes, padre dell’economia democratica moderna, propinando al pubblico la narrazione tragicamente ridicola del pensiero unico neoliberista, basata sulla favola dell’austerity espansiva: più si fanno tagli, più cresce “miracolosamente” il Pil. E’ indispensabile, sottolinea Magaldi, che l’anima keynesiana del governo Conte emerga in modo più deciso: e non mancano, specie nella Lega, gli economisti post-keynesiani come Alberto Bagnai. Se non bastasse, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, bisognerà dare corpo a un nuovo partito ultra-keynesiano, che si batta per ripristinare la democrazia sociale in tutta Europa, con una governance democratica dell’economia, sancita da una vera Costituzione Europea. «Rifiutiamo la narrazione che vorrebbe contrapposti sovranisti-nazionalisti da una parte ed europeisti dall’altra: sono fasulli, i sedicenti europeisti che si contrappongono ai sovranisti, ed è un errore madornale lasciarsi incasellare nella categoria di comodo del “sovranismo”». Il nazionalismo? Un binario morto: «Non ha mai prodotto democrazia diffusa, ma solo inimicizia tra popoli».Per Magaldi, massone progressista, «abbiamo bisogno di un cosmopolitismo democratico, che contrasti la “politìa” post-democratica e neo-aristocratica che questi decenni di globalizzazione sbagliata hanno prodotto». Molto meglio una “glocalizzazione”, «che metta al primo posto la dignità del cittadino: ovunque, sotto ogni cielo del pianeta». Tra i soggetti che “remano contro” la svolta liberal-progressista di cui l’Italia avrebbe bisogno, Magaldi indica il capo dello Stato: «Io credo che Mattarella goda di credibilità soltanto presso chi non abbia riflettuto abbastanza su quello che dovrebbe essere il ruolo del presidente della Repubblica, e su come i suoi predecessori in questi anni abbiano avallato questa sorta di svendita della sovranità politica ed economica italiana a potentati privati». Perché di questo si tratta: «Dietro le maschere evanescenti e cialtronesche di diversi burocrati europei – aggiunge – si nascondo interessi privati: interessi apolidi, che predano la ricchezza di popoli, nazioni e interi continenti». Mattarella, continua Magaldi, viene esaltato da chi s’è ubriacato dall’idea che siano i mercati a doverci governare, e pensa che in fondo la linea dell’Europa è responsabile, e che si sono irresponsabili populisti i politici al governo, che osano proporre un rapporto deficit-Pil del 2,4% (inferiore al tetto stabilito a Maastricht).«Personalmente – insiste Magaldi – non ho alcuna stima politica nei confronti di Mattarella, che è un modestissimo personaggio, “pescato” da Renzi (altro modestissimo personaggio) su suggerimento di Draghi». Oggi il capo dello Stato incontra il presidente della Bce «come un maggiordomo che va a prendere gli ordini dal suo dante causa». Sicuri che sia ferrato, in materia economica, il capo dello Stato? «Probabilmente, Mattarella nulla capisce di economia: esegue degli ordini, per quanto riguarda la sua posizione sulla manovra economica del governo, ma ha anche un problema di insispienza, di limiti cognitivi». In definitiva, «è amato da gente che non capisce nulla di economia né di politica, e oltretutto spreca la propria devozione verso un personaggio che sicuramente non la merita – sottolinea Magaldi – anche perché ha attentato alla Costituzione già in occasione della mancata ratifica della nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia». Una pagina estremanente controversa della cronaca politica recente: molti i giuristi che contestarono l’operato del Quirinale, in quella occasione, che spinse Di Maio – a caldo – a ventilare la richiesta di impeachment del presidente.