Archivio del Tag ‘globalizzazione’
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Barnard: crediti marci e banche in rosso, preparatevi a tutto
No, no, per carità, il problema è Roma, Casta, pensioni d’oro, costi politica, costi lavoro, ecc. Dette queste risolutive verità sulla macroeconomia globale, e tralasciando che ora la Russia può anche chiudere i rubinetti del gas all’Europa avendo completato il secondo più grande accordo di fornitura di gas con la Cina nella storia… insomma, tralasciando queste sciocchezze, chiedo a chi ha 5 minuti di tempo per sollevare gli occhi dai testi delle epiche mozioni dei 5S in Parlamento, di osservare i seguenti semplici punti. La banche italiane sono fra le prime fra quelle dell’Eurozona in termini di volumi di debiti ‘a rischio’ emessi negli scorsi 2 anni (debiti emessi dalle banche per finanziarsi). Il totale sud-europeo di debiti bancari ‘a rischio’ emessi negli scorsi 2 anni è di 18 miliardi di euro, che si aggiungono ai 1.500 miliardi di euro che ancora le banche europee hanno in pancia in termini di crediti emessi e che non riavranno mai più (crediti marci).Fra questi ‘debiti a rischio’ che le banche vendono per finanziarsi ci sono anche i famigerati Asset Backed Securities, cioè dei fasci di vostri debiti verso le banche e che voi faticate a ripagare, che vengono venduti a Fondi Avvoltoio americani, così le banche se ne liberano e voi sfigati poi avrete a che fare con gli Avvoltoi (la Camorra è una passeggiatina, in confronto). Insomma, le banche italiane in testa a una corsa delle banche per finanziarsi con prestiti da parte di investitori che rischiano il deretano, perché è alta la possibilità che le banche non li ripaghino, ma questi investitori in compenso chiedono alle banche tassi d’interessi… STRATOSFERICI stratosferici.E qui sta la domandina per voi imprenditori e famiglie che chiedete fidi, mutui, prestiti, ecc. A chi credete che le banche faranno pagare il conto di quei tassi stratosferici che pagano loro stesse ai mercati di capitali? A chiiiiiii? Forse a Grillo??… ah! già, non ci avevo pensato. Il boato gastrico del genovese ci salverà! Vi salverà, imprenditori dell’Abruzzo, sindaci della Lombardia, famiglie d’Italia. Scusate se vi ho allarmati di nuovo.(Paolo Barnard, “Come sempre, imprenditori e famiglie non fateci caso”, dal blog di Barnard dell’8 novembre 2011).No, no, per carità, il problema è Roma, Casta, pensioni d’oro, costi politica, costi lavoro, ecc. Dette queste risolutive verità sulla macroeconomia globale, e tralasciando che ora la Russia può anche chiudere i rubinetti del gas all’Europa avendo completato il secondo più grande accordo di fornitura di gas con la Cina nella storia… insomma, tralasciando queste sciocchezze, chiedo a chi ha 5 minuti di tempo per sollevare gli occhi dai testi delle epiche mozioni dei 5S in Parlamento, di osservare i seguenti semplici punti. La banche italiane sono fra le prime fra quelle dell’Eurozona in termini di volumi di debiti ‘a rischio’ emessi negli scorsi 2 anni (debiti emessi dalle banche per finanziarsi). Il totale sud-europeo di debiti bancari ‘a rischio’ emessi negli scorsi 2 anni è di 18 miliardi di euro, che si aggiungono ai 1.500 miliardi di euro che ancora le banche europee hanno in pancia in termini di crediti emessi e che non riavranno mai più (crediti marci).
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Cancellare le conquiste del popolo: da Pinochet a Renzi
Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.La strage fascista di piazza della Loggia a Brescia aveva ricevuto una risposta popolare enorme che aveva messo in crisi i disegni autoritari di settori degli apparati dello Stato e della eversione nera. Nelle scuole entravano i metalmeccanici che avevano da poco conquistato il diritto a studiare con permessi di 150 ore. Tutta la società italiana, nonostante tensioni e contraddizioni, era in crescita attorno alla crescita dei diritti del lavoro. Chi allora avrebbe potuto aver già in mente che, appena quattro anni dopo il varo della legge 300, si sarebbe dovuto cancellare l’articolo 18? Mi domando davvero come Renzi abbia potuto parlare di quaranta anni di ritardo nelle riforme, e siccome son convinto che non si sia sbagliato, posso arrivare ad una sola conclusione. Che egli faccia proprio lo spirito di vandea capitalista che proprio in quegli anni cominciava a definirsi nelle élites economico finanziarie mondiali.Nel 1973 il sanguinoso colpo di Stato di Pinochet contro Allende in Cile serviva per la prima volta a sperimentare con la forza di una feroce dittatura le politiche liberiste dei “Chicago boys” di Milton Friedman. Che poi sarebbero dilagate nel mondo. Sempre nel 1973 una organizzazione multinazionale di banchieri e industriali, politici e ricconi guidata dalle élites statunitensi, la Trilaterale, aveva prodotto un manifesto programmatico nel quale si affermava la necessità che il mondo retrocedesse dall’eccesso di domanda di democrazia e garanzie sociali che si era diffuso. Quindi è vero che sotto la superficie del progresso generale si annidavano e preparavano le forze che avrebbero avviato quella controriforma liberista che dura da più di trenta anni.Certo a nessuno nell’Italia del 1974, se non a Licio Gelli, sarebbe venuto in mente di chiedere la cancellazione della reintegra per i licenziamenti ingiusti, e di tornare così alla legge del 1966 che, come l’attuale Jobact, prevedeva solo il risarcimento monetario. Ma nell’Italia di oggi questo invece può essere affermato e presentato come innovazione. Ci sono voluti decenni, ma alla fine lo spirito di rivincita sociale che già elaborava il suo rancore in quegli anni, ha trovato un fiero interprete in Matteo Renzi. Che, parafrasando il linguaggio di un altro capo di governo non proprio democratico, ha potuto alla fine affermare: «Con lo Statuto dei Lavoratori abbiamo pazientato quarant’anni, ora basta».(Giorgio Cramaschi, La Vandea capitalista di Renzi, da Contropiano del 10 ottobre 2014).Nei momenti di tensione salgono dall’animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell’approvazione del suo Jobs Act, il presidente del consiglio ha dichiarato: «Abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più». Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l’hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del Consiglio pensa che l’articolo 18 e lo statuto dei diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974. In quell’anno il no al referendum sull’abrogazione del divorzio aveva travolto la Dc di Amintore Fanfani.
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Un tedesco (di destra) nuovo presidente della Romania
Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.Ma a vedere i risultati delle recenti elezioni presidenziali in Romania, non si può notare un nuovo salto di qualità nell’intervento dei poteri forti tedeschi nella gestione dell’Unione Europea in quanto polo attivo della competizione globale e dei singoli paesi della periferia.E così, incredibilmente, a vincere il ballottaggio di domenica che vedeva favorito l’esponente di centrosinistra Victor Ponta è stato invece “il tedesco” Klaus Iohannis. Tedesco per due motivi: in quanto esponente della minoranza tedesca che vive nei territori della Transilvania – e su questo nulla da ridire, anzi – ma soprattutto perché di fatto Iohannis è un pupillo di Frau Merkel e un ammiratore delle politiche di rigore e conservatrici della Cdu tedesca. Se prima a Berlino bastava controllare il telecomando, oggi pare proprio che la classe dirigente tedesca si stia adoperando per manovrare direttamente il guinzaglio. Un particolare, l’identità etnica e politica del nuovo presidente romeno, così eclatante che non è sfuggito neanche alla normalmente distratta stampa italiana.L’esponente della minoranza tedesca ha fatto della lotta alla corruzione e dell’apertura del paese agli investitori stranieri (che naturalmente richiedono stabilità, agevolazioni fiscali, basso costo del lavoro e zero conflittualità sindacale) i suoi cavalli di battaglia, sbaragliando al ballottaggio un Victor Ponta che al primo turno lo aveva battutto con ben dieci punti di differenza, 40% contro 30%. Il suo piglio prussiano e la denuncia delle inefficienze del governo socialdemocratico che stavano impedendo a molti emigrati romeni di poter votare all’estero ha mobilitato un gran numero di elettori in patria (l’affluenza è passata dal 53% del primo turno al 63,5% del ballottaggio) permettendogli di ribaltare il risultato della prima tornata delle presidenziali. Ora il fisico 55enne, sindaco di Sibiu e protestante (in un paese in cui il 90% degli abitanti è cristiano ortodosso) dovrà tentare di portare ordine in un paese economicamente allo sbando, governato da un premier socialdemocratico debole, uscito dalla inaspettata sconfitta delle presidenziali e oggetto di forti contestazioni politiche e sociali. Soprattutto, Iohannis dovrà tentare di riportare Bucarest sotto il pieno controllo della Germania e dell’Unione Europea, sottraendo il paese alle fortissime influenze degli Stati Uniti.(Marco Santopadre, “Un tedesco, di destra, presidente della Romania”, da “Contropiano” del 19 novembre 2014).Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.
