Archivio del Tag ‘golpe’
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Mani Pulite, sfasciare l’Italia per venderla ai suoi carnefici
Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».La stessa Maiolo, scrive Petrosillo su “Conflitti e Strategie”, «riprende la tesi del complotto della Cia nell’affaire Tangentopoli», anche se «non arriva a comprendere come gli americani potessero fidarsi dei comunisti, cresciuti sotto l’ala di Mosca, per raggiungere i loro scopi». Forse alla Maiolo erano sfuggiti «importanti spostamenti di campo che il Pci iniziò ad operare sin dalla fine degli anni ’60 e che diventarono sempre più evidenti con il compromesso storico, le dichiarazioni berlingueriane favorevoli alla Nato e i viaggi d’oltreoceano di Giorgio Napolitano». L’onda lunga del “tradimento” si completerà in seguito alla caduta dell’Urss con la svolta occhettiana della Bolognina, che porterà la “ditta” a cambiare apertamente nome e ragione sociale. «E’ vero che la gioiosa macchina da guerra del Pds s’ingripperà sul più bello, mentre dava l’assalto al potere», ma in effetti anche il complotto meglio pianificato può incontrare un inghippo: in quel caso l’inghippo fu Berlusconi, «catalizzatore del bacino elettorale dei partiti distrutti dai giudici».Quando il pool di Milano «procedeva come un carro armato e tutti aspettavano che finalmente andasse a colpire anche il Pci-Pds, che andasse a fondo, che facesse una pulizia totale», grande stupore destarono quindi le parole del procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, che in un’intervista rilasciata al quotidiano “L’Unità” il 26 maggio 1993 annunciò che a grandi linee l’inchiesta su Tangentopoli era finita, dopo aver colpito Dc e Psi e risparmiato il Pci-Pds. Fu lo stesso D’Ambrosio, aggiunge Petrosillo, a battersi per dimostrare che Primo Greganti, il faccendiere del Pci-Pds che aveva prelevato denaro in Svizzera dal “Conto Gabbietta”, «rubava per sé e non per il partito». Un paio di anni dopo, quando il quadro politico era radicalmente cambiato e non esistevano più la Dc né il Psi (ma esisteva ancora l’ex partito di Occhetto), il ministro di giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, avvierà un’ispezione nei confronti del pool di Milano, e la questione Greganti salterà di nuovo fuori. Dov’erano finiti quei soldi? «Nelle casse del Pci-Pds». Ma il pool di Milano cessò di indagare. E a Tiziana Parenti, la giovane magistrata che aveva osato sfidare i vertici della Quercia, l’inchiesta fu tolta.«Ci sarà un altro magistrato la cui inchiesta sul Pci-Pds si infrangerà su un muro di omertà complici e di “aiutini”», continua Petrosillo. Si tratta del procuratore di Venezia, Carlo Nordio, cui a un certo punto furono trasferiti anche atti provenienti da Milano. «L’interrogatorio di Luigi Carnevale, che chiamava in causa esplicitamente Stefanini, Occhetto e D’Alema, non arrivò mai. Si disse che era stata una “dimenticanza”. E così l’inchiesta di Venezia, come tante altre che si snodarono in tutta Italia, si risolse con le condanne dei pesci piccoli». E che dire di quel miliardo di lire che Raul Gardini, patron di Enimont, avrebbe consegnato a Botteghe Oscure, su cui esistono diverse testimonianze e per il quale Sergio Cusani fu condannato a sei anni di carcere? «Sparito nelle stanze buie della grande federazione del Pci-Pds. Nessun magistrato, né Di Pietro né in seguito i diversi tribunali individuarono in quali mani il denaro fosse finito. Per D’Alema e Occhetto non è mai valso il principio del “non poteva non sapere” o della “responsabilità oggettiva” con cui fu colpito Bettino Craxi. Eppure c’era stato il racconto (indiretto) di Sergio Cusani che aveva riferito di aver consegnato un miliardo nelle mani di Achille Occhetto».Il tribunale che condannò Cusani scrisse: «Gardini si è recato di persona nella sede del Pci portando con sé 1 miliardo di lire. Il destinatario non era quindi semplicemente una persona, ma quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema che assillava Enimont e il fatto così accertato è stato dunque esattamente qualificato come illecito finanziamento di un partito politico». Non si ricordano urla e strepiti del pubblico ministero Antonio Di Pietro (anche se chiederà timidamente di interrogare D’Alema), che dopo quel processo gettò la toga, scrive Petrosillo. Occhetto e D’Alema non furono neppure sentiti e il miliardo passò alla storia come finanziamento illegale “a un partito”. Francesco Misiani, pm romano di sinistra aderente alla corrente più radicale di “Magistratura democratica”, ha spiegato in un libro quale fosse il suo stato d’animo quando scoprì che il Pci-Pds, «lungi dal rappresentare quella “diversità” su cui tanto si era appassionato Enrico Berlinguer, era invece assolutamente omologo (un terzo, un terzo, un terzo) ai partiti di governo e, proprio come aveva denunciato l’inascoltato Craxi, si era sempre finanziato in modo illecito o illegale». Anzi, avendo anche ricevuto finanziamenti dall’Unione Sovietica, come racconterà con franchezza in un altro libro Gianni Cervetti, aveva persino maggiore disponibilità finanziaria.Un politico di Forza Italia come Giuliano Urbani racconta: «Nel 1994, quando ero ministro del primo governo Berlusconi, fui avvicinato da alcuni professori miei amici, che erano legati alla Cia, i quali mi misero in guardia da Di Pietro, mi suggerirono di diffidare della persona. Mi dissero con certezza che Di Pietro nella costruzione di tangentopoli era stato aiutato dai servizi segreti americani». Secondo i “contatti” di Urbani, il desiderio di vendetta degli Stati Uniti nei confronti di Craxi, Spadolini e Andreotti per i fatti di Sigonella ebbe diversi strumenti operativi, tra cui appunto l’uso di Tonino Di Pietro. «Il quale in effetti arrivò, distrusse e se ne andò. Su mandato dei servizi segreti americani». Il racconto di Urbani, proprio perché proviene da un liberale che arrivò nei palazzi del potere “dopo”, e quindi non aveva nessun motivo di revanchismo nei confronti del Pm di Mani Pulite, sembra convincente: «Quegli amici mi hanno avvicinato per avvertirmi della doppiezza dell’uomo, che era stato protagonista di una pagina oscura. E mi hanno proprio cercato loro, appositamente». Vengono con facilità alla memoria quelle trattative, poi saltate, per far entrare Di Pietro nel governo Berlusconi. E i dubbi aumentano. «Sappiamo come è cominciata, ma non sappiamo perché», osserva Petrosillo. «Perché una colossale retata giudiziaria a strascico abbia rivoluzionato la fisionomia politica del paese».C’è chi ha sposato la teoria del complotto internazionale, scrive Petrosillo. Sostenuta da molti esponenti governativi prestigiosi della Prima Repubblica (Craxi in primis), questa ipotesi parte dal presupposto che la magistratura fino al 1992 ignorò il finanziamento illecito dei partiti. Poi, con l’arresto di Mario Chiesa, il caso esplose e si trasformò in un “processo al sistema”. «Qualcuno, si dice, aveva interesse ad annientare l’intera classe politica al governo e sostituirla con un’altra. Chi? Perché?». Francesco Cossiga ha fatto parte di coloro che hanno creduto al complotto internazionale. In una delle sue ultime interviste, attribuì alla Cia un ruolo importante sull’inizio di Tangentopoli, così come sulle “disgrazie” di Craxi e Andreotti. In quel periodo alla Casa Bianca c’erano amministrazioni del Partito democratico, «le più interventiste e implacabili». Un altro boss della Prima Repubblica, l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino, sostiene che il “complotto” iniziò proprio nel 1992, la data fatidica di Mani Pulite. In quei giorni il capo della Cia, James Woolsey, spiegò che l’amministrazione Clinton aveva disposto un vero spionaggio industriale, e a Milano sbarcò l’agenzia privata di investigazioni Kroll. Gli Usa raccolsero corposi dossier sul finanziamento illecito. E il capo della Cia fece sapere al suo governo che c’era la possibilità di far scoppiare scandali, se fosse servito.Nell’analisi di Cirino Pomicino, aggiunge Petrosillo, c’è anche la Gran Bretagna, dove «la Thatcher aveva perso la battaglia sulla moneta unica e gli americani iniziarono una politica aggressiva per difendere il dollaro», oltre che una certa attenzione ai problemi avuti da Chirac in Francia e Kohl in Germania. In quel momento «sarebbe stata scelta l’Italia, come luogo dove far scoppiare lo scandalo». Il punto debole, conclude Petrosillo, è la strategia che gli americani avrebbero avuto sul “dopo”. «Chi assaltò il Palazzo d’inverno, chi prese la Bastiglia aveva un progetto per il giorno dopo la rivoluzione. I servizi segreti americani avevano dunque un accordo con Occhetto? Oppure con quei “poteri forti” che cercavano la discontinuità e che non ameranno mai Berlusconi, trattato sempre come un Maradona, geniaccio arrivato d’improvviso dalle favelas?». La risposta è nei fatti, dal Britannia in poi, col clamoroso precedente del divorzio tra il Tesoro e Bankitalia, quando la banca centrale era retta da Ciampi. Lo ha spiegato molto bene Nino Galloni, consulente di Andreotti alla vigilia del Trattato di Maastricht: l’Italia fu deliberatamente azzoppata, con la complicità delle sue élite tecnocratiche in quota al futuro centrosinistra, per sabotare il sistema produttivo nazionale, come chiedeva la Germania per aderire all’euro e gestire il disegno strategico di indebolimento generale dell’Europa. Il resto è cronaca, e si chiama crisi.Mani Pulite? Un “golpe” giudiziario per radere al ruolo la Prima Repubblica, corrotta fin che si vuole ma non disposta a demolire la sovranità nazionale. «La vecchia dirigenza Dc-Psi, che per anni, nel bene e nel male, aveva governato l’Italia – scrive Gianni Petrosillo – non avrebbe mai ceduto alle pressioni esterne tese ad ottenere la liquidazione degli asset strategici e patrimoniali del Belpaese, per una sua completa subordinazione a (pre)potenze straniere, in atto di ricollocarsi sullo scacchiere geopolitico dopo l’implosione dell’Unione Sovietica». Tutto ciò «verrà fatto dopo, dai residuati della Prima Repubblica, sospettamente scampati alla mannaia giudiziaria, pur avendo ricoperto ruoli e funzioni di primo piano per una lunga fase, e da nuovi partiti frettolosamente nati sulle macerie di quelli vecchi o appena riverniciati di falso moralismo necessario a mimetizzarsi tra scandali e persecuzioni». Un magistrato come Tiziana Maiolo denunciò le “stranezze” del pool di Milano, «il quale, incredibilmente, insabbiò le indagini sui comunisti e mise i bastoni tra le ruote a quei magistrati che avrebbero voluto fare maggiore chiarezza anche da quella parte».
