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Magaldi: il coraggio di una vera rivoluzione per il XXI secolo
Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.Coraggio che manca ai nostri politicanti di oggi, tutti preoccupati di abbaiare e di litigare per avere qualche percentuale irrisoria in più alle elezioni europee. Ma poi – una volta al potere – si limitano a vegetare, facendo i propri affari, dimenticandosi di quello che avevano promesso per raccogliere il consenso elettorale. Palme e Sankara sono stati assassinati quando il neoliberismo non voleva ostacoli davanti a sé, nemmeno ideologici, e men che meno da parte di statisti influenti e capaci di bloccare quello che doveva accadere all’inizio degli anni ‘90. Oggi, soffiare sul fuoco della violenza per fermare una rivoluzione anti-neoliberista non appare più una soluzione percorribile, per tante ragioni. C’è ormai una platea di cittadini, in Italia e nel mondo, che vedono ormai con chiarezza quello che non funziona. Tutti i politici che parlano di cambiamento, e poi si dimostrano essere dei bluff, ci mettono poco a essere sbugiardati dal corpo elettorale.Paolo Becchi, già ideologo dei 5 Stelle, oggi – con il libro “Italia sovrana” – si presenta come ideologo di un nuovo sovranismo, interessante nella sua declinazione intellettuale: la contrapposizione tra globalismo e sovranismo. Ma una volta scelto il sistema, globale o nazionale, poi tutto cambia se viene gestito con presupposti neoliberisti o keynesiani, post-democratici o democratici, liberal-conservatori o social-liberali. Di quale ideologia e cultura politica vogliamo nutrire il nostro futuro, nel XXI secolo? Quella dell’inganno neoliberista, secondo cui socialismo e liberalismo sono antitetici, e quella dell’inganno neoaristocratico, secondo cui basta servire su un piatto ai cittadini la ritualità della democrazia, dimenticando la sostanza? Oppure vogliamo richiedere un’idea equilibrata di gestione delle nostre società, nella quale il libero mercato e lo stesso capitalismo non siano demonizzati, ma trovino una complementarità nelle istanze sociali, cioè in un socialismo che è fatto di integrazioni, contrappesi e di una ritrovata autorevolezza di ciò che è pubblico?Pubblico e privato non sono antitetici. La narrazione neoliberista è stata all’insegna della svalutazione di ciò che è pubblico e statuale, della lentezza dei processi democratici rispetto all’esigenza di trattare la cosa pubblica come un’azienda che produce efficienza e profitti. Il mondo della libera impresa, che è storicamente collegato all’affermarsi delle democrazie, è un mondo diverso da quello della sfera pubblica, dove il core business non è la produttività in senso economicistico, bensì quella rete di servizi sociali, civili e materiali, infrastrutturali, che consente lo sviluppo di una vita felice, equilibrata. Le istituzioni pubbliche sono adatte a offrire un’uguaglianza delle opportunità, distinguendosi così dalle (giuste) leggi competitive del libero mercato. Le istituzioni pubbliche parlano di cooperazione, non di competitività.Il Movimento Roosevelt intende offrire un orizzonte ideologico nuovo, da abitare, per i cittadini del XXI secolo. Serve una rivoluzione culturale, perché non basta una semplice riforma dell’esistente. C’è bisogno di affrontare, pacificamente ma in modo deciso e forte, tutta una serie di poteri che non gradiscono questa conversione verso la democrazia sostanziale. La globalizzazione in atto è un processo che offre, piano piano, una disabitudine alla democrazia. E le contrapposizioni violente – su scala locale e internazionale – servono proprio a impedire un approccio di pace e armonia sociale. Quelli come noi vogliono costruire un orizzonte di eliminazione del conflitto sociale, attraverso una compesazione per le diseguaglianze prodotte dal mercato: va bene la disparità generata dal merito individuale, ma in cambio bisogna offrire a tutti i cittadini del globo gli elementi di base che consentono di avere un progetto di vita dignitoso. E’ una cosa che sembra semplice, ma in realtà oggi è rivoluzionaria. Esiste una nuova ideologia, il socialismo liberale, declinabile anche da angolazioni politiche diverse. E l’Italia può fare con orgoglio quello che ha già fatto nei secoli passati: offrire per prima una pietanza politico-culturale e ideologica agli altri popoli, agli altri paesi.Dall’Italia sono sempre partite le primizie – buone e cattive – che poi hanno influenzato il resto del mondo: la civiltà giuridica promana da Roma, l’universalismo giuridico viene dall’Italia romanizzata. E non dimentichiamo la lezione del Rinascimento, una sorta di manifesto ideologico-culturale che diventò poi storia concreta, trasformando le istituzioni e il modo stesso di concepire la realtà. Quel grande italiano che fu Giovanni Pico della Mirandola, con la “Oratio de hominis dignitate” costruì una nuova antropologia: l’antropologia dell’uomo artista, mago e scienziato, che non si limita a chinare il capo come creatura peccaminosa, bisognosa di redenzione, che quindi non ardisce conoscere e mettersi in rapporto dialettico con la natura. Da lì nasce l’idea dell’uomo che può trasformare le cose – la società, la natura stessa. Poi c’è il Risorgimento: i nostri eroi risorgimentali erano presi a modello in tutto il mondo, da popoli che anelavano all’autodeterminazione.C’è stato anche il fascismo, naturalmente: altra primizia italiana. Una dottrina post-democratica e di fatto neoaristocratica, tuttavia affascinante per i tanti che si lasciarono influenzare da quella che – per me, che sono fieramente democratico – non è che una perversione. Siamo orogliosi di essere italiani, senza che questo ci spinga a pensare che abbia davvero un futuro la contrapposizione tra sovranismo e globalismo. Sto molto apprezzando il libro di Paolo Becchi, “Italia sovrana”, e il senso in cui lui parla di sovranismo. Però credo che la sfida vera sia quella di “glocalizzare” la democrazia, uscendo da questo film che contrappone i nazionalismi alle oligarchie globali, come se globalizzare i rapporti fosse per ciò stesso sinonimo di diminuzione della democrazia. Io credo piuttosto che si possano globalizzare anche i diritti universali. Ma come fare, se non si ha una visione globale di questi diritti, e se ciascuno si preoccupa soltanto di recuperare la sovranità del proprio Stato e del proprio popolo?Alla fine, questo è un nazionalismo non aggressivo, teso a sottrarre alle oligarchie apolidi il controllo della moneta, dell’economia, della società e delle istituzioni. Ma come possiamo però immaginare un XXI secolo in cui non ci curiamo di tanti territori, dove le popolazioni non sono mai nemmeno passate per processi democratici?In fondo, anche il processo risorgimentale italiano metteva insieme più Stati e staterelli coi propri usi, tradizioni, dialetti e lingue. Eppure c’era un sentimento di italianità che univa tutti. Ma la lingua italiana era quasi artificiale, creata per unire popoli che parlavano lingue diverse, e si è affermata definitivamente solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie alla Rai. Il Movimento Roosevelt è convinto che l’Italia possa insegnare molto a molti, e che l’orgoglio patriottico (non nazionalistico) del nostro paese possa essere un fattore coesivo, per una proposta politico-culturale convincente.(Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella video-chat su YouTube del 6 maggio 2019. Presidente del Movimento Roosevelt, Magaldi ripercorre le tappe di quella che chiama “rivoluzione rooseveltiana”: dopo il convegno a Londra il 30 marzo sul New Deal keynesiano di cui avrebbe bisogno l’Europa, è seguita l’assise milanese del 3 maggio sul socialismo liberale, in omaggio a Rosselli, Palme e Sankara. Il 14 luglio, a Roma, lo stesso Magaldi sarà tra i promotori del “Partito che serve all’Italia”, cantiere politico per offrire un’alternativa agli elettori, superando le timidezze del governo gialloverde, incapace di opporsi al paradigma neoliberista del rigore Ue).Da Berlusconi in avanti, passando per Monti e soprattutto per Renzi, sono tutti piuttosto bravini a raccogliere il consenso, ma poi non sanno che farne: per impiegarlo in modo utile, e soprattutto mantenerlo, bisognerebbe operare con coraggio in direzioni precise – e questo non accade. Se oggi si può avere coraggio senza rischiare la vita, come invece Olof Palme e Thomas Sankara, è perché si è seduti sulle spalle di questi giganti: loro sono stati assassinati, ma le loro idee sono qui, pronte per essere usate. Un governo italiano che avesse davvero coraggio e determinazione dovrebbe dire, agli altri paesi e alle istituzioni Ue: in democrazia si parte da una Costituzione e da politiche unitarie, e questo oggi in Europa non c’è. Quindi: o avviamo una fase costituente di questo tipo, tenendo conto del fatto che il modello dell’austerità neoliberista ha fallito miseramente, oppure – se i partner non ci stanno – l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei e inizia a organizzare in modo diverso la propria società, auspicando in tutte le sedi possibili un processo costituzionale e federativo. Non è molto difficile né da dire né da spiegare alla pubblica opinione. Per farlo, però, bisogna appunto avere quel coraggio che hanno avuto personaggi come Rosselli, Palme e Sankara.