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Addio Costituzione, l’Ue è fuorilegge e cospira contro di noi
Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.Nel 1992 Carli formalizzò la separazione della banca centrale dal Tesoro e consentì il processo di costituzione della Bce, banca centrale di uno “Stato che non c’è”. Questa rivoluzione è avvenuta, ed è fondamentale ricordarlo, non a causa dell’euro, ma ancor prima per responsabilità dei trattati dell’Ue: dagli anni ‘80, e poi definitivamente con Maastricht, i princìpi fondamentali delle costituzioni europee sono diventati feticci, la Costituzione italiana è stata presa di mira poiché in contrasto coi trattati, e conseguentemente disinnescata. Questo meccanismo perpetrato di disinnesto delle sovranità nazionali ci ha condotti verso l’impossibilità giuridica di disciplinare numerose materie di interesse pubblico. Un paese liberista, come l’Ue impone ai propri membri, è per forza globalista. Un paese che viceversa pianifica la propria economia, come ci imporrebbe il dettato costituzionale, è un paese dove il popolo, la legge e lo Stato controllano, disciplinano e dirigono la res publica in modo più o meno socialista.Una norma fondamentale contenuta nella nostra Costituzione, l’articolo 41, enuncia: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La parte più nobile del trattato costituzionale è dunque la parte che disciplina i rapporti economici: ristabilire la legalità costituzionale significa pertanto prevedere partecipazioni statali ed aiuti di Stato ad imprese in settori strategici (misura che portò la nostra industria pubblica ad essere avanguardia nel mondo). Oggi, all’interno dell’Unione Europea, tutto questo risulta essere inapplicabile. Inoltre, per imporre di nuovo un sistema progressivo di imposizione bisognerebbe limitare la circolazione dei capitali: non esiste nessun esperienza socialista o socialdemocratica che non abbia applicato questo principio come era applicato da noi prima della distruzione economica, ma soprattutto sociale, di questo nostro intero continente. L’unico internazionalismo (parola tanto abusata quanto ostica) accettabile è quello in cui si ha un rapporto di pace tra stati socialisti. E sovrani.(Martina Carletti, “Euro, Unione Europea o socialismo?”, da “Appello al Popolo” del 23 ottobre 2014).Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.
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Il marcio Juncker? Perfetto per imporre all’Europa il Ttip
Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.L’anello debole, oggi, si chiama innanzitutto Juncker. Qualcuno, scrive Raffone sul “Sussidiario”, dovrebbe ricordarsi dello scandalo Clearstream (“flusso pulito”), esploso grazie a un giornalista tra il 2001 e il 2002, che dimostrava come dagli anni ‘70 era stata creata una “camera di compensazione” per rendere non tracciabili le transazioni finanziarie. «Clearstream serviva da piattaforma “legale” per le compensazioni inter-bancarie (attività perfettamente illegale) che offriva soluzioni mondiali per l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro». Finite nel nulla le prime inchieste giudiziarie avviate in Lussemburgo e in Francia. Seguì una seconda indagine francese, nota come “Clearstream 2”, che attorno alla costituzione di fondi neri dell’industria franco-tedesca della difesa, Eads, coinvolse il presidente Jacques Chirac e il ministro Dominique De Villepin, ma anche indirettamente il presidente Nicolas Sarkozy e numerosi membri dell’establishment francese, oltre a oligarchi russi e narcotrafficanti colombiani. Nel 2013 si concluse con l’assoluzione dei molti politici coinvolti e la condanna di alcuni alti dirigenti della Eads.Un’indagine parlamentare, diretta dall’ex ministro socialista Arnaud Montebourg (poi silurato da Hollande perché contrario al rigore della Troika) si è limitata alla pubblicazione di un rapporto sul riciclaggio, mentre un’indagine del Parlamento Europeo «ricevette l’incredibile risposta dell’allora commissario Frits Bolkestein che ritenne che “non vi erano ragioni di non credere alle autorità del Lussemburgo”». Nel 2006, continua Raffone, l’eurodeputato olandese Paul Van Buitenen, famoso per aver denunciato lo scandalo di corruzione che fece cadere la Commissione Santer, contestò a Barroso la presenza di Frits Bolkestein nella Commissione, visto che lo stesso era nel consiglio di amministrazione della Shell che aveva conti “occulti” con Clearstream. La risposta di Barroso? Burocraticamente evasiva, in pieno stile Ue: un altro lussemburgese, Jacques Santer, nel 1999 fu costretto a dimettersi da presidente della Commissione Europea per un caso di corruzione. Dal 2002, aggiunge Raffone, Clearstream è controllata al 100% da Deutsche Borse. E, insieme alla consorella Euroclear, che fu di Jp Morgan, è il secondo oligopolista mondiale come “depositario centrale internazionale”, cioè dove si trattano tutti gli eurobond e si opera la “clearence” delle transazioni, dai derivati ai conti bancari.Nel 2011, dopo 10 anni, Clearsteram ha perso tutte le cause contro Denis Robert, il giornalista che aveva reso nota la “lavanderia del Lussemburgo”. Clearstream è da sempre legalmente basata in Lussemburgo, continua Raffone, mentre Euroclear è in Belgio, dove dal 1973 risiede anche Swift, cioè il monopolista mondiale della rete di telecomunicazione per le relazioni finanziarie interbancarie, con oltre 9.000 istituzioni collegate in più di 209 paesi. «Coincidenze o il Benelux ha qualcosa di “speciale”?». Per Raffone, l’offensiva anti-Juncker coincide con la grave sconfitta di Obama nelle elezioni di midterm. E i finanziatori della Icij sono tutti anglosassoni, «ampiamente membri delle élites della mondializzazione e del “nuovo ordine mondiale”», mai teneri con l’Europa. Tra loro spiccano la Open Society Foundation (americana, legata a Soros), la Ford Foundation (americana, con collegamenti israeliani), la Adessium Foundation (famiglia Van Vliet, olandese naturalizzata americana e specializzata in asset management), il Sigrid Rausing Trust (famiglia di origine svedese proprietaria della Tetra Pack, basata nel Regno Unito), la David and Lucile Packard Foundation (la famiglia americana fondatrice di Hp), e poi Pew Charitable Trusts (americana, svolge attività di lobbying nel settore pubblico e possiede il terzo più influente think tank di Washington) e la Waterloo Foundation (britannica, impegnata nelle cause ambientaliste).Quanto allo scandalo attuale, che coinvolge «la reputazione e la credibilità di Jean-Claude Juncker nella sua nuova funzione di presidente della Commissione Europea», per Raffone bisogna partire dal passato recente di Juncker che, nel luglio 2013, dopo 18 anni da primo ministro del Lussemburgo, ha dovuto rassegnare le sue dimissioni in seguito allo scandalo delle “intercettazioni segrete” che, per sua negligenza e omesso controllo e vigilanza, i servizi segreti del Granducato avevano compiuto per alcuni anni. «I fatti dell’inchiesta riferiscono che tra il 2004 e il 2009, oltre alle 300 schede personali di politici e imprenditori e almeno 13.000 “fiches d’information” sui 500.000 abitanti, erano state eseguite violando tutte le leggi vigenti». Secondo il capo dei servizi lussemburghesi, durante la guerra fredda erano oltre 300.000 le “note d’ascolto” collezionate dall’agenzia statale. «Inoltre, sono emerse anche commistioni tra il mondo dell’intelligence lussemburghese, gli affari finanziari, il dipartimento delle imposte e alcune aziende che forniscono beni di lusso».Decisamente grave, per il leader di un paese fondatore dell’Ue. «Possibile che nessuno abbia trovato che già questo evento fosse sufficiente a far dubitare dell’onorabilità di Jean-Claude Juncker prima della sua recente elezione a capo della Commissione Europea?». Eppure era persona ben conosciuta, premier dal 1995 al 2013, poi ministro delle finanze, e infine (dal 2005 al 2013) primo presidente dell’Eurogruppo. «Nessuno sapeva? La spiegazione – afferma Raffone – è che a livello dell’Unione Europea vige la regola dell’omertà, che si cristallizza nella relazione incestuosa tra le alte burocrazie nazionali e le tecnocrazie europee». Pletoriche e tardive le proteste di politici come Gianni Pittella o del belga Guy Verohstadt, del gruppo Alde. Juncker dovrebbe “fare chiarezza” al Parlamento Europeo? «È una farsa che avrebbero potuto risparmiarci. Più dignitosa è stata la difesa d’ufficio del capogruppo Ppe, il tedesco Manfred Weber, che reclama “l’imparzialità” di Juncker.», mentre «la voce più chiara è stata quella di Marine Le Pen, del Fn francese, che ha chiesto le dimissioni incondizionate di Juncker e della sua Commissione».Strada senza uscita, scrive Raffone: se Juncker cade, crolla tutto. Ma se resta al suo posto, la credibilità delle istituzioni europee «sarà indecentemente rovinata». Ipotesi: «Un aiuto a quella creazione del “caos” che a certa parte dell’establishment americano, soprattutto dopo la vittoria dei repubblicani, fa molto comodo per “disciplinare” gli europei nell’alleanza transatlantica?». Scandaloso non è solo il regime fiscale del Lussemburgo, ma anche il fatto che Juncker, come premier, abbia concluso oltre 340 accordi con multinazionali perché la loro tassazione fosse inesistente oppure dell’1%. E ancor più grave, aggiunge Raffone, è che questi accordi fossero segreti. «Le solite società di auditing hanno fatto il resto. La patetica difesa della Pwc ricorda quella della blasonata Arthur Andersen quando nel 2007 esplose il caso della Aig americana, che portò alla chiusura di quella “casa di contabili”. Perché Juncker lo ha permesso? E per conto di chi?». Niente di nuovo, comunque: «Per qualsiasi piccolo investitore che cercasse di “ottimizzare” la propria tassazione, era ben noto che in Lussemburgo si potesse “triangolare” con estrema facilità e compiacenza del governo per fare schemi di elusione fiscale trans-europei, coinvolgendo società di comodo in Belgio, Olanda, Polonia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, senza disdegnare la Svizzera e lo Stato americano del Delaware. Insomma, un gioco fai da te, disponibile anche su Internet».C’è da chiedersi perché la Germania abbia fatto la voce grossa con il principato del Liechtenstein – i famosi nomi trafugati dai servizi tedeschi – mentre sul “suo” Lussemburgo tace. Probabilmente, ipotizza Raffone, il Liechtenstein era uno specchietto per le allodole, mentre la “ciccia” era chiaramente nel Granducato. «Nella guerra finanziaria in corso tra il sistema angloamericano, che in Europa è rappresentato dalla City di Londra, e quello “Ost” rappresentato dalla Germania, per capirci tra Euroclear e Clearstream, questa volta i falchi anglosassoni hanno colpito l’Ue per punire la Germania». Quest’ultima è rea di pensare a un eventuale “Eurogruppo 2” e si è permessa di sfidare il Regno Unito, chiedendo che «decida subito cosa fare, se stare o meno nell’Ue». Detto fatto, reazione puntuale: «A farne le spese non sarà solo la Germania, ma tutti i paesi dell’Eurozona». Juncker? «E’ stato una pessima scelta anche per la Germania», che si è affidata a un politico iper-ricattabile da troppi poteri. Per esempio, gli americani: «Obama deve rabbonire i suoi falchi, ormai vincitori a casa sua. Quindi può avere una sola possibilità per farlo: la resa incondizionata e definitiva dell’Unione Europea all’egemone americano. Primo passo, la firma del Ttip prima del prossimo Consiglio Europeo di dicembre». Forse, conclude Raffone, Renzi e la Mogherini lo avevano intuito, e quindi sin da subito avevano dichiarato che «il Ttip non è solo un accordo commerciale, ma strategico, una scelta culturale».Imbarazzante, impresentabile, ricattabile. Cioè perfetto, per eseguire ordini senza discutere. E’ l’increscioso profilo del lussemburghese Jean-Claude Juncker, imposto dalla Germania alla guida della Commissione Europea. A tracciare il “nuovo” identikit di Juncker, massimo protettore europeo dell’evasione fiscale per i super-ricchi, è l’esplosivo dossier realizzato da Icij, consorzio internazionale di giornalisti basato negli Usa. In realtà, precisa Paolo Raffone, l’indagine svela una realtà già arcinota: da piccolo paese agricolo, il Lussemburgo si è trasformato in potenza finanziaria, collegata sia alla Svizzera sia alla corona britannica, e dagli anni ‘70 ha accomodato convenientemente gli interessi finanziari, con la massima discrezione, di Stati, imprese e facoltose famiglie. Semmai, l’offensiva anche mediatica contro l’indifendibile Juncker – a sua volta a capo di un’istituzione ormai famigerata come la Commissione Europea – può solo preludere a una stretta finale della finanza e delle multinazioni anglosassoni, che attraverso le loro potentissime lobby premeranno sul lussemburghese per ottenere la capitolazione dell’Europa di fronte al Ttip, il Trattato Transatlantico che metterebbe fine alla residua sovranità europea sulle merci e sulla tutela del suolo, della salute e della sicurezza alimentare.
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Giannuli: la televisione è finita, come i leader che fabbricava
Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».In fondo accade già con YouTube. E il fenomeno produrrà ricadute non banali: «Spingerà le Tv ad abbandonare sempre più l’impegno culturale e formativo a favore del taglio commerciale», diversificando peraltro l’offerta. Ormai la vecchia Tv ha perso troppo terreno nei confronti del Web. «La Tv è stata l’ultimo media mono-direzionale, e, nella sua versione commerciale è stato il media ideale del successo berlusconiano. Il Web è il primo media interattivo e bidirezionale, e in questo senso è terreno sfavorevole al Pd e soprattutto a Fi, mentre ha propiziato il successo del M5S». Se per vent’anni l’Italia è stata condizionata da un personaggio come Berlusconi, oggi la televisione come collettore elettorale non funziona più. Per Giannuli, il tramonto della vecchia Tv è il sintomo di una nuova trasformazione radicale del sistema politico, che va molto oltre l’occasionale performance di questo o quel leader. «Inizia a sentirsi davvero l’urto della crisi finanziaria internazionale e della prolungata stagnazione dell’economia italiana, che ormai brucia primati in discesa».Il sistema, ricorda Giannuli, era rimasto stabile dopo il crollo della Prima Repubblica, «nonostante la classe politica fosse assai meno capace di quella che l’aveva preceduta». Nell’euforia finanziaria internazionale, «l’economia italiana galleggiava sul mare della globalizzazione senza troppi scossoni». Oggi invece la situazione è molto più difficile, «e con pochissime speranze di miglioramento a breve». Inoltre, «si stanno liquefacendo le forme della politica che avevamo conosciuto». Fine dei partiti con insediamento sociale: più ancora di Forza Italia e del M5S, il Pd «sta diventando “partito del capo” che azzera ogni dissidenza interna e non ha neppure un vero e proprio gruppo dirigente collettivo», l’unico magnete elettorale è l’ascendente del condottiero e i congressi diventeranno «liturgie del karaoke». La minoranza, che sogna riscosse interne, «non ha capito che non sta più nel Pds e neppure nel Pd, ma nel prossimo “Partito della Nazione”, diverso per struttura interna, per funzione e collocazione politica: questo sarà un partito di centro con decise puntate a destra». Bersani e Speranza? «Stanno a Renzi come Turati stava a Mussolini: uomini del secolo precedente, del tutto inadeguati di fronte all’arroganza violenta del nuovo inquilino del potere».Non nascerà un altro Berlusconi, perché sta andando in pensione, per sempre, la vecchia fabbrica del consenso, la televisione, ormai disertata dal pubblico perché unidirezionale e quindi obsoleta. Lo sostiene Aldo Giannuli, che segnala «il collasso della televisione, il media principe dell’ultimo mezzo secolo». Per sessant’anni, la Tv pubblica ha svolto una funzione di socializzazione culturale e politica: «Se la società del Novecento è diventata una società della cultura di massa e della partecipazione politica di massa lo deve più di tutti alla televisione». Ma oggi la formula è stanca e la televisione perde costantemente ascolti. «E’ probabile che nel giro di pochi anni l’interazione fra Tv e computer produrrà l’abbandono del palinsesto», sostiene Giannuli. «La Tv trasmetterà in diretta solo i notiziari ed eventi sportivi o spettacoli, mentre, per il resto, le televisioni si trasformeranno in società produttrici di format televisivi a pagamento, che gli spettatori sceglieranno da un menù per guardarli quando meglio gli parrà».
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La rivoluzione e il Muro della Vergogna tra ricchi e poveri
«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.Tra le pagine del settimanale tedesco “Die Welt”, scrive d’Orsi su “Micromega”, sopravvive la coscienza problematica del presente, lontano dallo spirito della celebrazione, «quella beota» di chi non ha perso l’occasione per inneggiare al “liberalismus triumphans”, «magari tirando in ballo la situazione geopolitica attuale, con cenni al ritorno alla guerra fredda per colpa dell’aggressività dell’“Orso russo”». La televisione ha riproposto «luoghi comuni, stucchevoli e spesso fuorvianti», anche se con «un minimo di pudore in più rispetto al passato», forse per effetto «della crisi che si sta impietosamente prolungando, lasciando una scia sempre più scura di dolore, tra rassegnazione inerte e rivolta incipiente». Eppure, «l’apologetica dell’Occidente domina, e prevale, di gran lunga, incurante di quel che le vicende internazionali ci hanno regalato come prodotto della fine del bipolarismo, e ingresso nell’era unipolare, con lo strapotere militare, economico, finanziario, culturale, degli Stati Uniti d’America, il vero Big Brother della famiglia umana».Il biennio 1989-1991, si interroga d’Orsi, fu davvero una rivoluzione? Produsse cambiamenti repentini di regimi politici e portò al potere classi sociali nuove? Sì e no: intanto, perché gli ex satelliti dell’Urss sono stati gestiti a lungo dalla vecchia nomenklatura, «semplicemente con un cambio di casacca politica». E poi perché «il sistema di garanzie sociali, di diritti sostanziali, di welfare, fu spazzato via». Cambiò il clima umano di quei paesi: «Pochi giorni fa ero in Polonia – racconta d’Orsi – e ho conversato con un ingegnere, che lucidamente ha ammesso i benefici del post-’89, ma altrettanto lucidamente ha elencato i danni, il primo dei quali per lui era proprio sul piano antropologico. Era emerso, diceva, parlando accoratamente, un individualismo prima sconosciuto; furono spezzati i legami sociali, cessarono tutte quelle attività collettive – dalle ferie al dopolavoro, dalle sezioni di partito agli eventi sportivi, dalle biblioteche al teatro – che facevano sentire le persone garantite da reti di protezione: oltre alle istituzioni, v’era “la gente”, a costituire la rete. Ora ciascuno finito il lavoro corre a casa, sbarra l’uscio e si fa gli affari suoi».Secondo fonti occidentali, aggiunge d’Orsi, «in molti paesi dell’Est Europa le aspettative di vita si sono ridotte, le disuguaglianze economiche sono diventate macroscopiche». E, per gli ultimi in fondo alla scala sociale, «la vita è più dura che in passato, anche se hanno i supermercati traboccanti di merci, e possono espatriare liberamente». Ma le conseguenze più gravi, per d’Orsi, sono sul piano internazionale, «nella terrificante definizione del “nuovo ordine mondiale”», col dominio economico-militare degli Usa, senza alcun bilanciamento, e senza più l’Onu, «ridotto al rango di notaio della superpotenza». Questo ha generato nella classe dirigente americana «una perversa volontà sopraffattoria», al punto che «il mondo è parso per un momento alla sua mercé: il bombardamento della sede dell’ambasciata cinese a Belgrado, nel corso della più infame delle “nuove guerre”, nel 1999, fu la prova di quella volontà». Poi però è cominciato un riassetto internazionale, «con fenomeni di resistenza diffusi, allo strapotere statunitense», e oggi l’unipolarismo si sta trasformando progressivamente in multipolarismo. «Oggi gli Usa non si potrebbero permettere di bombardare l’ambasciata cinese. E la Russia è ritornata al rango di grande potenza, piaccia o non piaccia, malgrado la corona di ferro che Nato e Ue cercano di disporre intorno al suo territorio che, benché ridotto dalla frammentazione dell’Urss post 1991, rimane il più esteso del mondo».Nello stesso tempo, proprio la riscossa di altre nazioni e la crescita economica e militare dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), hanno eccitato «l’eterna cupidigia degli Usa», i quali «nella situazione di crisi sistemica del capitalismo», oggi «cercano nuovi sbocchi commerciali e hanno bisogno di far girare a pieno ritmo la propria macchina militare, smaltendo armi e investendo, di conseguenza, in nuovi, sempre più sofisticati sistemi di distruzione e di morte». E’ un fatto: «L’esportazione della democrazia, la grottesca formula che ha giustificato tutte le guerre recenti, è la conseguenza evidente del “crollo del Muro”. Ossia, la dissoluzione del blocco sovietico, con “l’arrivo della democrazia” in quei paesi, ha avviato il gioco del domino, con