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Comprare l’Italia (per poi chiuderla) prima che crolli l’euro
La teoria comincia a confermare i peggiori presagi di alcuni “malpensanti”, ad esempio Mitt Dolcino che mi ospita su questo sito. Quello che è stato a più riprese previsto dall’autore sopra citato si può riassumere come segue: la stagflazione in regime di cambi fissi è una moderna forma di neocolonialismo tedesco a danno dei supposti “partner” deboli dell’Ue; le ricette austere di matrice tedesca stanno indebolendo le aziende dell’Europa periferica ed italiana in particolare che quindi vengono acquisite dall’estero, con massima attenzione per quei paesi che competono direttamente con la Germania (ad es. l’Italia, soprattutto l’Italia); appunto, la Germania è interessata ad acquisire nel Belpaese i competitor delle propie grandi aziende, non per investire con/in esse ma semplicemente per eliminare un avversario (pls check); questo verrà provato a breve con lo svuotamento delle attività italiane delle aziende acquisite, prima di tutto in termini di manodopera e di investimenti (nell’arco di circa un triennio); la Germania deve acquistare quel che resta delle imprese italiane – maggior competitor manifatturiero della Germania – PRIMA prima che l’euro si rompa, onde ovviare alla innegabile competizione della italiana a seguito della svalutazione competitiva che seguirà.Ecco, questa è in pillole la teoria che Mitt Dolcino ha propugnato nei suoi interventi degli scorsi tre anni; forse bisognerebbe ponderare se avesse/avrà o meno ragione, l’acquisto di Italcementi – il più grande cementiere del sud Europa – è un boccone enorme. Di più, un vero banco di prova. Vero che su questo sito si era preconizzata l’acquisizione in passato di Enel da parte dei tedeschi. Altrettanto vero che tale “piece of news” pare fosse informazione accurata, peccato che da una parte l’acquirente in pectore tedesco si stia letteralmente liquefacendo a seguito dei suoi enormi errori manageriali e dei pessimi (relativi al settore) risultati di bilancio (…); dall’altra il duo “governo/Ad di Enel” [bravissimo] hanno saputo tessere una tela ramificatissima e pregevolissima che, anche grazie a supporti esterni (Usa, vedasi l’accordo con Ge per il rinnovabile in Nord America) e all’astuzia del governo con le Tlc in fibra allocate al gigante elettrico, ha esteso le coperture della golden share [e della geopolitica che conta] alla nostra multinazionale dell’energia.Ma ciò non toglie che quello di Italcementi sia un vero simbolo, un passo decisivo nel piano egemonico tedesco, certamente – si teme – solo il primo di una serie: la Germania, avendo compreso che l’euro è destinato a crollare, deve comprare ORA ora le aziende che le fanno concorrenza, soprattutto nella manifattura e soprattutto nel suo settore di elezione, quello primario (cemento, acciaio, energia, autotrazione, chimica etc. ma non nell’oil in quanto ne fu esclusa dopo la sconfitta nell’ultima guerra). O al limite farle chiudere/sperare che chiudano, come la Riva Acciai competitore della iper-problematica ThyssenKrupp (il crollo di Riva a fine del 2011 ha prima di tutto salvato il gigante tedesco dell’acciaio; coincidenza delle coincidenze è che il crollo del nostro gruppo siderurgico sia coinciso con l’alba del governo di Mario Monti e del golpe contro un primo ministro italiano democraticamente eletto, considero il Professore certamente un affiliato o quasi dell’ordoliberismo tedesco, per non dire molto di più).E – lo ripeterò fino allo sfinimento – la Germania deve acquisire i propri competitor in Ue indeboliti dalla crisi PRIMA prima che l’euro si rompa, con il fine di evitare che la svalutazione competitiva italiana spiazzi i suoi giganti nazionali. Ben inteso, sarà facile verificare che Heidelberg ha acquisto Italcementi per farla chiudere o comunque per ridimensionarla, eliminando un competitor. Per altro solo l’aspetto fiscale – tasse molto più basse in Germania che in Italia – giustificherebbe la chiusura della maggioranza delle filiali italiane rispetto a quelle meno tassate/vessate in Germania. Verificate gente, verificate se quanto stiamo asserendo si trasformerà in realtà: in particolare occhio all’occupazione di Italcementi nei prossimi tre/quattro anni ed ai tagli che seguiranno, facile prevedere che finirà come Acciai Speciali Terni simboleggiata nel disastro di Torino, bassi investimenti e chiusura progressiva (speriamo che questa volta almeno si eviti la tragedia). Credetemi, questa storia la conosco davvero bene e non temo – purtroppo – smentita nella visione proposta.E in tutto questo tristissimo epilogo, i nostri politici fanno grande fatica a riconoscere la grave realtà che ci aspetta; questo è l’aspetto più irritante. E soprattutto, a vedere l’ormai evidente protervia tedesca, un piano ben congegnato. Attenti, politici: se la disoccupazione dovesse esplodere per colpa diretta dei tedeschi, stile abbattimento/forte ridimensionamento di Italcementi da parte di Heidelberg, penso che questa volta rischierete davvero di pagarla di fronte ai cittadini, soprattutto vis a vis con le maestranze esodate in forza ad esempio degli effetti del Jobs Act. E ai giovani intraprendenti dico: andatevene da questo paese, se la politica permette che gli stranieri che ci impongono il rigore ci comprino i nostri grandi gruppi a valle all’indebolimento preventivo causato dall’austerity, per voi non c’è futuro. E probabilmente nemmeno per i giovani politici; aspettate per credere, sono pronto a scommettere che da qui a qualche anno saranno loro i responsabili del disastro. Ben inteso, fosse per me chiederei a Mario Monti di emigrare…(“La teoria secondo cui il sistema tedesco deve comprarsi la manifattura italiana prima del crollo dell’euro comuncia ad avverarsi: Italcementi acquistata da Heidelberg”, intervento di “Fantomas” da “Scenari Economici” del 29 luglio 2015).La teoria comincia a confermare i peggiori presagi di alcuni “malpensanti”, ad esempio Mitt Dolcino che mi ospita su questo sito. Quello che è stato a più riprese previsto dall’autore sopra citato si può riassumere come segue: la stagflazione in regime di cambi fissi è una moderna forma di neocolonialismo tedesco a danno dei supposti “partner” deboli dell’Ue; le ricette austere di matrice tedesca stanno indebolendo le aziende dell’Europa periferica ed italiana in particolare che quindi vengono acquisite dall’estero, con massima attenzione per quei paesi che competono direttamente con la Germania (ad es. l’Italia, soprattutto l’Italia); appunto, la Germania è interessata ad acquisire nel Belpaese i competitor delle propie grandi aziende, non per investire con/in esse ma semplicemente per eliminare un avversario (pls check); questo verrà provato a breve con lo svuotamento delle attività italiane delle aziende acquisite, prima di tutto in termini di manodopera e di investimenti (nell’arco di circa un triennio); la Germania deve acquistare quel che resta delle imprese italiane – maggior competitor manifatturiero della Germania – prima che l’euro si rompa, onde ovviare alla innegabile competizione della italiana a seguito della svalutazione competitiva che seguirà.