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Magaldi: Lunga Marcia, per la rivoluzione che serve all’Italia
«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.Esponente del network massonico progressista internazionale, Magaldi ha dato alle stampe nel 2014 il saggio “Massoni”, in cui si svela il ruolo decisivo di 36 superlogge occulte, sovranazionali, nel back-office del potere mondiale. Nel 2015 ha creato il Movimento Roosevelt, entità meta-partitica con una missione precisa: indurre la politica a recuperare la sovranità democratica, costringendo l’oligarchia massonica che domina l’Ue a rivedere le regole dell’austerity. Ora, l’agenda del gruppo si infittisce di impegni pubblici. Dopo Londra, Milano: ci sarà anche Paolo Becchi tra i relatori dell’assise che – omaggiando la memoria civile e politica del socialismo liberale attraverso le figure di Rosselli, Palme e Sankara – sfiorerà anche un altro grande, l’economista italiano Federico Caffè, misteriosamente scomparso a Roma nel 1987. «La sua sparizione – spiega Magaldi – è direttamente connessa con gli omicidi di Palme e di Sankara». Caffè era il cervello dell’economia keynesiana europea, poi travolta dal neoliberismo: un uomo scomodo, da togliere di mezzo. Per Magaldi, il tempo dell’attesa è finito: il 14 luglio, a Roma, verrà costituito il “Partito che serve all’Italia”, cantiere di lavoro ormai in dirittura d’arrivo. Obiettivo: creare finalmente un’alternativa, che metta gli italiani in condizione di scegliere il proprio futuro, senza più soggiacere ai diktat devastanti dei poteri forti europei.«La politica è deludente anche perché i cittadini non si sono impegnati abbastanza, e hanno votato per i personaggi sbagliati, compiendo atti di fede etnico-tribali verso i gruppi dirigenti sbagliati», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «Se non sai fotografare bene il mondo, e analizzare in modo onesto e coraggioso le forze in campo, difficilmente potrai offrire una cura». Magaldi scommette sull’analisi proposta dal Movimento Roosevelt, e anche dal nascente “Partito che serve all’Italia”: «Credo che le persone coinvolte in questi progetti siano difficili da assimilare al deludentissimo ceto politico attuale». E insiste: «Ci prepariamo a fare – democraticamente, però – quello che ha fatto Mao Tse-Tung». Lunga marcia, per scuotere gli elettori. Il paesaggio da attraversare ovviamente non è la Cina, ma la palude italiana: da una parte i rottami dell’establishment della Seconda Repubblica, veri e propri “terminali” del vero potere europeo, e dall’altra il velleitarismo parolaio e inconcludente dei gialloverdi. «Il “governo del cambiamento” non sta cambiando granché, c’è troppa timidezza: è sterile nei risultati, al di là dei proclami».Cambiare il sistema dall’interno, come dice Salvini? E’ l’unica strada, conferma Magaldi: a gridare “no all’euro” e “no all’Ue” sono «gruppi marginalissimi, quindi ininfluenti». Contro Bruxelles e l’Eurozona, ieri, tuonavano anche la Lega e i 5 Stelle. «Una volta al governo, però, questi partiti non si sono preoccupati di radicalizzaere lo scontro, hanno invece attutito le proprie posizioni». Un programma serio? «Spiegare agli elettori che qualunque riforma o rivoluzione si fa “step by step”», attraverso passi concreti e progressivi. «I gialloverdi avrebbero dovuto cambiare il sistema dall’interno, iniziando – come sistema Italia – a proporsi come i riformatori della Disunione Europea attuale, contrastando i vincoli dell’Eurozona. Ma non l’hanno fatto». Trasformare l’Ue dall’interno, continua Magaldi, «lo si può fare se si è forti, se si è decisi ad affrontare quella che è una guerra politica». Gli avversari li conosciamo: «Si allineano ai tecnocrati e alle cancellerie più arcigne, nel difendere l’austerità infinita, e magari finanziano in modo occulto le posizioni più estremiste anti-euro, perché questo consente di non introdurre un dibattito serio».Lega e 5 Stelle dovrebbero passare dalle chiacchiere ai fatti, insiste Magaldi. «Non c’è partito oggi in Italia che non dica che Ue ed Eurozona andrebbero cambiate. Ma la domanda è: cosa state facendo, per cambiare le regole? Nulla». Osserva il presidente del Movimento Roosevelt: «Quello della Disunione Europea è un sistema post-democratico, ma l’Italia è ancora formalmente una democrazia, come gli altri partner Ue. Ed è proprio assumendo in pieno la sovranità democratica che si può mettere in crisi la post-democrazia Ue». Benissimo se la Lega vuol ripristinare l’elezione diretta degli amministratori delle Province, riavvicinando i cittadini alla partecipazione democratica. «Ma siamo sempre nell’ambito dei pannicelli caldi, che non curano la grande malattia del sistema-Italia». Scandaloso, poi, il polverone sulla vicenda Siri: il sacrificio del sottosegretario (solo indagato, per ora) servirebbe a riavvicinare Lega e 5 Stelle? Tutti si agitano: da Mattarella a Di Pietro, che insorge «salutando il risveglio dei 5 Stelle, che avrebbero ritrovato un rigurigito di moralità». Protesta Magaldi: «Di Pietro dovrebbe vergognarsi e andarsi a nascondere, perché è stato insieme ad altri lo strumento inconsapevole di un vero e proprio golpe, che ha spazzato via un’intera classe politica».«Se siamo nell’attuale situazione di disfacimento totale della politica – ribadisce Magaldi – è grazie a quella perversa operazione che ha inaugurato la Seconda Repubblica». Ora ci stanno di fronte verità ineludibili: l’Ue ha impedito all’Italia di aumentare il deficit oltre il 2%, e il governo Conte è tornato a Roma con le pive nel sacco. Palazzo Chigi sa benissimo che quei soldi non basteranno a finanziare le misure di cui il paese ha bisogno. «Ma la risposta alla post-democrazia delle istituzioni europee, per quanto riguarda sia la Disunione Europea che la tragicomica Eurozona – dice Magaldi – non è il sovranismo, non è il nazionalismo e non è la risposta dei finti europeisti, che hanno sempre detto di sognare gli Stati Uniti d’Europa, e poi in realtà si sono appecoronati alla peggiore conservazione». Ppe e Pse, popolari e socialisti europei, sono «conservatori mediocri, senza idee e senza vera vocazione democratica». Di fatto, «hanno traghettato stancamente il vecchio continente a essere quello che è, cioè un soggetto che non ha un’unità politica, dove gli Stati si fanno concorrenza tra loro. Non c’è una politica estera comune, non c’è una politica fiscale comune, non c’è nessuna salvaguardia dell’interesse comune. Non c’è un’unione, appunto».Ma la risposta a tutto questo – aggiunge Magaldi – non sta in quello che viene raccontato. La Lega? Crescerà, ma inutilmente: «Nel governo non ha inciso, se non nella speranza ancora viva dei suoi elettori: la votano perché sperano, non perché abbiano visto dei risultati». Secondo Magaldi «la Lega ha sbagliato tragicamente, sul piano europeo, a inseguire un’alleanza coi paesi cosidetti sovranisti». Anzi, «è un errore madornale parlare di sovranismo come ricetta contro la post-democrazia, che invece si combatte solo con la rigenerazione della democrazia». Sta qui il sale della “rivoluzione rooseveltiana”: «Serve, questa rivoluzione, perché tutti gli altri stanno facendo cose che non servono – se non a conservare poltrone e narcisismi, in mezzo al chiacchiericcio italiano».«C’è ormai una sorta di teatro stucchevole: si celebrano elezioni che non decidono nulla. Le prossime europee? Doppiamente inutili: in un Europarlamento notoriamente senza potere, saranno i soliti noti a spartirsi le stesse poltrone». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, non crede alla “carica” dei sovranisti: a Strasburgo, dice, non cambierà proprio niente. Fine dell’equivoco gialloverde: il governo Conte doveva opporsi all’austerity infinita, e invece si limita a tirare a campare. Che fare? «Una rivoluzione», sostiene Magaldi. Meglio: «Una lunga marcia, come quella di Mao». Non comunista, certo: una rivoluzione democratica. «Ma ci vuole una lunga marcia, in mezzo a questo grande caos di gente vecchia. Vecchi partiti, che cantano canzoni stonate senza aver più nulla da dire. E nuovi partiti, che riescono solo a litigare tra di loro e si rassegnano a usare pannicelli caldi, anziché aggredire la grave malattia socio-politica ed economica dell’Italia». Per Magaldi, il convegno del 3 maggio a Milano su Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara è «la seconda tappa della rivoluzione rooseveltiana avviata a Londra il 30 marzo». Tema: un New Deal per l’Italia e l’Europa, contro la crisi della democrazia. Relatori: economisti come Nino Galloni, Danilo Broggi, Ilaria Bifarini, Guido Grossi. La tesi: dalla post-democrazia Ue, che impone la folle disciplina ideologica del rigore, si esce solo rispolverando Keynes e rilanciando l’economia con poderosi investimenti pubblici.
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.
