Archivio del Tag ‘globalizzazione’
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Caro Letta, il dio della sinistra è lo stesso di Berlusconi
Si è chiuso un ventennio, come dice Enrico Letta? Il premier si sbaglia, replica Diego Fusaro, «perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento». Portatrici della stessa visione ultra-capitalistica del mondo, «destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici», dal Fmi alla Bce, «che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare». Ridotte a pura gestione dell’esistente, politica e democrazia «non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato». Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Forse quello del politico Berlusconi, ma «non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta».Fusaro lo chiama, «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd». Un ibrido politico che, «dalla lotta per l’emancipazione di tutti è oggi passato armi e bagagli a difendere le ragioni del capitale finanziario globalizzato». La cultura della sinistra? E’ da tempo «il luogo di riproduzione simbolica del capitale: nichilismo, relativismo, distruzione dei retaggi borghesi». Da Marx alla Dandini, da Gramsci a D’Alema: «La parabola sta tutta qui: farebbe ridere se non facesse piangere», scrive Fusaro su “Lo Spiffero” in un intervento ripreso da “Megachip”. L’eclissi della sinistra, quella vera? «Una tragedia politica e sociale di tipo epocale». Ridotta a «protesi di manipolazione simbolica del consenso e di addomesticamento organizzato del dissenso», la falsa dicotomia tra destra e sinistra – con buona pace di Letta – oggi «occulta il totalitarismo del mercato». La propaganda delle due fazioni non lo nomina neppure più, avendolo ormai metabolizzato «come dato naturale-eterno».Siamo in una gabbia di finzioni: «Si è liberi di scegliere tra gruppi, schieramenti, partiti e fazioni», sapendo però che hanno tutte aderito al dogma, alla «supina adesione all’integralismo economico presentato come destino», come futuro senza alternative al dominio del capitale. «Oggi il monoteismo del mercato risulta letteralmente invisibile nel proliferare ipertrofico delle dicotomie ingannatorie», e può persino spacciarsi come “male minore”, rispetto agli estremismi che hanno popolato il drammatico ‘900. Perversioni politiche: «Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente».Destra e sinistra? Sono entrambe colpevoli di una «adesione cadaverica al nomos dell’economia e all’ordine neoliberale». Letta e Berlusconi? Sono soltanto “maschere di carattere”, per dirla con Marx. «Può darsi che sia finito il ventennio di Berlusconi, ma il suo spirito continua a vivere negli “eroi” del centrosinistra, che di Berlusconi sono da anni i più preziosi alleati». L’unica differenza? Sta nel fatto che i “sinistri” «fanno finta di non essere berlusconiani, disapprovando sempre e solo gli aspetti folkloristici del Cavaliere (Arcore, Olgettina, Ruby)». Di fatto, però, condividono in toto «l’idea perversa della politica come continuazione dell’economia con altri mezzi», nonché «il disinteresse totale e conclamato per la questione sociale e per i diritti degli esclusi dal sistema». Se la sinistra smette di interessarsi a questi temi, conclude Fusaro, allora è meglio «smettere di interessarsi alla sinistra».Si è chiuso un ventennio, come dice Enrico Letta? Il premier si sbaglia, replica Diego Fusaro, «perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento». Portatrici della stessa visione ultra-capitalistica del mondo, «destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici», dal Fmi alla Bce, «che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare». Ridotte a pura gestione dell’esistente, politica e democrazia «non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato». Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Forse quello del politico Berlusconi, ma «non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta».
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Berardi: guerra civile europea, solleviamoci per fermarla
Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.Secondo Berardi, autore di un intervento su “Micromega”, «soltanto una sollevazione generale, che non si limiti a riempire le piazze per un giorno, ma che occupi in maniera permanente la vita quotidiana, può liberare la società dalla trappola del finanzismo». La sollevazione, precisa “Bifo”, non è un’azione militare, e neppure una ribellione momentanea, ma «il dispiegamento della corporeità sociale, il rifiuto permanente di pagare un debito che non abbiamo contratto, l’autonomia delle forme di vita di sapere e di produzione». Niente black-bloc, per intenderci: «Un’evoluzione violenta del movimento anticapitalista oggi sarebbe poco intelligente, perché nessuno crede alla possibilità di sconfiggere le forze armate degli Stati, ultimo residuo del loro potere nazionale». Ci sono state «esplosioni di violenza precaria» come quelle del 2011 in Inghilterra, scatenate dalle giovani generazioni che «si vedono promesse a un futuro di miseria e di schiavismo», seguite dall’“acampada” spagnola, da Occupy Wall Street e dalle rivolte giovanili in Tunisia e in Egitto. L’Italia? E’ rimasta ai margini, «perché molti ingenui credevano che il problema fosse riducibile al potere di un vecchio caimano mafioso». Ma ora che Berlusconi pare al tramonto, «nulla cambia se non in peggio, e la società si trova in una stretta ogni giorno più soffocante».Lo spettacolo che ci assedia è scoraggiante: «Fiaccata dall’attacco finanzista, l’Unione Europea è un morto che cammina. Un sentimento di rancore impotente si esprime in forme di nazionalismo e di razzismo». Il Mediterraneo è «trasformato in una fossa comune», mentre «campi di concentramento razziali» sorgono «in ogni territorio dell’Unione». Sulla Grecia incombe “Alba Dorata”, in Spagna riemerge il conflitto tra nazionalismo e indipendentismo catalano, in Ungheria si affacciano «la dittatura e il razzismo». Quanto alla Francia, Berardi non crede alla sincerità democratica di Marine Le Pen, leader del Front National che ormai si presenta come forza di maggioranza. Per “Bifo”, la Bce «sta consegnando ai nazionalisti il governo del paese senza il quale “Europa” non significa niente». Il patto di pace franco-tedesco «si sta sgretolando, e crollerà quando il Front National sarà partito di maggioranza». A quel punto, «l’agonia dell’Unione lascerà il posto alla guerra civile». Fondamentale, quindi, il ruolo della “sollevazione permanente europea” in nome della democrazia solidale, a partire dal bilancio della manifestazione di Roma.Potremo ritrovare la libertà solo grazie a una «sollevazione europea», partendo dalla grande manifestazione del 19 ottobre a Roma, evitando le fiammate rabbiose, «una trappola cui potrebbe seguire depressione e disgregazione». Energia popolare, da trasformare «in un processo diffuso e permanente di autonomia solidale». Per Franco “Bifo” Berardi, il popolo “ribelle” che ha sfilato a Roma è quello più consapevole, che vuole «sottrarre la società al cappio mortale del finanzismo, il capitalismo finanziario che sta portando l’Europa verso il nazismo». E’ il regime che ha tradito persino le aspettative della tecnologia, la promessa di liberare tempo-lavoro per destinarlo alla cura e all’educazione. Al contrario, la tecnologia globalizzata si traduce in disoccupazione e miseria, ulteriore sfruttamento, con sempre nuovi tagli alle spese per la scuola e la sanità. Attenzione: «Il sistema politico non può nulla contro la devastazione finanzista», perché la nostra democrazia «è stata cancellata»: come dice Draghi, «sommo sacerdote della teologia finanzista», il “patto di stabilità” procede con il pilota automatico, contro di noi.