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L’euro, creato da gangster nazisti per devastare l’Europa
Il referendum greco ha dato adito ad accesi dibattiti che però dimostrano la generale ignoranza sulle regole del gioco: «I partecipanti si sono lacerati per sapere se i greci fossero o no responsabili del loro debito, stando sempre attenti nel contempo a non accusare mai di usura i loro creditori», scrive Thierry Meyssan. «Ma lo hanno fatto ignorando la storia dell’euro e le ragioni della sua creazione». La moneta unica? «Un progetto anglosassone della guerra fredda», per indebolire l’Europa e staccarla dalla Russia. Dal Trattato di Roma, 64 anni fa, le istanze amministrative successive del “progetto europeo” (Ceca, Cee, Ue) hanno speso somme enormi e senza equivalenti per finanziare la loro propaganda nei media. «Ogni giorno centinaia di articoli, di trasmissioni radio e televisive, sono pagati da Bruxelles per raccontare una falsa versione della storia e farci credere che l’attuale “progetto europeo” sia quello degli europei risalente al periodo fra le due guerre mondiali». Ma gli archivi mostrano che già nel 1946 Winston Churchill e Harry Truman decisero di dividere il continente europeo in due: da una parte i loro vassalli, dall’altra l’Urss con i suoi.«Per assicurarsi che nessuno Stato si emancipasse dalla loro sovranità dominante, decisero di manipolare gli ideali dell’epoca», scrive Meyssan su “Megachip”. «Quel che allora veniva definito il “progetto europeo” non consisteva nel difendere presunti valori comuni, ma nel fondere lo sfruttamento delle materie prime e delle industrie della difesa di Francia e Germania per essere certi che questi paesi non potessero più farsi la guerra (teoria di Louis Loucheur e del conte Richard Coudenhove-Kalergi)». Il britannico Mi6 e la statunitense Cia, continua il giornalista, furono poi incaricati di organizzare il primo “Congresso dell’Europa” all’Aia nel maggio 1948, al quale parteciparono 750 personalità (tra cui François Mitterrand) provenienti da 16 paesi. «Si trattava, né più né meno, di rilanciare il “progetto di Europa federale” (redatto da Walter Hallstein – il futuro presidente della Commissione Europea – per il cancelliere Adolf Hitler) in base alla retorica di Coudenhove-Kalergi». L’Urss aveva reagito all’inizio della guerra fredda sostenendo i comunisti che avevano preso il potere, legalmente, a Praga? «Washington e Londra organizzarono allora il Trattato di Bruxelles, che prefigurava la creazione della Nato».Lo stesso spirito antisovietico accomunava gli “unionisti”, «per i quali si trattava unicamente di mettere in comune i mezzi per resistere all’espansione del comunismo», e i “federalisti”, «che auspicavano che si realizzasse il progetto nazista di Stato federale sottoposto all’autorità di un’amministrazione non eletta». Da lì nacque il percorso europeista a noi noto: prima la Ceca, poi la Cee e quindi l’Ue. Inoltre, quello stesso congresso «adottò il principio di una moneta comune». Tra i “padri” dell’euro, Meyssan segnala Joseph Rettinger, «ex fascista polacco divenuto un agente britannico». Su richiesta dell’Mi6, l’intelligence britannica, Rettinger «fondò la European League for Economic Cooperation e ne divenne il segretario generale. In questa veste, è il padre dell’euro. In seguito, ha animato il movimento europeo e ha creato il Club Bilderberg». Obiettivo dell’Elec, una volta create le istituzioni europee, era quello di «passare dalla moneta comune (la futura European Currency Unit – Ecu) a una moneta unica (l’euro), in modo che i paesi che aderivano all’Unione non potessero più lasciarla».È questo il progetto che François Mitterrand ha realizzato nel 1992, continua Meyssan. «Alla luce della storia e della partecipazione di Mitterrand al Congresso dell’Aja nel 1948, è assurdo affermare oggi che l’euro avesse avuto un altro scopo. Questo è il motivo per cui, logicamente, i trattati attuali non prevedono l’uscita dall’euro, costringendo la Grecia, se lo desidera, a uscire prima dall’Unione per poter uscire dall’euro. Dopo la dissoluzione dell’Urss, gli Stati Uniti rimasero i soli padroni del gioco, il Regno Unito li assistette, e gli altri Stati obbedirono loro. «Di conseguenza, l’Unione non ha mai deliberato il proprio allargamento a Est, ma ha solamente convalidato una decisione assunta da Washington e annunciata dal suo segretario di Stato, James Baker. Allo stesso modo, ha adottato sia la strategia militare degli Stati Uniti, sia il loro modello economico e sociale caratterizzato da enormi disuguaglianze». La stampa dominante ha affermato che votando “no”, l’economia greca avrebbe fatto un salto nel buio. «Eppure, il fatto di appartenere alla zona euro non è una garanzia di performance economica». Secondo i dati del Fmi, nel rapporto tra Pil e potere d’acquisto dei salari, un solo Stato membro dell’Unione Europea è tra i primi 10 al mondo: il paradiso fiscale del Lussemburgo. La Francia è solo al 25° posto su 193.La crescita, nell’Unione Europea, è stata dell’1,2% nel 2014, il che va a classificarla al 173° posto nel mondo: uno dei peggiori risultati del pianeta (la media mondiale è del 2,2%). «È inevitabile constatare che appartenere all’Unione e utilizzare l’euro non sono garanzie di successo», osserva Meyssan con lugubre sarcasmo, di fronte alla catastrofe economica che sta travolgendo l’Eurozona. Ma attenzione, non si tratta di un fallimento per tutti: «Se le élite europee sostengono questo “progetto”, accade perché risulta loro profittevole. In effetti, nel creare un mercato unico e una moneta unica, gli “unionisti” hanno imbrogliato le carte. Ormai, le differenze non sono tra gli Stati membri, ma tra classi sociali che si sono rese uniformi su scala europea. Ecco perché i più ricchi difendono l’Unione, mentre i più poveri aspirano al ritorno degli Stati membri». L’Ue, aggiunge Meyssan, «non è stata creata per unire il continente europeo, ma per dividerlo, scartando definitivamente la Russia. Questo è ciò che Charles De Gaulle aveva denunciato mentre perorava un’Europa “da Brest a Vladivostok”».Gli “unionisti” assicurano che il “progetto europeo” ha consentito la pace in Europa per 65 anni? «Ma parlano dell’appartenenza all’Unione o del loro vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti? In realtà è questo che ha garantito la pace tra gli Stati dell’Europa Occidentale, pur mantenendo la loro rivalità al di fuori dell’area Nato». Il sistema-euro, che impone diktat a Stati non più sovrani, ricorda in modo sinistro i meccanismi decisionali del piano di dominio hitleriano. Meyssan cita ancora Walter Hallstein, alto funzionario tedesco, l’uomo che curò la redazione del progetto nazista di Europa federale. «Si trattava di distruggere gli Stati europei e di federare le popolazioni per etnie attorno al Reich ariano. L’insieme sarebbe stato sottoposto alla dittatura di una burocrazia non eletta, controllata da Berlino. Dopo la Liberazione, mise in opera il suo progetto con l’aiuto degli anglosassoni». Altro personaggio chiave nel martirio ellenico, Mario Draghi, presidente della Bce nonché ex numero due in Europa della banca Goldman Sachs.Proprio Draghi «ha celato al Parlamento Europeo il ruolo da lui avuto rispetto alle malversazioni perpetrate dalla banca per conto del governo greco, sebbene risulti a chiare lettere dai documenti della banca». Atene, ora, «potrebbe facilmente cavarsela rifiutandosi di pagare la parte odiosa del debito, lasciando l’Unione, e facendo alleanza con la Russia, che per lei è un partner storico e culturale di gran lunga più serio della burocrazia di Bruxelles». Certo, la volontà di Mosca e di Pechino di investire in Grecia e di crearvi nuove istituzioni internazionali è un segreto di Pulcinella. «Tuttavia, la situazione in Grecia è più complessa», visto che Atene è anche un membro della Nato: proprio per impedire alla Grecia di avvicinarsi all’Urss, l’Alleanza Atlantica aveva già organizzato nel 1967 un colpo di Stato militare, il “golpe dei colonnelli”.Il referendum greco ha dato adito ad accesi dibattiti che però dimostrano la generale ignoranza sulle regole del gioco: «I partecipanti si sono lacerati per sapere se i greci fossero o no responsabili del loro debito, stando sempre attenti nel contempo a non accusare mai di usura i loro creditori», scrive Thierry Meyssan. «Ma lo hanno fatto ignorando la storia dell’euro e le ragioni della sua creazione». La moneta unica? «Un progetto anglosassone della guerra fredda», per indebolire l’Europa e staccarla dalla Russia. Dal Trattato di Roma, 64 anni fa, le istanze amministrative successive del “progetto europeo” (Ceca, Cee, Ue) hanno speso somme enormi e senza equivalenti per finanziare la loro propaganda nei media. «Ogni giorno centinaia di articoli, di trasmissioni radio e televisive, sono pagati da Bruxelles per raccontare una falsa versione della storia e farci credere che l’attuale “progetto europeo” sia quello degli europei risalente al periodo fra le due guerre mondiali». Ma gli archivi mostrano che già nel 1946 Winston Churchill e Harry Truman decisero di dividere il continente europeo in due: da una parte i loro vassalli, dall’altra l’Urss con i suoi.