il cosiddetto “contagio democratico”, che è consistito, in definitiva, in una serie di piccoli e grandi colpi di Stato, il cui fine era la eliminazione di leader (dittatori o capi eletti in libere elezioni) sgraditi a Washington, o in moti di piazza più o meno spontanei, che quando sfociavano in regimi politicamente accettabili all’Occidente venivano tollerati, ma quando producevano, magari, anche, con democraticissime elezioni, assetti politici non graditi (vedi l’Egitto), si provvedeva senza tanti complimenti a cassare con un tratto di penna, secondo il modello cileno».Non di rado, aggiunge d’Orsi, il pretesto è stato un ostentato sentimento di umanità verso popolazioni in difficoltà, nel vasto mondo: «E furono le “guerre umanitarie”, le più ipocrite, realizzate con una sfacciata cancellazione delle convenzioni internazionali, una destrutturazione del “diritto dei popoli” e un ritorno alla forme più estreme della umana ferocia». E così «il mondo, pacificato sotto il segno del “libero mercato”, ha palesato il suo volto orribile di una conflittualità permanente: Afghanistan, Iraq, Kosovo, Libia, Siria, Ucraina, per tacere di Israele che impunemente procede nella sua politica genocidaria verso i palestinesi». Proprio il “muro della vergogna” costruito dagli israeliani all’interno dei Territori Occupati, «una struttura rispetto alla quale il Muro di Berlino appare una specie di giocattolo», per d’Orsi è la prova della grande menzogna: «Lo slogan “mai più muri” è risuonato anche in questi giorni di celebrazione del 9 novembre 1989: ma evidentemente vale soltanto per i muri costruiti dagli “altri”; noi i “nostri” muri ce li teniamo e li rafforziamo e li moltiplichiamo: alla frontiera tra Usa e Messico, nei possedimenti spagnoli in Marocco, persino a Padova, per isolare gli extracomunitari».Ma il peggiore dei muri, conclude d’Orsi, è quello che ormai separa e contrappone, irrimediabilmente, quei quattro quinti di umanità, che giacciono nella miseria, dal rimanente quinto che invece vive nell’agiatezza. «E più noi, i cittadini del “Nord” del mondo, alziamo barriere protettive, più intorno a noi cresce la minaccia di chi nulla possiede. Se non ci apriremo all’accoglienza e alla solidarietà, queste enormi maree umane ci sommergeranno, e allora non varrà dire: noi eravamo dalla vostra parte. Saremo tutti colpevoli, ai loro occhi, e la nostra indifferenza odierna giustificherà la loro vendetta». Per questo vale la pena, oggi, ricordare Bobbio: la speranza della rivoluzione non si è spenta solo perché è fallita l’utopia comunista. «Personalmente non so se il comunismo fosse soltanto una utopia», dice d’Orsi, «ma certo era e rimane una speranza, per gli “schiacciati dai grandi potentati economici” (ancora Bobbio), per i “dannati della terra” (per dirla con Frantz Fanon). E questa speranza non verrà meno sino a quando ve ne saranno».«Il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere». Così scriveva Norberto Bobbio nel 1989, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, davanti alla repressione cinese di piazza Tienanmen. «E’ da stolti rallegrarsi della sconfitta», scriveva il filosofo, criticando il trionfalismo dell’Occidente di fronte alla grande ritirata dell’Urss di Gorbaciov. «Credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?». Parole ricordate oggi da Angelo d’Orsi, all’indomani delle fastose celebrazioni berlinesi, in cui lo stesso Gorbaciov – che aveva sperato nell’avvento di un mondo multipolare e pacificato – ha ammonito gli Usa: voler stravincere è irresponsabile, significa trascinare il pianeta verso la guerra senza risolvere nessuno dei grandi problemi dell’umanità, devastata dalle diseguaglianze con l’avvento destabilizzante della globalizzazione neoliberista.
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Canfora: il capitalismo sta benissimo e impone i suoi Renzi
Troppe volte dato per morto, a livello mondiale il capitalismo è appena cominciato: lo dimostra il boom dell’economia capitalistica in tre quarti del pianeta, in regioni – a partire da Russia e Cina – in cui l’economia era stata lungamente rurale o comunque arretrata. Lo sostiene un insigne storico italiano come Luciano Canfora, che avverte: il grande capitale ormai «governa direttamente», facendo a meno della mediazione politica, delle Costituzioni da difendere, dei principi fondamentali. Comandano i grandi banchieri: «Se si fidano del personale che hanno al proprio servizio lo lasciano fare, altrimenti i capitalisti intervengono direttamente». E’ già successo in Francia con Pompidou, dopo la parentesi bonapartistica di De Gaulle. Oggi il denaro la fa da padrone e la democrazia è diventata una scatola vuota: e l’esperienza del socialismo reale, che nessuno rimpiange, può essere rivista come un tentativo per mettere un argine al predominio del business come unico potere. Ma l’Urss cadde perché non seppe risolvere le diseguaglianze al suo interno. E sottovalutò la vitalità del capitalismo.L’esperienza sovietica è crollata, spiega Canfora, intervistato da Vittorio Bonanni, perché – senza uguaglianza – non era più credibile per i suoi stessi concittadini e sudditi. «La gara spaziale, le guerre stellari, il contrasto militare in tutto il pianeta: sappiamo queste cose. Però è stata una gloriosa esperienza durata abbastanza, una settantina d’anni del XX secolo. Per cui se ne deve parlare con rispetto, ma anche con la convinzione che è stato un periodo eroico della storia umana». Ma la constatazione più rilevante è un’altra: nel presupposto che mise in moto un processo rivoluzionario di grandissima estensione, a livello euroasiatico, c’era un errore di fondo: «Ci si illudeva di essere giunti al capolinea della storia, di essere al punto di arrivo del sistema capitalistico». Intanto perché si aveva una percezione molto limitata e parziale della realtà americana, sottovalutata in pieno. Solo Trotsky aveva conosciuto l’America. Oggi possiamo solo constatare che «l’esperienza del socialismo reale ha modernizzato due gigantesche aree del mondo, l’ex impero russo e la Cina, trascinandole fuori da una situazione semi-feudale», in cui la Cina «era in una posizione semi-coloniale» mentre la Russia era «un impero separato, essenzialmente agricolo e arretrato».Crollando sul piano politico, proprio il socialismo reale «ha creato i presupposti per un gigantesco sviluppo del capitalismo in quei tre quarti del mondo che ancora non erano a quel livello: quindi la storia del capitalismo è appena cominciata», anche se «nessuna forma economico-sociale è eterna». Il capitalismo «ha una storia molto più lunga di quella che allora si era pensato, nell’illusione determinata dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dalla crisi gigantesca del 1917-18 e 19». Ma attenzione: «Erano degli europei, e non cittadini del mondo, quelli che pensavano queste cose. E come europei, vedendo crollare tre imperi che erano stati gli architrave della storia – quello tedesco, quello austroungarico e quello zarista – si erano convinti che si stava voltando pagina nella storia dell’umanità. In parte era vero, ma non nella frettolosa conclusione che eravamo arrivati al dunque. Nessuno può pilotare la storia», avverte Canfora. Men che meno l’Europa, che per secoli ha osservato il mondo con occhiali essenzialmente eurocentrici.Oggi, l’Europa si è ridotta ad essere «una piccola articolazione della politica statunitense». Aggiunge Canfora: «E’ comico essere europeisti, ed è comico tutto il ciarpame che ci viene ammanito quotidianamente. Che non è neanche oppio della storia: è una droghetta, mariuana». Problema: come contrastare tutto questo? «Secondo me si tratta di una battaglia culturale, intellettuale, scolastica, educativa, dovunque ci siano spazi di libertà di parola. Perché le forze politiche nate sull’onda del Novecento sono arrivate al lumicino. Si è realizzato in forme diverse, nei vari paesi, quello che Gramsci aveva intuito sviluppando in modo originale certe formulazioni del pensiero elitistico tardo-ottocentesco, come quello di Pareto e dello stesso Croce: che cioè siamo in una realtà di partito unico articolato, diversificato al proprio interno ma sostanzialmente unico». Le conquiste sociali del movimento operaio, tradotte in Costituzioni? Finite, con l’espulsione della forza operaia dalla storia politica. «Quel che resta fa un’altra cosa, fa quello che tradizionalmente fanno i partiti nei regimi capitalistici, cioè i comitati di affari della borghesia – giustamente divisi tra loro, altrimenti l’inganno elettorale non funzionerebbe».Durissimo il giudizio su Renzi: «Il liquidatore del comunismo italiano è già arrivato. E’ un gaglioffo di 40 anni che sta facendo la parte sua e, localmente, sta attuando il piano di Gelli di “Rinascita democratica”, cioè due partiti sostanzialmente equivalenti che si dividono il potere». Non che gli altri scenari europei non sono molto diversi: la Spd, un tempo leader della socialdemocrazia, «è ormai lo sgabello della Merkel e non può fare altro, perché da sola non ce la farà più: prendiamone atto e cerchiamo di capire se si intravedono altre possibilità». Luciano Canfora guarda al potenziale intellettuale mobilitabile dal «magma gigantesco del mondo della scuola», perché per fortuna «tutto questo sviluppo ha prodotto un’acculturazione di massa, magari scandente ma diffusissima, e con un inevitabile bisogno di capire». Quindi, «tutti quelli che hanno a che fare con quel mondo si rimbocchino le maniche e cerchino di portare chiarezza».Troppe volte dato per morto, a livello mondiale il capitalismo è appena cominciato: lo dimostra il boom dell’economia capitalistica in tre quarti del pianeta, in regioni – a partire da Russia e Cina – in cui l’economia era stata lungamente rurale o comunque arretrata. Lo sostiene un insigne storico italiano come Luciano Canfora, che avverte: il grande capitale ormai «governa direttamente», facendo a meno della mediazione politica, delle Costituzioni da difendere, dei principi fondamentali. Comandano i grandi banchieri: «Se si fidano del personale che hanno al proprio servizio lo lasciano fare, altrimenti i capitalisti intervengono direttamente». E’ già successo in Francia con Pompidou, dopo la parentesi bonapartistica di De Gaulle. Oggi il denaro la fa da padrone e la democrazia è diventata una scatola vuota: e l’esperienza del socialismo reale, che nessuno rimpiange, può essere rivista come un tentativo per mettere un argine al predominio del business come unico potere. Ma l’Urss cadde perché non seppe risolvere le diseguaglianze al suo interno. E sottovalutò la vitalità del capitalismo.