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Notte della sinistra? Troppo americana la verità di Rampini
Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo («uno spettro che si aggira per l’Europa» lo ha definito il “New York Times”, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare. L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.Il libro contiene una serie di feroci critiche nei confronti delle sinistre “fighette”, tali da far impallidire quelle che il sottoscritto ha rivolto contro lo stesso bersaglio (Vedi “Il socialismo è morto. Viva il socialismo”, Meltemi): la sinistra che ha abbandonato al loro destino i deboli, si salva l’anima impegnandosi a proteggere gli ultimi solo se e quando sono immigrati stranieri (regalando alle destre la rappresentanza della rabbia degli autoctoni poveri); la sinistra “cosmopolita” esalta l’apertura dei mercati finanziari, rinunciando a proteggere l’economia nazionale dalla colonizzazione straniera (spalancando ponti d’oro alla propaganda “sovranista”); la sinistra “politicamente corretta”, relegati in soffitta Gramsci e Pasolini, elegge a propri eroi intellettuali star hollywoodiane e boss della canzone e dello spettacolo, gente che esibisce sgargianti divise femministe e antirazziste confezionate dai loro consulenti di marketing; la sinistra “ecologista”, che viaggia su auto elettriche da centomila euro, pretende che gli sfigati che circolano su sgangherate utilitarie finanzino le politiche ambientaliste pagando tasse sul carburante “sporco” (innescando la rabbia dei gilet gialli contro Parigi).Rampini è passato dalla parte del popolo e chiama alla rivoluzione? Non proprio, come vedremo. La sua indignazione nei confronti del “buonismo” dei militanti no border, per esempio, è compatibile con un atteggiamento apologetico nei confronti di vecchi e nuovi colonialismi. La sinistra recita il mea culpa per i crimini occidentali che provocano la miseria degli altri popoli, costringendoli a migrare? Così rimuove colpe e responsabilità delle presunte “vittime”, sentenzia Rampini, che poi aggiunge: bene e male sono equamente distribuiti e noi non siamo l’ombelico del mondo. Curiosa critica dell’eurocentrismo, visto che non contesta la missione “civilizzatrice” dell’Occidente, purché affidata al comando imperiale americano, orientato – beninteso – in senso progressista, “di sinistra”. La polemica di Rampini contro le sinistre radical chic, si accompagna infatti al sogno di rilanciare la vecchia, cara sinistra del trentennio glorioso, quella sinistra keynesiana/kennediana che gestiva il compromesso fra capitale e lavoro, assicurava welfare, occupazione e salari decenti e cooptava le classi subalterne nella lotta contro la minaccia sovietica.Nostalgia delle sinistre socialdemocratiche al tempo della guerra fredda, che mai si sarebbero sognate di mettere in discussione l’egemonia americana, né avrebbero imboccato la via dell’austerità, suscitando la reazione populista. Nostalgia di politiche che solo la guerra fredda, evocando lo spettro di un’alternativa globale al sistema capitalista, aveva reso possibili. Ecco perché Rampini fa di tutto per resuscitare quello spettro, coltivando un’ideologia che potremmo definire “anticomunismo senza comunisti”. Così la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping vengono arruolati per evocare l’immagine di un nuovo “Impero del male”, sorvolando sul fatto che a giocare il ruolo di aggressore e provocatore, in questa nuova sfida planetaria, sono gli Stati Uniti assai più di questi paesi. Così il tentato golpe contro Maduro, ispirato da Washington e affidato a una figura priva di ogni legittimazione democratica, viene presentato come un intervento “umanitario” per restaurare la democrazia, e non come l’ennesima interferenza in un Paese latinoamericano per mantenere il controllo sul “cortile di casa” senza sottilizzare sui mezzi (do you remember Allende?). Così Snowden e Assange, da eroi della lotta per la trasparenza dell’informazione (come venivano descritti fino a qualche anno fa anche dalla maggior parte dei media occidentali), diventano infami spie russe.Concludo osservando che il libro di Rampini è stato fin troppo profetico in merito all’ultimo punto, tanto che – a costo di apparire “complottista” – mi sorge il dubbio che disponesse di informazioni riservate sull’imminenza del blitz nell’ambasciata ecuadoriana di Londra per catturare Assange. In ogni caso, il libro ha anticipato la campagna denigratoria che i media hanno scatenato contro i “traditori” dell’Occidente, con toni da propaganda prebellica. Vedi quanto scrive Beppe Severgnini sul “Corriere della Sera”: «È vero: gli Stati Uniti hanno abusato della propria supremazia tecnologica per infiltrarsi nella vita di troppe persone, negli Usa e all’estero. Ma è lecito istigare una fonte a commettere un reato, come ha fatto Assange con Chelsea Manning, che sottrasse migliaia di documenti segreti? È giusto che tutto sia sempre noto a tutti?». Traduco: è giusto che i cittadini sappiano cosa succede nel segreto dei comandi militari? Non è meglio tenerli all’oscuro sui crimini commessi dal proprio campo, in modo che continuino a credere che il male sta tutto dall’altra parte?(Carlo Formenti, “Rampini, Assange e la notte della sinistra”, da “Micromega” del 15 aprile 2019).Da troppo tempo il capitale mondiale si è affidato ai servigi d’una sinistra che, ripudiato il classico ruolo di tutela degli interessi delle classi subalterne, si è schierata dalla parte dei potenti. Ora è il momento di sbarazzarsi di questi servi sciocchi che, per voler strafare, si sono sputtanati al punto da non poter più garantire legittimità al regime neoliberista. Allertate dal dilagare del populismo («uno spettro che si aggira per l’Europa» lo ha definito il “New York Times”, parafrasando un detto di Marx) le élite dominanti sguinzagliano i migliori cervelli per escogitare alternative. Costoro suggeriscono due possibili soluzioni: da un lato, la cooptazione dei populismi di destra per investirli del ruolo di garanti della continuità del sistema, dall’altro, la ricostruzione di una sinistra social-liberale capace di riottenere il consenso popolare. L’ultimo libro di Federico Rampini, noto corrispondente di “Repubblica” da New York (“La notte della sinistra”, Mondadori), inscrive l’autore fra i promotori della seconda soluzione.
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Federico Caffè fu fatto sparire dai killer di Palme e Sankara
Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punzione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».Unico indizio a disposizione, per ora: la sicurezza italiana. Tra il 2015 e il 2016, dopo la strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo, l’intera Europa sembrava sul punto di trasformarsi in un mattatoio. Eppure, Magaldi annunciò: vedrete che il nostro paese non subirà attentati. Motivo: l’antiterrorismo italiano è “pulito” e coopera strettamente con settori della Cia altrettanto leali. Il terrorismo targato Isis, aggiunse, può colpire solo in paesi dove i servizi segreti sono infiltrati dagli agenti della strategia della tensione: la Francia in primis, ma anche – come si è visto – il Belgio e la Spagna, il Regno Unito e la Germania. In altre parole: se i “cattivi” hanno orchestrato il terrore per affermare il loro potere (magari impaurendo Hollande per poi lanciare Macron), sul fronte opposto i “buoni” si sono accordati per unire le forze e proteggere almeno uno Stato europeo: non un paese a caso, naturalmente, ma l’Italia che di lì a poco sarebbe diventata gialloverde. Messaggio: non siete più onnipotenti, se c’è un pezzo di Europa che resta al riparo del vostro stragismo che spara nel mucchio, mietendo vittime tra i passanti. E sarà proprio l’Italia la prima pietra su cui costruire una nuova Europa, finalmente democratica.Missione compiuta? Solo a metà: gli ultimi anni in Italia sono trascorsi senza sangue, ma il governo Conte si è lasciato ugualmente spaventare da Bruxelles. Colpa del Deep State, ammette il deputato grillino Pino Cabras: al governo, dice, insieme ai 5 Stelle e alla Lega c’è anche un terzo incomodo, lo “Stato profondo” che ha potentissimi terminali anche al Quirinale, e lavora per sabotare il cambiamento. Nel bloccare la nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia, Sergio Mattarella spiegò che “i mercati” (veri padroni della situazione, quindi, a prescindere dalle elezioni) non l’avrebbero gradito, quel ministro. Con Savona all’economia, non avrebbero esitanto a mettere nei guai l’Italia con il ricatto dello spread. Dal convegno londinese sul New Deal Europeo, organizzato dal Movimento Roosevelt, Cabras ha rincarato la dose: lo “Stato profondo” è insediato ovunque, anche nei ministeri oltre che al Colle, e sta frenando qualsiasi cambio di paradigma: «Lega e 5 Stelle sono divisi su tutto, tranne che su un punto: resistere al Deep State, nel tentativo di dare più soldi agli italiani». Magaldi apprezza il coraggio di Cabras, la cui denuncia – clamorosa – è passata sotto silenzio, letteralmente ignorata dai media. «Il Deep State, però, non può diventare un alibi: perché il governo gialloverde non ci ha nemmeno provato, a rompere le regole Ue con un bel 10% di deficit. Si è limitato a quel misero e inutile 2%, prendendo schiaffoni a Bruxelles e tornando a Roma con la coda tra le gambe».Poteva andare diversamente? «Doveva», dice Magaldi. Che spiega: tutto sta cambiando, ai piani alti. «E già oggi, i politici intenzionati a lavorare per il benessere della collettività non hanno più motivo di avere paura di essere soli, di fronte a chi vorrebbe delegittimarli con la diffamazione o addirittura ucciderli, come nel caso di Palme e Sankara, o magari farli sparire, come accadde a Federico Caffè». Ed ecco la rivelazione, che Magaldi anticipa il 15 aprile a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming settimanale del lunedì, su YouTube: al convegno milanese del 3 maggio (“Nel segno di Carlo Rosselli, Olof Palme e Thomas Sankara, contro la crisi globale della democrazia”) sarà lo stesso Magaldi a fornire dettagli inediti sui mandanti della sparizione di Caffè. Altre notizie clamorose saranno fornite dall’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt e già allievo di Federico Caffè. Il professore era il più importante economista keynesiano: formò personaggi come Mario Draghi e Marcello De Cecco, Bruno Amoroso e Ignazio Visco (Bankitalia), Franco Archibugi e Giorgio Ruffolo. E poi Luigi Spaventa, Enrico Giovannini, Ezio Tarantelli (assassinato dalle Br) e lo stesso Alberto Bagnai, ora senatore leghista.Persino