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Io faccio così: diario dall’Italia che ha voltato pagina
Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».Ne è testimone Daniel Tarozzi, reduce da un “giro d’Italia” di sette mesi, alla guida del suo camper, lungo i paesaggi dell’Italia in cambiamento. Tutte e 20 le Regioni dello Stivale, isole comprese. Migliaia di contatti, centinaia di storie. Tutte diverse e tutte simili. «Quando avete cominciato, a vivere così?». Risposta invariabile: «Cinque, sei anni». Cioè da quando la Grande Crisi ha affondato le zanne nel tessuto socio-economico: gli sciacalli della speculazione, Wall Street, il rigore imposto dall’Eurozona. Ovvero: la certezza matematica che sarebbe crollato, con la recessione, un sistema peraltro insopportabile e insostenibile come quello basato sui consumi inutili, drogati dalla pubblicità. Vite in scatola? No, grazie. «La scoperta – racconta Daniel Tarozzi – è che si sta creando una rete diffusa, dal nord al sud, di micro-economie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano».Succede anche in città, non solo in campagna, per iniziativa di gruppi organizzati ma anche di singoli “pionieri” convertiti alla sostenibilità, al risparmio e alla qualità della vita. Parola d’ordine: ridurre le dipendenze. Autocostruzione, energia pulita e autoprodotta, cibo di stagione assicurato tutto l’anno dall’orto sotto casa, grazie alla pratica della permacoltura. E’ una rivoluzione culturale, che spinge le persone a cooperare tra loro riscoprendo il valore spontaneo della solidarietà. «Io credo che dobbiamo passare dal “vinco io, perdi tu” al “vinciamo tutti”», sintetizza Michela Scibilia, di Venezia. E non è solo un orizzonte per nuovi contadini. Ci sono anche inventori, imprenditori, manager. E artigiani, neolaureati, artisti. «Le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica, ma ormai costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata. E dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile». Ci sono tantissime realtà italiane in movimento, conferma l’altoatesino Hans Schmieder, promotore dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco, Bressanone. «Il problema è che queste realtà sono invisibili: dobbiamo lavorare per farle vedere».E’ quello che ha fatto Daniel Tarozzi, col suo diario “on the road” pubblicato da “Chiarelettere”. «L’idea di questo viaggio e poi di questo libro – dice – è nata da un’esigenza fortissima che sentivo da dieci anni». Da giornalista, direttore del newsmagazine “Il Cambiamento”, si è sempre occupato di sostenibilità, decrescita e transizione. «Tutti questi movimenti e queste realtà, solo apparentemente piccoli, non solo sono attivi sul territorio, ma riescono a incidere concretamente e positivamente nel cambiare, nel raggiungere i propri obiettivi. E la cosa bella è che queste persone alla fine riescono nel loro intento». “Io faccio così”, il leit-motiv di tanti incontri, è diventato il titolo del libro, anticipato da un blog sul “Fatto Quotidiano”. Fotogrammi da un popolo in marcia. Il cambiamento richiede pazienza, ammette un religioso come don Gianni Fazzini, promotore dell’iniziativa “Bilanci di giustizia”, per aiutare le persone bisognose a risparmiare. L’importante, però, è non perdere mai di vista un fatto decisivo: «Il bene più prezioso è un bene immateriale: il tempo». Pazienza e fiducia. «C’è un’Italia che non molla, che va avanti e crede nel futuro».Dal centro di Bologna alla trincea degradata di Scampia, si moltiplicano iniziative solidali che diventano attività organizzate e sostenibili. Nel libro di Daniel Tarozzi, abbondano i paesaggi extraurbani. E il ritorno alla terra è un richiamo potente. «Vogliamo convincere le amministrazioni a inserire gli orti nei loro piani regolatori», dicono Gianfranco Bettega e Adriana Stefani dello Slow Food di Trento, ideatori del progetto “orto in condotta”, nelle scuole. «E’ andato molto bene: ci cercano in tantissimi, non riusciamo a star dietro a tutte le chiamate». Cristina Tagliavini, di “Accesso alla Terra”, sta realizzando una cooperativa aperta a tutti, che acquisti terreni abbandonati o destinati all’edilizia, per affidarli a chi voglia iniziare a coltivare la terra. «Vogliamo seguire i neo-contadini offrendo assistenza e formazione, mettendoli in rete tra loro». Buone notizie da tutta Italia. «Oggi in Puglia c’è un ritorno di tanti giovani che erano emigrati e che – spesso per mancanza di lavoro – decidono di riprovare a costruirsi un futuro qui», racconta Virginia Meo di “Ressud”, sodalizio che mette in contatto le realtà di economia solidale dall’Abruzzo alla Sicilia. «Sono davvero tante – dice Daniel Tarozzi – le persone che, in questo momento di crisi e senza neppure avere le spalle coperte, si licenziano e cercano di costruire una vita diversa». Motivo: «Contestano il sistema in cui vivono, e i suoi falsi valori». Ebbene sì: «C’è davvero un’Italia che cambia, ed è quella che ho cercato di raccontare».(Il libro: Daniel Tarozzi, “Io faccio così”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 14,50).Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».
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Orsi: Napolitano è il garante della scomparsa dell’Italia
Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».Il governo, scrive Orsi in un’analisi pubblicata da “Affari Italiani”, sa perfettamente che la situazione è insostenibile. Ma per ora è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’Iva (22%), che deprime ulteriormente i consumi. «Vacui» i proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie: tutti sanno che non accadrà. Politici e stampa mainstream annunciano una ripresa imminente? Perfettamente possibile, un trimestre positivo, per un’economia che ha perso l’8% del suo Pil. Ma chiamare “ripresa” un eventuale +0,3% «è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni: più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione». Numeri impietosi: il 15% del settore manifatturiero, che in Italia (prima della crisi) era il più grande in Europa dopo quello tedesco, è stato distrutto. E circa 32.000 aziende sono scomparse. «Questo dato, da solo, dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il paese subisce».Nell’Europa di Maastricht, quella della camicia di forza rappresentata dalla moneta unica, l’Italia è entrata nel peggior modo possibile, con una cultura politica «enormemente degradata». Negli ultimi decenni, osserva Orsi, l’élite italiana «ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione: l’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori». La leadership del paese, continua il professor Orsi, non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader nei loro settori. Poi la tagliola dell’Eurozona: l’Italia «ha firmato i trattati sull’euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità». Non solo: «Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’Ue sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini». Oggi, l’Italia è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono certa «la scomparsa completa della nazione».Da noi, il livello di tassazione sulle imprese è il più alto dell’Ue, e uno dei più elevati al mondo. Questo, insieme alla catastrofe dello Stato, sta spingendo gli imprenditori all’estero – non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo (Oriente, Asia meridionale), ma anche verso la vicina Svizzera e la stessa Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende trovano uno Stato «pronto a collaborare con loro, anziché a sabotarli». Aggiunge Orsi: «La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli, con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale». Chi è istruito e produce valore pensa solo a emigrare. Così, «l’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri paesi più organizzati, che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia».Inoltre, siamo entrati «in un periodo di anomalia costituzionale», dopo che i partiti nel 2011 hanno «portato il paese ad un quasi-collasso», evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. Chi comanda, oggi? «Il paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’Ue e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. L’interventismo del presidente – aggiunge Orsi – è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale».Per il professore della London School of Economics, «l’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese». Errore: «Saranno amaramente delusi», perché «l’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il paese dalla rovina». Sarebbe facile, aggiunge Orsi, sostenere che Monti ha aggravato la già pesante recessione. Ma Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. «I tecnocrati – spiega l’economista – condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il paese». Letta, Napolitano e le loro coorti di tecnici «sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia».A sconcertare, è la rapidità del declino: di questo passo, «in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna». Entro un decennio, «intere regioni, come la Sardegna o la Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare». Riflette Orsi: «I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il paese aveva occupato solo nel tardo medioevo e nel Rinascimento. Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità». Per il professor Orsi, «a meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia».Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un paese che, in soli vent’anni, è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale a una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di completo caos politico-istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato sta crescendo, coi ricavi dalla tassazione diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil superiore al 3% e un debito pubblico sopra il 130%, destinato a peggiorare ulteriormente. Ancora dieci anni, e del nostro paese non resterà più nulla. Lo afferma il professor Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science. Il declino: una classe politica miope, pronta a imporre tasse in nome della stabilità. Ieri Monti, oggi Letta. Un disastro: «Terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente. E il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa».