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Cretini, vogliono isolare la Russia e invece isolano gli Usa
Le menzogne relative alla Russia e al suo presidente si sono fatte tanto grossolane da minacciare un possibile devastante conflitto nel mondo, cosa che ha spinto un gruppo di distinti cittadini nordamericani a formare il Comitato Americano per l’Accordo Oriente-Occidente. I membri del Comitato sono l’ex senatore Bill Bradley, Jack Matlock che fu ambasciatore Usa nell’Urss durante l’Amministrazione di Ronald Reagan e di George H.W. Bush; William J. Vanden Heuvel, che fu ambasciatore all’Onu durante l’amministrazione Carter; John Pepper, ex presidente e dirigente esecutivo dell’impresa Procter & Gamble; Gilbert Doctorow, uomo d’affari da un quarto di secolo con esperienza commerciale con la Russia e i professori Ellen Mickiewicz dell’ Università di Duke e Stephen Cohen dell’ Università di Princeton e di quella di New York. Risulta un fatto straordinario che la cooperazione tra Russia e gli Stati Uniti, svilupatasi attraverso decenni per mezzo di successivi governi, iniziando da quello di John F. Kennedy e culminando con la fine della guerra fredda con gli accordi di Reagan-Gorbaciov, sia stata distrutta da un pugno i nordamericani neo-conservatori trafficanti di armamenti nel corso dell’ultimo anno e mezzo.
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La mafia Ue uccide Atene per impaurire noi, infami codardi
Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.«Il “no” massiccio al referendum – scrive Cremaschi su “Micromega” – andava sanzionato in quanto tale, per insegnare ai popoli tentati di ripeterlo quanto alto potrebbe esserne il prezzo. Il taglio delle pensioni minime sotto i 400 euro al mese, quello dei salari dello stesso livello, l’aumento del prezzo dei farmaci là ove la sanità pubblica è scomparsa, l’obbligo a rivedere le minime misure di sostegno ai poveri, agli sfrattati, la cancellazione delle poche riassunzioni, tutte queste non sono misure di grande valore economico, sono rappresaglie sociali. Anche per questo, dopo la firma della capitolazione, la Bce ha deciso di continuare a negare i fondi Ela di emergenza. Le file ai bancomat devono continuare fino a che restino ben stampate nella memoria», di ogni greco e di ogni altro europeo. «Le rappresaglie terrorizzano e puniscono, ma il loro scopo è il dominio. La Grecia è il primo Stato europeo che dal 1945 diventa formalmente una colonia. In questo c’è anche la punizione politica che viene somministrata al governo Tsipras». Massima perfidia, costringere lo stesso Tsipras a firmare condizioni-capestro, peggiori di quelle inizialmente respinte, demolendo così la credibilità del premier “ribelle”.«Il Parlamento greco avrà solo il compito di votare il proprio suicidio accettando la resa», continua Cremaschi. «Poi ogni decisione sarà presa dai tecnici, espressione delle potenze occupanti, che supervisioneranno l’operare del governo coloniale. Tutto questo è meticolosamente definito nel protocollo dell’Eurogruppo». Colpo di Stato, come quello dei colonnelli nel 1967: «Allora fu la Nato ad organizzarlo, ora è la Troika». La differenza? «Allora non erano in discussione le proprietà pubbliche, mentre ora sono in svendita». La Grecia continua ad essere «cavia di trattamenti che vengono somministrati in dosi estreme ad essa e più caute agli altri, ma la medicina è la stessa: il Fiscal Compact e il Semestre Europeo si son aggiunti ai già precedenti trattati che hanno legato indissolubilmente euro e austerità». Ora, poi, ci sono poteri formali per far applicare le peggiori decisioni prese dall’Ue: «Se un Parlamento fa un bilancio dello Stato che le autorità di Bruxelles considerano troppo poco rigoroso, queste stesse autorità possono intervenire per modificarlo. I parlamenti nazionali non hanno più la disponibilità del bilancio dello Stato, ragione per cui 200 e più anni fa sono nati».Sopra di loro sta un’autorità tecnocratica e finanziaria che esercita il potere vero: «La Ue è quindi oggi un colpo di Stato permanente, che sulla Grecia ha esercitato una sperimentazione, per ora, estrema». Ma la riduzione allo stato coloniale della Grecia, oltre che la funzione di esempio, che scopo economico ha? Qui le poche cifre chiare disponibili non lasciano dubbi. «Il paese verrà saccheggiato dai “creditori”. Degli 84 miliardi promessi, solo 10 potrebbero finire in investimenti, cioè produrre interventi nell’economia reale. Tutti gli altri son una partita di giro, soldi che tornano alle banche e al Fmi», e il meccanismo si ripete con gli interessi. «Infatti a garanzia del prestito la Grecia deve impegnarsi in tagli di bilancio e tasse per un cifra vicina ai 15 miliardi e privatizzare beni per 52 miliardi». E’ un paese alla fame, con un Pil 8 volte inferiore a quello dell’Italia. «Da noi, la manovra imposta alla Grecia varrebbe 120 miliardi di tagli e oltre 400 miliardi di privatizzazioni. Riusciremmo a farle noi senza vendere Venezia, Firenze e il Colosseo?».Il via libera ad altri licenziamenti di massa e la fine dei contratti collettivi, imposti dall’Eurogruppo, secondo Cremaschi ridurranno alla schiavitù ciò che resta del lavoro: ci saranno più profitti, ma non ci sarà certo una ripresa in grado di pagare i debiti. «Come ogni usuraio, i creditori potranno allora dire che la Grecia non fa fronte a tutti gli impegni e quindi non può avere tutti i prestiti. Così continueranno a fare affari saccheggiando il paese e terranno in ostaggio tutti gli altri popoli: se non volete finire come loro dovete continuare ad accettare le politiche di austerità. La Troika sarà aiutata in questo ricatto permanente dal controllo totale esercitato sui mass media, che con la loro menzogna sistematica in questi giorni ci han già fornito un’anteprima di fascismo 2.0». Conclusione: «La vicenda greca dimostra una sola verità inconfutabile: questa Unione Europea non è riformabile; se si vuole una politica diversa da quella del massacro sociale e dell’austerità bisogna essere disposti alla rottura completa con essa. Il governo greco non era disposto a questo, e quindi ha capitolato».Il popolo greco, invece, aveva risposto “no” al 62%. «E’ stato un segnale che lor signori han ben colto, e per questo han reagito con tanta brutalità. Ma le rappresaglie, i massacri, possono impaurire una, due, tre volte, poi alla fine ottengono l’effetto opposto, alimentano la rivolta. Per questo la Ue, mostrando la sua vera faccia con la Grecia, ha decretato la sua fine». La rottura «va costruita in mezzo ai popoli, che per vivere liberamente debbono saper reggere il ricatto dell’euro e di tutto quanto è ad esso collegato». Nel 1938, la Cecoslovacchia si arrese alla Germania di Hitler, sostenuta da tutta l’Europa, che pensava così di essersi salvata. Scrisse Churchill: «Scegliemmo il disonore per non avere la guerra, e ottenemmo entrambi». Aggiunge Cremaschi: «Il 13 luglio 2015 è la giornata del disonore europeo, tutti i governi che hanno imposto la resa alla Grecia sono colpevoli d’infamia, ma la condanna morale deve diventare rovescio politico. Starà ai greci decidere come organizzare resistenza e sabotaggio verso il Memorandum, con o senza Tsipras, dipende da lui. Ma resistere alla tirannia Ue è il compito da assumere in ogni paese e in tutto il continente».Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.