Wikipedia scrive che Federico Caffè fu uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia, occupandosi tanto di politiche macroeconomiche che di “economia del benessere”: «Al centro delle sue riflessioni economiche ci fu sempre la necessità di assicurare elevati livelli di occupazione e di protezione sociale, soprattutto per i ceti più deboli». In altre parole, era il “cervello” dell’economia democratico-progressista: piena occupazione e welfare, cioè l’esatto contrario della politica del rigore che avrebbe preso il sopravvento, diventando un dogma – lo strapotere dei “mercati” – cui sembra piegarsi anche il Quirinale. La sua improvvisa scomparsa è un mistero rimasto irrisolto? Ufficialmente sì, ma non per Magaldi: secondo il presidente del Movimento Roosevelt, il convegno di Milano strapperà finalmente il velo sul caso Caffè. «C’è un filo rosso – avverte – che lega la sua sparizione agli omicidi di Olof Palme e Thomas Sankara». Palme, carismatico leader socialdemocratico svedese, era il faro del socialismo europeo: aveva varato il miglior welfare del continente e stava per essere eletto segretario generale dell’Onu. Una carica che gli avrebbe consentito di vegliare anche sull’Europa, scongiurando l’avvento del feroce ordoliberismo mercantilista che, da Maastricht in poi, ha rimesso in sella l’élite impoverendo il 99% della popolazione.Quanto a Sankara, parla per lui l’esodo dei migranti che sbarcano in Italia partendo dall’Africa Subsahariana affamata dal neocolonialismo: tre mesi prima di essere assassinato, il giovane leader del Burkina Faso aveva chiesto la cancellazione del debito estero e la fine degli aiuti finanziari all’Africa, vere e proprie catene post-coloniali. Il sogno del socialista Sankara? Un’Africa libera e sovrana, padrona a casa propria, capace di crescere basandosi sulle sue forze. «C’è un nesso che collega l’omicidio di Sankara e quello di Palme alla sparizione di Federico Caffè», insiste Magaldi, preparandosi a fornire dettagli inediti su quegli eventi che, nella seconda metà degli anni ‘80, hanno contribuito a plasmare lo sconfortante scenario di oggi. Un nome esemplare? Mario Draghi: il super-banchiere della Bce «non ha seguito il suo maestro, Federico Caffè, e oggi è nel gotha dei burattinai, degli artefici della involuzione post-democratica dell’Europa e del mantenimento del paradigma ideologico neoliberista in Europa e nel mondo». Paradigma spietato, per il quale ha duramente lavorato il Deep State massonico reazionario di cui lo stesso Draghi, secondo Magaldi, è un autorevolissimo esponente.Si può credere, a Magaldi? Qualcuno, di fronte al saggio “Massoni” (bestseller italiano, ignorato dai media mainstream) si è ritratto, rifugiandosi dietro l’assenza di prove documentali. Falso problema, assicura l’autore, che in premessa avverte: «Chiunque si senta diffamato me lo segnali, ed esibirò le carte che lo riguardano: dispongo di 6.000 pagine di documenti, troppo ingombranti per essere inseriti in un volume». Corollario: nessuno dei tantissimi big menzionati – Napolitano e Monti, lo stesso Draghi – si è azzardato a smentire alcunché. Meglio la consegna del silenzio. Ma il meccanismo innescato da quel libro sembra inesorabile: operazione trasparenza. Nel 2015, Magaldi ha fondato il Movimento Roosevelt. A fine marzo, ha promosso a Londra un confronto strategico tra economisti e politologi per mettere a fuoco un possibile New Deal europeo, basato sul recupero di Keynes (spesa pubblica strategica) per abbattere l’ideologia dell’austerity e restituire benessere alla popolazione. E ora è in arrivo l’assise milanese su Rosselli, Palme e Sankara, con anche le inedite news sulla sorte di Federico Caffè. «Questo incontro serve a dire: viviamo da decenni sotto la cappa di un’ideologia imperante e pervasiva, egemonizzante – il neoliberismo – che noi adesso rifiutiamo radicalmente».Il Movimento Roosevelt, continua Magaldi, si ispira alla lezione di Rosselli, Palme e Sankara: «Il nostro è un laboratorio politico che ha iniziato il suo percorso rivoluzionario a Londra, e a Milano affronta la sua seconda tappa». Teoria e pratica del Piano-B: «La nostra è un’ideologia social-liberale, opposta al neoliberismo: vogliamo proporla in Europa e nel mondo, ridando fiato a una corrente di pensiero che è stata rimossa, nei vari centrosinistra e centrodestra di tutto l’Occidente, a favore di una pervasività dogmatica del neoliberismo». Non si scherzava, ai tempi di Rosselli, ucciso su mandato del regime fascista di Mussolini. Ma c’era poco da ridere anche all’epoca di Palme, unico premier europeo assassinato mentre era in carica: freddato nella civilissima Svezia all’uscita di un cinema, nel cuore dell’Europa democratica. Il killer? Rimasto nell’ombra, ma fino a un certo punto: gli svedesi ricordano benissimo la strana morte del giallista Stieg Larsson, che al caso Palme si era interessato svolgendo indagini accurate, fino a consegnare alla polizia svariati documenti. La pista: servizi segreti, Deep State oscuro. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Gianfranco Carpeoro – dirigente del Movimento Roosevelt – ricorda che, alla vigilia dell’omicidio Palme, un certo Licio Gelli indirizzò al senatore statunitense Philip Guarino il seguente telegramma: “La palma svedese sta per cadere”.Se ti metti contro il Deep State, puoi rischiare la pelle: succede spesso, ed è capitato anche a Julian Assange. «Puoi essere fatto fuori con la diffamazione e la delegittimazione, con il fango che ti gettano addosso, oppure puoi essere eliminato». Assange? «Ha avuto coraggio», ammette Magaldi: «C’è dell’eroismo, nel suo agire». Per Magaldi, però, il destino del fondatore di Wikileaks non è segnato: «La questione è estremamente complessa», si limita per ora a dire l’autore di “Massoni”, lasciando capire che attorno al giornalista australiano si muovono forze diverse e opposte, e che l’estradizione richiesta da Trump potrebbe non trasformarsi in una feroce vendetta nei confronti di Assange. Il motivo? Sempre lo stesso: starebbe cambiando la natura del Deep State. O meglio, la sua composizione. «Oggi, se si ha il coraggio di svolgere il proprio mandato democratico – dichiara Magaldi – lo si può fare senza più il timore di essere eliminati, perché nel Deep State c’è stata, è in corso e si sta irrobustendo di mese in mese una riorganizzazione dei circuiti massonici progressisti, i quali non consentiranno – come è stato in passato – che nessun sincero politico democratico venga assassinato o eliminato in modo improprio».Beninteso: il nemico è ancora molto potente. Uomini che hanno conquistato i posti chiave della finanza, dell’economia, degli Stati. Magaldi li definisce «gli alfieri della massoneria neoaristocratica, i costruttori dell’ideologia neoliberista: quelli che tuttora gestiscono una globalizzazione di merci e capitali che non è fatta anche di diritti, di democrazia e di giustizia sociale». Ma aggiunge: «Credetemi, oggi a quei signori non conviene giocare sporco, nel momento in cui nella questione sono coinvolti anche i massoni democratico-progressisti che hanno la stessa consuetudine con il Deep State. Non gli conviene, è un problema di calcolo». E insiste: «Se c’è qualcuno che vuole agire a beneficio del popolo non abbia paura, non si lasci fermare da minacce o blandizie. Vada avanti per la sua strada, perché c’è chi è in grado, con la sua sola presenza, di frapporsi alle indebite interferenze da parte di rappresentanti del Deep State che vogliono sovvertire le regole del gioco democratico, piegandole a interessi opachi di natura privata». Per questo, aggiunge Magaldi, non hanno più scuse tutti quei politici «divenuti maggiordomi e camerieri, senza più quella forza di elaborazione politica che a molti, nel Novecento, è costata la vita».Oggi, assicura Magaldi, i politici che volessero davvero «difendere il senso e la dignità del proprio mandato, operando al servizio della collettività», possono evitare di farsi intimidire o corrompere per eseguire gli ordini dei soliti burattinai: «Li invito a cercare proprio nell’ambito del Deep State quei circuiti progressisti che sono impegnati per la difesa della democrazia, e che quindi potranno garantire che il Deep State oscuro non interferisca più con lo svolgimento di una normale dialettica democratica». Magaldi è stato affiliato alla Thomas Paine, la più progressista delle 36 Ur-Lodges che gestiscono il back-office del potere mondiale. Il suo Grande Oriente Democratico, movimento massonico d’opinione, è collegato alle superlogge progressiste. E’ in corso una sorta di guerra inframassonica: dopo decenni di letargo, la componente democratica si starebbe risvegliando. Le prove del contrattacco in corso? Tanto per cominciare, la sicurezza di cui ha goduto l’Italia durante l’ultima stagione dell’infame auto-terrorismo europeo, targato Isis ma gestito da settori inquinati dell’intelligence. E ora, dice Magaldi, i cavalieri oscuri del peggior Deep State si preparino: il convegno di Milano svelerà dettagli clamorosi anche sulla misteriosa scomparsa di Federico Caffè.Non abbiate paura, il Deep State non è più un monolite oscuro: tra le sue fila oggi ci sono anche i “buoni”, che vigilano sui politici coraggiosi. Tesi firmata da Gioele Magaldi, frontman italiano della massoneria progressista sovranazionale e autore del saggio “Massoni”, che nel 2014 ha svelato il vero volto – supermassonico – dell’oligarchia reazionaria che da decenni regge le sorti del pianeta. In vena di rivelazioni, Magaldi oggi si spinge oltre. Il caso Julian Assange? Aspettate e vedrete: non tutti i mali vengono per nuocere. Può darsi che il suo ruvido arresto non preluda a chissà quale punizione: niente di più facile che si ritorca contro i personaggi messi in imbarazzo proprio dal fondatore di Wikileaks (come Hillary Clinton, accusata di aver truccato le primarie democratiche Usa, che in realtà sarebbero state vinte dall’outsider Bernie Sanders). E non è tutto: il 3 maggio, a Milano, sono in arrivo rivelazioni potenzialmente esplosive sul mistero del professor Federico Caffè, insigne economista keynesiano scomparso da Roma il 15 aprile 1987. Dietro, anticipa Magaldi, c’è la stessa mano che un anno prima aveva assassinato il premier svedese Olof Palme, e che di lì a poco avrebbe ucciso Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso. Tre personaggi scomodi, che ostacolavano il dominio globale neoliberista. Oggi però – altra notizia – non sarebbe più possibile eliminarli: «Fare il gioco sporco, ai nemici della democrazia, non conviene più: sanno perfettamente che in quello stesso Deep State ci sono anche elementi progressisti».