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Gorbaciov: fame e ingiustizia non si curano con la guerra
Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si sfferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».Per Gorbaciov è venuta meno la fiducia reciproca, grazie alla quale fu possibile metter fine all’incubo nucleare della guerra fredda, «quella fiducia in assenza della quale le relazioni internazionali nel mondo globale risultano inconcepibili». Gli anni ‘90 dovevano portare a una nuova Europa e a un ordine mondiale più sicuro? «Ma invece di costruire nuovi meccanismi e nuove istituzioni a tutela della sicurezza europea, e di inseguire una decisiva smilitarizzazione della politica europea – cosa che per inciso era stata promessa nella Dichiarazione di Londra della Nato – alla fine della guerra fredda l’Occidente, e in particolar modo gli Stati Uniti, dichiararono vittoria». Peggio: «L’euforia e il trionfalismo diedero alla testa dei leader occidentali: approfittandosi dell’indebolimento della Russia, e dell’assenza di un contrappeso, proclamarono il proprio monopolio della leadership e del dominio del mondo, rifiutandosi di ascoltare gli inviti alla cautela». Alla crisi in Ucraina si è arrivati per gradi, attraverso l’allargamento della Nato, i nuovi piani missilistici, le guerre in Iraq, Libia e Siria. Chi paga più di tutti? «L’Europa, la nostra casa comune».«Invece di diventare un leader del cambiamento nel mondo globale – sostiene Gorbaciov – l’Europa si è trasformata in un’arena di sconvolgimenti politici, di competizione fra sfere d’influenza e, infine, di conflitto armato. Inevitabilmente, la conseguenza di tutto ciò è l’indebolimento europeo, proprio nel momento in cui altri centri di potere e d’influenza stanno crescendo. Se va avanti così, l’Europa perderà la possibilità di far sentire con forza la propria voce nelle questioni internazionali, finendo col diventare gradualmente sempre più irrilevante». Minaccioso e pericoloso il degradarsi della partnership russo-tedesca, senza la quale «in Europa non può esserci sicurezza». Come uscirne? «L’esperienza degli anni ‘80 dimostra che, anche in situazioni apparentemente disperate, ci dev’essere una via d’uscita», dal momento che «la situazione in cui il mondo si trovava allora non era né meno urgente né meno pericolosa di quella in cui si trova oggi». Quello che allora salvò il mondo fu il dialogo, oggi praticamente scomparso: persono Mitterrand e la Thatcher riuscirono ad accettare la riunificazione della Germania, che temevano.Prima regola: tornare a parlarsi, come sembrano suggerire gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco e sul disimpegno militare in Ucraina, ma anche gli accordi trilaterali sul gas fra Russia, Ucraina e Ue, e la stessa sospensione dell’escalation delle sanzioni reciproche. «In questo contesto – aggiunge Gorbaciov – vi invito a prendere attentamente in considerazione le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin durante il Forum di Valdai. Nonostante la durezza delle sue critiche nei confronti dell’Occidente, e in particolar modo degli Stati Uniti, nel suo discorso intravedo il desiderio di trovare il modo per abbassare il livello di tensione, e in ultima analisi di costruire delle nuove basi per una partnership». Due gli obiettivi: cooperazione nelle sfide globali e sicurezza paneuropea. «I problemi globali – terrorismo ed estremismo, incluso quello di natura settaria; la povertà e la disuguaglianza; l’ambiente, il problema delle risorse, e le migrazioni; le epidemie – stanno tutti peggiorando ogni giorno. Per quanto diversi essi siano fra loro, c’è un tratto che li accomuna tutti: nessuno di questi richiede una soluzione militare. Eppure i meccanismi politici necessari a risolverli mancano, o risultano disfunzionali. Le lezioni di una crisi globale continua dovrebbero convincerci della necessità di cercare un nuovo modello che garantisca sostenibilità politica, economica e ambientale. Questo è un problema che dev’essere affrontato adesso, senza ulteriori ritardi».Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si afferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».
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Orsi: è ufficiale, l’Italia in rottamazione non è più salvabile
Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».«Per sfuggire a questa trappola ci sono due possibilità: svalutare la moneta o fare default. Non disponendo di una valuta nazionale, l’Italia non può controllare la prima opzione: quindi, se non ci saranno cambiamenti realmente significativi in tempi brevi, il default sovrano diverrà lo scenario più probabile». Sul piano tecnico è obiettivamente difficile stabilire, per qualsiasi paese, una soglia massima oltre la quale il default diventa “matematicamente inevitabile”. Basti pensare al Giappone che, nonostante un rapporto debito/Pil al 230%, è ancora considerato un creditore solvibile. Nel caso dell’Italia, la mancanza di una moneta nazionale complica però le cose. Evans ritiene comunque che «il debito pubblico italiano raggiungerà un livello pericoloso il prossimo anno». Pericoloso al punto che «potrebbe essere superato il punto di non ritorno». L’articolo di Münchau è il più esplicito e allarmistico: «La posizione economica dell’Italia è insostenibile e sfocerà in un default a meno che non vi sia un’immediata e duratura inversione di tendenza sul piano economico». E un default, naturalmente, «comprometterebbe il futuro del paese nell’Eurozona e l’esistenza stessa della moneta unica».I tre pezzi, scrive in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” il professor Roberto Orsi (London School of Economics e Università di Tokyo) potrebbero essere considerati come l’inizio di un’offensiva mediatica indirizzata alla Bce per forzarla ad adottare politiche monetarie espansive simili a quelle della Fed, della Bank of Japan e della Bank of England: un intervento che tutti e tre gli autori auspicano, insieme alla realizzazione di ampie riforme politico-economiche. Queste osservazioni vanno inoltre lette tenendo a mente che le previsioni di crescita dell’economia italiana dal 2011 a oggi sono state sistematicamente smentite. Quanto al 2015, il rallentamento dell’Eurozona e le correzioni attese sui mercati finanziari internazionali rendono ben poco verosimili le stime di aumento del Pil formulate dal nostro governo. I tre analisi invocano le famose riforme strutturali? La natura e la portata delle riforme finora proposte (Senato, pubblica amministrazione, giustizia, scuola, legge elettorale) dimostrano che l’Italia «manca delle fondamenta», scrive Orsi, secondo cui «tutto questo discutere di riforme è una pura e semplice illusione».La tempistica italiana è eterna: nei sei anni successivi al crollo di Lehman Brothers, osserva Orsi, è stata portata a termine una sola riforma strutturale, la drammatica riforma Fornero (pensioni) firmata dal governo Monti, anche perché «l’ordine costituzionale vigente (e la cultura politica sottesa) combina un potere esecutivo debole a un potere legislativo frammentato, con una pletora di autorità e poteri di veto incrociati che finiscono per paralizzare il sistema». E se anche le riforme annunciate fossero realizzate nei tempi previsti, il loro impatto sarebbe sufficiente a evitare il