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Giulietto Chiesa: via dall’Unione Europea, è un branco di lupi
Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.In realtà, questa “non è mai stata Europa”, replicano i critici dell’europeismo franco-tedesco. Secondo Paolo Barnard, autore de “Il più grande crimine” (saggio che illumina, con anni di anticipo rispetto alla catastrofe odierna, la genesi dell’euro come strumento di dominio dell’élite finanziaria a spese degli Stati e dei popoli) l’Unione Europea non è mai stata altro che questo: pura confisca di democrazia, senza contropartite di alcun genere. Confisca istituzionalizzata mediante organismi non elettivi, espressione diretta del “vero potere” neoliberista nemico del welfare e persino dello Stato di diritto. Un regime ideologico che in Europa si è alimentato anche con teorie risalenti all’800, l’economia neoclassica (pagare i lavoratori il meno possibile) e il tragico mercantilismo tedesco (la vocazione all’export, che comprime i salari e deprime la domanda interna). La fobia teutonica dell’inflazione, di hitleriana memoria, si è saldata con la demonizzazione del debito pubblico, motore naturale dell’economia espansiva (se il debito è denominato in moneta nazionale). E’ semplicemente sconcertante, sostiene il politologo Aldo Giannuli, che la sinistra europea non si sia mai accorta del “mostro” cresciuto a Bruxelles; ovvio, quindi, che oggi non abbia proposte, perché qualsiasi vera alternativa democratica comporterebbe innanzitutto la denuncia dell’Ue e del suo braccio secolare, l’euro, come strumenti di pura dominazione antipopolare.Peggio ancora: proprio la sinistra ufficiale – da Mitterrand in poi – ha conferito il massimo supporto al progetto europeista, ben sapendo che la “disciplina di bilancio” indotta fisiologicamente da una non-moneta come l’euro avrebbe causato tagli devastanti alla spesa sociale e abrogazione di diritti e storiche conquiste. Quello che accade oggi in Grecia, dunque, non è che una logica conseguenza, il modus operandi “naturale” di un impianto oligarchico di potere, che non guarda in faccia a nessuno. Proprio la ferocia dimostrata contro Atene, per giunta “colpevole” di aver osato sfidare il regime di Bruxelles con un referendum, finisce per scuotere anche chi aveva sperato in una residua quota di ragionevolezza, se non altro per evitare di consegnare il continente a una pericolosa deriva incarnata da populismi ultra-nazionalisti, spesso xenofobi e neofascisti. «Sono in molti a dire apertamente che ciò che si è consumato a Bruxelles il 13 luglio 2015 è stato un “colpo di Stato”», scrive Chiesa su “Sputnik News”. Un golpe, «realizzato con strumenti finanziari, con un ricatto dei forti contro i deboli, che implica e si regge su un atto di forza, su un’imposizione illegittima».Per il giornalista, autore del profetico libro-denuncia “La guerra infinita” che illustrò con anni di anticipo il piano egemonico dei neocon statunitensi e le “guerre americane” puntualmente condotte negli ultimi anni, la crisi fra Berlino e Atene «è l’inizio della fine dell’Europa come entità che si proponeva di essere unitaria e si rivela ora un’accozzaglia di egoismi, che non è nemmeno possibile definire “nazionali”, poiché sono stati dettati dalla frenesia del guadagno delle élites bancarie internazionali». Questa è ormai «un’Europa senza solidarietà e divisa, spaccata. Con la Germania (ma che dico?, con una parte della Germania; ma che dico?, con un partito tedesco – la Cdu-Csu – guidato da un ministro delle finanze, Wolfgang Schäuble, che combatte contro la premier del suo partito Angela Merkel) che si trascina dietro sei Stati dell’est, tutti antieuropei in sostanza, e che pretende di fare la lezione a tutta la restante Europa, per costringerla ad accettare il modello tedesco». Giulietto Chiesa cita l’ex ministro greco Yanis Varoufakis: la vera posta in gioco non è Atene ma Parigi, perché il piano degli oligarchi tedeschi consiste nel «mettere il timore di Dio nei francesi, costringendo la Grecia a uscire dall’euro».Dunque, conclude Chiesa, «la Grecia è stata usata, anche (non solo come la vittima sacrificale da esibire sulle piazze d’Europa, come l’avvertimento, come la gogna che attende tutti coloro che osassero ribellarsi in futuro), come una mazza ferrata per imporre la volontà dei banchieri tedeschi a tutti gli altri paesi». Quella di Bruxelles, allora, è «un’Europa che si comporta come un branco di lupi». Sicché, «questa Europa finisce, insieme alla Grecia indipendente e sovrana». Una constatazione che «dovrebbe aprire una riflessione a tutte le forze europee, democratiche e che vogliono conservare le loro sovranità nazionali, sulla “questione tedesca”». Attenzione: «Per la terza volta, nella sua storia moderna, la Germania mette e repentaglio la pace nel continente. Un’Europa senza Germania è sempre stata impensabile. Ma una Germania che non è in grado di moderare la sua pulsione al dominio diventa il nemico di ogni idea europea comune».Per quanto concerne la Grecia, la soluzione imposta a Tsipras, «mostruosa sotto ogni profilo», non è che «una tappa verso un disastro, non solo economico: è l’esistenza stessa della democrazia che è stata annientata», costringendo i greci ad accettare un piano economico peggiore di quello che, col referendum, avevano rifiutato. «Perfino la proprietà privata, dei singoli e dello Stato, è stata cancellata. Con totale impudenza, quella del vae victis – continua Giulietto Chiesa – la Germania ha preteso il controllo diretto di 50 miliardi di euro di proprietà greche attraverso il Kfw (Kreditanstalt Fur Wiederanfbau, Istituto di Credito per la Ricostruzione), che altro non è che una banca tedesca (80% dello Stato e 20% dei laender) e il cui presidente è Wolfgang Schäuble».Peraltro, proprio la Kfw (la “Cdp” tedesca) è lo strumento col quale la Germania ha regolarmente aggirato le restrizioni sull’euro, acquisendo moneta praticamente a costo zero per finanziare il governo – la Kwf è giudiricamente privata, ma di fatto chi comanda è lo Stato. Nessuno, però, si è mai permesso di far osservare ai tedeschi che stavano barando: hanno imposto il costo dell’euro a tutta l’Eurozona (moneta che ogni paese può ottenere solo con l’emissione di titoli di Stato, attraverso il sistema bancario privato), mentre Berlino, sottobanco, ha trovato il modo di finanziarsi impunemente in modo assai più economico. Inutile, quindi, aspettarsi che simili oligarchi potessero fare la benché minima concessione sulla indispensabile ristrutturazione del debito greco, «che è un debito illegale e estorto con l’inganno e con la complicità dell’Europa e della Germania», ricorda Giulietto Chiesa. «Non c’è più nemmeno l’ombra dell’economia di mercato: questa è rapina e violenza allo stato brado».Paul Krugman, Premio Nobel per l’economia, ha spesso tuonato contro i “maghi” dell’austeriy europea, che impongono solo e sempre ricette disastrose. Sbagliano? No, lo fanno apposta: retrocedere i popoli, ex consumatori ormai inutili, fa parte del piano. Diverranno lavoratori-schiavi, senza più diritti sindacali e con salari da Bangladesh, alla periferia meridionale del Quarto Reich. Giulietto Chiesa cita ancora il greco Varoufakis, che bene esprime il panico di Syriza di fronte all’ipotesi Grexit: l’ex ministro, che oggi accusa Tsipras di non aver osato tener duro di fronte al “waterboarding” cui è stato sottoposto a Bruxelles, sostenendo che si poteva reggere molto meglio il braccio di ferro e spuntare condizioni migliori per restare nell’Eurozona, cita l’Iraq (paese bombardato, invaso, raso al suolo) come esempio per spiegare le enormi difficoltà nel rimettere in piedi una moneta partendo da zero (missione impossibile, in quel caso, senza l’aiuto Usa). In più, lo stesso Varoufakis evita di citare – come invece fa Krugman – il caso eclatante dell’Argentina, la cui prodigiosa rinascita è iniziata proprio con l’abbandono del legame col dollaro (cambi bloccati, come nel caso dell’euro) tornando pienamente sovrana, “da zero”, dei propri pesos.Se è quindi chiaro che nessun Varoufakis avrebbe mai potuto – con quelle argomentazioni – impensierire neppure lontamente la Bce e la Commissione Europea (oltre a non aver messo a punto un vero piano-B, il governo di Syriza non ha nemmeno pensato a reclutare un adeguato team di economisti, per esempio quelli, americani e democratici, di cui si servì Nestor Kirchner per la rianimazione-record della sua Argentina), resta di fronte agli occhi di tutti lo spettacolo dell’orrore che Berlino e Bruxelles hanno esibito, a prescindere dall’impresentabilità di Syriza – spettacolo che non mancherà di suscitare ripercussioni drastiche, a partire dalla Francia di Marine Le Pen, l’unico leader europeo a chiedere a gran voce, e non da oggi, l’uscita di Parigi dall’Unione Europea, prospettiva che ormai sfiora l’Austria e nel 2017 chiamerà al voto anche la Gran Bretagna. L’incubo Grexit – espulsione disordinata, non preparata come invece nel caso argentino – comporterebbe «conseguenze sociali e politiche sconvolgenti: sicuramente provocazioni, disperazione, disordini, sangue», scrive Giulietto Chiesa. «Questa è l’Europa, oggi. Bisogna prepararsi a uscirne, per tempo».Di fronte allo spettacolo di barbarie offerto dalla Germania nell’accanirsi contro Atene, nell’ambito della più grave crisi nella storia dell’Ue, anche Giulietto Chiesa – diffidente verso i No-Euro e a lungo incline a concepire una prospettiva politica di revisione democratica dell’Unione Europea – si arrende all’evidenza: Bruxelles non è solo una gang di tecnocrati prezzolati e “maggiordomi” dei poteri forti, messi lì per spremere paesi e popoli in nome del dominio del business finanziario. E’ anche una cosca spietata e sanguinaria, apertamente anti-europea, pronta a calpestare la stessa possibilità di sopravvivenza dei greci. «L’Unione Europea è un’associazione a delinquere», disse senza mezzi termini Marshall Auerback, economista del Levi Institute di New York, di fronte al “golpe dello spread” che a fine 2011 portò all’insediamento di Mario Monti in Italia, l’uomo scelto dalla finanza, con la collaborazione di Napolitano, per imporre il celebre diktat della Bce (Draghi e Trichet) con brutali “riforme” come quella della Fornero sulle pensioni. Nemmeno quattro anni dopo, l’aggravarsi della crisi europea – complicata dalle inaudite tensioni belliche con la Russia in Ucraina – sta determinando contraccolpi politici, psicologici, culturali: questa «non è più Europa», si sente ripetere da più parti.