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Massoni: Di Maio bussa alla Golden Eurasia, in barba al M5S
Luigi Di Maio omaggia Angela Merkel con un obiettivo preciso: spera di essere accolto nella Ur-Lodge della Cancelliera. Lo afferma il movimento massonico d’opinione “Grande Oriente Democratico”, presieduto da Gioele Magaldi, secondo cui il vicepremier grillino «bacia la pantofola della libera muratrice Angela Merkel per entrare nella superloggia Golden Eurasia e assicurarsi un avvenire a prescindere dal governo gialloverde e dalla sorte del M5S». Forte la polemica di Magaldi con Di Maio, accusato di essersi riproposto nei panni di «aspirante massone neoaristocratico», nonostante i 5 Stelle vietino ai propri esponenti (a parole) di avvicinarsi alla massoneria, a cui peraltro appartengono svariati uomini del governo Conte, inclusi i ministri Tria e Moavero. Di Maio? «Tradisce gli elettori pentastellati», lo accusa Magaldi, se dichiara – come ha fatto – che politici come la Merkel farebbero tanto bene anche all’Italia. «Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere», scrive “Grande Oriente Democratico”: «Ci auguriamo che Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista e tutti quei parlamentari, dirigenti, attivisti, elettori e simpatizzanti pentastellati che hanno sempre individuato in Angela Merkel la campiona dell’austerity e dei dogmi neoliberisti che hanno funestato l’Europa e l’Italia prendano Luigi Di Maio a pedate nel sedere e a pomodori in faccia».Non è senza precedenti, l’accusa rivolta a Di Maio dal presidente del Movimento Roosevelt, che nel saggio “Massoni” racconta che le 36 Ur-Lodges planetarie (sovranazionali e apolidi) reggono di fatto il potere mondiale. E’ il caso della stessa “Golden Eurasia”, alla quale secondo Magaldi sarebbero affiliati – oltre alla Merkel – anche il presidente russo Vladimir Putin, nonché l’ex cancelliere tedesco Gehard Schröder (poi arruolato dalla russa Gazprom come super-consulente) e l’ex manager industriale Peter Hartz, da cui Schröder mutuò la riforma neoliberista che precarizzò il lavoro in Germania, introducendo la flessibilità, la perdita dei diritti e i micro-salari (mini-job) che hanno poi fatto da battistrada in tutta Europa nell’annientare le storiche conquiste sindacali. «L’ipocrisia e la doppiezza di Luigi Di Maio si fanno addirittura iperboliche, perché il giovanotto ha bussato al gotha delle aristocrazie massoniche neoaristocratiche, non di quelle progressiste», scriveva Magaldi su “Grande Oriente Democratico” già nel febbraio 2018, durante la campagna elettorale per le politiche che poi avrebbero incoronato i 5 Stelle come primo partito, proiettandoli insieme alla Lega verso il futuro governo gialloverde.Secondo Magaldi, lo scorso anno, il leader grillino «per poco non è stato preso a pernacchie», in quei salotti di Londra e di Washington ai quali aveva bussato, «ma la vicenda ha un carattere tristemente esemplare, perché illustra efficacemente il modus operandi del personaggio in questione e di certa massonofobia militante, la quale privatamente anela proprio a ciò che in pubblico demonizza e discrimina». C’è un diffuso meccanismo, aggiungeva Magaldi, che «induce determinati soggetti politici a scagliarsi contro i massoni che si presentino ufficialmente come tali, senza paludamenti», per poi invece «accogliere a braccia aperte chi conservi un profilo massonico accuratamente segretato». Attenzione: la sortita anti-massonica di Di Maio – che si affrettò a dichiarare a “La7” che non avrebbe voluto massoni tra i piedi – non è stata affatto casuale, ma premeditata: «In quelle parole del candidato premier pentastellato c’è molta ambiguità e ambivalenza», disse Magaldi. Ovvero: «C’è un messaggio polivalente, rivolto a diversi interlocutori nazionali e internazionali». Un intervento «odioso e ipocrita, apparentemente massonofobico», in realtà indirizzato – in codice – a soggetti ai quali Di Maio si sta probabilmente ancora rivolgendo. Morale: «Il Movimento 5 Stelle merita un leader migliore».E adesso Di Maio che fa, ci riprova? Il leader dei 5 Stelle, scrive ora “Grande Oriente Democratico”, «non si è mai fatto scrupolo di demonizzare da una parte la massoneria e i massoni genericamente intesi (per titillare una porzione dell’elettorato italiano, massonofobico in modo becero, indifferenziato e insipiente), dall’altra, ipocritamente, di far insediare nel governo Conte diversi massoni e di sollecitare lui stesso, prima dell’esperienza della maggioranza gialloverde, una iniziazione presso qualche Ur-Lodge (superloggia sovranazionale) di segno neoaristocratico». In effetti, continua “God” sul proprio sito, «dopo la costruzione del governo attuale sembrava che Di Maio avesse optato per un avvicinamento alla “libera muratoria progressista” (al netto della perdurante e ipocrita massonofobia ostentata in pubblico)», visto che «almeno nominalmente i massoni del governo Conte appartengono a tali circuiti». Ma le dichiarazioni rese l’altro giorno al quotidiano tedesco conservatore “Die Welt” dimostrerebbero tutt’altro scenario: «Uno scenario inquietante, verminoso, squallido e scandaloso», sottolinea “Grande Oriente Democratico”, perché – bussando alla “Golden Eurasia” – Di Maio chiederebbe di essere accolto tra i massimi esponenti dell’ordoliberismo Ue a trazione tedesca, quello che ha schiantato l’economia italiana».Luigi Di Maio omaggia Angela Merkel con un obiettivo preciso: spera di essere accolto nella Ur-Lodge della Cancelliera. Lo afferma il movimento massonico d’opinione “Grande Oriente Democratico”, presieduto da Gioele Magaldi, secondo cui il vicepremier grillino «bacia la pantofola della libera muratrice Angela Merkel per entrare nella superloggia Golden Eurasia e assicurarsi un avvenire a prescindere dal governo gialloverde e dalla sorte del M5S». Forte la polemica di Magaldi con Di Maio, accusato di essersi riproposto nei panni di «aspirante massone neoaristocratico», nonostante i 5 Stelle vietino ai propri esponenti (a parole) di avvicinarsi alla massoneria, a cui peraltro appartengono svariati uomini del governo Conte, inclusi i ministri Tria e Moavero. Di Maio? «Tradisce gli elettori pentastellati», lo accusa Magaldi, se dichiara – come ha fatto – che politici come la Merkel farebbero tanto bene anche all’Italia. «Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere», scrive “Grande Oriente Democratico”: «Ci auguriamo che Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Alessandro Di Battista e tutti quei parlamentari, dirigenti, attivisti, elettori e simpatizzanti pentastellati che hanno sempre individuato in Angela Merkel la campiona dell’austerity e dei dogmi neoliberisti che hanno funestato l’Europa e l’Italia prendano Luigi Di Maio a pedate nel sedere e a pomodori in faccia».
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L’ignaro Jovanotti, entusiasta dei “nemici” che denunciava
Oggi, non so come mai, mi è tornata in mente la favola dell’Ignaro Jovanotti. La conoscete? L’Ignaro Jovanotti era quello che a Sanremo 2000 cantava “Cancella il debito” in riferimento ai debiti insostenibili dei paesi africani. Successivamente, nel 2005, cantava in concerto a Roma insieme a Piero Pelù e a Ligabue il pezzo pacifista “Il mio nome è mai più” in riferimento alla guerra in Iraq e alla crudeltà delle guerre in generale. Uno dei passaggi faceva più o meno “Io non le lancio più, le vostre sante bombe”. Poi però, nel suo bel girovagare pallido e assorto tra Tv, radio e giornali, un giorno l’Ignaro Jovanotti fu invitato ad un incontro annuale tra i potenti economici del mondo, che si svolge praticamente a porte chiuse, e dove i giornalisti che possono entrare devono firmare delle liberatorie su quello che possono dire e quello che non possono dire. L’Ignaro Jovanotti dopo qualche settimana viene intervistato sull’accaduto. E racconta di aver incontrato «perFone per bene, perFone che non sono mantenute, capisci?». E continua: «Queste sono perFone che il lavoro lo creano, non aspettano mica la manna dal cielo…».In pratica l’Ignaro Jovanotti si è trovato davanti gli stessi che detengono il debito dell’Africa, contro i quali cantava nel 2000, e gli stessi mandanti delle bombe in Iraq e in tante altre guerre, contro cui cantava nel 2005. E non li ha mica riconosciuti! Del resto saranno stati così eleganti, profumati, puliti e cordiali! PerFone per bene!!! Ecco, questo è un tipico esempio di come – ignorando la visione d’insieme – una “perFona per bene”, mossa da ideali nobili e ammirevoli, possa venire strumentalizzata e presa per il culo diventando complice del suo nemico. E a sinistra ce ne sono parecchi così. Come il nostro amabile, pacifico e dolce, ma Ignaro, Jovanotti.(Domenico Rondoni, testo apparso su Facebook e ripreso sul blog “Micidial” il 4 aprile 2019 da Massimo Bordin, che scrive: «Questa riflessione di Domenico Rondoni su Facebook ha ottentuo 50 condivisioni. Pochissime, se rapportate alla qualità dell’intervento. Con ironia il post di Rondoni sintetizza i danni psicologici che affliggono l’intellighenzia italiana, la maggior parte degli artisti e dei radical chic del Belpaese». Bordin ha scelto di riportarlo integralmente perché, sostiene, «merita di essere letto e poi scolpito nella pietra»).Oggi, non so come mai, mi è tornata in mente la favola dell’Ignaro Jovanotti. La conoscete? L’Ignaro Jovanotti era quello che a Sanremo 2000 cantava “Cancella il debito” in riferimento ai debiti insostenibili dei paesi africani. Successivamente, nel 2005, cantava in concerto a Roma insieme a Piero Pelù e a Ligabue il pezzo pacifista “Il mio nome è mai più” in riferimento alla guerra in Iraq e alla crudeltà delle guerre in generale. Uno dei passaggi faceva più o meno “Io non le lancio più, le vostre sante bombe”. Poi però, nel suo bel girovagare pallido e assorto tra Tv, radio e giornali, un giorno l’Ignaro Jovanotti fu invitato ad un incontro annuale tra i potenti economici del mondo, che si svolge praticamente a porte chiuse, e dove i giornalisti che possono entrare devono firmare delle liberatorie su quello che possono dire e quello che non possono dire. L’Ignaro Jovanotti dopo qualche settimana viene intervistato sull’accaduto. E racconta di aver incontrato «perFone per bene, perFone che non sono mantenute, capisci?». E continua: «Queste sono perFone che il lavoro lo creano, non aspettano mica la manna dal cielo…».