collasso del sistema-paese? Il mondo è cambiato: prima la super-globalizzazione del 2007 e poi il crack di Wall Street del 2008. «In Italia questo contesto sfugge, e si discute a vuoto su questioni quali l’abolizione dell’articolo 18 senza considerarne l’ormai sostanziale irrilevanza in un mondo lavorativo dominato dai contratti “flessibili” e dalla disoccupazione». Quanto alle “riforme” evocate da Renzi e dei poteri forti – Bce, Troika Ue, finanza – restano sfocate. Quando Münchau scrive che «l’Italia ha bisogno di modificare il proprio sistema legale, ridurre le tasse e migliorare la qualità e l’efficienza del settore pubblico», secondo Orsi offre certamente «consigli ragionevoli e condivisibili, ma troppo generici. Quali regole potrebbero funzionare? Come dovrebbero essere attuate? Ci sono i presupposti perché ciò accada? Quali ostacoli andrebbero superati?».Riguardo poi al suggerimento di «cambiare l’intero sistema politico», ciò appare impossibile a meno che non si sostenga la rottura della continuità costituzionale e l’ascesa di un “dispotismo illuminato” come quello che contraddistinse le riforme Stein-Hardenberg nella Prussia del primo Ottocento, rileva Orsi. «Il “consenso di Washington” è ormai in declino, e oggi non ci sono chiare indicazioni sulle politiche che potrebbero garantire condizioni economiche migliori a un determinato paese. Questo ci conduce al più generale problema dell’inadeguatezza dei modelli socio-economici oggi dominanti, il “neo-keynesiano” e quello fondato sull’austerità. E, andando ancora più a fondo, ci porta a constatare quanto poco utile sia pensare ancora nei termini “positivistici” propri di paradigmi e modelli economici – come se il governo dell’economia potesse essere completamente de-politicizzato». L’ansiosa ricerca di una soluzione definitiva e “scientificamente corretta” ai problemi economici «tradisce un implicito anti-intellettualismo e una drammatica carenza di leadership da parte delle élite politiche». Al riguardo, aggiunge Orsi, è sintomatico il paradosso implicito nell’aver trasferito il problema della “guida” sulle spalle dei banchieri centrali, figure tecniche originariamente de-politicizzate.A oggi, le proposte di riforma avanzate dai governi italiani sono «prive di una chiara logica e idonee a produrre effetti in tempi troppo dilatati». Per lo più derivano da «dottrine neo-liberal ormai superate». Visione del futuro? Non pervenuta. Dell’Italia non resta altro che l’astrazione contabile del Def, puro e semplice documento di bilancio finanziario e fiscale. «Lavorare e accettare pesantissimi sacrifici per migliorare uno Stato così concepito non ha molto senso». Vere riforme, serie ed eque, ben diverse da quelle finora proposte? «Arriverebbero comunque troppo tardi: il paese è esausto e si trova sull’orlo di un’irreversibile implosione demografica, economica e sociale». Per Orsi, «le riforme dovevano essere fatte vent’anni fa, quando il contesto nazionale e globale era molto più favorevole e si dovevano introdurre i cambiamenti necessari per accedere all’Eurozona ancora in gestazione. Al punto in cui siamo oggi, le riforme potrebbero addirittura essere tanto pericolose quanto l’immobilismo, spingendo il paese verso un’ulteriore destabilizzazione: la Francia del 1789 e l’Unione Sovietica degli anni Ottanta sono solo due esempi storici di come il tentativo di introdurre riforme fuori tempo massimo possa innescare il crollo del sistema che si vorrebbe salvare».L’articolo di Münchau menziona esplicitamente la parola “default”. Anticipare ciò che è probabile (o inevitabile) che avvenga in futuro, scrive Orsi, è un vecchio espediente: la verità fa meno male quando diventa manifesta e ineludibile. «Dovrebbe essere chiaro che l’Italia, a questo punto, non può più essere salvata. La perdita di capacità industriale è irreversibile, e il debito pubblico continuerà a crescere fino a quando non si renderà necessaria una qualche forma di ristrutturazione». Il blogger Stefano Bassi ipotizza un progressivo “smantellamento” del paese, mirato a trasferire l’ancora ingente patrimonio privato degli italiani verso il debito pubblico secondo la logica dei vasi comunicanti. I “mercati” potrebbero cambiare la propria percezione di rischio nei confronti dell’Italia e agire di conseguenza, innescando la speculazione al ribasso e il panico. Lo scenario di un’implosione controllata e a lungo termine dell’Italia (e, in prospettiva, di molti altri paesi europei, Germania inclusa) è realistico solo se accompagnato da una parallela strategia di “manipolazione monetaria” della Bce, da cui dipende la sopravvivenza dell’euro. La Germania però resta inflessibile – niente espansione monetaria – e per contro «non ci sono garanzie sul fatto che ciò che ha “funzionato” negli Usa e nel Regno Unito produrrebbe gli stessi effetti nell’Eurozona».Un nuovo accordo politico che sostituisca Maastricht potrebbe certamente essere raggiunto a livello europeo, dice Orsi, ma richiederebbe anni di lavoro e appare tutto sommato improbabile. Senza contare che è illusorio pensare che gli organi di governo dell’Ue e la dirigenza tedesca «abbiano in serbo idee migliori di quelle attuali». Sicché, «l’Italia potrà essere “tenuta a galla” artificialmente per un periodo di tempo piuttosto lungo, ma non indefinitamente, perché nel frattempo l’economia reale continuerà a deteriorarsi e il rapporto debito/Pil continuerà ad aumentare». Nessuna speranza, all’interno dell’attuale struttura Ue. L’euro? «Non può certamente crollare dalla sera alla mattina, e la probabilità che l’attuale leadership politica e finanziaria annunci la fine della moneta comune è paragonabile a quella che un pilota informi i propri passeggeri di aver perso il controllo dell’aereo: semplicemente, non accadrà mai». Forse si può sperare nella graduale transizione verso un distema duale, a doppia moneta, che permetta di ridenominare i debiti nazionali. «In realtà, si tratterebbe del primo passo verso l’abbandono del sistema. Una strada accidentata, se vogliamo, ma preferibile all’esplodere di forze centrifughe difficilmente controllabili». Quanto all’Italia, per dirla con Bassi, «non ci sono soluzioni, e solo ammetterlo porterà a una soluzione».Tre articoli firmati da autorevoli commentatori come Ambrose Evans-Pritchard, Roger Bootle (entrambi del “Telegraph”) e Wolfgang Münchau (“Financial Times”) sono recentemente apparsi sulla stampa finanziaria: tema comune, la situazione economica dell’Italia e l’instabilità del suo debito pubblico. Le argomentazioni e le parole usate in questi contributi sono da soppesare con cura, perché potrebbero essere il segnale di un graduale riposizionamento degli operatori di mercato e dei “policy maker” nei confronti del debito sovrano italiano e delle conseguenze della sua attuale traiettoria per l’Eurozona – e non solo. Si tratta di un cambio di prospettiva che implica una prognosi tutt’altro che favorevole sulle possibilità di “guarigione” del nostro paese. Nei tre scritti si solleva una domanda fondamentale: cosa succederebbe se l’economia italiana continuasse a ristagnare (o a contrarsi) anche nel 2015-16? Bootle osserva che «l’Italia è molto vicina a quella situazione che gli economisti chiamano ‘trappola del debito’, quando cioè l’indice di indebitamento comincia a crescere in modo esponenziale».