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Grecia, la dignità ha sconfitto la paura. E’ fallito un golpe
La finanza tossica internazionale e il cancelliere tedesco hanno cercato di rovesciare il governo democratico greco. Questa era la reale posta in gioco del referendum. Sono stati sconfitti. Volevano rovesciare Tsipras per dare una lezione anticipata ai democratici spagnoli che a novembre forse troveranno il coraggio di scegliere con “Podemos” una strada di democrazia coerente. Quanto tentato dai finanzieri e dalla signora Merkel si chiama, se vogliano evitare eufemismi, un tentativo di golpe bianco. Una maggioranza di greci dalle dimensioni inaspettate lo ha sventato col suo Oxi, la dignità ha sconfitto la paura. Da domani, inutile farsi illusioni, il tentativo di assoggettare irreversibilmente l’Europa ai croupier del gioco di Borsa riprenderà in piena sintonia con la maggior parte dei governi e con le istituzioni comunitarie. Vedremo fino a che punto si allineerà anche il governo francese del “socialista” inconsistente Hollande.Dopo la vittoria della democrazia greca alcune cose sono comunque definitivamente chiare. È del tutto insensato continuare con l’omelia dei Delors, Habermas e Cohn-Bendit secondo cui il problema è il deficit di legittimazione democratica delle istituzioni europee. Se il Parlamento di Strasburgo avesse i poteri della Camera dei Comuni, del Bundestag o dell’Assemblea Nazionale, ad avere la fiducia e governare l’Europa nella pienezza dei poteri sarebbe oggi la destra più becera e autoritaria. A dimostrazione che la democrazia non si riduce e non coincide con libere elezioni. Queste ultime sono un irrinunciabile strumento della vita democratica, ma come fin troppe volte è stato dimostrato nelle vicende storiche, il suffragio può servire anche a sopprimere la democrazia. Istituzioni democratiche possono nascere in Europa solo a partire da una Costituzione che fissi i diritti imprescrittibili di ogni cittadino, che nessuna maggioranza può schiacciare, e che non possono ridursi a quelli della tradizione liberale classica, e meno che mai a quelli liberisti, ma devono comprendere inalienabili diritti sociali, sindacali, ecologici, “roosveltiani”, incompatibili con la sovranità del mondo finanziario.Senza un accordo preliminare su tali valori l’Europa non è una conquista da difendere ma un fallimento da archiviare al più presto studiando la via della dissoluzione della comunità la meno tragica possibile (e non sarà facile). Tsipras ha intanto il dovere di fare “qualcosa di sinistra” che pure aveva promesso. Non ci sono tracce di una lotta spietata alla grande evasione fiscale, agli indecenti privilegi degli armatori, alle micidiali sperequazioni tra i quartieri dorati del lusso più sfrenato e una povertà che talvolta ha scene da immediato dopoguerra. Solo una politica di grande redistribuzione delle ricchezze può salvare l’Europa, e la Grecia per prima.(Paolo Flores d’Arcais, “Grecia, la dignità ha sconfitto la paura”, da “Micromega” del 5 luglio 2015).La finanza tossica internazionale e il cancelliere tedesco hanno cercato di rovesciare il governo democratico greco. Questa era la reale posta in gioco del referendum. Sono stati sconfitti. Volevano rovesciare Tsipras per dare una lezione anticipata ai democratici spagnoli che a novembre forse troveranno il coraggio di scegliere con “Podemos” una strada di democrazia coerente. Quanto tentato dai finanzieri e dalla signora Merkel si chiama, se vogliano evitare eufemismi, un tentativo di golpe bianco. Una maggioranza di greci dalle dimensioni inaspettate lo ha sventato col suo Oxi, la dignità ha sconfitto la paura. Da domani, inutile farsi illusioni, il tentativo di assoggettare irreversibilmente l’Europa ai croupier del gioco di Borsa riprenderà in piena sintonia con la maggior parte dei governi e con le istituzioni comunitarie. Vedremo fino a che punto si allineerà anche il governo francese del “socialista” inconsistente Hollande.
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Renzi consegna la Cdp ai registi della svendita dell’Italia
Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.Perché nominare presidente di una società a controllo pubblico un uomo cresciuto negli ambienti della finanza e della grande industria privata? La risposta può trovarsi nel curriculum di Costamagna, che nel giugno 1992 ha partecipato alle famose riunioni segrete sul panfilo Britannia al largo di Civitavecchia, nelle quali banchieri anglo-americani e uomini pubblici e privati italiani decisero la linea di privatizzazioni delle aziende strategiche nazionali portata poi avanti col contributo decisivo di Romano Prodi. Claudio Costamagna è l’ultimo cavallo di Troia dell’economia italiana. Il boccone prelibato consiste nelle residue aziende strategiche a controllo pubblico, come Eni e le sue controllate, Enel e Finmeccanica, per ricordare solo le principali. Al di là delle dichiarazioni di circostanza, a confessare i reali propositi di questo commissariamento è lo stesso presidente del Consiglio, quando afferma che «l’Italia si trova oggi a un passaggio decisivo per la ripresa. Le riforme strutturali, l’attrazione degli investimenti, e una politica di bilancio basata sul taglio delle tasse sul lavoro stanno riportando il Paese alla crescita. In questo contesto il rafforzamento del ruolo di Cdp risulta ancora più cruciale».È la solita retorica governativa: l’Italia non crescerà sostenendo i redditi e creando lavoro, ma aprendosi allegramente agli investimenti esteri che, tradotto, significa cedere le eccellenze italiane e i settori strategici al profitto estero. D’altra parte basta guardare la parabola discendente della stessa Cassa Depositi e Prestiti. Nel 2003 è stata trasformata da ente di diritto pubblico in società per azioni, negli anni successivi il 18,4% delle sue azioni è passato nelle mani di diverse fondazioni bancarie che già oggi ne condizionano la politica, e negli ultimi anni, attraverso il Fondo Strategico Italiano (Fsi), ha stretto rapporti con fondi sovrani esteri che hanno cominciato a scalare le nostre società controllate dallo Stato. Al culmine della lunghissima crisi provocata dal casinò finanziario, il nostro premier rincara la dose e affida 250 miliardi di risparmi postali dei cittadini italiani all’ennesimo uomo del destino che svenderà i nostri gioielli nazionali per un piatto di lenticchie. “Ahi serva Italia, di traditori ostello”.(M5S Parlamento, “Cdp in mano a Goldman Sachs”, dal blog di Beppe Grillo del 22 giugno 2015).Il lato oscuro del “rottamatore”: Cassa Depositi e Prestiti in mano a Goldman Sachs. Con un atto d’imperio il premier ha imposto le dimissioni a Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), sostituendolo con Claudio Costamagna. L’ex-rottamatore ha deciso di entrare nel valzer delle nomine pubbliche minacciando di commissariare il Consiglio d’Amministrazione di Cdp e ottenendo, dopo lunghe trattative, la nomina del suo candidato. Claudio Costamagna ha un lungo passato in Goldman Sachs, una delle banche d’investimento e di consulenza finanziaria più grandi del mondo, che ha visto fra i suoi consulenti Mario Draghi, Romano Prodi e Mario Monti. Si aggiunga che Costamagna siede tuttora in diversi consigli di amministrazione di società quali Luxottica ed è presidente di Salini-Impregilo. Non manca un legame molto solido con l’Università Bocconi, che Costamagna ha il compito di “indirizzare verso l’internazionalizzazione” e dalla quale è stato eletto nel 2004 “uomo bocconiano dell’anno”.
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Giannuli: tamarri al potere, il Pd è una vergogna nazionale
«A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».«Sino a quando una norma c’è, si rispetta e non si aggira, magari con la compiacenza di un governo e di un Parlamento di “amichetti”», scrive Giannuli nel suo blog. «Ma la concezione di De Luca è quella dell’asso pigliatutto: chi vince, per fas et nefas poco importa, governa, anzi “comanda” (come insegna il suo capo, Renzi: “un uomo solo al comando”). E’ la stessa concezione della democrazia di Berlusconi, per la quale chi vince le elezioni è “l’Unto del Signore”. Una concezione predatoria che include anche le leggi ad hoc o ad personam, lo smembramento della Costituzione, l’assalto alle alte cariche dello Stato, il diritto di saccheggio». Una concezione che «non concepisce i limiti opposti al potere dalle norme dello Stato di Diritto, dalla divisione dei poteri, dal ruolo dell’opinione pubblica. Una idea da caudillo latinoamericano». Questa, continua Giannuli, è l’ idea del potere che ha anche Renzi, mirabilmente espressa nella sua legge elettorale, per la quale una forza politica che magari rappresenta il 12,5% dell’elettorato totale (ad esempio il 25% del 50% di quanti vanno a votare) si aggiudica il 54% dei seggi dell’unica Camera e ha un’ottima base di partenza per cambiare la Costituzione a piacimento.E questo perché “gli italiani devono sapere dalla sera delle votazioni chi governerà”, anzi: “comanderà”, perché «il tanghero fiorentino confonde il governo con il Potere nella sua interezza: ma il governo, in uno Stato di diritto, è solo una delle articolazioni del potere, non l’unica». In Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Austria, Olanda ci sono sistemi elettorali che non garantiscono affatto di sapere chi governerà nei 5 anni successivi, eppure quei paesi non vanno in crisi. Perché in Italia dovrebbe essere diverso? «Ma De Luca e Renzi non sono uomini da sofisticatezze intellettuali, cose che lasciano agli oziosi», loro sono uomini d’azione, non di cultura «e ci tengono a rimarcarlo in ogni occasione, facendo sfoggio del loro spirito praticone e del fastidio per ogni dibattito, soprattutto quando assuma vaghe sfumature culturali». E se qualcuno riesce a fare un’obiezione, la risposta non è mai nel merito: è sempre colpa di “personaggetti”, “disfattisti”, “rosiconi”, “gufi”. «Un cocktail di arroganza, aggressività, cafoneria, invadenza, prevaricazione, spudoratezza. E’ il Renzi’s tamarro style che ormai non appartiene solo a lui ma è la cifra di una intera classe politica».Da Orfini, che zittisce Gomez sullo scandalo di Mafia Capitale, a Enrico Carbone che la sera della disfatta alle regionali tenta di imporsi sul concorrente vendoliano: «Al povero senatore Stefàno di Sel, che è pugliese ed obiettava che in Puglia nelle civiche c’era proprio di tutto, Carbone rispondeva “Tu pensa a Sel che in Puglia è andata male”. Appunto: perfetto Renzi’s Tamarro Style». Questo stile, conclude Giannuli, è la spia di una concezione autoritaria della democrazia. «Il fatto è che i renziani sono antropologicamente estranei alla civiltà delle buone maniere che, guarda caso, quantomeno storicamente, è la premessa di quella della democrazia. E allora, venite ancora a dirmi che ad essere impresentabile è il solo De Luca? Impresentabile è il Pd in quanto tale. E ho una domanda agli ex militanti del Pci, ancora numerosi, nonostante tutto, nelle file del Pd: ma come fate a non vergognarvi di stare in una cloaca del genere?».«A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».