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Che bel regalo, Draghi senatore a vita e poi al Quirinale
Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.Folgorante, l’ascesa di Draghi nell’élite finanziaria mondiale: dal vertice di Bankitalia a quello della Bce, la mega-banca che emette l’euro, cioè la moneta che sarebbe stata “impossibile” e letteralmente insostenibile, per il giovane studente Mario. Determinante, si dice, il transito negli Usa: Draghi è stato uno stratega della Goldman Sachs, la banca speculativa più temuta al mondo: quella che, tra l’altro, truccò i bilanci della Grecia, creando le premesse per il crollo di Atene. A disastro avvenuto, Draghi si occupò dei greci anche nelle vesti di inflessibile censore della Troika europea, in rappresentanza della Bce. Una conversione, la sua – da Keynes al neoliberismo – che lascia stupefatti: il geniale economista inglese aveva ispirato le politiche espansive che hanno arricchito l’Europa, mentre i suoi avversari (da Von Hayek a Friedman) hanno impoverito i nostri popoli, espropriandoli del potere statale di spesa a beneficio dell’oligarchia finanziaria, divenuta l’unica padrona del denaro. Come si spiega, un simile voltafaccia, da parte di quello che, ai tempi di Caffè, si presentava come un promettente economista post-keynesiano? L’immenso potere del denaro, certo: il dominio di Wall Street è divenuto assoluto, specie dopo che Clinton abolì il Glass-Stegall Act, la norma con la quale Roosevelt aveva tagliato le unghie alla speculazione (separazione netta tra banche d’affari e credito alle imprese). Franata la diga, la finanza predatoria è diventata una lotteria perversa, capace di piegare gli Stati. E oggi infatti eccoci qui, a elemosinare decimali di deficit, implorando una tecnocrazia di non-eletti.Ma non è tutto. Nel suo saggio, Magaldi svela un retroscena illuminante: il massone Draghi milita in ben 5 Ur-Lodges. Le superlogge sovranazionali sono in tutto 36 organismi occulti e molto trasversali, in grado di controllare il pianeta, ben al di sopra dei governi. Per la cronaca, il presidente della Bce sarebbe affiliato alla “Edmund Burke”, alla “Pan-Europa” e alla “Der Ring”, nonché alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “Three Eyes”, veri e propri santuari della supermassoneria “neoaristocratica”, protagonista dell’attuale globalizzazione finanziaria e post-democratica imposta a mano armata anche con la guerra e, all’occorrenza, persino il terrorismo e la strategia della tensione, oltre che con l’arma dell’austerity che ha precarizzato il lavoro e impoverito le popolazioni occidentali. Tutto merito loro: a imporre le durezze della crisi sono i signori del “back office” supermassonico. Sono questi, dice Magaldi, i veri “azionisti” di Mario Draghi, comicamente celebrato – dai media – come una specie di salvatore della patria. E’ vero l’esatto contrario: l’Italia ha patito le conseguenze dell’azione di Draghi, che appartiene a un’oligarchia apolide, senz’altra patria che il denaro. «Viene presentato come il santo protettore dell’Italia? Mettetelo a Palazzo Chigi, e poi vedrete di che pasta è fatto», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Certo, visto dall’Italia oggi sembra remotissimo, Super-Mario, impegnato a vegliare sull’Europa dall’alto dell’Eurotower di Francoforte. Per questo, gli italiani riescono a bersi la versione del mainstream, che poi è questa: se non ha potuto fare abbastanza, per l’Italia, è perché il povero Draghi «aveva le mani legate dalle presunte regole della Banca Centrale Europea», e magari «era costretto a mediare con Jens Weidmann della Bundesbank». Tutte storie: «Fatelo governare, e vedrete di cosa sarà capace». Quanto sono fondate, le voci secondo cui Mattarella lo promuoverebbe senatore a vita, come già fece Napolitano con Monti, per poi proiettarlo a Palazzo Chigi? L’incarico alla Bce scadrà in autunno, e si sa che Draghi ambirebbe a prendere il posto di Christine Lagarde al vertice del Fmi. Secondo Magaldi, potrebbe anche concedersi un periodo sabbatico. Certo è che qualsiasi decisione sarà come sempre concertata con il super-potere finanziario, di cui Draghi resta una pedina di prima grandezza a livello mondiale. Senatore a vita, dunque? Non è dato saperlo. Probabilmente, dice Magaldi, la nomina potrebbe gradirla non tanto come “ascensore” verso la guida del governo, ma come viatico per un obiettivo più ambizioso: la presidenza della Repubblica. In ogni caso, aggiunge Magaldi, se mai dovesse fare il premier «sarebbe un regalo, per noi che combattiamo contro ciò che Mario Draghi rappresenta».Un simile esito sarebbe perfettamente speculare rispetto all’esperienza di Monti, che nel 2011 era osannato dai media, quando dalle pagine del “Corriere della Sera” «dispensava saggi consigli, ma non aveva mostrato come li avrebbe messi in pratica». Duro l’impatto con la realtà: «Averlo visto governare ci ha liberato per sempre dall’idea che Monti sia un uomo saggio e soprattutto preoccupato del bene collettivo degli italiani». Non pensate che con Draghi sarebbe diverso, chiarisce Magaldi, dal 2015 presidente del Movimento Roosevelt e ora promotore del “Partito che serve all’Italia”, per recuperare la perduta sovranità democratica. Draghi? Tuttora, viene proposto dal mainstream come il paladino degli interessi italiani, «l’uomo che ha risolto la crisi economica e che dalla Bce ha assicurato il “quantitative easing”, salvando le banche». Tutto falso: «Come banchiere centrale, è intervenuto quando i buoi erano già scappati dalla stalla, cioè quando l’economia europea era in picchiata e parecchi paesi erano ormai stati commissariati con l’avvento dei tecnocrati al governo». A quel punto, «Draghi ha fatto in modo che i denari arrivassero alle banche e non all’economia reale, per aiutare la quale non ha mosso un dito».Severo il giudizio di Magaldi sul super-banchiere europeo: «Mario Draghi è fra i registi di questa pessima governance post-democratica europea. E’ colui che ha detto che il “pilota automatico” è inserito nel sistema di gestione dell’economia dei vari paesi europei, e quindi non importa chi viene eletto: o aderisce alle indicazioni di questo “pilota automatico”, o viene delegittimato». In più c’è l’ombra, imbarazzante, della crisi Mps: «Insieme ad Anna Maria Tarantola, che all’epoca guidava la vigilanza di Bankitalia – continua Magaldi – Draghi è anche responsabile, per l’Italia, di quello che è accaduto nella pessima gestione del Monte dei Paschi di Siena». Quindi, non dovrebbe essere gratificato di un posto di senatore a vita: «Semmai – dice Magaldi – dovrebbe essere messo sotto processo, anche per i danni che ha fatto, nella gestione delle privatizzazioni all’italiana, come direttore generale del ministero del Tesoro, carica rivestita ininterrottamente dal 1992 al 2001». Purtroppo viviamo in un mondo orwelliano, che ribalta la verità: e così Mario Draghi, «che è stato tra i personaggi più funesti, per il destino d’Europa e d’Italia», oggi «viene santificato dai media mainstream».“Mister Euro” direttamente al comando dell’Italia, una volta rottamata la deludente esperienza gialloverde? Niente paura, dice Magaldi: «Questa situazione ci deve mettere di buon umore». E perché mai? «Perché è tipica dei momenti pre-rivoluzionari: alla vigilia di ogni rivoluzione, da chi occupa poltrone che stanno per franare miseramente proviene sempre un sussulto di arroganza, di disprezzo della verità, di imbroglio della comunicazione». Draghi a Palazzo Chigi? «Sarebbe un ottimo modo per vedere il suo vero volto, perché in questo mondo così veloce ormai le menzogne e i bluff durano poco. Dategli anche la presidenza della Repubblica, e poi ci divertiremo: perché ormai siamo arrivati alla frutta». Sulla crisi in corso, Magaldi è nettissimo: «L’Italia è stanca di essere malata, e ormai vede che non c’è stata nessuna cura». Pie illusioni, quelle alimentate dai gialloverdi: «Ignominiosa la rinuncia a lottare per il deficit, e vergognosa le genuflessione di Di Maio davanti alla Merkel». Tradotto: l’Italia ha perso un anno di tempo, dando credito a Lega e 5 Stelle. Domani il super-potere oserà schierare addirittura Draghi per spegnere gli ultimi focolai di ribellione, disinnescando la speranza che dall’Italia possa partire il riscatto democratico europeo? Quello, scommette Magaldi, sarà il segnale: di fronte a tanta arroganza, gli elettori finalmente insorgeranno. Primo passo: licenziare i finti rivoluzionari gialloverdi, che si sono fatti prendere a sberle dai signori di Bruxelles e dal loro nume tutelare, il potentissimo Mario Draghi.Che bel regalo, se Mario Draghi venisse nominato senatore a vita. Regalo per chi? Ovvio: per quelli che, come Gioele Magaldi, sono impegnati a smascherare l’ineffabile inventore del “pilota automatico”, la tragica farsa dell’algoritmo finanziario che di fatto confisca la sovranità democratica e rende inutili le elezioni. «Una volta al potere in Italia, Draghi sarebbe costretto a mostrare il suo vero volto: e dovrebbe andare in giro non con una, ma con cinque scorte». Il draghetto Mario? «Più che a Palazzo Chigi o meglio ancora al Quirinale, lo vedrei bene in tribunale: dovrebbe rispondere, finalmente, di tutti i danni che ha causato al nostro paese», dice Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) traccia un profilo inedito del “venerabile” super-banchiere. Allievo dell’economista keynesiano Federico Caffè, si laureò con una tesi che oggi può sembrare sconcertante. Ovvero: imporre all’Europa una moneta unica sarebbe un suicidio economico. Poi, accadde qualcosa. Il 2 giugno 1992, anche Draghi – allora direttore generale del Tesoro – salì a bordo del panfilo Britannia ormeggiato a Civitavecchia, dove il gotha della finanza atlantica progettava la grande privatizzazione del Belpaese. Da allora, anche grazie a Super-Mario, s’è scritta tutta un’altra storia: crisi e disoccupazione, erosione dei risparmi, iper-tassazione. Fino al “golpe bianco” del 2011 innescato dalla letterina della Bce – firmata insieme a Trichet – per la “deposizione” di Berlusconi e l’avvento di Mario Monti, con la regia di Napolitano.
