Archivio del Tag ‘giustizia’
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Il chip Nato che spia gli scolari e fa schiantare le auto
Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.«Il nostro sistema giudiziario, la polizia e i nostri giornalisti investigativi – sostiene Gosling in un post su “Rt”, ripreso da “Come Don Chisciotte” – non sono capaci di capire la tecnologia complessa», in continua evoluzione, «per non parlare della raccolta di prove sufficienti a decidere se questi eventi disastrosi siano incidenti o omicidi». La strana morte di Hastings? Un monito: le nostre libertà stanno andando in frantumi. Succede, dice Gosling, perché «in Occidente la tecnocrazia sta lentamente rimpiazzando la democrazia». Da quando «i mercati finanziari e gli oscuri gnomi di Zurigo hanno cominciato a scegliere i nostri leader politici», i super-tecnocrati, «strozzini e simpatizzanti della Goldman Sachs, la piovra che sta venendo fuori quale vero potere del mondo occidentale», utilizzano anche compagnie poco note, che però «detengono brevetti di valore» e, come prestigiatori, «producono e immettono sul mercato nuovi sfavillanti dispositivi scientifici».Tecnologia che in mano pubblica sarebbe liberatoria, mentre in mano ai “predoni” può fare disastri. E senza che ce ne rendiamo conto: «Quando i nostri deputati, giornalisti e avvocati memorizzano i dati della loro rubrica telefonica usando un servizio di sincronizzazione, o fanno un backup di documenti su “The Cloud”, non hanno nessuna idea di dove vada a finire il loro prezioso lavoro. Condividono i loro dati senza pensarci troppo con aziende che potrebbero tranquillamente copiarli, rivenderli a terzi o perfino corromperli prima di farglieli riavere». I super-tecnocrati della “rivoluzione digitale”, continua Gosling, hanno precisi progetti per i prossimi decenni: «Rubano terreno ai governi eletti usando la “riservatezza commerciale” per tenere all’oscuro la stampa, i politici e il pubblico». E oggi, cioè nell’era della sorveglianza di massa, con l’opinione pubblica narcotizzata dal mainstream, «possono acquistare le informazioni per sapere ciò che i politici eletti stanno per fare, o perfino quello che hanno intenzione di fare, e investire così vaste risorse in contromosse».Tecnologia invisibile per controllare tutti. E anche per uccidere, per esempio chi è al volante della propria auto? A confermare indirettamente i pesanti sospetti sulla fine di Michael Hastings è la rivista “Autoweek Magazine”, che si domanda: «Chi è al controllo della tua auto? Governo e privati adesso possono controllarla a distanza». I computer di bordo sono penetrabili da hacker? E se il dispositivo si inchioda, causando un’accelerazione involontaria e un incidente mortale? «Più una tecnologia è poco visibile – aggiunge Gosling – e più è alta la probabilità che rimanga non regolamentata». Non solo: a utilizzarla saranno soprattutto giovani, portati ad accettarla «senza porsi troppe domande, in quanto “cool”». Tra le tecnologie segrete meno comprese e praticamente non regolamentate c’è l’insidioso chip Rfid, “Radio Frequency Identifcation”, che rileva i movimenti tramite le frequenze radio. «Si tratta di piccoli “trasponder” wireless a circuito stampato, usati perlopiù per tracciare i movimenti in magazzino, sebbene siano in aumento per quanto riguarda il pagamento tramite carte di credito “contactless”, senza contatto». Questi chip, continua Gosling, sono elettricamente attivi per anni, alcuni anche per tempi indefiniti.Dal settembre 2013, gli scolari inglesi sono schedati in modo digitale: il governo britannico ha eseguito la scansioni dell’iride oculare, del riconoscimento facciale, dell’impronta del dito e del palmo – in una parola, la “biometria” degli alunni. Solo che sta crescendo il numero di minori che rifiutano di sottoporsi alla schedatura, introdotta per automatizzare i sistemi di ingresso alle mense e alle biblioteche. Nel caso la “biometria” venisse abbandonata, assicura Gosling, è già pronta la tecnologia Rfid: «Dal 2010 al febbraio 2013, il West Cheshire College vicino Liverpool ha dato a tutti i suoi studenti dei cartellini da indossare con dei chip compatibili, 433 Mhz». Certo, quei cartellini «permettono agli studenti di usufruire dei servizi». Ma i sensori disseminati in tutta la scuola «consentono di tracciare i movimenti degli studenti nel campus, come dei puntini da seguire sullo schermo». Attenzione: quando un giornale nel febbraio 2013 chiese chiarimenti al preside, il fornitore dei chip li fece sparire dalla scuola, eliminando ogni traccia di sensori e cartellini.Quei sensori, forniti da un’azienda che si chiama Zebra, offrivano la possibilità di monitorare i ragazzi non solo da parte delle autorità scolastiche, ma anche dai militari: l’origine Nato della tecnologia, e quindi la necessità di proteggerne la segretezza, secondo “Rt” spiega la rapidità della “sparizione delle prove” dal college inglese usato come area-test. La Nato, racconta Gosling, dispone di un sistema Rfid riservato, chiamato “In Transit Visibility Network”, con sensori 433 Mhz sparsi in tutto il nord America e l’Europa occidentale. Una mappatura che serve a «tenere d’occhio le munizioni, i serbatoi e altri armamenti quando si spostano da un posto all’altro». Fin qui, tutto bene. A patto però che, a finire “microchippate” a nostra insaputa, già al momento della fabbricazione, non siano anche le nostre auto, insieme ai nostri telefoni, le carte di credito e magari anche «i nostri figli, quando durante il giorno vanno in giro innocentemente».Anziché proteggerci, conclude Gosling, la Nato e i tecnocrati dell’industria militare «stanno trasformando ogni singolo essere umano in un sospetto criminale». E questo, senza l’autorizzazione di nessun giudice. Più che una “rivoluzione digitale”, «la loro idea è quella di una gabbia digitale: mai gli incubi malati dei peggiori tiranni sono stati così vicini all’essersi realizzati». Il mondo civile ora deve assolutamente «bloccare i veicoli computerizzati e questa tecnologia Rfid, e renderla soggetta al consenso del singolo e dei genitori, così come ha fatto la Gran Bretagna con la “biometria”». Meglio agire in fretta, «prima che le nostre scuole e le nostre strade diventino prigioni digitali e i nostri figli siano seguiti dai militari ovunque vadano».Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.