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Bin Laden morto anni prima del blitz Usa, eccovi le prove
Gli Usa non hanno mia ucciso Osama Bin Laden. Un diabete degenerato in una nefrite terminale nel presunto terrorista (mai processato) lo ha ucciso, e quasi certamente diversi anni prima della colossale menzogna del blitz americano nel 2011 in Pakistan. Come lo so? La mia fonte fu il terzo più alto executive di Al Qaeda dopo Ayman Al-Zawahri e Bin Laden stesso fino alla fine degli anni ‘90. Sono rimasto scioccato dall’ingenuità della pur eccellente inchiesta del mitico reporter americano Seymour Hersh sui retroscena della morte di Bin Laden, versione Casa Bianca. Essa è pubblicata QUI. Hersh ci rivela la solita montagna di balle, complotti, mistificazioni messe in piedi dalla presidenza Usa, dal Pentagono e dalle agenzie dei servizi sulla ‘prestigiosa’ operazione Abbottabad, la presunta uccisione di Bin Laden il 2 di maggio 2011 in Pakistan. Ottimo lavoro, ma cose risapute per chi ha vissuto la storia contemporanea fuori dal Tg1 o da Facebook. Dall’incidente del Tonchino (Vietnam), ai “carpet bombing” genocidi di Laos e Cambogia, da Cuba a El Mozote, a Suharto e a Pinochet, dall’Iraq a Israele alla Libia ecc., la politica estera di Washington può essere raccontata con prove alla mano come un scia criminale di menzogne talvolta al limite del grottesco (la gggènte ci crede sempre, così come i – conato – giornalisti).Ma Hersh ha fatto qui l’errore più triste della sua carriera di colosso del mio mestiere: egli dà comunque per scontato che il poveraccio letteralmente smembrato vivo da oltre 600 proiettili degli Us Navy Seals in una camera da letto di Abbottabad fosse Osama Bin Laden. Al 99,9% non lo era. Ecco come lo so. Nel 2003, mentre filmavo l’inchiesta di “Report” (Rai3) “L’Altro Terrorismo”, fui messo in contatto con un fondatore di Al Qaeda in una capitale del Medioriente che ancora non posso nominare. Ecco chi era costui, il mio insider: fu per quattordici anni ai vertici della Jihad islamica internazionale, la culla di Al Qaeda. Sedeva con Bin Laden e Hasan Al-Turabi nei palazzi governativi di Khartoum in Sudan, fu il Dawa numero uno di Al Qaeda, il loro ‘Pontefice’ islamico. Decadi prima, nel 1981, lui si trovava al Cairo, e poche ore dopo l’assassinio del presidente Anwar Sadat per mano di membri dalla Jihad islamica egiziana, si ritrovò sbattuto sul pavimento di una cella buia accanto ad altri estremisti religiosi, fra i quali vi sarà anche un giovane medico che rispondeva al nome di Ayman Al Zawahri, oggi capo di Al Qaeda.Fetore, grida terribili, ossa spezzate, testicoli arrostiti, due anni così, parte della più violenta repressione dell’integralismo religioso nella storia dell’Egitto, per poi essere scarcerato assieme ad altri sopravvissuti e insieme deportati oltre il confine col Sudan. Una banda di giovani esiliati con una cosa in comune: un odio implacabile per il regime egiziano apostata e per ogni suo alleato, Israele, Stati Uniti ed Emirati Arabi in testa. Formano una grande famiglia che vaga senza sosta: prima Khartoum in Sudan, poi Sanaa nello Yemen, poi Peshawar e Islamabad in Pakistan, dove lui in particolare stringe rapporti con la leadership talebana. L’insider mi conferma che fu in Pakistan, molti anni dopo, nel 1998, che avvenne ufficialmente la fusione fra due componenti dell’Islam belligerante che, prese singolarmente, erano relativamente pericolose, ma che messe a contatto si rivelarono micidiali: le finanze di Bin Laden e la manovalanza specialistica degli uomini di Al Zawahri, in altre parole la ‘nuova’ Al Qaeda.L’incontro con lui durò 7 ore, tutte passate in auto a vagare per le periferie di questa capitale, al buio. Paranoici, terrorizzati. Mi disse: «La mia specializzazione (la formazione spirituale dei membri di Al Qaeda) era tale che nel 1995, in Sudan, Osama Bin Laden e Al-Turabi fecero a gara per tenermi; Osama mi offrì un budget illimitato per addestrare i suoi uomini». Parlammo di tante cose (riportate nel mio “Perché ci odiano”, Rizzoli Bur 2006), ma di una non ho mai dato conto. Prima di arrivare al punto, vi rivelo che al montaggio del servizio per “Report” in Rai; chiamammo il traduttore arabo ufficiale della nostra Tv pubblica, un docente universitario egiziano a Roma, il quale dopo appena 10 minuti d’ascolto di questo insider di Al Qaeda si alzò nel panico e gridò che si rifiutava di continuare… Preciso infine che il rango e la veridicità dell’insider di Al Qaeda che incontrai mi fu confermata dal reporter americano Alan Cullison del “Wall Street Journal”, autore di uno scoop per aver scoperto in Afghanistan il pc dell’allora numero due di Al Qaeda, Ayman Al Zawahri, dove il mio insider (volto e altri dettagli) compariva fra i nomi top.Ecco ciò che non ho mai rivelato. In breve, l’insider mi disse nel 2003 che Bin Laden era vivo, ma in condizioni drammatiche. L’ultimo corriere che lo vide dopo il noto ‘incidente di Karachi’ – dove i servizi pakistani Isi intercettarono un altro corriere, Ramzi bin al-Shibh, nel settembre 2002 – vide un uomo in fin di vita, non si reggeva in piedi, devastato da diabete e nefrite, ovviamente impossibilitato a curarsi con la complessa specialistica necessaria perché nascosto sulle montagne, probabilmente sulla soglia della morte. Ciò accadeva nei primi mesi del 2003. Ma ancora prima i reporter del “The Guardian” Jason Burke e Lawrence Joffe catturarono un video di Osama del 2001 dove già quest’uomo appariva «magro come un fantasma e disabile». Siamo fra il 2001 e il 2003, immaginate se un ammalato in quelle condizioni arriva sano e attivo al 2011, senza uno straccio di cure altamente specialistiche a fronte di patologie gravissime già alla fase finale otto anni prima.Notate ora una cosa di notevole spessore che avvalla la versione di un decesso naturale di Bin Laden anni prima del maggio 2011: l’ultimo video seriamente accreditato al vero Bin Laden risale al 2004, poi il buio totale. Le sue trasmissioni successive sono cassette audio o video irriconoscibili giudicate “quasi certamente dei falsi” dalla stessa Cia. Ogni altro video che da allora ci è giunto ci mostra il suo n. 2, Ayman Al Zawahri. Ora ci si chieda: come è possibile che negli anni cruciali per il sostegno morale di Al Qaeda, sottoposta a operazioni di annientamento globale, il loro leader carismatico non si fosse mai curato di apparire con veemente retorica a loro sostegno? Mai una singola volta. Be’, era morto. Stroncato dalla malattia come detto sopra. Seymour Hersh neppure esamina questi fatti. E peggio. Il presunto cadavere di Bin Laden viene sepolto in mare da una portaerei americana alla velocità della luce, cioè a poche ore dalla morte. Nessuno al mondo ha mai visto neppure una foto credibile almeno del volto del presunto terrorista (mai processato).Forse ricordate che vi fu un’insurrezione globale dei musulmani che chiedevano le prove sull’identità di Osama e un funerale islamico in tutta regola. Washington rifiutò entrambi. Eppure bastava poco. Bin Laden portava una cicatrice evidente a una caviglia, frutto di una battaglia a Jaji in Afghanistan ai tempi dell’invasione russa. Bastava una foto di essa per convincere il mondo che l’uomo ucciso ad Abbottabad nel 2011 era lui. Ma no. Perché Seymour Hersh si è incredibilmente scordato di questo dettaglio? Perché Hersh non sottolinea che se il poveraccio nella camera da letto di Abbottabad fosse stato veramente Osama Bin Laden, era tutto interesse della comunità internazionale averlo vivo? Cristo, una fonte d’informazioni infinita, o imbarazzante, eh Washington? Imbarazzante non perché quel tizio in Abbottabad era l’ex alleato/stipendiato degli Usa Bin Laden che poteva dirne tante…, ma perché quel tizio era un nessuno, un fantoccio umano. 600 proiettili su un corpo per renderlo irriconoscibile, letteralmente, come riporta anche Hersh, smembrato in pezzi, per non aver grane…In ultimo, gli scettici pro versione Usa obietteranno che dopo la millantata operazione Abbottabad sarebbe stato interesse di Al Qaeda smentire la versione di Washington con foto della vera sepoltura di Osama sulle montagne centro-asiatiche. La risposta è no, perché una tale rivelazione avrebbe esposto la leadership di Al Qaeda al ridicolo in tutto il mondo islamico, cioè ci avrebbe rivelato un’organizzazione allo sbando da anni senza figura leader. Chi capisce i jihadisti sa di cosa parlo. E gran finale. La farsa dell’operazione Abbottabad del 2011 esplode come un fuoco d’artificio fuori dalla Casa Bianca e verso i media alla vigilia della campagna elettorale di Obama nella primavera del 2011, appunto. Be’, concludo qui. Credo che ce ne sia abbastanza. Bin Laden non arrivò vivo neppure a mille miglia dalla menzogna Abbottabad.