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Roma: la protesta tradita dallo spettacolo della paura
Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.“Più tensione che scontri”, alla fine, riconosce il “Fatto Quotidiano”, che riassume: “Bombe carta contro i ministeri, cariche della polizia e della finanza, 8 feriti non gravi tra gli esponenti delle forze dell’ordine, 15 fermati tra i manifestanti: è un bilancio meno grave del previsto quello registrato dopo la giornata di altissima tensione vissuta a Roma per la manifestazione degli antagonisti”. Il corteo del 19 ottobre ha riunito sindacati di base, movimenti contro le grandi opere, precari e sfrattati. In altre parole: l’Italia, quella più colpita dalla crisi. O meglio: quella parte di Italia che alla crisi ha finora cercato di reagire, sui territori, contestando l’establishment in modo frontale, senza fare sconti a partiti e sindacati. «Alzare il livello dello scontro» oggi non significa scagliare sassi contro la polizia, ma «costringere la politica a dare risposte», annunciava una ragazza col megafono, ripresa da “RaiTre”.Buio totale, invece, da “RaiNews24”: i corrispondenti disseminati lungo il tragitto del corteo si sono limitati al “bollettino di guerra”, al 99% rimasto in bianco: niente scontri – come nel più banale dispaccio meteo, quello che annuncia “precipitazioni assenti”. Massima enfasi, dai media, nei soli tre brevi episodi di scontro, per fortuna incruenti: il contatto sfiorato con i “ragazzi di Casapound” tempestivamente bloccati dalla polizia prima che potessero raggiungere il corteo, l’improvviso agguato agli agenti della Guardia di Finanza schierati davanti al ministero dell’economia – sassi, petardi, sprangate, cassonetti incendiati per coprire la ritirata – e i tre rudimentali ordigni, pericolosamente armati con chiodi, scovati all’approdo finale della manifestazione, attorno a Porta Pia. E i tele-giornalisti? Sempre a distanza di sicurezza, lontanissimi dalle voci autentiche della manifestazione. Lo scoop del secolo, filmato quasi sempre da lontano: niente barbari in piazza, ma italiani normali.«Ci sono anche famiglie, anziani, bambini», diceva il reporter di guerra della rete “all news” di Stato, quella che – ai tempi di Roberto Morrione – aveva presidiato in modo esemplare il delirio del drammatico G8 di Genova, con collegamenti continui dal cuore vivo dei cortei. Era il 2001, mille anni fa, con in prima fila il movimento no-global ad avvertire che sarebbe scoppiata una crisi storica, provocata da una selvaggia globalizzazione del business a scapito dei diritti. E ora che l’inferno è arrivato, sotto forma di Eurozona – rigore cieco e tagli al welfare, recessione e disoccupazione di massa – i politici asserragliati nel palazzo, agli ordini dell’élite finanziaria privatizzatrice, sono gli stessi di dodici anni fa. E i loro media – con l’aiuto dei soliti provvidenziali imbecilli muniti di passamontagna – hanno gioco facile, ancora una volta, nell’evitare di raccontare la realtà, facendosi schermo con lo scudo più ancestrale, il più comodo: quello della paura.Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.
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Libertà, contro i diktat: scommettere su Marine Le Pen
«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».Secondo il Front National, per mantenere la Francia nell’Unione Europea occorrono l’uscita dall’euro, la reintroduzione dei controlli alla frontiera, la superiorità della legge francese rispetto alle norme europee e il “patriottismo economico”, cioè la possibilità per Parigi di perseguire un “protezionismo intelligente” e salvaguardare lo stato sociale. «Non riesco a immaginare una politica economica senza il pieno controllo di quella monetaria», dice la Le Pen a Pritchard, in un’intervista ripresa da un post su “Come Don Chisciotte”. A gonfiare le vele del Fn sono i sondaggi che lo presentano come primo partito francese e la fresca vittoria alle amministrative di Brignoles (maggioranza assoluta degli elettori), ma il partito anti-euro fa presa molto saldamente, e non da oggi, sui lavoratori francesi delusi dalla sinistra europeista e “finanziaria” di Hollande. Da qui il nuovo termine coniato dalla stampa francese: “Lepenismo di sinistra”. La figlia di Jean-Marie Le Pen «sta scavalcando a sinistra i socialisti attaccando le banche e il capitalismo internazionale». E rifiuta con sdegno la definizione di “estrema destra”: ha appena accolto tra le sue fila Anna Rosso-Roig, candidata per il partito comunista nelle elezioni del 2012.Il piano di uscita dall’euro della Le Pen, spiega Evans-Pritchard, è basato sugli studi degli economisti dell’École des Hautes Études di Parigi, diretta dal professore Jacques Sapir, secondo cui «la Francia, la Spagna e l’Italia beneficerebbero di un’uscita dall’euro, potendo riacquistare immediatamente competitività sul versante del costo del lavoro senza anni di decrescita». Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti fra nord e sud Europa sono giunti ad un punto di non ritorno: il tentativo di ridurli attraverso ulteriore deflazione e tagli dei salari causerebbe disoccupazione di massa e la perdita di buona parte dell’apparato industriale. Per Sapir, la soluzione migliore sarebbe «uno smantellamento coordinato dell’euro, con controlli nei movimenti dei capitali e con le banche centrali impegnate a far convergere le nuove valute verso le quotazioni desiderate». Il modello stima che il marco tedesco e il fiorino olandese sarebbero rivalutati del 15% rispetto all’euro, mentre il franco sarebbe svalutato del 20%. Vantaggi competitivi che invece sarebbero compromessi da una disgregazione non concertata, con brusche fluttuazioni delle valute.Nella sua “conversione” radicalmente anti-europeista, aggiunge Evans-Pritchard, il Front National ha “rimosso” le sue vecchie istanze antisemite, mentre le sue chiusure sull’immigrazione «condurranno inevitabilmente a una resa dei conti con i 5 milioni di francesi musulmani». Attenzione anche alla propaganda: «La mia impressione è che Marine Le Pen abbia una visione più moderata sui diritti degli omosessuali e sull’aborto di quello che dica», osserva il giornalista inglese. «Per certi versi è più vicina alle posizioni populiste del politico olandese assassinato Pim Fortuyn che a quelle di suo padre Jean-Marie Le Pen, che si lamenta delle idee “piccolo-borghesi” maturate dalla figlia frequentando le scuole di Parigi». Comunque, la sua campagna contro la “demonizzazione” del Fn sembra stia funzionando: «Solo una minoranza di elettori ancora ritiene che il Front sia “una minaccia per la democrazia”». La Le Pen «sta conquistando il consenso di moltissime lavoratrici bianche». E, con una leadership femminile, il Front National «non è più un partito maschilista bianco». Se il padre chiamò l’Olocausto «un dettaglio della storia», lei lo definisce «l’apice della barbarie umana». Solo cinico calcolo elettoralistico? Pritchard resta prudente, ma ammette che «un nuovo scenario» si sta aprendo: la possibilità che i cittadini di un paese-chiave come la Francia possano tornare a dire la loro su quest’Europa così disastrosa.Di fatto, il Front National eredita la maggiore bandiera storica della sinistra, il welfare dei diritti: niente a che vedere con gli anti-euro inglesi, l’Ukip di Nigel Farage che detesta l’euro ma non il libero mercato. Al contrario, Marine Le Pen «è una fiera sostenitrice del modello francese di stato sociale», e la sua critica frontale al capitalismo «le dona una sfumatura di sinistra». La Le Pen «critica severamente Washington e la Nato, rivendicando per la Francia una politica di paese “non schierato” in un mondo multipolare, e rinfaccia al partito gollista Ump di aver venduto l’anima della Francia all’Europa e all’egemonia anglo-americana». L’ascesa del Front National «continua a ricordarci che la lenta crisi politica dell’Europa è lungi dall’aver raggiunto l’apice», sostiene Pritchard. «La disoccupazione di massa e le conseguenze negative delle politiche di deflazione stanno minando