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Lerner: proni ai diktat Ue, il Grillo no-euro vi punirà
Unione Europea intoccabile? Chiunque la critichi da sinistra, chiedendo una revisione dei trattati-capestro per allentare il rigore in nome della giustizia sociale, viene subito bollato come sovversivo. Dunque poi non ci si lamenti, osserva Gad Lerner, se a fare il pieno di voti alle prossime europee sarà Beppe Grillo, che ora attacca Napolitano, «individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione Europea». Parola d’ordine del terzo Vday: “L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa”. Primo atto di una lunga campagna elettorale. Obiettivo: «Trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue, e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista». Molto probabile che, a maggio 2014, il “referendum contro l’Europa dell’euro” incoroni come partito di maggioranza relativa la formazione grillina, che avrà buon gioco «nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale».La stessa contrarietà dichiarata da Grillo all’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, aggiunge Lerner, conferma che il leader del M5S «vuole assecondare la sindrome da invasione straniera, impersonata altrove dai partiti populisti e xenofobi antieuropei, per offrirsi così come punto di riferimento all’elettorato di destra in libera uscita». Sfumature “strumentali” a parte, il progetto di Grillo è ambizioso: «Mira infatti a una clamorosa bocciatura per via elettorale di quegli “stupidi” parametri con cui, vent’anni fa a Maastricht, si diede vita a una Unione prima finanziaria e monetaria che politica». Parametri «inaspriti ulteriormente, sotto i colpi della recessione, con i vincoli di bilancio pretesi dalla cancelleria di Berlino», e col rubinetto della liquidità creditizia gestito col contagocce dalla Bce. «Grillo sa di riscuotere vasto consenso quando parla di “tributo di sangue” imposto dall’Europa all’Italia. Nella sua propaganda, “Imu, Iva, Tarsu, Tares, Trise sono il frutto della religione dell’austerità”. Poi, nel 2016, entrerà in vigore il Fiscal Compact, col quale “siamo condannati a trovare ogni anno 50 miliardi per i prossimi vent’anni”. Senza peraltro che ciò garantisca il ripianamento del nostro debito pubblico».Ecco l’argomento anti-Ue grazie a cui Grillo confida di imporsi come maggioranza relativa in Italia: «Le enormi cifre che l’Europa ci impone di versare, da sole “basterebbero a riavviare la nostra economia e a fare del nostro paese uno Stato florido”. Dunque l’Europa sarebbe un impedimento anziché la levatrice della nostra rinascita». Per Lerner si tratta di «demagogia»: giudizio davvero sorprendente, e non spiegato. “Demagogia” comunque «efficacissima», quella di Grillo, specie se messa a confronto con l’uscita di Letta alla Sorbona: «Dirò qualcosa di impopolare, ma se non avessi avuto lo scudo comunitario, non avrei potuto dire no a chi in Italia faceva pressione per aumentare il debito». Se la contrapposizione resta frontale – Grillo che sconfessa i trattati europei e il governo che si trincera dietro lo “scudo comunitario” pur di non rivedere i vincoli di bilancio – l’esito delle elezioni europee è segnato, «col partito dell’austerità destinato alla sconfitta, Renzi o non Renzi», con in più l’incognita dei contraccolpi che causerebbe nell’Ue «la vittoria di un movimento antieuropeo in un grande paese come Italia».Più che antieuropeo, sarebbe meglio dire antieuropeista: cioè contro l’attuale gestione dell’Unione, frutto del disastroso europeismo finanziario dei suoi padri fondatori. Lerner giudica “drammatica”« l’irrilevanza cui sembra condannato il progetto sociale e politico di una sinistra europeista». E più che di irrilevanza, bisognerebbe parlare delle responsabilità primarie che partiti come il Pds-Ds-Pd, l’Spd e i socialisti francesi hanno assunto nell’interpretare la politica antisociale di Bruxelles – ruolo tutt’altro che irrilevante, purtroppo. Le conseguenze sono ben evidenziate dallo stesso Lerner: «Viviamo un passaggio storico cruciale in cui sembrerebbe che l’Europa dei cittadini indebitati, dei giovani disoccupati, del ceto medio impoverito, del Quinto Stato in cui confluiscono milioni di lavoratori parasubordinati, autonomi, precari, possa trovare solo nel populismo nazionalista uno sbocco politico al suo malessere».E’ come se all’analisi di Lerner mancasse un passaggio: il giornalista sembra non “vedere” l’abisso che separa «il cosmopolitismo sessantottino dei Cohn-Bendit, Langer, Fischer», da quella che chiama «la visione sociale di Delors e Prodi», cioè del “nonno” del rigore – massimo padrino europeo dell’euro-sciagura – e del super-tecnocrate professore dell’Ulivo, già presidente della Commissione Europea nonché advisor della famigerata Goldman Sachs. Grandi privatizzatori, demolitori delle