«Continueremo a difendere la bontà del tentativo del governo Conte, che è comunque impegnato a fare qualcosa a conforto di una società italiana in difficoltà, fatta di famiglie e imprese», ribadisce Magaldi, che però non è soddisfatto del bilancio gialloverde. «Finora non c’è stata una narrazione netta, limpida, forte e lungimirante, del tipo: noi non siamo qui per discutere del 2,4 o 2,8%». Persino Salvini s’è abbassato, con fare rassicurante, a sottolineare che il deficit previsto dal Def è comunque inferiore a quello imposto dai parametri di Maastricht. Non ci siamo, protesta il presidente del Movimento Roosevelt: «Qui serve qualcos’altro, serve di più. Servirebbe qualcuno che dicesse: signori, guardate che quei parametri sono arbitrari. Dobbiamo fare grandi investimenti in infrastrutture, lo si è visto a Genova, e questo comporta che all’inizio il rapporto deficit-Pil sarà da aumentare di molte cifre, rispetto al 2,4%. E questo proprio nella prospettiva di rigenerare l’economia italiana, quindi anche di ridurre lo stesso debito pubblico (ma solo in prospettiva, perché il debito di uno Stato non è il debito di una famiglia)». E in più: «Eliminiamo alla radice il problema dello spread mediante l’emissione di eurobond».Una proposta forte dal governo Conte? «Potrebbe dire, come Italia: facciamo una Costituzione Europea. Facciamo dell’Italia il propulsore, in senso democratico, delle istituzioni europee». Sono questi, sottolinea Magadi, i temi che andrebbero affrontati sui tavoli di Bruxelles e Francoforte, «mettendo in scacco gli apparati tecnocratici e anche tutta l’opposizione al governo Conte». In altre parole, la maggioranza gialloverde si decida a evolvere «in una prospettiva che non sia sovranista, nazionalista, populista, mercanteggiatrice di pochi punti percentuali». O si abbandona questa narrativa di basso profilo, o non se ne esce. «E allora sarà inevitabile la costruzione di un partito politico che invece assuma su di sé l’onere di dire con chiarezza quello che va fatto, in termini radicali, e anche di aiutare Lega e Movimento 5 Stelle, e non solo: magari si sposasse davvero un’ottica keynesiana anche dalle parti del centrosinistra e del centrodestra, ne sarei contentissimo». Invece, Martina raccomanda l’eterno rigore europeo – esattamente come Tajani, portavoce del Cavaliere. «E allora – chiosa Magaldi – si mettano ufficialmente insieme e se lo facciano, il loro Partito della Nazione: prendano il 5% dei voti e “si levino dai cabbasìsi” come direbbe il Montalbano di Camilleri».Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».
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Magaldi: Mattarella difende la Costituzione di Mario Monti?
Avete capito bene: il presidente della Repubblica è allarmato dal Def gialloverde che porta il deficit al 2,4%. Meglio dei governi Monti, Renzi, Letta e Gentiloni, ma pur sempre una miseria, ben al di sotto della soglia già di per sé “punitiva” del 3% (imposta da Maastricht solo sulla base della “teologia” neoliberista, senza alcun fondamento scientifico per la salute dell’economia). Fu allora che tutto cominciò: la favola dello Stato equiparato alla normale famiglia, per la quale il debito è un pericolo. Siamo in un film dell’orrore o piuttosto in un film comico, considerando che il più preoccupato degli attuali guardiani dell’establishment – l’ex ministro renziano Pier Carlo Padoan – era addirittura marxista con simpatie maoiste, e da giovane sognava di