le fondamenta dell’establishment, così come avvenne nei primi anni ’30 sotto il Gold Standard», il regime di cambi fissi che coinvolse i principali paesi del mondo, «analoga situazione dell’attuale unione monetaria europea».La Francia «sta soffrendo la stessa lenta agonia di allora», perché il Fiscal Compact voluto da Angela Merkel «è esattamente una rivisitazione della politica deflazionista» che provocò il collasso economico del 1936. «Non c’è nessuna giustificazione macroeconomica per aver costretto la Francia all’inasprimento fiscale così pesante degli ultimi due anni, spingendo l’economia nuovamente in recessione», scrive Pritchard. «Le misure sono state fatte ingoiare alla Francia perché la dottrina dell’Unione Europea prevede solo “austerity”», cioè riduzione della spesa pubblica e aumento delle tasse con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, senza controbilanciare il rigore con stimoli monetari come la creazione di moneta sovrana da parte della banca centrale per facilitare il credito a beneficio di consumatori e imprese. Fino a ieri, «la Francia ha permesso alla Germania di decidere per tutti»: è questo che ha provocato la valanga elettorale del Front National, che ha «frantumato l’assetto politico francese» e ora ha la strada spianata verso le elezioni europee del maggio 2014. Marine Le Pen non sarà sola: molti altri euro-scettici prenotano il Parlamento Europeo. Giusto così: «Le più grandi paure delle élite europee si stanno avverando», conclude Pritchard, «ed è solamente colpa loro».«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».
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Grazie a Putin, il mondo allontana l’incubo della guerra
Due missili Tomahawk, sparati contro la Siria ma intercettati dalla flotta russa schierata di fronte a Damasco: citato da molte fonti (ma non confermato da nessuna autorità) questo episodio potrebbe aver “convinto” gli americani a rinunciare all’attacco. Da quel momento, sostiene lo scrittore ebreo russo Israel Shamir, tutto è cambiato di colpo: Obama è giunto a parlare direttamente col presidente dell’Iran, irritando Tel Aviv, e l’Esercito Siriano Libero ha accettato di dialogare con Assad, spiazzando gli alleati jihadisti. Ora il presidente Usa ha potuto utilizzare il rischio-collasso della finanza federale per depennare la guerra (e i suoi costi folli) dall’agenda della Casa Bianca. La crisi siriana tra America e Russia è stata «rapida e rischiosa quanto la crisi dei missili a Cuba nel 1962: le probabilità di un conflitto mondiale erano alte». E i contraccolpi saranno epocali, sostiene Shamir, che quando crollò il Muro di Berlino era a Mosca e scriveva per il quotidiano israeliano “Haaretz”. Potrebbe essere la fine dell’Urss, disse ai dirigenti del Politburo. Gli risero in faccia, ma due anni dopo l’Unione Sovietica non c’era più.Ben lieto, Obama, di scrollarsi di dosso la casta militare-industriale? Di sicuro ha colto al volo l’assist di Londra (Cameron bloccato dal Parlamento) per chiedere a sua volta l’ok del Congresso, come alibi per fermare la macchina da guerra. «Non aveva nessuna voglia di dare il via all’Armageddon da solo», e dopo aver «tentato di intimorire Putin al G-20 di San Pietroburgo, ma senza successo», il capo della Casa Bianca «ha salvato la faccia» proprio grazie alla proposta russa di rimuovere le armi chimiche siriane. Disavventura che «ha inferto un colpo magistrale all’egemonia, alla supremazia e all’eccezionalità degli Usa». Attenzione: «Con la fine dell’egemonia statunitense, i giorni del dollaro come valuta delle riserve mondiali sono contati». E se la Terza Guerra Mondiale stava quasi per scoppiare, «dobbiamo dire grazie ai banchieri: hanno troppi debiti, compreso l’insostenibile debito estero degli Stati Uniti». Sicché, «se quei Tomahawk fossero volati, i banchieri si sarebbero appellati alla causa di forza maggiore e non avrebbero più onorato il debito. Milioni di persone sarebbero morte, ma miliardi di dollari si sarebbero salvati nei caveau di Jp Morgan e Goldman Sachs». Sono loro, gli uomini di Wall Street, i veri sconfitti: «Gli Stati Uniti dovranno trovare delle nuove occupazioni per tantissimi banchieri, carcerieri, militari e anche politici».Il mondo è cambiato, avverte Shamir, e ce ne accorgeremo. «La ribellione russa all’egemonia americana è iniziata a giugno, quando il volo dell’Aeroflot da Pechino che portava Ed Snowden è atterrato a Mosca», dove il dissidente Cia-Nsa minacciato da Obama ha ricevuto asilo politico. Niente a che vedere con la Russia in macerie degli anni ’90, troppo debole per opporsi alla devastazione Nato della Jugoslavia e all’irruzione delle truppe occidentali verso Est, condotta «infrangendo la promessa fatta a Gorbaciov». Altro passo cruciale, la distruzione della Libia: per nessuna ragione Putin avrebbe sarebbe rimasto alla finestra anche in Siria, dove però la decisiva resistenza di Mosca «non sarebbe stata possibile senza il sostegno della Cina», anch’essa “scesa in campo” per la prima volta, con navi militari inviate nel Mediterraneo. «Miracolosamente, in questo tiro alla fune bellico, i russi hanno avuto la meglio», osserva Shamir. Le alternative sarebbero state tremende: «La Siria sarebbe stata distrutta come la Libia, i cristiani d’Oriente avrebbero perso la loro culla e l’Europa sarebbe stata invasa di milioni di rifugiati».La Russia ha capito che, se stavolta non avesse agito con fermezza, «sarebbe apparsa come potenza inutile, incapace di difendere i propri alleati», incoraggiando così l’inesauribile aggressività degli Usa. «Tutto quello per cui Putin aveva lavorato per tredici anni sarebbe sfumato: la Russia sarebbe tornata indietro al 1999, quando Clinton fece bombardare Belgrado». Il punto più critico dello scontro tra i due presidenti? «Putin era infastidito dall’ipocrisia e dall’insincerità che avvertiva in Obama». La Siria, ha chiarito il capo del Cremlino a Bridget Kendall della Bbc, si era dotata di armi chimiche per cautelarsi dalla minaccia nucleare di Israele: per l’Occidente le bombe atomiche di Netanyahu non sono un problema? «Putin ha tentato di parlare amichevolmente con Obama», racconta Shamir. Gli ha chiesto: «Che pensi della Siria?». E Obama: «Sono preoccupato che il regime di Assad non osservi i diritti umani», cioè i diritti infranti dai miliziani jihadisti armati dagli Usa, che hanno scatenato la guerra civile in Siria. «A Putin sarà quasi venuto da vomitare di fronte alla sconcertante ipocrisia di quella risposta». Così, il Cremlino ha deciso di varcare il Rubicone: sfidare apertamente l’America, per evitare la Terza Guerra Mondiale. Il futuro è più che mai incerto, conclude Shamir, ma negli Usa ci sono anche politici come il senatore Ron Paul, che sollecita l’abbandono delle basi militari all’estero e il taglio alla spesa bellica, restituendo sovranità al pianeta. Se così fosse, «il mondo potrà ancora amare l’America».Due missili Tomahawk, sparati contro la Siria ma intercettati dalla flotta russa schierata di fronte a Damasco: citato da molte fonti (ma non confermato da nessuna autorità) questo episodio potrebbe aver “convinto” gli americani a rinunciare all’attacco. Da quel momento, sostiene lo scrittore ebreo russo Israel Shamir, tutto è cambiato di colpo: Obama è giunto a parlare direttamente col presidente dell’Iran, irritando Tel Aviv, e l’Esercito Siriano Libero ha accettato di dialogare con Assad, spiazzando gli alleati jihadisti. Ora il presidente Usa ha potuto utilizzare il rischio-collasso della finanza federale per depennare la guerra (e i suoi costi folli) dall’agenda della Casa Bianca. La crisi siriana tra America e Russia è stata «rapida e rischiosa quanto la crisi dei missili a Cuba nel 1962: le probabilità di un conflitto mondiale erano alte». E i contraccolpi saranno epocali, sostiene Shamir, che quando crollò il Muro di Berlino era a Mosca e scriveva per il quotidiano israeliano “Haaretz”. Potrebbe essere la fine dell’Urss, disse ai dirigenti del Politburo. Gli risero in faccia, ma due anni dopo l’Unione Sovietica non c’era più.