fondamenta del welfare. Risultato? Quello attuale: il «vuoto di cultura della cittadinanza e del comune destino europeo», su cui in Italia giganteggia l’anziano Napolitano, «il principale interlocutore dei partner dell’Unione, e come tale appare proteso in un faticoso impegno di salvaguardia degli architravi comunitari vacillanti». La democrazia federale degli Stati Uniti d’Europa è rimasta nel grande sogno di Altiero Spinelli. «Sarebbe prezioso», conclude Lerner, che in campagna elettorale «emergesse una visione europeista disincagliata dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact». Non accadrà. Vincerà quello che Lerner chiama «il catastrofismo no-euro di Grillo, nutrito dai fallimenti di una tecnocrazia che s’illude ancora di trovare riparo dietro allo “scudo comunitario”».Unione Europea intoccabile? Chiunque la critichi da sinistra, chiedendo una revisione dei trattati-capestro per allentare il rigore in nome della giustizia sociale, viene subito bollato come sovversivo. Dunque poi non ci si lamenti, osserva Gad Lerner, se a fare il pieno di voti alle prossime europee sarà Beppe Grillo, che ora attacca Napolitano, «individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione Europea». Parola d’ordine del terzo Vday: “L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa”. Primo atto di una lunga campagna elettorale. Obiettivo: «Trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue, e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista». Molto probabile che, a maggio 2014, il “referendum contro l’Europa dell’euro” incoroni come partito di maggioranza relativa la formazione grillina, che avrà buon gioco «nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale».
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Cremaschi: diktat contro di noi, e Napolitano esegue
Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.Napolitano il cambiamento non lo propaganda, lo pratica, fino al punto di fare le riunioni dei capigruppo di maggioranza come qualsiasi segretario di partito. Siamo diventati una repubblica presidenziale di fatto e credo abbiano fatto un grave errore i promotori della manifestazione del 12 ottobre a non dirlo con forza dal palco, raccogliendo un sentimento profondo di chi era in quella piazza. Le timidezze e le reticenze sul ruolo negativo del presidente della Repubblica indeboliscono la lotta in difesa dei principi di fondo della Costituzione. D’altra parte un pesantissimo colpo a quei principi è già stato assestato, ancora una volta principalmente da Pd, Pdl e Lega, con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. La riscrittura dell’articolo 81 è infatti la madre di tutte le controriforme, perché cancella di fatto tutti i principi sociali contenuti nella prima parte.Come può la Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli economici e sociali che si oppongono alla piena eguaglianza dei cittadini, se ogni anno deve tagliare di decine di miliardi le spese sociali, e solo per pagare gli interessi sul debito senza violare l’obbligo costituzionale di pareggio? Non può, e così con questa controriforma le politiche di austerità diventano obbligo perenne. Come aveva chiesto il banchiere Morgan, prima di pagare 13 miliardi di dollari allo Stato americano per le truffe sui derivati. L’Europa deve capire che le politiche di austerità non sono una parentesi, ma il modo di condurre da qui in avanti un continente che deve accettare pienamente la società di mercato. Questo ha detto il banchiere americano a giugno sul “Wall Street Journal” e ha poi aggiunto che, per raggiungere questo obiettivo, i popoli europei devono liberarsi delle Costituzioni antifasciste e sinistrorse che promettono una eguaglianza che non ci può più essere. Si comincia ad accontentarlo.La controriforma costituzionale non è solo frutto delle classi dirigenti del nostro paese, ma viene prepotentemente richiesta dalla finanza internazionale, come venne formalizzato il 4 agosto 2011 dalla lettera al governo di Draghi e Trichet. Il Fiscal Compact e i patti ad esso connessi hanno fatto il resto: al di sopra dei nuovi costituenti, oltre i saggi incaricati di rivedere la nostra Carta, stanno i mandanti e i controllori. Sopra di loro stanno quelle istituzioni tecno-finanziarie che impongono le politiche di austerità con quei vincoli che per Giorgio Napolitano sarebbe da incoscienti mettere in discussione. Mentre sarebbe la sola scelta saggia da compiere. La difesa della Costituzione repubblicana oggi non si fa solo contro la destra berlusconiana, ma anche contro le scelte politiche di Giorgio Napolitano e contro quei vincoli europei che ci hanno imposto la costituzionalizzazione dell’austerità.(Giorgio Cremaschi, “Austerità costituzionale e presidenzialismo”, da “Micromega” del 25 ottobre 2013).Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.