abbattere il capitalismo? Oggi invece canta nel coro dei Boeri, Monti, Draghi, Visco: guai a spendere soldi per il popolo, è severamente proibito. Da chi? «Da quelle stesse élite a cui questi signori devono le poltrone che occupano», dice Gioele Magaldi, keynesiano democratico-progressista, presidente del Movimento Roosevelt. Quanto a Mattarella, una domanda secca: «Quale Costituzione difende, quella democratica e sociale del 1948 o quella “stuprata” nel 2012 dal pareggio di bilancio imposto dai poteri oligarchici che spedirono Monti a Palazzo Chigi?».E’ sconcertante, aggiunge Magaldi in web-streaming su YouTube, che a scatenare il finto panico mediatico sia bastato il timido Def gialloverde con quell’esiguo 2,4% di deficit: «Lorsignori si stracciano le vesti a reti unificate, dichiarandosi preoccupati per il popolo italiano e per il futuro dei nostri giovani?». Non sono credibili: «L’unica cosa che li preoccupa è il futuro dei figli degli oligarchi che hanno ridotto l’Italia in questo stato, con le tasse alle stelle, la disoccupazione ovunque, i consumi crollati, le pensioni devastate dalla legge Fornero e i giovani italiani costretti a lavori precari, senza più la possibilità di progettare il loro futuro». Ed è proprio sui numeri, aggiunge Magaldi, che l’allarmismo mediatico scade nel ridicolo: Berlusconi – che oggi si unisce all’ipocrita moralismo dei cantori del rigore – teneva il deficit attrono al 4-5%. E lo stesso Renzi, fenomenale fanfarone, una volta perso Palazzo Chigi (dove si era attenuto alla consegna dell’austerity sorvegliata da Padoan) se ne uscì annunciando: possiamo sfidare Bruxelles, portando il deficit al 2,9%. E’ lo stesso Renzi che oggi accusa di irresponsabilità i gialloverdi, per via del loro 2,4? Ebbene, sì. Ma non è il solo.Gli fanno eco tutti gli economisti di corte, che affollano giornali e televisioni, senza mai uno straccio di contraddittorio giornalistico. Ma il guaio, sostiene Magaldi, è che il Quirinale non interviene nel modo che ci si aspetterebbe, per ristabilire la verità calpestata dai media. Anzi: si appella al mitico “equilibrio di bilancio”, inserito in Costituzione solo dall’Italia. Il pareggio di bilancio fu introdotto nel 2012 da Monti, insieme alla mannaia del Fiscal Compact, proprio mentre i poteri finanziari puntavano la pistola contro l’Italia, ricattata dallo spread. Sicuri, si domanda Magaldi, che Sergio Mattarella sia all’altezza della carica che ricopre? E’ duro, il presidente del Movimento Roosevelt, con il Capo dello Stato, che criticò aspramente, mesi fa – invitandolo alle dimissioni – dopo aver giudicato improprio, costituzionalmente, il rifiuto di ratificare la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia. Oggi dichiara: «Non ho ancora sentito un intervento di Sergio Mattarella che abbia contribuito in qualche misura al benessere del popolo italiano». Possibile, aggiunge, che Mattarella non si renda conto del pericolo gravissimo, per aziende e famiglie, costituito dal taglio del deficit? «Eppure Mattarella viene dalla sinistra democristiana, tradizionalmente attenta alle esigenze degli strati meno abbienti della popolazione».Cos’è successo, in questi anni, al punto da accecare i radar dell’informazione e mettere la politica al guinzaglio dell’economia finanziarizzata? Lo tsunami del neoliberismo: la rivoluzione “teologica” che innalza il profitto al di sopra delle istituzioni democratiche. Chi paga il conto? Tutti noi. Meno lo Stato spende a deficit per l’economia reale, sintetizza Magaldi, e più crescono le fortune stellari di un’élite miliardaria