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Susan George: poteri occulti, la Terra è sotto scacco
Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.I nuovi oligarchi, spiega la George nell’intervento pronunciato al Festival Internazionale di Ferrara, ottobre 2013, possono agire attraverso le lobby o oscuri “comitati di esperti”, attraverso organismi ad hoc che ottengono riconoscimenti ufficiali. Talvolta operano «attraverso accordi negoziati in segreto e preparati con cura da “executive” delle imprese al più alto livello». Sono fortissimi, arrivano ovunque: «Lavorano a livello nazionale, europeo e sovranazionale, ma anche all’interno delle stesse Nazioni Unite, da una dozzina di anni nuovo campo di azione per le attività delle “corporate”». Attenzione, averte la George: «Non si tratta di una sorta di teoria paranoica della cospirazione: i segni sono tutti intorno a noi, ma per il cittadino medio sono difficili da riconoscere». Questo, in fondo, è il “loro” capolavoro: «Noi continuiamo a credere, almeno in Europa, di vivere in un sistema democratico». Non è così, naturalmente. Le sole lobby ordinarie, rimaste «ai margini dei governi per un paio di secoli», ormai «hanno migliorato le loro tecniche, sono pagate più che mai e ottengono risultati».Negli Stati Uniti, le lobby devono almeno dichiararsi al Congresso, dire quanto sono pagate e da chi. A Bruxelles, invece, «c’è solo un registro “volontario”, che è una presa in giro, mentre 10-15.000 lobbysti si interfacciano ogni giorno con la Commissione Europea e con gli europarlamentari». Che fanno? «Difendono il cibo-spazzatura, le coltivazioni geneticamente modificate, prodotti nocivi come il tabacco, sostanze chimiche pericolose o farmaci rischiosi». In più, «difendono i maggiori responsabili delle emissioni di gas a effetto serra», oltre naturalmente ai loro clienti più potenti: le grandi banche. Meno conosciuti delle lobby tradizionali, cioè quelle favorevoli a singole multinazionali, sono in forte crescita specie nel comparto industriale le lobby-fantasma, solitamente definite “istituti”, “fondazioni” o “consigli”, spesso con sede a Washington. Sono pericolose e subdole: pagano esperti per influenzare l’opinione pubblica, fino a negare l’evidenza scientifica, per convincere i consumatori del valore dei loro prodotti-spazzatura.A Bruxelles il loro dominio è totale: decine di “comitati di esperti” preparano regolamenti dettagliati in ogni possibile settore. «Dalla metà degli anni ’90 – accusa Susan George – le più grandi compagnie americane dei settori bancario, pensionistico, assicurativo e di revisione contabile hanno unito le forze e, impiegando tremila persone, hanno speso 5 miliardi dollari per sbarazzarsi di tutte le leggi del New Deal, approvate sotto l’amministrazione Roosevelt negli anni ’30», tutte leggi «che avevano protetto l’economia americana per sessant’anni». Un contagio: «Attraverso questa azione collettiva di lobbying, hanno guadagnato totale libertà per trasferire attività in perdita dai loro bilanci, verso istituti-ombra, non controllati». Queste compagnie hanno potuto immettere sul mercato e scambiare centinaia di miliardi di dollari di titoli tossici “derivati”, come i pacchetti di mutui subprime, senza alcuna regolamentazione. «Poco è stato fatto dopo la caduta di Lehman Brothers per regolamentare nuovamente la finanza. E nel frattempo, il commercio dei derivati ha raggiunto la cifra di 2 trilioni e 300 miliardi di dollari al giorno, un terzo in più di sei anni fa».Quello illustrato da Susan George, nell’intervento tenuto a Ferrara e ripreso da “Come Don Chisciotte”, è un viaggio nell’occulto. «Ci sono organismi come l’International Accounting Standards Board, sicuramente sconosciuto al 99% della popolazione europea». E’ una struttura di importanza decisiva, di cui non parla mai nessuno. Nacque con l’allargamento a Est dell’Unione Europea, per affrontare «l’incubo di 27 diversi mercati azionari, con diversi insiemi di regole e norme contabili». Ed ecco, prontamente, l’arrivo dei soliti super-consulenti, provenienti dalle quattro maggiori società mondiali di revisione contabile. In pochi anni, il gruppo «è stato silenziosamente trasformato in un organismo ufficiale, lo Iasb». E’ ancora formato dagli esperti delle quattro grandi società, ma adesso sta elaborando regolamenti per 66 paesi membri, tra cui l’intera Europa. Attenzione: «Lo Iasb è diventato “ufficiale” grazie agli sforzi di un commissario Ue, il neoliberista irlandese Charlie MacCreevy». Commissario dell’Ue, cioè: “ministro” europeo, non-eletto da nessuno. E per di più, egli stesso esperto contabile. Naturalmente, ha potuto agire sotto la protezione di Bruxelles, cioè «senza alcun controllo parlamentare». L’alibi? Il solito: la Iasb è stato presentato come un’agenzia «puramente tecnica». La sua vera missione? Organizzare, legalmente, l’evasione fiscale dei miliardari.«Fino a quando non potremo chiedere alle imprese di adottare bilanci dettagliati paese per paese, queste continueranno a pagare – abbastanza legalmente – pochissime tasse nella maggior parte dei paesi in cui hanno attività». Le aziende, aggiunge la sociologa, possono collocare i loro profitti in paesi con bassa o nessuna tassazione, e le loro perdite in quelli ad alta fiscalità. Per tassare in maniera efficace, le autorità fiscali hanno bisogno di sapere quali vendite, profitti e imposte sono effettivamente di competenza di ciascuna giurisdizione. «Oggi questo non è possibile, perché le regole sono fatte su misura per evitare la trasparenza». E quindi: «Le piccole imprese nazionali o famigliari, con un indirizzo nazionale fisso, continueranno a sopportare la maggior parte del carico fiscale». Susan George ha contattato direttamente lo Iasb per chiedere se una rendicontazione dettagliata, paese per paese, fosse nella loro agenda. Risposta: no, ovviamente. «Non c’è di che stupirsi. Le quattro grandi agenzie i cui amici e colleghi fanno le regole, perderebbero milioni di fatturato, se non potessero più consigliare i loro clienti sul modo migliore per evitare la tassazione».L’altro colossale iceberg che ci sta venendo addosso, dal luglio 2013, si chiama Ttip, cioè Transatlantic Trade and Investment Partnership. In italiano: protocollo euro-atlantico su commercio e investimenti. «Questi accordi definiranno le norme che regolamenteranno la metà del Pil mondiale – gli Stati Uniti e l’Europa». Notizia: le nuove regole di cooperazione euro-atlantica «sono in preparazione dal 1995», da quando cioè «le più grandi multinazionali da entrambi i lati dell’oceano si sono riunite nel Trans-Atlantic Business Dialogue», la maggiore lobby dell’Occidente, impegnata a «lavorare su tutti gli aspetti delle pratiche regolamentari, settore per settore». Il commercio transatlantico ammonta a circa 1.500 miliardi di dollari all’anno. Dov’è il trucco? In apparenza, si negozierà sulle tariffe: ma è un aspetto irrilevante, perché pesano appena il 3%. Il vero obiettivo: «Privatizzare il maggior numero possibile di servizi pubblici ed eliminare le barriere non tariffarie, come per esempio i regolamenti e ciò che le multinazionali chiamano “ostacoli commerciali”». Al centro di tutti i trattati commerciali e di investimento, c’è «la clausola che consente alle aziende di citare in giudizio i governi sovrani, se la società ritiene che un provvedimento del governo danneggi il suo presente, o anche i suoi profitti “attesi”». Governi sotto ricatto: comandano loro, i Masters of Universe.Il Trans-Atlantic Business Dialogue, la