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Il Club di Sofia: falsa Europa, in guerra contro di noi
Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.Ora la competizione, che è stata la macchina dello sviluppo degli ultimi tre secoli, sta diventando la macchina che produce la guerra. Ciò è l’effetto dei limiti dello sviluppo, nel frattempo emersi, e della fine dell’“era dell’abbondanza”. Ciò si sta verificando in condizioni di profonda e generale disuguaglianza: nel campo della potenza militare; nel campo delle tecnologie; nel campo del consumo e dei redditi; nel campo del denaro; nel campo delle risorse, nel campo delle istituzioni. Se questi vincoli noi li mettiamo assieme alla vecchia idea della competizione è ovvio che il mondo sarà fatalmente spinto verso l’uso della forza. È ciò cui stiamo assistendo: coloro che sono più forti saranno spinti dalla circostanze a usare la loro forza. Lo faranno. Lo hanno già fatto. Lo stanno facendo ora in Siria. Chi sarà il prossimo della lista?Il contesto globale è orientato verso la falsa idea della società di consumatori. Noi riteniamo che muoversi in questa direzione significhi promuovere una successione di conflitti, sia globali, sia regionali – che condurranno il mondo intero in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la catastrofe di una nuova guerra mondiale. Una tale guerra sarà simile a quella che il mondo conobbe 100 anni orsono, ma ingigantita dall’esistenza di armi nucleari e di altro genere, dotate di un potere tremendamente distruttivo. I pericoli di guerra stanno aumentando. Molti segnali sono già visibili, ma molti preferiscono non vederli. Il collasso di una civilizzazione moderna basata sul consumo è inevitabile. Non è questione di buona o cattiva volontà. Il fatto è che la crisi mondiale si va estendendo sia in termini di complessità, e di dimensione, sia in termini di profondità, e non vi è chi abbia una soluzione in vista: non gli Stati, non la scienza del XX secolo, non le differenti culture e religioni.Siamo in presenza di una tremenda carenza di comprensione proprio della complessità della crisi. Essa non si riduce a una semplice somma di fattori, come la crisi finanziaria, quella dei cambiamenti climatici, quella dell’energia, dell’acqua, della disoccupazione, della crescita demografica, degli ecosistemi violati, della diversità biologica compromessa. Inoltre noi non siamo di fronte a una crisi lineare. Al contrario noi vediamo i rischi di una catastrofe senza precedenti che richiede, prima di tutto, di essere compresa e, insieme, controllata. Stiamo già assistendo a un accelerato percorso verso una catena di collassi interconnessi tra di loro e che possono demolire i pilastri portanti della civilizzazione umana. Noi riteniamo che soltanto una Nuova Europa Unita possa essere uno dei pilastri di una coesistenza pacifica multipolare nel XXI secolo.È un’Europa multiculturale che si adopera per gettare un ponte tra il Nord e il Sud, specialmente nell’area mediterranea. Un’Europa che venisse concepita come una fortezza dovrebbe affrontare non solo una ma molte Lampedusa tutto attorno ai suoi confini e perfino all’interno di essi. Noi siamo contro ogni tentativo di costruire un nuovo “Muro di Berlino” nella forma di “arco Mar Baltico-Mar Nero-Mar Caspio”, utilizzando i partner orientali dell’Unione Europea. La Russia – nonostante le differenze tra regimi politici – è già sotto molti profili interconnessa con l’Europa ed è il grande vicino che l’Unione Europea deve considerare partner affidabile. La Russia, la Turchia, l’Unione Europea e i suoi partner dell’est – Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina – devono considerare se stessi come componenti decisive di una indivisibile sicurezza europea. Questo sarà il contributo dell’Europa alla pace e alla sicurezza del mondo intero. Gli Stati Uniti d’America, che durante la Guerra Fredda hanno svolto il ruolo di un alleato “privilegiato e protettore” dell’Unione Europea, devono ora diventare partner con eguali diritti.Una Nuova e Unita Europa, capace di svolgere un attivo ruolo di pace, deve essere forte e autonoma nelle sue decisioni. Una Nuova e Unita Europa costruita su questi principi non ha nemici. Ciò significa che essa deve avere un proprio esercito, che dovrà essere utilizzato solo ed esclusivamente sotto l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È giunto il tempo di abbandonare lo schema amici-nemici che fu caratteristico della Guerra Fredda. Esso è ormai il passato. La sicurezza è di ciascuno e di tutti. Ogni tentativo di costruire la sicurezza solo per noi stessi senza tenere contro di quella degli altri produrrà soltanto tensioni e conflitti. Il compito primario è dunque quello di costruire amicizie di lunga durata, cooperazioni strategiche in tutte le direzioni. Una nuova guerra globale sarebbe la fine dell’umanità e ogni piano che la preveda come possibile è un’idea folle. Noi, membri del Club di Sofia, ci impegniamo a costruire un tale approccio e a proporlo a tutti i soggetti di tutti i continenti, a trovare una via comune per la comprensione della nuova epoca che irrompe ad alta velocità nelle nostre vite e che tratteggia il destino delle future generazioni. Noi vogliamo agire non solo per il loro benessere, ma per la loro stessa sopravvivenza.(Sintesi della Dichiarazione costitutiva del “Club di Sofia”, think-tank paneuropeo costituitosi nella capitale bulgara il 26 ottobre, su iniziativa di Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”, con Antonio Ingroia di “Azione Civile”, il greco Panos Trigazis di “Syriza” e la lettone Tatjana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del “Partito per i diritti umani nella Lettonia Unita”. Tra i promotori anche altri parlamentari come l’ucraino Vadim Kolesnichenko, del “Partito delle Regioni”, e il deputato comunista moldavo Zurab Todua. Completano la lista dei fondatori del “Club di Sofia” il russo Sergey Kurginyan, presidente del partito “Essenza del Tempo”, il polacco Mateusz Piskorski, direttore esecutivo dell’“European Centre of Geopolitical Analysis”, il lituano Algirdas Paleckis, del partito “Fronte Socialista del Popolo” e il bulgaro Zakhari Zakhariev, presidente della “Sklavyani Foundation” e dirigente del Partito Socialista di Bulgaria).Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.