e privatizzatrice, a scapito di tutti gli altri. La paura del disavanzo? Un mito, fabbricato ad arte: «Se distribuisco investimenti e abbasso le tasse, faccio crescere l’economia. Faccio salire i consumi, dunque il prodotto interno lordo, e quindi migliorerò il rapporto debito-Pil: in ultima analisi, risanerò i conti pubblici. Dal 2011 in poi, con Monti – continua Magaldi – è stato fatto esattamente il contrario: si è tagliato il deficit, alzando le tasse. Risultato finale: stiamo tutti peggio, e sono peggiorati anche i conti pubblici». Lo spread? Un altro mito: «Basterebbe che la Bce emettesse “eurobond”, e il problema sparirebbe. Ma anche ridotti come siamo, cioè senza più vere banche centrali – nazionali e non – un grande paese industriale come l’Italia ha mezzi enormi per finanziarsi, ad esempio emettendo titoli. Dire che lo Stato è come una famigliola costretta a risparmiare è semplicemente una menzogna».Per Magaldi, «siamo davvero alla follia orwelliana spacciata per saggezza e senso di responsabilità». Una cosa «davvero vergognosa, che suscita indignazione (e riso)». In fondo, aggiunge, Salvini e Di Maio «hanno imboccato la strada giusta, che come Movimento Roosevelt avevavamo consigliato loro anche pubblicamente». Potrebbe non farcela, il governo gialloverde? «Se devono cadere, provvisoriamente, che cadano eroicamente “con le armi in pugno”». In altre parole: se adesso, per colpa dell’irrisorio 2,4% si scatenano i soliti mercati “eterodiretti”, se si scatena «questa canea di falsi uomini di Stato che dicono di preoccuparsi del bene comune e di quello dei giovani», e se quindi a un certo punto il governo venisse “strangolato” e messo nelle condizioni di non operare, ebbene: «Lega e 5 Stelle chiedano di andare a nuove elezioni, e vedremo il popolo chi premierà», conclude Magaldi. Vedremo se l’elettorato italiano «premierà questi sepolcri imbiancati che si preoccupano del 2,4% e si fingono solleciti nell’interesse comune, mentre sono solleciti rispetto alle proprie poltrone e a chi ce li ha messi». Vedremo, chiosa Magaldi, se invece l’elettore «premierà chi, seppure in modo ancora imperfetto, sta cercando di portare un reale cambiamento nel paradigma della governance economica italiana».Avete capito bene: il presidente della Repubblica è allarmato dal Def gialloverde che porta il deficit al 2,4%. Meglio dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, ma pur sempre una miseria, ben al di sotto della soglia già di per sé “punitiva” del 3% imposta da Maastricht (solo sulla base della “teologia” neoliberista, senza alcun fondamento scientifico per la salute dell’economia). Fu allora che tutto cominciò: la favola dello Stato equiparato alla normale famiglia, per la quale il debito è un pericolo. Siamo in un film dell’orrore o piuttosto in un film comico, considerando che il più preoccupato degli attuali guardiani dell’establishment – l’ex ministro renziano Pier Carlo Padoan – era addirittura marxista con simpatie maoiste, e da giovane sognava di abbattere il capitalismo? Oggi invece canta nel coro dei Boeri, Monti, Draghi, Visco: guai a spendere soldi per il popolo, è severamente proibito. Da chi? «Da quelle stesse élite a cui questi signori devono le poltrone che occupano», dice Gioele Magaldi, keynesiano democratico-progressista, presidente del Movimento Roosevelt. Quanto a Mattarella, una domanda secca: «Quale Costituzione difende, quella democratica e sociale del 1948 o quella “stuprata” nel 2012 dal pareggio di bilancio imposto dai poteri oligarchici che spedirono Monti a Palazzo Chigi?».