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Craig Roberts: l’America mente sempre e ci distruggerà
L’atteggiamento aggressivo e insensato che i guerrafondai di Washington continuano a tenere nei confronti di Russia e Cina ha frantumato la costruzione geopolitica messa in atto da Reagan e Gorbaciov. Reagan e Gorbaciov alla fine alla guerra fredda bandirono la minaccia di un Armageddon nucleare. Ora i neocon, tutto l’apparato militare Usa – bilancio-dipendente – (che vivono sulle spalle dei contribuenti), tutto il complesso degli organi di sicurezza, e i politici americani – dipendenti da fondi elettorali versati dall’apparato militare e da quello della sicurezza – hanno resuscitato la minaccia nucleare. Il regime corrotto e doppiogiochista di Clinton, per primo, ruppe l’accordo che l’amministrazione di George Bush fece con Mosca nel 1990, quando Mosca acconsentì alla riunificazione della Germania che diventò membro della Nato e in cambio Washington convenne che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato verso est. Gorbaciov, il segretario di Stato americano James Baker, l’ambasciatore degli Usa a Mosca Jack Matlock e tutti i documenti declassificati testimoniano il fatto che a Mosca fu assicurato che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato in Europa Orientale.Nel 1999 il presidente Bill Clinton sbugiardò l’amministrazione del presidente George Bush e il corrotto Clinton fece entrare Polonia, Ungheria e la neonata Repubblica Ceca nella Nato. Anche il presidente George W. Bush sbugiardò di fatto suo padre George H.W. Bush e il segretario Stato di suo padre, James Baker. “Dubya”, il ben noto imbecille-ubriacone, nel 2004 fece entrare Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania nella Nato, e il regime corrotto e disperato di Obama ha aggiunto l’Albania e la Croazia nel 2009. In altre parole, nel corso degli ultimi 21 anni, tre presidenti degli Stati Uniti in carica per due mandati hanno insegnato a Mosca che la parola del governo degli Stati Uniti non ha nessun valore. Oggi la Russia è circondata da basi militari Usa e Nato, e altre arriveranno in Ucraina (che è stata parte della Russia per secoli), in Georgia (anche parte della Russia per secoli e paese natale di Stalin), in Montenegro, in Macedonia, in Bosnia-Erzegovina, e forse anche in Azerbaigian. Una grande distesa di terre che facevano parte dell’impero sovietico ora sono diventate parte dell’impero di Washington. L’“arrivo della democrazia” significava semplicemente “arrivo di nuovi padroni”.E’ sempre Washington che sceglie il burattino che sarà eletto segretario generale della Nato. L’ultimo è un ex politico e primo ministro norvegese, Jens Stoltenberg. Per ordine di Washington, il burattino ha messo subito le sue carte in tavola dicendo a Mosca che la Nato ha un esercito potente, che svolge il ruolo di polizia globale e che può essere dislocato ovunque voglia Washington. Affermazione questa in totale contraddizione con gli obiettivi e lo statuto della Nato. Igor Korochenko, membro del Consiglio del ministero della difesa russo, ha replicato al burattino-Stoltenberg: «Dichiarazioni di questo genere sono in contrasto con le norme del sistema di sicurezza internazionale, pertanto se la Nato dovesse rappresentare una minaccia per la Russia saranno prese misure sensibili». E le misure che possono essere prese, come rezione a una minaccia, non sono altro che quello che vi state aspettando: la disponibilità di tante armi nucleari da poter spazzar via Stati Uniti e Europa, parecchie volte.Quegli sciocchi arroganti di Washington, gongolandosi nella loro tracotanza da “nazione indispensabile”, hanno provocato Mosca fino al punto che ora la Russia ha uno schieramento di armi nucleari superiore a quello degli Stati Uniti. E’ questo il risultato che ha ottenuto Washington non mantenendo la parola data e mettendo basi missilistiche Abm sul confine della Russia: la Russia ha sviluppato un sistema di missili balistici intercontinentali supersonici che possono rapidamente cambiare traiettoria e non possono essere abbattuti da nessun sistema di difesa missilistica. Naturalmente, le società americane che guadagnano miliardi di dollari vendendo un inutile sistema Abm a Washington, negheranno tutto. Inoltre, paesi, come la Polonia, i cui governi sono tanto stupidi da accettare le basi Abm degli Usa, sarebbero annientati ancor prima di far funzionare quelle basi stesse. La stupidità dell’Europa orientale, o meglio dei governi-comprati-e-pagati per far sembrare credibile la politica di Washington sarà probabilmente la causa principale della “WW-III”, la Terza Guerra Mondiale. Chi sarà contento di entrare nel nuovo Armageddon è il complesso militare della sicurezza americana, una banda di avidi bastardi – composto da imprese “private” sovvenzionate solo da fondi pubblici, che pensano solo ai soldi, senza preoccuparsi del costo potenziale in vite umane.Il loro portavoce al Senato degli Stati Uniti, Jim Inhofe, membro della sottocommissione per le forze strategiche degli “Armed Services”, ha resuscitato l’argomento – che si raccontava 60 anni fa – che l’America è in ritardo nella corsa agli armamenti. Infatti, ricominciare la corsa agli armamenti è essenziale per far aumentare i profitti del complesso militare della sicurezza Usa e per i contributi delle campagne elettorali dei senatori. Ma quegli scriteriati di Washington non hanno ricominciato a “sfruculiare” solo le forze strategiche nucleari della Russia, ma anche quella della Cina. L’anno scorso la Cina ha fatto circolare una descrizione pittoresca su come il nucleare cinese potrebbe distruggere gli Stati Uniti. Lo ha fatto come risposta al folle piano di Washington di costruire nuove basi aeree e navali dalle Filippine al Vietnam, per controllare il flusso commerciale nel Mar Cinese Meridionale. Quanto può essere idiota un governo americano che pensa che la Cina possa sopportare una interferenza di questo genere nella sua sfera di influenza?La Cina ora ha aggiunto al suo arsenale nucleare una nuova variante di uno dei suoi apparati mobili Icbm, ma Washington non sa molto su questo nuovo missile, forse perché la Cia è troppo occupata a organizzare le proteste di Hong Kong. Sia la Russia che la Cina erano soddisfatte di essere entrate a far parte dell’economia mondiale e di poter rendere migliore la situazione economica dei loro cittadini con lo sviluppo economico. Ma subito dopo sono arrivati i neocon con l’“Unipower – la Superpotenza”, un branco di psicopatici arroganti che dicono che Washington non permetterà a nessun altro paese, nemmeno a Russia e Cina, di assurgere al rango di paese che può esercitare una politica estera indipendente dagli obiettivi di Washington. La guerra nucleare è tornata in scena. Prima Washington minaccia tutti quelli che vede come possibili rivali, poi quando questi rivali non accettano di sottomettersi, Washington li demonizza. Nelle storia scritta dagli storici di corte di Washington, i più grandi demoni dei tempi moderni furono i governi di Giappone e Germania durante la Seconda Guerra Mondiale insieme al governo sovietico di Stalin nel dopoguerra. Questi storici di corte americani non conoscono i fatti.Il Giappone fu costretto alla guerra da Washington, che tagliò la via di accesso alle risorse del paese, che poi fu “nuked” due volte mentre il suo governo stava cercando di arrendersi. Tutte le promesse del presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson fatte alla Germania, per mettere fine alla Prima Guerra Mondiale, come ad esempio nessuna concessione territoriale e nessun risarcimento, furono tradite. La Germania fu smembrata e parti di territorio tedesco consegnate a Polonia, Francia e Cecoslovacchia. Nonostante questa promessa del presidente americano Woodrow Wilson, invece, il Trattato di Versailles impose delle spese di riparazione impossibili, tanto che il preveggente John Maynard Keynes dichiarò che le riparazioni si sarebbero tradotte in una seconda guerra mondiale. Se la memoria non m’inganna, altri appezzamenti di terre tedesche furono assegnati anche a Belgio, Lituania e Danimarca. Questa umiliazione per un popolo industrioso e potente, messa in atto da eserciti che alla fine della Prima Guerra Mondiale occuparono territori stranieri, dimostrò – già da allora – la falsità delle cosiddette “potenze occidentali”.Furono i francesi, gli inglesi, gli americani che spianarono la strada ad Adolf Hitler. Nel 1935 Hitler era abbastanza forte da denunciare il Trattato di Versailles e se Hitler non avesse avuto l’arroganza di mandare le armate tedesche a marciare nelle steppe della Russia, dove si distrussero da sole, oggi lui, o chi per lui, sarebbe ancora al potere in Europa. La vera storia è tanto diversa da quella che Washington finge di conoscere e che viene insegnata nelle scuole americane. La maggior parte degli americani è cieca e inconsapevole che Washington sta portando il mondo ad un passo dalla guerra. Se Ebola e il riscaldamento globale non riusciranno a distruggere l’umanità, a farlo saranno l’ignoranza del popolo americano e la guerra di Washington per l’egemonia mondiale.(Paul Craig Roberts, “Washington sta distruggendo il mondo”, da “Information Clearing House” del 7 ottobre 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).L’atteggiamento aggressivo e insensato che i guerrafondai di Washington continuano a tenere nei confronti di Russia e Cina ha frantumato la costruzione geopolitica messa in atto da Reagan e Gorbaciov. Reagan e Gorbaciov alla fine alla guerra fredda bandirono la minaccia di un Armageddon nucleare. Ora i neocon, tutto l’apparato militare Usa – bilancio-dipendente – (che vivono sulle spalle dei contribuenti), tutto il complesso degli organi di sicurezza, e i politici americani – dipendenti da fondi elettorali versati dall’apparato militare e da quello della sicurezza – hanno resuscitato la minaccia nucleare. Il regime corrotto e doppiogiochista di Clinton, per primo, ruppe l’accordo che l’amministrazione di George Bush fece con Mosca nel 1990, quando Mosca acconsentì alla riunificazione della Germania che diventò membro della Nato e in cambio Washington convenne che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato verso est. Gorbaciov, il segretario di Stato americano James Baker, l’ambasciatore degli Usa a Mosca Jack Matlock e tutti i documenti declassificati testimoniano il fatto che a Mosca fu assicurato che non ci sarebbe stata nessuna espansione della Nato in Europa Orientale.