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Jp Morgan si prepara alla cura-Cipro anche negli Usa?
Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».La frode, spiega Katasonov in un post su “Strategic Cultuire” ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stata realizzata all’interno dell’unità incaricata di migliorare le attività di “gestione del rischio”, compresa la supervisione sui depositi. «Le spericolate trovate contabili sarebbero state architettate per coprirsi dai rischi su altri investimenti, ma si risolsero solo in ingentissime perdite». La filiale inglese aveva acquistato una tale quantità di derivati “illiquidi”, cioè virtuali e rimasti senza compratori, che il suo responsabile per il trading Bruno Iksil fu soprannominato la “balena di Londra” (London whale, appunto) per la sua condotta spregiudicata. Poi la banca ha ammesso che i dipendenti londinesi avevano compiuto la frode utilizzando i depositi coperti dall’assicurazione statale. Risultato: capitolazione della Jp Morgan Chase, che accetta di pagare più di un miliardo di dollari, in risarcimenti e multe, a cinque autorità di vigilanza. Spiccioli, dice Katasonov, rispetto alle dimensioni di quei colossi. Il danno, semmai, è d’immagine: chi ci assicura che altri trucchi contabili, non ancora scoperti, non possano far esplodere il sistema?Dal 17 ottobre si sa che la super-banca ha introdotto dei limiti sulle transazioni in contanti dei clienti e vietato bonifici internazionali. Altro freno: dal 17 novembre la Jp Morgan limiterà le operazioni in contanti (inclusi depositi e ritiri) a soli 50.000 dollari al mese, e non permetterà più di inviare bonifici internazionali: qualora si superassero le soglie per il contante, saranno comminate penali. «Prima considerazione: queste misure metteranno in difficoltà le piccole e medie imprese americane», scrive Katasonov. «A molte aziende sarà impedito di compiere tutte le più importanti transazioni con l’estero. Sarà un grattacapo anche pagare gli stipendi». E alcuni giornalisti credono che sia solo l’inizio: le misure adottate dall’istituto, così come quelle degli altri “squali” di Wall Street, colpiranno anche le grandi imprese. La lettera non contiene spiegazioni, limitandosi ad accennare ai “nuovi requisiti legali” introdotti nel paese, cui la banca si adeguerebbe. «La domanda è spontanea: a quali “nuovi requisiti legali” si fa riferimento, visto che non vi è stata nessuna nuova legge americana in questo ambito?».Alcuni, continua Katasonov, sostengono che la banca stia cercando di controllare il deflusso di capitali dal paese. «Difficile da credere. Sino ad oggi gli Stati Uniti non hanno adottato misure in tal senso. Sono state preferite misure indirette. Per esempio la norma introdotta nel 2010, “Foreign Account Tax Compliance”, può essere considerata come un modo per limitare l’esportazione di capitali riducendo la convenienza di investimenti all’estero da parte di aziende americane». Misure che «si sono rivelate poco più che inutili, semplici tasse addizionali per coloro che investono all’estero». L’economista russo suggerisce due possibili spiegazioni. Prima ipotesi: le autorità hanno voluto impartire una lezione esemplare. «Se ci si scotta una volta, è difficile che ci si riprovi». Di qui la lettera «piena di buoni propositi sull’antiriciclaggio, sulla prevenzione del terrorismo, sulla lotta alla corruzione limitando le transazioni in contanti». Evidente: «Sono tutte trovate per rifarsi l’immagine, sperando che l’attenzione si sposti su altri istituti finanziari». Ma Katasonov trova più convincente la seconda spiegazione: «La banca si tiene pronta per fronteggiare una crisi» di proporzioni inaudite, come quando i clienti – impauriti per la sorte del proprio conto corrente – corrono allo sportello per prelevare i loro soldi.«E’ vero che la banca è la più importante degli Stati Uniti, ma non sono sicuro che questo basterebbe a salvarla», dice Katasonov. Il precedente di Lehman Brothers testimonia che non è sempre vera la formula del “troppo grande per fallire”, con l’implicito salvataggio pubblico per evitare il disastro dell’economia (solito schema: ai banchieri i profitti pregressi, ai contribuenti il costo del risanamento). La Morgan «ha imparato la lezione impartita a Cipro», quando la Commissione Europea, il Fondo Monetario e la Bce hanno costretto le autorità di Nicosia a far pagare agli innocenti correntisti le ingenti perdite delle banche del paese. «Per salvare il sistema bancario dalla fuga di capitali, la banca centrale cipriota ha introdotto rigidi controlli sul prelievo in contanti e sul trasferimento all’estero di somme depositate sui conti correnti». In attesa che analoghe misure vengano adottate anche negli Usa, in caso di grave crisi bancaria, è possibile che Jp Morgan stia giocando d’anticipo. «Quindi le limitazioni al prelievo, comunicate dall’istituto, potrebbero servire a prepararsi per il futuro. In questo caso – conclude Katasonov – Jp Morgan Chase starebbe agendo proprio come se avesse il presagio di una crisi bancaria imminente negli Stati Uniti».Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».