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Magaldi: Tria si dimetta, se “serve” massoni ostili all’Italia
E’ assolutamente ridicolo e inaccettabile che il “fratello” Giovanni Tria affermi di «aver fatto il proprio giuramento da ministro nell’interesse della nazione», collegando questo giuramento alla sua ostinata pervicacia nel voler difendere un paradigma economico ispirato alla più occhiuta e malnata austerità e nel considerare i privati diktat dei mercati come coincidenti con il bene collettivo dei cittadini. Ostinarsi a voler difendere nel rapporto deficit-Pil il limite dell’1,6% o qualunque altra asticella astratta e priva di fondamento scientifico (meno del 2%, o anche il 3% previsto dai Trattati di Maastricht e cosi via) significa fare gli interessi di gruppi massonici neoaristocratici già ben rappresentati, nella loro distruzione dell’economia italiana, da personaggi come Mario Draghi, Ignazio Visco, Sergio Mattarella, Carlo Cottarelli, eccetera. Al contrario, il massone Giovanni Tria era stato designato alla guida del Mef in qualità di libero muratore sedicente progressista, che avrebbe dovuto contribuire ad inaugurare un “new deal” nella governance economica del Bel Paese.Un nuovo corso significativamente postkeynesiano, e in grado di puntare più sulla crescita del Pil (e di altri fattori non meno rilevanti, per valutare lo stato di salute di un sistema economico complesso) che non sull’ottuso rigore dei conti pubblici: politica, quest’ultima, che negli ultimi anni si è dimostrata chiaramente fallimentare, peggiorando i rapporti relativi tra deficit, debito e Pil. Del resto, quale soluzione di continuità vi sarebbe tra l’azione di Tria e quella dei suoi predecessori (i massoni neoaristocratici Pier Carlo Padoan, Fabrizio Saccomanni, Vittorio Grilli e Mario Monti, che ebbe l’interim al Mef come presidente del Consiglio dal 16 novembre 2011 all’11 luglio 2012) alla guida del ministero economia e finanze, se tutta la gestione dei problemi economici italiani attuali fosse ridotta al problema di avvicinarsi il più possibile al principio neoliberista, dogmatico e funesto del pareggio di bilancio?Insomma, il “fratello” Tria si decida: o sta dalla parte del popolo sovrano italiano oppure, infrangendo il suo giuramento “nell’interesse della nazione”, sta facendo gli interessi di gruppi apolidi sovranazionali e privati di caratura contro-iniziatica. Ma se Tria sta dalla parte di Mario Draghi (presidente Bce), Ignazio Visco (governatore di Bankitalia), Sergio Mattarella e Carlo Cottarelli (su questi ultimi due si veda l’artico pubblicato da ‘Affari Italiani’ “Governo, Magaldi: e il paramassone Mattarella incaricò il massone Cottarelli”) e in perfetta continuità e accordo con il paradigma dell’austerity imposto in modo feroce sin dal governo del controiniziato Mario Monti, allora si dimetta. E una volta che Tria si sia dimesso, Matteo Salvini, Luigi Di Maio e gli altri legittimi azionisti politici del governo Conte chiamino a dirigere il Mef Paolo Savona (come originariamente proposto), supportato da un gabinetto economico speciale che includa Nino Galloni, Antonio Maria Rinaldi, Alberto Bagnai, Claudio Borghi e altri economisti di chiara ispirazione postkeynesiana.(Gioele Magaldi, “Attenzione alle trame dei massoni neoaristocratici Draghi, Visco e Cottarelli e secondo avvertimento al fratello Tria”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 settembre 2018. Magaldi è presidente del Movimento Roosevelt e gran maestro del Grande Oriente Democratico, movimento massonico progressista).E’ assolutamente ridicolo e inaccettabile che il “fratello” Giovanni Tria affermi di «aver fatto il proprio giuramento da ministro nell’interesse della nazione», collegando questo giuramento alla sua ostinata pervicacia nel voler difendere un paradigma economico ispirato alla più occhiuta e malnata austerità e nel considerare i privati diktat dei mercati come coincidenti con il bene collettivo dei cittadini. Ostinarsi a voler difendere nel rapporto deficit-Pil il limite dell’1,6% o qualunque altra asticella astratta e priva di fondamento scientifico (meno del 2%, o anche il 3% previsto dai Trattati di Maastricht e cosi via) significa fare gli interessi di gruppi massonici neoaristocratici già ben rappresentati, nella loro distruzione dell’economia italiana, da personaggi come Mario Draghi, Ignazio Visco, Sergio Mattarella, Carlo Cottarelli, eccetera. Al contrario, il massone Giovanni Tria era stato designato alla guida del Mef in qualità di libero muratore sedicente progressista, che avrebbe dovuto contribuire ad inaugurare un “new deal” nella governance economica del Bel Paese.
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Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?
Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.(Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.