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Magaldi: Di Maio omaggia la Merkel e “suicida” i gialloverdi
Magari ce l’avessimo noi, un politico come Angela Merkel. Giù il cappello: inchino firmato da Luigi Di Maio, intervistato da “Die Welt”. Ma come, il terribile leader “populista” italiano ora cinguetta parole d’amore per la cancelliera tedesca, donna-simbolo dell’eurocrazia teutonica che ha disastrato il nostro paese? Così, gli elettori 5 Stelle sono serviti: ecco fin dove s’è abbassato, il campione del “cambiamento” all’italiana, solo per tentare di differenziarsi dall’alleato-concorrente Salvini, che ha scelto di prendere il treno per Strasburgo in compagnia dei “sovranisti” Orban e Le Pen. «Viltà inaudita e imperdonabile, consegnare il Movimento 5 Stelle a questo esito: l’incredibile “genuflessione” alla Merkel fa di Luigi Di Maio un cialtroncello», sentenzia Gioele Magaldi: «Da ex “monello”, ora Di Maio è diventato “allievo modello”: spero venga defenestrato dal movimento, che non merita di avere questa classe dirigente». Durissimo, il presidente del Movimento Roosevelt, sul vicepremier grillino: dove sarebbe il coraggio che il valente Pino Cabras attribuisce a Di Maio, nel fronteggiare l’insidioso Deep State ramificato da Bruxelles al Quirinale? Eccolo, il vero Di Maio: «Un personaggio opportunista, preoccupato di salvarsi la poltrona avendo compreso che il cambiamento promesso è fallito». Per chi non l’avesse ancora capito, «il governo gialloverde non fa paura a nessuno». E se persino Di Maio tifa per la Merkel, tanto vale rinunciare alle urne delle europee: voto inutile.Salvini? Più bravo, se non altro, a salvare la faccia: «Almeno a parole, la Lega mantiene ancora un atteggiamento meno arrendevole verso Bruxelles», ammette Magaldi, in web-streaming su YouTube. «Però – aggiunge – ha anch’essa ceduto rovinosamente sul deficit, rinunciando alla linea di Paolo Savona». In più, la Lega «insiste nel baloccarsi con i sovranismi farlocchi come quello di Orban, che strizza l’occhio ai Popolari Europei». Quanto alla Le Pen, è «condannata a consegnare la Francia a qualsiasi avversario, da Hollande a Macron». Certo, Matteo Salvini «parla bene», ma nel momento della verità «se la fa sotto, anche lui, di fronte alle letterine di Juncker». Rispetto a Di Maio, almeno, «nel leader della Lega c’è un barlume di dignità, ma purtroppo senza consistenza: non ci sono parole per commentare la resa italiana di fronte al veto di Bruxelles sull’espansione del deficit». Attenzione: per Magaldi, le «frasi infelici» di Di Maio dimostrano la grande preoccupazione che agita il governo gialloverde: «Il Pil peggiora, l’Italia è malata e non c’è stata nessuna cura. Cosa si inventeranno, adesso? Quanto a lungo può reggere ancora, il bluff? Avanti così saranno spazzati via dalla storia: non è più tempo di piccoli uomini».E se frana l’esperienza gialloverde, aggiunge Magaldi, certo non rinasce il centrodestra berlusconiano: «Il popolo è stanco di chi propone le stesse solfe da 25 anni». Non sta meglio il Pd che attacca l’esecutivo Conte: «In passato, al governo, ha fatto anche di peggio». Nessuno infatti può rimpiangere Letta, Renzi e Gentiloni. La franosità della situazione italiana, per Magaldi, rivela una triste verità: «Il sistema non ha nessuna paura del “governo del cambiamento”, che infatti non ha cambiato niente. E oggi in Italia non c’è nessuna novità politica, né al governo né all’opposizione». Secondo il presidente del Movimento Roosevelt, promotore del “Partito che serve all’Italia” (prossima assemblea il 25 aprile a Roma), queste elezioni europee non cambieranno niente: un voto perfettamente sterile. «Non usciranno nuovi assetti di potere. Del resto, perché mai votare Di Maio se loda la Merkel? Tanto vale votare esponenti del Ppe». Per Magaldi occorre creare «un fronte democratico reale, che in Europa sconfigga gli equilibri attuali, basati sulla globalizzazione post-democratica». Persino il terrorismo targato Isis, aggiunge, «è alimentato dai gestori del sistema, per aumentare il potere di controllo sui cittadini».Di fronte a questo, aggiunge Magaldi, «non bastano più le sole analisi, offerte sporadicamente da voci alternative invitate in televisione solo come “sparring partner” degli esponenti dell’establihment». Insiste, il presidente del Movimento Roosevelt: «Non c’è più tempo per le riforme: serve una rivoluzione, che abbatta il paradigma dell’ideologia neoliberista». Come agire? «In modo nonviolento, ma risoluto: a muso duro, come Gandhi». Gli italiani, insiste Magaldi, capiranno ben presto che la missione del governo Conte è fallita, e che il sistema ordoliberista di Bruxelles «non può essere riformato dall’interno, ma solo rovesciato con una rivoluzione democratica su scala europea». Una rivoluzione, annuncia, «a cui il Movimento Roosevelt e il “Partito che serve all’Italia” daranno un decisivo contributo», partendo da una mobilitazione generale, porta a porta. Funzionerà? E’ inevitabile, sostiene sempre Magaldi, perché la situazione sociale è insostenibile, è l’inconsistenza dell’offerta politica è ormai palese. In campagna elettorale, Lega e 5 Stelle avevano denunciato chiaramente il problema. Poi però si sono fatti ingabbiare dal potere eurocratico: e ora – con il Pil in frenata – non potranno più gestire in modo indolore nemmeno il modestissimo deficit ottenuto per gentile concessione di Bruxelles. Un finale che sembra già scritto: “game over”, per i gialloverdi.Dettaglio ulteriormente increscioso, la smaccata giravolta di Di Maio in favore della Merkel, emblema vivente dell’austerity che i gialloverdi avevano promesso di contrastare: il Movimento 5 Stelle, con questa dirigenza, dimostra di non avere alcuna utilità per l’Italia, sostiene Magaldi. «A che serve fare la piattaforma Rousseu se poi è opaca, con i profili taroccati?», attacca ancora il presidente del Movimento Roosevelt, citando il filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau, l’inventore del “contratto sociale”, a cui deve il nome la piattaforma di Casaleggio. «Quale contratto sociale è possibile – aggiunge Magaldi – se Di Maio ora bacia la pantofola della Merkel, esattamente come tutti i suoi predecessori?». Era stato tra i pochi osservatori esterni, Magaldi, a difendere l’esordio gialloverde, meno di un anno fa, al punto da chiedere le dimissioni del Mattarella che aveva sbarrato a Savona le porte del dicastero dell’economia. Persino Di Maio aveva evocato l’impeachment, per attentato alla Costituzione. Ora – ammainate tutte le bandiere – eccolo prostrarsi ai piedi della Cancelliera. Non è nuovo, il Movimento 5 Stelle, a clamorosi voltafaccia (con relative figuracce, come il “no” rimediato dagli ultra-euristi dell’Alde quando Grillo chiese a Guy Verhofstadt di “traslocare” sotto le sue bandiere, in compagnia di Mario Monti, il gruppo europarlamentare pentastellato). Ora ci risiamo: gli ex “rivoluzionari” italiani tornano a bussare umilmente alle porte dei padroni d’Europa.Da posizioni oltranziste, un giornalista come Paolo Barnard l’aveva detto fin dall’inizio: è una follia, fidarsi della Lega e dei 5 Stelle come ipotetici paladini dell’Italia. Altri, invece – come Magaldi – all’esperimento gialloverde avevano concesso un’apertura di credito, sia pure condizionata, se non altro perché non c’erano alternative, in Parlamento, a leghisti e grillini: da una parte gli zombie del Pd renziano, dall’altra le salme (politiche) di Berlusconi e Tajani. Contro il governo gialloverde anche tutti i grandi media, a reti unificate. Di Maio pasticcione, Toninelli gaffeur. E soprattutto, Salvini “fascista”. Non ha avuto vita facile, il governo Conte: è stato continuamente sabotato dallo “Stato profondo”, avverte lo stesso Cabras, neo-parlamentare pentastellato. A maggior ragione: quale tipo di demenza autolesionistica ha spinto Di Maio a omaggiare la Merkel? Così si accelera soltanto la rottamazione dei gialloverdi, e in particolare dei 5 Stelle. Senza che l’Italia – stando così le cose – abbia una sola speranza di veder cambiare la situazione. Tanto vale stare a casa, il 26 maggio: ora – chiosa Magaldi – sappiamo definitivamente che votare per Di Maio e Salvini non servirà proprio a niente.Magari ce l’avessimo noi, un politico come Angela Merkel. Giù il cappello: inchino firmato da Luigi Di Maio, intervistato da “Die Welt”. Ma come, il terribile leader “populista” italiano ora cinguetta parole d’amore per la cancelliera tedesca, donna-simbolo dell’eurocrazia teutonica che ha disastrato il nostro paese? Così, gli elettori 5 Stelle sono serviti: ecco fin dove s’è abbassato, il campione del “cambiamento” all’italiana, solo per tentare di differenziarsi dall’alleato-concorrente Salvini, che ha scelto di prendere il treno per Strasburgo in compagnia dei “sovranisti” Orban e Le Pen. «Viltà inaudita e imperdonabile, consegnare il Movimento 5 Stelle a questo esito: l’incredibile “genuflessione” alla Merkel fa di Luigi Di Maio un cialtroncello», sentenzia Gioele Magaldi: «Da ex “monello”, ora Di Maio è diventato “allievo modello”: spero venga defenestrato dal movimento, che non merita di avere questa classe dirigente». Durissimo, il presidente del Movimento Roosevelt, sul vicepremier grillino: dove sarebbe il coraggio che il valente Pino Cabras attribuisce a Di Maio, nel fronteggiare l’insidioso Deep State ramificato da Bruxelles al Quirinale? Eccolo, il vero Di Maio: «Un personaggio opportunista, preoccupato di salvarsi la poltrona avendo compreso che il cambiamento promesso è fallito». Per chi non l’avesse ancora capito, «il governo gialloverde non fa paura a nessuno». E se persino Di Maio tifa per la Merkel, tanto vale rinunciare alle urne delle europee: voto inutile.
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Si scrive Brexit, ma si legge Commonwealth. E addio Merkel
Con la Brexit c’è una parte d’Inghilterra che si vuole riposizionare geopoliticamente, privilegiando i rapporti commerciali con l’area del Pacifico, l’India, l’Australia e il Canada, e al tempo stesso vuole liberarsi dei lacci e lacciuoli dell’Unione Europea. E’ un processo non facile e lungo, come stiamo vedendo, scrive Massimo Bordin su “Micidial”: «L’economia è un fatto commerciale e monetario, ma nel caso inglese quello monetario è secondario, avendo Londra sempre conservato la sterlina come moneta nazionale». Detto diversamente, l’Inghilterra ha voluto (e sta cercando di) uscire dall’Unione Europea «perché Bruxelles lega i paesi membri attraverso un sistema doganale che avvantaggia alcuni paesi a scapito di tutti gli altri, sfasandone le bilance commerciali». In Italia, ad esempio, «molti media da anni difendono il mercato comune, sottolineando i tanti vantaggi che la fine delle barriere doganali avrebbe portato al paese». Per Bordin, questa visione «è miope e in malafede», perchè proprio quando negli anni ‘90 l’Unione si stava burocratizzando al suo interno, «il resto del mondo procedeva a instaurare nuovi rapporti commerciali, rendendo obsoleto il modello tedesco».Quello di Berlino, aggiunge Bordin, è un modello che porta vantaggi solo alla Germania, all’Austria e ai paesi del Benelux, penalizzando il resto d’Europa. «L’Inghilterra se n’è accorta per prima e ha pensato bene di andarsene, anche e soprattutto perchè ha fondato nei secoli scorsi il Commonwealth». Per chi non lo sapesse, ci sono 53 paesi che oggi appartengono allo storico network a guida britannica. «Tutti insieme fanno 2,2 miliardi di popolazione, sparsi in tutti i continenti del mondo, e in 16 di questi 53 paesi la Regina d’Inghilterra è anche il capo di Stato». Il termine Commonwealth può sembrare curioso, ma non è altro che un concetto della lingua inglese coniato da Oliver Cromwell durante la prima Rivoluzione Inglese. «La frase originale da cui esso deriva è “common wealth” o “the common weal”, e viene dal vecchio significato di “wealth”, che è “benessere”». Il termine, aggiunge Bordin, è stato poi utilizzato per identificare il Commonwealth delle Nazioni, un’organizzazione che unisce Stati che in passato erano parte dell’Impero Britannico (ammesso che abbia mai cessato di esistere).Sotto un profilo meramente logico, conclude Bordin, per gli inglesi è più intelligente commerciare col resto del mondo alle loro regole, piuttosto che con mezzo miliardo di europei con le regole tedesche. «Il motivo dei mancati accordi subiti dalla May sta tutto in questo fatto». Al contrario, i media e i documenti ufficiali «puntano a spiegarci la Brexit e le sue difficoltà sulla scorta di confini irlandesi, proroghe, divisioni parlamentari». Ma è tutta aria fritta, sostiene Bordin, secondo cui le vere difficoltà della Brexit «stanno nella posta in gioco, che è il commercio internazionale e le sue regole». O meglio: «L’impossibilità per gli inglesi di negoziare tariffe agevolate con i paesi extraeuropei». Ecco perchè il cosiddetto “no deal” «dovrebbe spaventare molto più Berlino che Londra». Per l’eventuale uscita senza accordo sono tutti in fibrillazione, ma secondo Bordin nel Regno Unito non accadrà proprio nulla. «E sarà persino divertente vedere come, dopo l’uscita “hard” della perfida Albione, tutti faranno finta di non aver mai evocato l’apocalisse».Con la Brexit c’è una parte d’Inghilterra che si vuole riposizionare geopoliticamente, privilegiando i rapporti commerciali con l’area del Pacifico, l’India, l’Australia e il Canada, e al tempo stesso vuole liberarsi dei lacci e lacciuoli dell’Unione Europea. E’ un processo non facile e lungo, come stiamo vedendo, scrive Massimo Bordin su “Micidial”: «L’economia è un fatto commerciale e monetario, ma nel caso inglese quello monetario è secondario, avendo Londra sempre conservato la sterlina come moneta nazionale». Detto diversamente, l’Inghilterra ha voluto (e sta cercando di) uscire dall’Unione Europea «perché Bruxelles lega i paesi membri attraverso un sistema doganale che avvantaggia alcuni paesi a scapito di tutti gli altri, sfasandone le bilance commerciali». In Italia, ad esempio, «molti media da anni difendono il mercato comune, sottolineando i tanti vantaggi che la fine delle barriere doganali avrebbe portato al paese». Per Bordin, questa visione «è miope e in malafede», perché proprio quando negli anni ‘90 l’Unione si stava burocratizzando al suo interno, «il resto del mondo procedeva a instaurare nuovi rapporti commerciali, rendendo obsoleto il modello tedesco».