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Bombe e stragi: così Israele spiega la prossima guerra
Succederà fra dieci anni, o magari domani. Il comandante di divisione aprirà gli occhi alle quattro del mattino, svegliato dal suo capo di stato maggiore. Un missile avrà colpito il centro nevralgico della Kira, la difesa israeliana, quartier generale dell’Idf. E magari un cyber-attacco paralizzerà i servizi di tutti i giorni, dai semafori alle transazioni bancarie. Esploderà una bomba in un asilo, introdotta attraverso un tunnel sotterraneo disseminato di trappole esplosive. O ci sarà un massiccio attacco di arabi in una località israeliana vicino al confine, magari sul Golan, dove – dopo quasi quarant’anni di quiete – la frontiera con Siria e Libano è ridiventata instabile e violenta. Scenari realistici: un ordigno esplosivo contro i soldati e un missile anticarro sparato contro una pattuglia israeliana lungo il confine, proprio come nel 2006 quando si scatenò la guerra contro Hezbollah. Tre soldati verranno catturati, uno dei quali comandante di battaglione. Una organizzazione jihadista rivendicherà l’attacco. Così si infiammerà un’altra volta la frontiera di Israele.Non è il tema di un war-game apocalittico. Sono parole autentiche, pronunciate l’11 ottobre 2013 dal capo supremo delle Israel Defence Forces, il luogotenente generale Benny Gantz. Il generale spiega così le modalità della “prossima guerra” che attende lo Stato ebraico, e lo fa di fronte agli studenti assiepati nel centro di studi strategici Begin-Sadat, ospitato nel campus dell’università Bar Ilan, vicino a Tel Aviv. Ha parlato a braccio, riferisce Roy Tov su “The Truth Seeker”, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Avvertimento all’opinione pubblica: non rilassatevi, il nemico ci minaccia sempre e oggi dispone di nuove capacità operative, niente più scontri frontali tra eserciti ma insidiose azioni di guerriglia, con combattenti mescolati ai civili. Per Israele, conterà «la prova delle azioni», cioè – tanto per cambiare – la capacità di colpire duro e senza esitazioni. Il generale anticipa lo scenario studiato dai suoi strateghi: Hezbollah sparerà salve di razzi sulla Galilea, colpendo le città, mentre le milizie jihadiste «proveranno ad annientare i posti di blocco al confine con Gaza». Forti contraccolpi anche nelle retrovie: una vasta guerra cibernetica coinvolgerà i sistemi militari e anche quelli civili.Il capo di stato maggiore di Israele ammette di temere molto le insidie dell’informatica, che potrebbero paralizzare sistemi di difesa e persino i grossi carri armati Merkava, dotati di sofisticate tecnologie. Degno di nota, secondo “Truth Seeker”, il fatto che egli abbia completamente ignorato il ruolo dell’Iran: un “problema” in più, dopo la crescita della difesa missilistica di Teheran, o è solo diplomazia dopo i primi storici contatti tra Obama e Rohani? Resta, in ogni caso, la vergogna incancellabile della guerra sporca, cioè di ogni vera guerra: «In certi casi – ammette il generale – la potenza di fuoco che affronteremo non ci permetterà di distinguere appieno tra civili e terroristi, e questa confusione si esprimerà operativamente con risultati indesiderabili, che purtroppo costituiscono un elemento integrante della guerra». I famosi “danni collaterali”: la solita macelleria di civili, donne e bambini. Il generale Gantz ha annunciato tranquillamente che continuerà a permettere l’attacco militare contro civili disarmati. «A un generale serbo che avesse rilasciato una simile dichiarazione sarebbe stata mostrata la strada per la Corte internazionale di giustizia», rileva Roy Tov. Ma, evidentemente, «Israele è al di sopra della legge».Succederà fra dieci anni, o magari domani. Il comandante di divisione aprirà gli occhi alle quattro del mattino, svegliato dal suo capo di stato maggiore. Un missile avrà colpito il centro nevralgico della Kira, la difesa israeliana, quartier generale dell’Idf. E magari un cyber-attacco paralizzerà i servizi di tutti i giorni, dai semafori alle transazioni bancarie. Esploderà una bomba in un asilo, introdotta attraverso un tunnel sotterraneo disseminato di trappole esplosive. O ci sarà un massiccio attacco di arabi in una località israeliana vicino al confine, magari sul Golan, dove – dopo quasi quarant’anni di quiete – la frontiera con Siria e Libano è ridiventata instabile e violenta. Scenari realistici: un ordigno esplosivo contro i soldati e un missile anticarro sparato contro una pattuglia israeliana lungo il confine, proprio come nel 2006 quando si scatenò la guerra contro Hezbollah. Tre soldati verranno catturati, uno dei quali comandante di battaglione. Una organizzazione jihadista rivendicherà l’attacco. Così si infiammerà un’altra volta la frontiera di Israele.