(Paolo Barnard, “Bin Laden era morto anni prima del blitz Usa, Seymour Hersh ha toppato”, dal blog di Barnard del 29 maggio 2015).Gli Usa non hanno mai ucciso Osama Bin Laden. Un diabete degenerato in una nefrite terminale nel presunto terrorista (mai processato) lo ha ucciso, e quasi certamente diversi anni prima della colossale menzogna del blitz americano nel 2011 in Pakistan. Come lo so? La mia fonte fu il terzo più alto executive di Al Qaeda dopo Ayman Al-Zawahri e Bin Laden stesso fino alla fine degli anni ‘90. Sono rimasto scioccato dall’ingenuità della pur eccellente inchiesta del mitico reporter americano Seymour Hersh sui retroscena della morte di Bin Laden, versione Casa Bianca. Essa è pubblicata qui. Hersh ci rivela la solita montagna di balle, complotti, mistificazioni messe in piedi dalla presidenza Usa, dal Pentagono e dalle agenzie dei servizi sulla ‘prestigiosa’ operazione Abbottabad, la presunta uccisione di Bin Laden il 2 di maggio 2011 in Pakistan. Ottimo lavoro, ma cose risapute per chi ha vissuto la storia contemporanea fuori dal Tg1 o da Facebook. Dall’incidente del Tonchino (Vietnam), ai “carpet bombing” genocidi di Laos e Cambogia, da Cuba a El Mozote, a Suharto e a Pinochet, dall’Iraq a Israele alla Libia ecc., la politica estera di Washington può essere raccontata con prove alla mano come un scia criminale di menzogne talvolta al limite del grottesco (la gggènte ci crede sempre, così come i – conato – giornalisti).
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Paura della storia: cancellano l’Urss che distrusse Hitler
Il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista. Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.Il secondo fronte fu aperto con lo sbarco anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai l’Armata Rossa e i partigiani sovietici avevano sconfitto le truppe tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista. Il prezzo pagato dall’Unione Sovietica fu altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione (in rapporto allo 0,3% degli Usa in tutta la Seconda Guerra Mondiale); circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70.000 piccoli villaggi, 30.000 fabbriche distrutte. Questa pagina fondamentale della storia europea e mondiale si tenta oggi di cancellare, mistificando anche gli eventi successivi. La guerra fredda, che divise di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, non fu provocata da un atteggiamento aggressivo dell’Urss, ma dal piano di Washington di imporre il dominio statunitense su un’Europa in gran parte distrutta.Anche qui parlano i fatti storici. Appena un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945, al Pentagono già calcolavano che occorrevano oltre 200 bombe nucleari per attaccare l’Urss. Nel 1946, quando il discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” apriva ufficialmente la guerra fredda, gli Usa avevano 11 bombe nucleari, che nel 1949 salivano a 235, mentre l’Urss ancora non ne possedeva. Ma in quell’anno l’Urss effettuò la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il proprio arsenale nucleare. In quello stesso anno venne fondata a Washington la Nato, in funzione antisovietica, sei anni prima del Patto di Varsavia costituito nel 1955.Terminata la guerra fredda, in seguito al dissolvimento nel 1991 del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, su spinta di Washington la Nato si è estesa fin dentro il territorio dell’ex Urss. E quando la Russia, ripresasi dalla crisi, ha riacquistato un ruolo internazionale stringendo crescenti rapporti economici con la Ue, il putsch in Ucraina, sotto regia Usa/Nato, ha riportato l’Europa a un clima da guerra fredda. Boicottando sulla scia degli Usa il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, l’Europa occidentale (quella dei governi) cancella la storia della sua stessa Resistenza, che tradisce sostenendo i nazisti andati al governo a Kiev. Sottovaluta la capacità della Russia di reagire, quando viene messa alle corde. Si illude di poter continuare a dettare legge, quando la presenza a Mosca dei massimi rappresentanti dei Brics, a partire dalla Cina, e di tanti altri paesi conferma che il dominio imperiale dell’Occidente è sulla via del tramonto.(Manlio Dinucci, “La cancellazione della storia”, da “Il Manifesto” del 14 maggio 2015).Il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista. Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.
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Foa: Renzi, il piccolo Duce, e i suoi complici. Che vergogna
Qualcosa vorrà pur dire se per la seconda volta in poche settimane le opposizioni abbandonano in massa il Parlamento al momento del voto di leggi fondamentali per il futuro del paese. Tutte le opposizioni: da Sel alla Lega. Un comportamento senza precedenti. Significa che i principi fondamentali della democrazia sono in pericolo, non sono più condivisi. E’ in questi frangenti che un presidente della Repubblica deve intervenire, rimandando alle Camere le leggi contestate e costringendo il premier a riaprire trattative su quelle che non possono essere che regole condivise. Sergio Mattarella, che nella sua vita professionale si è creato l’immagine di giudice inflessibile, ora appare come un fantasma politico, una non-entità, tanto lusingata per l’inaspettata elezione al Colle quanto palesemente inadeguata, al punto da convalidare il sospetto che sia stato messo lì apposta per non disturbare il manovratore.Se ha personalità, se ha davvero il senso dello Stato, questo è il momento di mostrarlo, di imporlo con forza ma temo che Mattarella questo coraggio non l’abbia e che preferisca passare alla storia come il presidente che ha avallato due misure golpiste – riforma dell’articolo V della Costituzione e ora l’Italicum – anziché, come suo dovere istituzionale, fermare il nuovo piccolo Duce, Matteo Renzi. E che dire del Partito democratico? All’ultima votazione i dissidenti sono stati 60, più di prima ma ancora troppo pochi e chiaramente isolati. Nel Pd non si respira un clima di rivolta; si percepisce, semmai, uno straordinario ma non sorprendente conformismo, un appiattimento delle coscienze che cancella d’un tratto tutte le loro emozionanti, travolgenti, irrinunciabili battaglie civiche degli ultimi due decenni.Già, perché la sinistra dei “pecoroni” si era fatta leonina per combattere i rischi di una deriva autoritaria da parte di Berlusconi, che avrà avuto tanti difetti e ha commesso tanti errori, ma non ha mai avuto mire dittatoriali. All’epoca, però, era facile opporsi, tutti assieme, a Berlusconi; era facile provare, tutti assieme l’ebrezza di sentirsi inflessibili paladini della democrazia di fronte al satrapo di Arcore. E ora che quei timori si materializzano – e non è un’opinione, ma un fatto – quella sinistra non solo non si oppone all’uomo che rappresenta davvero una minaccia per la democrazia, Matteo Renzi, – il caudillo, come lo ha definito Ferruccio De Bortoli – ma lo saluta festante, partecipa attivamente al golpe, approvandolo in Parlamento. Ancora una volta, tutti assieme, con poche lodevoli ma insufficienti eccezioni. Sempre e comunque omologati e cortigiani. Lasciatemelo dire: che vergogna.(Marcello Foa, “Renzi, il piccolo Duce (e i suoi complici). Che vergogna”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 5 maggio 2015).Qualcosa vorrà pur dire se per la seconda volta in poche settimane le opposizioni abbandonano in massa il Parlamento al momento del voto di leggi fondamentali per il futuro del paese. Tutte le opposizioni: da Sel alla Lega. Un comportamento senza precedenti. Significa che i principi fondamentali della democrazia sono in pericolo, non sono più condivisi. E’ in questi frangenti che un presidente della Repubblica deve intervenire, rimandando alle Camere le leggi contestate e costringendo il premier a riaprire trattative su quelle che non possono essere che regole condivise. Sergio Mattarella, che nella sua vita professionale si è creato l’immagine di giudice inflessibile, ora appare come un fantasma politico, una non-entità, tanto lusingata per l’inaspettata elezione al Colle quanto palesemente inadeguata, al punto da convalidare il sospetto che sia stato messo lì apposta per non disturbare il manovratore.