super-lobby che ha incubato il trattato euro-atlantico, ora ha cambiato nome: si chiama Consiglio Economico Transatlantico. E non si nasconde neppure più. Ammette qual è la sua missione: abbattere le regole e piegare il potere pubblico, a beneficio delle multinazionali. Si definisce apertamente «un organo politico», e il suo direttore afferma con orgoglio che è la prima volta che «il settore privato ha ottenuto un ruolo ufficiale nella determinazione della politica pubblica Ue-Usa». Questo trattato, se approvato secondo le intenzioni delle Tnc, includerà modifiche decisive sui regolamenti che proteggono i consumatori in ogni settore: sicurezza alimentare, prodotti farmaceutici e chimici. Altro obiettivo, la “stabilità finanziaria”. Tradotto: la libertà per gli investitori di trasferire i loro capitali senza preavviso. «I governi – aggiunge la George – non potranno più privilegiare operatori nazionali in rapporto a quelli stranieri per i contratti di appalto», e il processo negoziale «si terrà a porte chiuse, senza il controllo dei cittadini».E come se non bastasse l’infiltrazione nel potere esecutivo, in quello legislativo e persino nel potere giudiziario, le multinazionali ora puntano direttamente anche alle Nazioni Unite. Già nel 2012, alla conferenza Rio + 20 sull’ambiente, i super-padroni formavano la più grande delegazione, capace di allestire un evento spettacolare come il “Business Day”. «Siamo la più grande delegazione d’affari che mai abbia partecipato a una conferenza delle Nazioni Unite», disse il rappresentante permanente della Camera di Commercio Internazionale presso l’Onu. Parole chiarissime: «Le imprese hanno bisogno di prendere la guida e noi lo stiamo facendo». Oggi, conclude Susan George, le multinazionali arrivano a chiedere un ruolo formale nei negoziati mondiali sul clima. «Non sono solo le dimensioni, gli enormi profitti e i patrimoni che rendono le Tnc pericolose per le democrazie. È anche la loro concentrazione, la loro capacità di influenzare (spesso dall’interno) i governi e la loro abilità a operare come una vera e propria classe sociale che difende i propri interessi economici, anche contro il bene comune». E’ un super-clan, coi suoi tentacoli e i suoi boss: «Condividono linguaggi, ideologie e obiettivi che riguardano ciascuno di noi». Meglio che i cittadini lo sappiano. E i politici che dovrebbero tutelarli? Non pervenuti, ovviamente.Se avete a cuore il vostro cibo, la vostra salute e la stessa sicurezza finanziaria, la vostra e quella della vostra famiglia, così come le tasse che pagate, lo stato del pianeta e della stessa democrazia, ci sono pessime notizie: un gruppo di golpisti ha preso il potere e ormai domina il pianeta. Legalmente: perché le nuove leggi che imbrigliano i popoli, i governi e gli Stati se le sono fatte loro, per servire i loro smisurati interessi, piegando le democrazie con l’aiuto di “maggiordomi” travestiti da politici. La grande novità si chiama: “ascesa di autorità illegittima”. Parola di Susan George, notissima sociologa franco-statunitense, già impegnata nel movimento no-global e al vertice di associazioni mondiali come Greenpeace. I governi legali, quelli regolarmente eletti, ormai vengono di fatto «gradualmente soppiantati da un nuovo governo-ombra, in cui enormi imprese transnazionali (Tnc) sono onnipresenti e stanno prendendo decisioni che riguardano tutta la nostra vita quotidiana». L’Europa è già completamente nelle loro mani, tramite i tecnocrati di Bruxelles, i subdoli “inventori” dell’aberrante euro. Ma anche nel resto del mondo la libertà ha le ore contate.
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Berlusconi ha vinto: addio sinistra, c’è solo lo spread
«Il codardo oltraggio dopo il servo encomio, ci ricorda Manzoni, fa parte della storia della fine di ogni regime», e ora che il ventennio berlusconiano starebbe finendo, dice Giorgio Cremaschi, è bene ricordare che non tutto ciò che si è opposto a Berlusconi era davvero diverso da lui. Vent’anni, dice Letta? Ma in tutto questo tempo, il Cavaliere ha effettivamente governato per poco più di otto. Il centrosinistra lo ha fatto per sette, il resto son stati governi di larghe intese, tecnici e di unità nazionale. Era “berlusconismo” anche quando governavano Prodi e tutti gli altri leader del centrosinistra, «i cui governi non hanno mai cambiato le leggi della destra, neppure la Bossi Fini». Di che cosa ci si libera, oggi, grazie alla magistratura? «Del liberismo e delle spinte autoritarie, della flessibilità del lavoro e della disoccupazione di massa, dell’ideologia del mercato e della globalizzazione? No di certo».La fine politica di Berlusconi, scrive Cremaschi su “Micromega”, non è cominciata oggi, ma quando Marchionne ha mostrato che si poteva distruggere il sindacato in fabbrica senza ricorrere a Sacconi, e soprattutto quando la Bce ha scritto il programma che dovevano attuare i governi del nostro paese. «Berlusconi è stato destituito da quella che una volta avremmo chiamato la destra economica, italiana ed europea, che non sapeva più che farsene di un leader impresentabile». Chi è cambiato in profondità è il popolo della sinistra, rassegnatosi al pensiero liberale. Sicché, «onesti conservatori che in altri paesi sarebbero tranquillamente schierati con la destra», in Italia sono targati centrosinistra. E le politiche del rigore, contro cui scendono in piazza le folle di tutta Europa, sono diventate «la bandiera di chi non voleva cedere ai ricatti del populista di Arcore». E ora che il governo sopravvive a Berlusconi, «si potrà finalmente fare quella riforma della Costituzione che tutti i poteri forti chiedono e che il presidente Napolitano da tempo rivendica e promuove».Una controriforma, aggiunge Cremaschi, che ha già avuto una premessa fondamentale nell’approvazione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio. Il vero risultato del berlusconismo? «E’ quello di aver ottenuto, tramite un certo antiberlusconismo, la distruzione a livello di massa del pensare e dell’agire di una vera sinistra». L’ex leader della Fiom cita ancora Manzoni: “Il forte si mesce col vinto nemico, col novo signore rimane l’antico”. Al nostro «confuso mondo progressista» bisogna ricordare che «non c’è nulla da gioire di una vittoria che non è nostra e che proprio per questo verrà usata dai veri vincitori per continuare la politica economica e sociale di questi venti anni. Per liberarsi della eredità berlusconiana che tuttora governa – conclude Cremaschi – bisogna ricostruire una vera sinistra, che voglia cambiare la società e non amministrarla in nome dello spread».«Il codardo oltraggio dopo il servo encomio, ci ricorda Manzoni, fa parte della storia della fine di ogni regime», e ora che il ventennio berlusconiano starebbe finendo, dice Giorgio Cremaschi, è bene ricordare che non tutto ciò che si è opposto a Berlusconi era davvero diverso da lui. Vent’anni, dice Letta? Ma in tutto questo tempo, il Cavaliere ha effettivamente governato per poco più di otto. Il centrosinistra lo ha fatto per sette, il resto son stati governi di larghe intese, tecnici e di unità nazionale. Era “berlusconismo” anche quando governavano Prodi e tutti gli altri leader del centrosinistra, «i cui governi non hanno mai cambiato le leggi della destra, neppure la Bossi Fini». Di che cosa ci si libera, oggi, grazie alla magistratura? «Del liberismo e delle spinte autoritarie, della flessibilità del lavoro e della disoccupazione di massa, dell’ideologia del mercato e della globalizzazione? No di certo».