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Baricco, Lou Reed e Matteo Renzi, l’ambidestro farlocco
«All’Italia serve una leadership risonante», dice Andrea Guerra, ad di Luxottica. Nella domenica in cui scompare Lou Reed, uno degli ultimi artisti pop capaci di raccontare la dannazione del mondo con occhi non ancora drogati dalla televisione, sui media impazza la gloriosa epifania di Matteo Renzi nella sua Emmaus, la mitica Leopolda. Alla fine, scrive Jacopo Jaoboni sulla “Stampa”, tra le frasi evocative resta quella di una studentessa della Scuola Holden, Andrea Marcolongo: «Siamo cresciuti a pane e sciatteria». L’altra, «la migliore», è del fondatore della Holden, il romanziere Baricco: «Il futuro è un ritorno». Citazione di Friedrich Holderlin, il poeta amato da Martin Heidegger, quello della poesia come forma del pensiero: «Io non faccio che tornare a casa, tornare a casa da vent’anni». Un altro pensatore, Marcello Veneziani, definisce il sindaco fiorentino «l’ambidestro per tutte le stagioni», e sintetizza: «In una notte buia e tempestosa, Berlusconi e Veltroni s’accoppiarono nel sonno e dalla loro unione nacque Matteo Renzi».Nessun rapporto carnale fu in realtà consumato, precisa Veneziani nel suo blog sul “Giornale”: si trattò piuttosto d’impollinazione involontaria e fecondazione a distanza, col telecomando. «Infatti il piccolo Matteo ebbe per culla la tv, che è poi il punto in comune tra i suoi genitori. Dal suo papà, Matteo prese la piacioneria spiritosa, il vincismo e l’egocentrismo, il fiuto del target e l’amore per i sondaggi; prese il dire, non il fare. Dalla sua mamma, Matteo prese il guscio, cioè la casa materna, detta la Sinistra, e ne condivise i cibi, le usanze, i parenti, l’arredo, il gergo». Ma, attenzione: «Non disse mai una cosa progressista che non fosse seguita da una cosa moderata». Da ambidestro, «è contro l’amnistia ed è per il reato di clandestinità. È governativo fuori e antigovernativo dentro, graffia i poteri forti ma poi si fa lisciare, compiace la sinistra attaccando il padre putativo d’Arcore, compiace la destra perché disubbidisce al nonno putativo del Colle».Altra aria, ovviamente, dalle parti di Baricco: ridicolo, dice, accusare Renzi di essere senza cultura – come se la politica media ne avesse. Ma cosa dice lo scrittore di così sorprendente alla Leopolda? Semplice, si risponde Jacoboni: mentre in sala vedi saltare un mucchio di improbabili sul carro del vincitore («i Franceschini, i Latorre, i Passigli, i tanti bersaniani trasmigrati, le vibrazioni negative di un modo d’essere che ha distrutto la sinistra in Italia»), Baricco avverte: il carro, semplicemente, non c’è. Non perché – come pure qualcuno capisce, il vero vincitore del momento è l’asse Letta-Napolitano, non Renzi – ma semmai perché «il giocattolo per Matteo è a portata di mano, ma proprio in questo momento la gente ha le pile scariche. E non è che io incontri solo fighette intellettuali, sto sempre in mezzo ai ragazzi, li ascolto. La gente non ha energia». Ecco il problema: l’energia. Ora la strettoia in cui s’è incuneato Renzi è più larga di un anno fa, ma è l’Italia che s’è ristretta. Tutti finto-renziani: «Gli danno il partito, non l’Italia. E l’Italia sta lì, moscia o esasperata».«Le pile sono scariche», dice l’autore di “Novecento”. E spiega: «Noi volevamo ridare contenuti a questa passione, che è l’essere di sinistra, ma per far questo dicevamo di abbandonare fiabe, leggende e miti che la sinistra si è raccontata per anni». Fiabe e miti come la giustizia sociale, l’eguaglianza, il welfare e i diritti del lavoro, la difesa delle comunità dagli artigli della globalizzazione predatoria? Ma dov’è stato, Baricco, in tutto questo tempo, in cui – mentre il vecchio mondo stava crollando – la sua maggiore preoccupazione sembrava quella di metterci in guardia dalla paura superstiziosa del futuro? Sfortunatamente, il peggiore futuro si sta avverando. Meno male che ci salverà il rivoluzionario Matteo Renzi. «Il suo sogno americano è Obama Fallaci, un mix», scrive Veneziani. «È bipolare in tutti i sensi». Boy scout a doppio taglio, «versione frivola e trendy dei Dc più una zaffata grillina», Renzi è leader in pectore grazie a tre requisiti: l’anagrafe, i sondaggi e le comparsate in tv dove è un magnifico venditore di se stesso. «Un curriculum adatto per promuovere un ipermercato, non per affidargli le sorti dell’Italia. Ma, pur di fermare Berlebù la sinistra è pronta a sposarne l’imitazione farlocca».«All’Italia serve una leadership risonante», dice Andrea Guerra, ad di Luxottica. Nella domenica in cui scompare Lou Reed, uno degli ultimi artisti pop capaci di raccontare la dannazione del mondo con occhi non ancora drogati dalla televisione, sui media impazza la gloriosa epifania di Matteo Renzi nella sua Emmaus, la mitica Leopolda. Alla fine, scrive Jacopo Jaoboni sulla “Stampa”, tra le frasi evocative resta quella di una studentessa della Scuola Holden, Andrea Marcolongo: «Siamo cresciuti a pane e sciatteria». L’altra, «la migliore», è del fondatore della Holden, il romanziere Baricco: «Il futuro è un ritorno». Citazione di Friedrich Holderlin, il poeta amato da Martin Heidegger, quello della poesia come forma del pensiero: «Io non faccio che tornare a casa, tornare a casa da vent’anni». Un altro pensatore, Marcello Veneziani, definisce il sindaco fiorentino «l’ambidestro per tutte le stagioni», e sintetizza: «In una notte buia e tempestosa, Berlusconi e Veltroni s’accoppiarono nel sonno e dalla loro unione nacque Matteo Renzi».