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Della Luna: tutti i falsi dogmi che fanno la nostra rovina
E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».Nel suo blog, Della Luna offre un drammatico “inventario” dei dogmi su cui si fonda la falsa verità spacciata dal sistema. Prima favola, quella dei “mercati efficienti”, cioè liberi e trasparenti: moneta, credito, materie prime ed energia non sono oggetto di monopoli e di cartelli. I mercati «prevengono o correggono efficientemente le crisi e realizzano l’ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi», in più «abbassano i prezzi e le tariffe» e inoltre «puniscono gli Stati inefficienti e spendaccioni mentre premiano quelli efficienti e virtuosi». Di conseguenza, «la regolazione della politica va ultimamente affidata ad essi, non ai Parlamenti». Così si arriva al secondo dogma, quello della spesa pubblica concepita come zavorra: «La spesa pubblica è la causa dell’indebitamento pubblico, il quale a sua volta è la causa delle tasse, della recessione e dell’inefficienza del sistema». Obiettivo? Facile: «Tagliare la spesa pubblica come tale e affidare i servizi pubblici alla gestione del mercato, cioè alla logica del profitto».Tutto questo, in Europa, sotto il grande ombrello del terzo dogma, quello dell’integrazione europea: che è al tempo stesso «benefica, possibile e inevitabile». Dunque, chi la contrasta «si oppone a una tendenza naturale e storica, va contro la realtà e gli interessi di tutti». L’Europa quindi «legittimamente detta le regole a cui tutti devono adeguarsi». A cominciare dalla moneta unica, cioè il dogma dell’euro, valuta che «produce la convergenza delle economie europee, quindi sostiene l’assimilazione e l’integrazione tra i paesi europei, favorisce la crescita economica e la loro solidarietà». Bugia per bugia, ecco il quinto dogma: la preziosità e scarsità oggettiva della moneta, che «non è un simbolo prodotto a costo zero, ma è un bene, una commodity, con un costo di produzione che giustifica il fatto che coloro che la producono (come moneta primaria o creditizia), in cambio di essa, tolgano grandi quote del reddito a chi produce beni e servizi reali». Lo fanno anche grazie alla pretesa “indipendenza” della banca centrale, sesto dogma: la banca centrale è indipendente dalla politica, dai governi e dai Parlamenti. «Non è vero che renda la politica dipendente dai banchieri, bensì assicura al paese un’adeguata disponibilità di liquidità e di credito, previene le bolle speculative e le crisi bancarie».Il settimo dogma è quello della contrazione salariale: «Se si riducono i salari e i diritti dei lavoratori, se si rende liberi i licenziamenti e impraticabili gli scioperi, allora i costi di produzione calano, l’economia diventa più competitiva, la disoccupazione viene riassorbita, gli investimenti aumentano e diventiamo tutti più ricchi, e non è vero che la domanda interna cali». Il lavoro scarseggia ma l’immigrazione aumenta? Nessun problema, perché l’immigrazione – ottavo dogma – è sempre benefica: «Va accolta anche sostenendo grosse spese», perché ormai «è indispensabile per compensare l’invecchiamento e il diradamento della popolazione attiva, quindi per sostenere il sistema previdenziale e per coprire i molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano; non è vero che tolga posti di lavoro agli italiani, che faccia loro concorrenza al ribasso sui salari, che serva come manovalanza alle mafie, che comporti un apprezzabile aumento della criminalità e dei costi sanitari o assistenziali».Carattere comune di questo catechismo propagandistico, continua Della Luna, è la censura: l’occultamento dei conflitti di interesse e di bisogni, e ancor più della lotta di classe in atto. Il primo conflitto oppone la «classe globale finanziaria, improduttiva, parassitaria e speculatrice» alle classi produttive dell’economia reale, «legate ai loro territori e sempre più private di potere», di istituzioni democratiche nonché di quote di reddito, «in favore delle rendite finanziarie», attraverso «una serie di riforme del sistema finanziario, del diritto del lavoro e delle Costituzioni», e anche attraverso «i trattati internazionali come quelli europei e come il Wto, che modificano dall’esterno le Costituzioni». Forte, in Italia, il conflitto di interessi tra Nord e Sud, con risorse trasferite verso «alcune regioni meridionali, onde tenere unito il sistema paese». Terzo conflitto negato, quello dei bisogni oggettivi tra paesi manifatturieri come Italia e Germania, «nel quale la Germania ha interesse a tenere l’Italia entro una moneta comune per togliere all’Italia il vantaggio di una moneta più debole, quindi di una maggiore competitività rispetto alla Germania, così da prendere anche sue quote di mercato».Poi c’è il conflitto di bisogni oggettivi tra paesi creditori, come la Germania, e paesi debitori, come l’Italia: «I tedeschi, essendo detentori di crediti sia personali, previdenziali, da investimento, sia anche pubblici, sono interessati a mantenere forte il ricorso della valuta in cui quei crediti sono denominati, cioè l’euro». Da qui «l’esigenza di tenere stretti i cordoni della borsa, cioè di far scarseggiare la moneta» per tenerne alto il costo. Per contro, «l’Italia e gli italiani, essendo indebitati e avendo i loro investimenti perlopiù in immobili, hanno bisogno di una moneta meno forte». Quinto conflitto oscurato: quello tra paesi in recessione, che hanno bisogno di politiche monetarie espansive, e paesi in crescita, che hanno bisogno di politiche monetarie restrittive. Poi ci sono paesi ad economia manifatturiera-trasformatrice e paesi ad economia basata sui servizi finanziari e il commercio, come il Regno Unito. «Tutti conflitti che rendono dannosa l’unione monetaria, o meglio che fanno sì che la politica monetaria faccia gli interessi del paese più forte dentro di essa (la Germania) a danno dei paesi meno forti».Gli ultimi due conflitti d’interesse sono fortemente paralleli. Un conflitto classico oppone gli imprenditori ai lavoratori: «I primi hanno interesse a togliere ai lavoratori quanto più possibile forza negoziale e capacità di resistenza, di sciopero, oltre che di salario». L’altro grande conflitto, ormai dilagante, vede da una parte i cittadini-utenti e dall’altra i monopolisti (o al massimo oligopolisti) dei servizi pubblici: «Questi ultimi hanno interesse a imporre tariffe sempre più alte in cambio di servizi sempre più scarsi, onde massimizzare i loro profitti; da qui la privatizzazione sistematica di tali servizi». I pochi che, da sinistra, contestano il trend neoliberista in chiave socialista, spesso «dimenticano che il settore pubblico spende in modo inefficiente e molto condizionato dalla criminalità burocratica, partitica, mafiosa», senza trascurare il «cattivo sindacalismo» che ha incoraggiato «una mentalità e una prassi parassitarie e improduttive», squalificando la pur sacrosanta difesa dei diritti del lavoro, quelli che il neoliberismo oggi confisca.Grazie al mainstream politico e mediatico, «il complesso di dogmi e nascondimenti è stato costruito come senso comune socio-economico, cioè come percezione comune e condivisa della realtà». Proprio questo, scrive Della Luna, «consente a una classe globale parassitaria di perfezionare la spoliazione dei diritti e dei redditi delle altre classi, facendola apparire come espressione naturale di leggi impersonali del mercato, e non come una guerra di classe», come se la storia del genere umano non fosse nient’altro che «una competizione assoluta e totale tra individui per la conquista della ricchezza e del potere». Ideologia del “mercatismo”, individualismo di massa: «Ciascuno è solo davanti allo schermo, davanti alle tasse, davanti alle banche, davanti ai problemi di salute, vecchiaia, disoccupazione». Ognuno è solo «soprattutto davanti a un sempre più impersonale e grande datore di lavoro», e si scopre «senza diritti comuni, senza solidarietà e garanzie».Si vive in un mondo «dove tutto è merce e prestazione, dove la vita è riconosciuta solo come scambio di valori commerciali, dove tutto è quantificato in debiti e crediti, dove è proibito agli Stati persino introdurre tutele alla salute pubblica, se queste possono limitare il profitto delle corporations (norme del Wto e del Ttip)». Lavoro autonomo, piccole imprese, professionisti indipendenti? Tutti «vessati e costretti a cedere il campo o a confluire in grandi aziende», mentre i lavoratori dipendenti «sono impossibilitati a conservare i propri diritti, conquistati con dure e lunghe lotte, dalla scelta politica di mantenere il sistema economico, attraverso la pratica dell’austerità (della anemizzazione monetaria), in una condizione di diffusa disoccupazione e precarietà che, combinata col diritto al libero licenziamento e demansionamento dei lavoratori, priva questi di ogni potere di lotta e contrattazione, rendendo pressoché impraticabile lo sciopero».E’ un modello socio-economico «che viene costruito metodicamente, anche a livello legislativo e costituzionale, nazionale ed europeo, dalle nostre élites», denuncia Della Luna, indicando in Italia «la staffetta dei governi Berlusconi-Monti-Letta-Renzi (sotto la guida dei banchieri centrali e la locale regia di Giorgio I». E’ un modello “markt-konform”, «conforme e ideale per le esigenze del mercato, del capitale e del profitto», ma incompatibile con «le esigenze psicofisiologiche dell’essere umano, inteso sia come individuo che come famiglia, che come comunità sociale». Esigenze che comprendono «una prospettiva stabile per la progettazione e l’impostazione della vita, per la procreazione e l’educazione della prole», ma anche «ambiti di non-mercificazione e di non-competitività», con in più «la garanzia di una dimensione pubblica sottratta alla logica del profitto finanziario». L’Interesse Pubblico, estirpato dalle riforme neoliberiste degli ultimi decenni.Lo spettacolo attuale è desolante: generazioni di giovani senza lavoro o costretti ad accettare salari precari e irrisori, da contendere ai colleghi-coetanei in una spietata gara al ribasso. «E quando iniziano a invecchiare e non riescono più a tenere il ritmo, sono fuori». La prospettiva della pensione? Diventa un miraggio. Nessuna speranza, se a decidere saranno gli yes-men di cui si circonda Renzi. Nessuno che si possa opporre alla “voce del padrone”: «Se guardiamo alla storia, vediamo sempre, solo e dappertutto società che non si gestiscono dal loro interno per i loro interessi, ma sono gestite da padroni (oligarchie) esterni, che perseguono il duplice obiettivo di rinforzare il loro dominio sulla società e di intensificare lo sfruttamento di essa». Tecnologia e globalizzazione, accentramento planetario degli strumenti di controllo: oggi l’élite piò spingersi oltre ogni limite, sottoponendoci a tensioni altissime. Un giorno, però, la corda si spezzerà: «I vari sistemi di dominazione, nel corso dei secoli, si sono rotti tutti, prima o poi». Qualche fattore fa sempre saltare il gioco, conclude Della Luna. E paradossalmente, oggi più che mai, «la più concreta ragione di speranza del genere umano sta proprio in questo, ossia nel fatto che finora tutti i tentativi umani di soggiogare definitivamente l’umanità siano falliti, si siano rotti. Speriamo quindi nel caos, che vinca ancora e presto, nonostante la tecnologia».E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».