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Tv, nebbia sulla crisi: Report oscura le verità di Iacona
«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».Dopo averci a lungo intrattenuto sui guai del fisco e sulle inefficienze pubblica amministrazione, scrive Martini su “Il Main Stream”, il programma della Gabanelli ha presentato un’inchiesta sui motivi che spingono gli imprenditori a delocalizzare all’estero le aziende. Polonia: una voce narrante cerca di indorare la pillola, che spiegando che a Varsavia «fare impresa è possibile, perché l’imposizione fiscale sulle imprese è quasi inesistente, esiste la possibilità di licenziare incondizionatamente e con breve preavviso, non esiste il Trattamento di Fine Rapporto, non esiste la tredicesima, e in generale si lavora più a lungo per meno». Poi, “Report” mostra «come in Polonia i bambini vengano addestrati sin da piccoli ad acquisire la cultura imprenditoriale». Una “coordinatrice del programma di apprendimento dell’imprenditorialità” spiega che «fin dalla tenera età i piccoli giocano al “Piccolo Bancomat”, e che alle elementari si addestrano al gioco del “Piccolo Ministro delle Finanze”, dove ai bambini è dato di decidere quali spese tagliare».Proseguendo, la Gabanelli individua nella carenza di produttività il vero guaio italiano, e addita chi parla di uscita dall’euro a «ciarlatani che cercano di distrarre dai problemi reali». L’economista Lucrezia Reichlin spiega che l’idea di far acquistare i titoli del Tesoro dalla propria banca centrale è «molto pericolosa», in quanto «toglie incentivi al risanamento dei conti». E archiviare il rigore sui bilanci è ancora più pericoloso, perché «creerebbe inflazione», cioè «una tassa occulta che distrugge i risparmi». Molto meglio, sempre per la Reichlin, che anche l’Italia accetti un piano di “aiuti” dalla Bce, con relativo commissariamento. «La voce narrante conferma», racconta Martini, e passa a intervistare un giornalista di “Repubblica”, sicuro che – con l’uscita dall’euro – i risparmi degli italiani sarebbero decurtati di un terzo. Sempre la voce narrante di “Report” paragona l’uscita dalla moneta unica a «una patrimoniale sui cittadini italiani di centinaia di miliardi: di gran lunga la soluzione più costosa».Sistemati gli “uscisti”, continua Martini, si passa alle altre possibili soluzioni per uscire dalla crisi. «La risposta non può che essere una: fare come la Germania». Così, vengono illustrati gli effetti delle riforme tedesche dei primi anni 2000: aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, perdita di redditi e diritti per i lavoratori. Scelte che però “Report” presenta sotto una luce favorevole: hanno avuto luogo in un momento di crescita dell’economia mondiale, quindi al momento giusto. «A quei tempi la Germania è dimagrita, mentre noi siamo ingrassati, e adesso ci supera», dice la solita voce narrante, evidentemente soddisfatta del “sorpasso virtuoso” dei tedeschi messi a dieta. Infine, un accenno al Fiscal Compact: «Iacona, giustamente, lo indicava come una sciagura», mentre – per gli “esperti” citati dalla Gabanelli – dire che il Fiscal Compact applicato alla lettera strangolerebbe l’economia italiana è, senza mezzi termini, «una cavolata», dal momento che «con un po’ di inflazione e crescita economica il debito si aggiusta da solo». Come a dire: manco ce ne accorgeremo. Inutile spendere altre parole per smontare queste bufale, dice Martini, o spigare che «è truffaldino chiamare “Unione” un’organizzazione che ha il solo fine di portare alle estreme conseguenze la concorrenza tra nazioni, cioè tra lavoratori». Resta l’amarezza: la Gabanelli «fa disinformazione a spese nostre», e attraverso il suo potere mediatico «inocula, ad arte, veleno nelle menti dei cittadini». E l’etica del servizio pubblico? « Gabanelli, mi si passi il francesismo, se ne fotte».«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».