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Ormai siamo superflui, la plutocrazia cospira contro di noi
Sono in corso precise e profonde trasformazioni strutturali dell’ordinamento sociale, su scala mondiale, che la comunicazione politica per le masse non menziona o menziona solo velatamente, senza mai parlare di come esse hanno ridotto il ruolo della politica. Ne cito qui alcune particolarmente chiare e rilevanti, per poi descrivere i principali fattori che ostacolano il loro pubblico riconoscimento. In compenso, recenti vicende legate alla crisi economica e alla globalizzazione hanno fatto capire all’opinione pubblica che le nazioni sono governate da una oligarchia e non dalle istituzioni ufficiali, sì che non esiste la democrazia e vi è un essenziale conflitto di classe tra governanti e governati, indipendente dalla ideologia adottata dai primi. La prima e più nota, delle trasformazioni globali in corso, è sul piano ‘orizzontale’: è la globalizzazione-centralizzazione dei mercati e del potere anche politico e giudiziario, con il conseguente svuotamento-soppiantamento degli Stati nazionali e delle rappresentanze e realtà nazionali. La seconda è sul piano ‘verticale’: è il trasferimento del potere effettivo da soggetti pubblici, visibili e in qualche modo responsabili (politicamente, giudiziariamente), a soggetti privati, non esposti, non responsabili (non eletti, non sindacabili giudiziariamente), che studiano e prendono dietro porte chiuse le grandi decisioni e dirigono i governi da sopra di essi – l’Unione Europea è un ottimo esempio di ciò.La terza è che i popoli diventano superflui e ininfluenti perché l’economia finanziarizzata non ha più bisogno, per produrre ricchezza e mantenere il potere costituito, di produrre e vendere grandi quantità di beni reali, né di eserciti di massa; quindi i cittadini, come lavoratori-consumatori-combattenti hanno perso utilità per il sistema, e con essa rilevanza politica; da qui il diffondersi della povertà e la perdita di diritti dei lavoratori. La quarta è la capacità tecnologica, che i manovratori del potere stanno sempre più acquisendo, di monitorare e influenzare anche biologicamente i singoli e la società, e persino le condizioni metereologiche, con mezzi praticamente irresistibili. Veniamo ora ai paraocchi, cioè ai principali fattori che impediscono all’opinione pubblica di capire come funzionano e come si stanno evolvendo la società e l’ordinamento giuridico, e che così li rendono psicologicamente accettabili alla massa. Infatti la gente non sopporta di sentirsi impotente entro un sistema ingiusto, illegittimo e sopraffattore, quindi accetta ogni aiuto per costruirsi l’illusione di vivere in un sistema complessivamente legittimo, visibile e ben intenzionato. In primo luogo si tende tuttora a pensare che i processi decisionali e le intenzioni dei soggetti istituzionali, politici ed economici, siano quelli dichiarati anziché altri, nascosti e dissimulati – anche se da Machiavelli in poi la politologia insegna che le cose stanno proprio così.In secondo luogo, si tende a pensare che l’uomo e la collettività e il loro bene siano il fine dell’azione dello Stato, mentre al contrario i detentori del potere ‘tengono’ la collettività come un loro strumento, similmente a come l’allevatore tiene il bestiame; e gli Stati, al loro interno e nei rapporti internazionali, agiscono non secondo i principi legali ed etici con cui si legittimano, bensì cercando sopraffazione e sfruttamento. In terzo luogo si tende a pensare che il potere reale coincida col potere ufficialmente visibile e pubblico, istituzionale, controllabile politicamente e giudiziariamente, anziché essere detenuto da soggetti autoreferenziali, non responsabili e scarsamente visibili. In quarto luogo si tende a pensare che la legalità sia complessivamente osservata soprattutto dai poteri pubblici e delle istituzioni, e difesa dalla giustizia – mentre non è affatto così, anzi prevalgono le pratiche e le decisioni illegali, e il potere giudiziario strutturalmente si occupa non di difendere la legalità ma di mascherare, legittimare, preservare i rapporti di forza, privilegio e interesse reali, indipendentemente dalla loro illegalità, mantenendo una apparenza di legittimità agli occhi della massa. Bisognerebbe sempre tenere a mente che rispettare le regole, per chi detiene il potere, è un costo.In quinto luogo, si tende a credere, in conformità al catechismo neoliberale dei mass media e delle istituzioni, che il mercato libero esista, che sia efficiente, e che tenda alla crescita economica, mentre al contrario il mercato non è libero ma controllato da cartelli; non è efficiente, perché non tende ad aumentare la produzione di beni della vita né a prevenire o curare le crisi, ma a produrne in continuazione, per speculare e condizionare i governi grazie ad esse; ed essendo un mercato dominato dalla finanza, non tende a produrre più ricchezza reale. In sesto luogo, nella recessione-stagnazione economica si tende a non vedere che esse sono tali solo per la popolazione generale, mentre per l’élite dominante, per i manovratori, esse comportano un grande incremento di ricchezza e potere rispetto alla società complessiva. I detentori apicali del potere, i pianificatori-manovratori di lungo termine, da qualche decennio si stanno servendo delle dinamiche del capitalismo finanziario (che distrugge insieme le sicurezze private e le strutture pubbliche rappresentative dei popoli), nonché della sua capacità di condizionare i comportamenti collettivi e individuali, allo scopo di preparare e attivare gli strumenti per la riduzione della popolazione, dei consumi e delle emissioni: riduzione che pare indispensabile per salvare il pianeta.In queste ottiche, lo sviluppo economico è stato fermato e avviato alla sua inversione dal cartello mondiale privato della moneta e del credito attraverso la creazione orchestrata di una carestia monetaria, giustificata con false teorie economiche, e che moltiplica le ricchezze della classe globale dominante diffondendo la povertà nella popolazione generale. Analogamente, la dinamica (“animal spirits”) del profitto capitalistico e monopolistico viene sfruttata per creare, attraverso la privatizzazione della produzione e del commercio delle risorse alimentari (terreni, sementi, chimica) nelle mani di un cartello globale, i presupposti per una carenza alimentare generale nel terzo mondo. Questa condizione orchestrata di carestia alimentare globale, combinata con la carestia monetaria, in una prima fase opera una progressiva estrazione di ricchezza e reddito dalle nazioni (cittadini, imprese, settore pubblico), e in una seconda fase prepara la soluzione del problema eco-demografico, appoggiata da farmaci contaminati e contaminanti alimentari nonché ambientali che abbassano le difese immunitarie e la fertilità, minano il sistema nervoso, e innalzano la morbilità soprattutto degenerativa nella popolazione generale. Il nemico della biosfera, dell’ambiente, ultimamente sono i sette miliardi di sovrappopolazione, coi loro consumi e le loro emissioni – e quella sopra sembra essere la cura che è stata pianificata. Vorrei ricordare quanto sopra a coloro che credono ancora che si possa rilanciare la natalità e lo sviluppo economico.(Marco Della Luna, “Evoluzione e paraocchi”, dal blog di Della Luna del 29 marzo 2019).Sono in corso precise e profonde trasformazioni strutturali dell’ordinamento sociale, su scala mondiale, che la comunicazione politica per le masse non menziona o menziona solo velatamente, senza mai parlare di come esse hanno ridotto il ruolo della politica. Ne cito qui alcune particolarmente chiare e rilevanti, per poi descrivere i principali fattori che ostacolano il loro pubblico riconoscimento. In compenso, recenti vicende legate alla crisi economica e alla globalizzazione hanno fatto capire all’opinione pubblica che le nazioni sono governate da una oligarchia e non dalle istituzioni ufficiali, sì che non esiste la democrazia e vi è un essenziale conflitto di classe tra governanti e governati, indipendente dalla ideologia adottata dai primi. La prima e più nota, delle trasformazioni globali in corso, è sul piano ‘orizzontale’: è la globalizzazione-centralizzazione dei mercati e del potere anche politico e giudiziario, con il conseguente svuotamento-soppiantamento degli Stati nazionali e delle rappresentanze e realtà nazionali. La seconda è sul piano ‘verticale’: è il trasferimento del potere effettivo da soggetti pubblici, visibili e in qualche modo responsabili (politicamente, giudiziariamente), a soggetti privati, non esposti, non responsabili (non eletti, non sindacabili giudiziariamente), che studiano e prendono dietro porte chiuse le grandi decisioni e dirigono i governi da sopra di essi – l’Unione Europea è un ottimo esempio di ciò.