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Brancaccio: a migrare è il lavoro, ecco la vera tragedia
Vogliamo davvero “liberare” i migranti? Allora dobbiamo iniziare ad “arrestare” i capitali, imbrigliandoli in un sistema di controlli come quello che esisteva fino agli anni ’70. Viceversa, «una sempre più vasta prateria di consensi verrà lasciata all’onda nera dei movimenti xenofobi», avverte l’economista Emiliano Brancaccio: non basta lo sdegno per la legge Bossi-Fini e il reato di immigrazione clandestina, se poi si permette al capitale di stabilire chi lavorerà, dove e a che condizioni, non importa se italiano o straniero. La recente tragedia di Lampedusa? «Un esempio terrificante delle conseguenze dell’ignavia politica della classe dirigente europea», ben espressa dal «raccapricciante tentativo di Barroso di mettere un velo su questa vicenda ricorrendo a un’elemosina». Impossibile ignorare la catastrofe occupazionale: dall’inizio della crisi 7 milioni di disoccupati, di cui uno soltanto in Italia. Inutile negarlo: se i capitali non conoscono frontiere, i lavoratori italiani finiscono per subire davvero la concorrenza (involontaria) degli stranieri.Una vera manna, per chi vuole speculare politicamente con la propaganda ostile ai migranti. La sinistra, accusa Brancaccio nel suo blog, non hai neppure provato a fare i conti col neoliberismo “pragmatico” che predica la deregolamentazione finanziaria e la completa mobilità internazionale dei capitali, in una società che invece promuove la repressione dei lavoratori, migranti e italiani. Fino a quando i capitali potranno liberamente spostarsi da un luogo all’altro del mondo, aggiunge l’economista, l’industria potrà ricattare lavoratori e interi paesi, minacciando di trasferirsi all’estero. E potrà usare il lavoro degli stranieri, disperati e “disposti a tutto”, per colpire ulteriormente i salari italiani, esponendo i lavoratori – nativi e non – alla più classica guerra tra poveri. Ci hanno raccontato che l’immigrazione è indispensabile alla nostra economia? E’ falso. Altra favola: in quanto giovani, gli immigrati sarebbero gli unici in grado di evitare il collasso del nostro sistema previdenziale.Affermazioni, sostiene Brancaccio, che derivano dai teoremi dell’economia neoclassica dominante, secondo cui “la disoccupazione non esiste”, e quindi l’immigrato “contribuisce automaticamente alla crescita del prodotto sociale”. Tesi priva di fondamento, smentita dai fatti. Falsa anche l’altra tesi maninstream, secondo cui gli stranieri accetterebbero lavori che gli italiani rifiutano. Il migrante? «Non rappresenta necessariamente né una “forza produttiva” né una “forza complementare” né tantomeno una “forza sovversiva”, ma può al contrario rivelarsi, suo malgrado, uno strumento di repressione delle rivendicazioni sociali». Quindi, «alle giuste mobilitazioni contro il reato di immigrazione clandestina bisognerebbe affiancare il controllo politico dei movimenti di capitale», ridimensionando i mercati finanziari, «per impedire che lo scontro distributivo e occupazionale continui ad esprimersi solo tra i lavoratori, in particolare tra nativi e migranti».Vogliamo davvero “liberare” i migranti? Allora dobbiamo iniziare ad “arrestare” i capitali, imbrigliandoli in un sistema di controlli come quello che esisteva fino agli anni ’70. Viceversa, «una sempre più vasta prateria di consensi verrà lasciata all’onda nera dei movimenti xenofobi», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Non basta lo sdegno per la legge Bossi-Fini e il reato di immigrazione clandestina, se poi si permette al capitale di stabilire chi lavorerà, dove e a che condizioni, non importa se italiano o straniero. La recente tragedia di Lampedusa? «Un esempio terrificante delle conseguenze dell’ignavia politica della classe dirigente europea», ben espressa dal «raccapricciante tentativo di Barroso di mettere un velo su questa vicenda ricorrendo a un’elemosina». Impossibile ignorare la catastrofe occupazionale: dall’inizio della crisi 7 milioni di disoccupati, di cui uno soltanto in Italia. Inutile negarlo: se i capitali non conoscono frontiere, i lavoratori italiani finiscono per subire davvero la concorrenza (involontaria) degli stranieri.
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Chiesa: il cimitero degli ipocriti e le loro leggi disumane
Ci sono due modi di vivere questa tragedia: uno è l’ipocrisia e la malafede. Coloro che ci portano al disastro (e molti di noi, anche) si strappano adesso il capelli, piangono, fingono solidarietà con le vittime, gridano vergogna – ma a chi la gridano, essendo loro i primi responsabili? Uno spettacolo indecente davvero. Il Pd, per bocca di Epifani, dice che «bisogna abrogare la legge Bossi-Fini». Adesso? Ma il Pd è stato al governo dal 2006 al 2008 e non l’ha nemmeno toccata. Napolitano invoca leggi per i profughi: proprio lui, che ha firmato nel 2009 la legge Maroni sul reato di clandestinità. E poi, un paese che si fa guidare da gente come Bossi e Fini (cioè che sceglie plebei incolti e rapaci, oltre che incompetenti) cosa infine può aspettarsi se non tragedie?L’altro modo di affrontare la situazione è quello di guardare in faccia la realtà. L’ondata migratoria è destinata ad aumentare. E’ uno tsunami annunciato. Non ci sono dei o provvidenze che potranno fermarlo. Gli economisti stupidi che sorreggono la baracca con le loro sgangherate ricette, ci ripetono da decenni che bisogna favorire il libero flusso di capitali. Appunto: i capitali si sono mossi molto liberamente (tra le tasche dei padroni dell’Universo). Ma la conseguenza è che anche gli uomini si muovono: più lentamente, perché sono fatti di materia, non come i bit dei computer, ma si spostano – per vivere, per bere, per mangiare; per sognare, perfino. Dunque arriveranno altre centinaia di barconi, con decine di migliaia di disperati. E noi avevamo come ministro della Repubblica un demente che pensa e pensa che ci vuole una legge per fermarli. Pensate a che livello si collocano, lui e il presidente che ha firmato una legge sul reato di clandestinità!Certo, l’Italia, da sola, non può farcela. Ma potrebbe fare subito molte cose importanti. Potrebbe prepararsi allo tsunami – organizzativamente, in primo luogo, perché non siamo preparati. Bisogna dirlo forte e chiaro. Prepararsi significa molte cose. Ci vuole un piano d’emergenza e un piano strategico. Ci vuole un centro di comando composto da persone competenti e oneste, che siano messe in grado di rispettare il diritto sacrosanto di asilo, e di non permettere altre tragedie. Cioè bisogna predisporre misure di accoglienza. A questo non c’è alternativa se non vogliamo essere costretti a costruire cimiteri, o a scavare fosse comuni. Cioè ci vogliono mezzi. E persone qualificate. Per esempio un esercito (sarebbe meglio tornare all’esercito di leva) che, invece di allenarsi a sparare, sia messo in grado di svolgere funzioni estese di protezione civile. E, per il piano strategico, ci vuole una chiara visione dell’azione politica da svolgere in campo internazionale.L’Italia di questi anni balbetta o è assente dalla scena. Non ha voce e, del resto, essendo un paese commissariato dalla Trojka, non si preoccupa di averla. Invece dovrebbe farsi sentire: è l’Europa, con i suoi cosiddetti principi universali, che deve rispondere. E se non lo fa, è l’Italia che deve prendere l’iniziativa e imporre una risposta collettiva. Molto di più che un “corridoio umanitario” di emergenza (non basterebbe comunque). Ci vuole una politica! E ci vuole il coraggio necessario per dire – e dirsi – come stanno le cose. Siamo noi ricchi – e privilegiati – parte del problema. Lo abbiamo creato anche noi. E dunque dobbiamo mettere mano al portafogli. Non regalando motovedette alla Libia, perché fermi e ricacci indietro i disperati, ma cambiando la politica degli aiuti al cosiddetto terzo mondo. Non mandando truppe in Afghanistan e in Iraq, cioè cambiando la nostra politica estera: fuori dalla Nato, perché non abbiamo nemici; fuori dalla guerra. Questo è l’unico modo per contribuire alla soluzione del problema. Per questo ci vuole un’altra classe politica e un altro governo, italiano ed europeo.(Giulietto Chiesa, “Lampedusa, non siamo preparati allo tsunami”, testo del video-editoriale pubblicato da “Megachip” l’8 ottobre 2013).Ci sono due modi di vivere questa tragedia: uno è l’ipocrisia e la malafede. Coloro che ci portano al disastro (e molti di noi, anche) si strappano adesso il capelli, piangono, fingono solidarietà con le vittime, gridano vergogna – ma a chi la gridano, essendo loro i primi responsabili? Uno spettacolo indecente davvero. Il Pd, per bocca di Epifani, dice che «bisogna abrogare la legge Bossi-Fini». Adesso? Ma il Pd è stato al governo dal 2006 al 2008 e non l’ha nemmeno toccata. Napolitano invoca leggi per i profughi: proprio lui, che ha firmato nel 2009 la legge Maroni sul reato di clandestinità. E poi, un paese che si fa guidare da gente come Bossi e Fini (cioè che sceglie plebei incolti e rapaci, oltre che incompetenti) cosa infine può aspettarsi se non tragedie?