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Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso
La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
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Giunti e Teghille: ma il mostro eversivo si chiama Tav
Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.Non è la popolazione della valle di Susa che, alimentando simpatie antagoniste, ha promosso il progetto Torino-Lione e l’apertura del cantiere di Chiomonte. Sono questi che, per la loro insostenibilità e protervia, hanno richiamato l’antagonismo, in maniera quasi turistica. D’altronde, se qualcuno ritiene – a torto – che possa scoppiare una rivoluzione, sarà inesorabilmente attratto dove sussistono forti tensioni sociali e ambientali. Non andrà certo a Montecarlo o in Costa Smeralda! La gran parte delle iniziative condotte in vent’anni contro la Torino-Lione sono azioni pacifiche e culturali. A cominciare dalle manifestazioni, che continuano a radunare migliaia di persone in marcia a volto scoperto, per arrivare alle assemblee, alle serate informative, alle feste e agli spettacoli, a decine di conferenze di ospiti interessanti e competenti. Focalizzarsi sugli episodi violenti e sui sabotaggi è facile e strumentale ma non rende onore alla verità e al lungo cammino percorso da questo movimento.L’opposizione NoTav non è un partito o un’istituzione. Non ha un segretario politico né un presidente. E’ fatta da centinaia di persone con sensibilità diverse, anche distanti, che si ritrovano concordi nel denunciare un sistema perverso di potere, di opere, lavoro ed economia deviati, che non deve più trovare albergo nel nostro paese. Quindi non esiste nessuno che possa, in nome di tutti gli altri, prendere le distanze da qualcosa o espellere qualcuno. Al suo interno sono presenti anche moltissimi amministratori pubblici, sindaci in testa. Sempre, sempre, hanno condannato e rigettato – senza balbettare – ogni violenza, a cominciare proprio dagli eccessi nelle manifestazioni. Negare il fatto non lo cancella. Hanno anche ricordato, però, che i violenti sono molti. Persino lo Stato può esserlo, se prima impone un’opera, poi la camuffa come condivisa e infine la difende con i militari. Persino le forze dell’ordine e la Magistratura possono eccedere, non solo quando usano la forza fisica oltre il necessario, ma anche quando indagano con visioni preconcette e in una sola direzione. Persino i massmedia, se sono ossequiosi con lo sloganeggiante notabile di turno o se ignorano gli appelli alle istituzioni, i dati tecnici, la pochezza dei progetti, i dubbi espressi in altri Stati, possono fare violenza.La politica nazionale pare sappia rispondere soltanto con arroganza e con sotterfugi. L’ultimo esempio si trova nella legge sul femminicidio, che assimila i cantieri a caserme e allarga il perimetro dell’art. 260 del codice penale. Tratta di spionaggio e usa termini come stato in guerra, efficienza bellica, operazioni militari. Addirittura, in caso di conflitto, contemplava la pena di morte! Oppure si può analizzare la ratifica dell’ultimo accordo internazionale proposta al Parlamento: con essa si applicherebbe anche sul lato italiano il diritto francese, spostando oltralpe gli eventuali contenziosi ma soprattutto annullando ogni normativa antimafia, che là non esiste. Non sono forme di eversione anche le dismissioni di sovranità e lo svilimento dell’ordinamento dello Stato?La “Libera Repubblica” della Maddalena non voleva un altro Stato, ma uno Stato migliore e più rispettoso della Costituzione italiana. Rivendicava – forse immodestamente – il collegamento con la Resistenza da cui quella Costituzione nacque. Qualcosa come i 40 giorni di libertà della val d’Ossola, i 23 giorni della Città di Alba o la difesa del Monte Rubello. Non una “enclave” ma un laboratorio, fantasioso, disordinato, partecipato e vitale come ogni esperimento. Sono altre le enclaves che dovrebbero preoccupare gli italiani, le regioni dominate dalla criminalità organizzata, ad esempio, o i grumi affaristico-politico-finanziari i cui scandali scoppiano ogni settimana, ma sempre dopo che i guasti sono avvenuti. I NoTav invece, con tutti i loro difetti, stanno cercando di fermarli prima che accadano.Per quanto possa apparire blasfemo, i cittadini che si oppongono alla costruzione della Torino-Lione sono consapevoli di infrangere talvolta le leggi esistenti. Ma lo fanno in nome di un senso di giustizia più alto, magari confuso per gli altri ma limpido per loro, seguendo il principio che Giuseppe Dossetti, guardando alla Francia, avrebbe voluto inserire nella Costituzione della Repubblica Italiana: La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino. Tra quei diritti inviolabili ci sono la salute e il paesaggio che proprio la Torino-Lione massacrerebbe. Le buone ragioni di chi ha ragione non vengono cancellate da metodi poco ortodossi o addirittura illeciti. La compresenza di pratiche diverse per sostenerle non è motivo valido per sconfessarle o ignorarle. Restano valide, anche se è comodo nasconderle enfatizzando le azioni più clamorose.La fiducia nella giustizia e nei loro rappresentanti viene messa a dura prova. Cittadini informati e vilipesi l’hanno perduta perché ogni loro appello, denuncia, ricorso, esposto, è stato sempre lasciato cadere da chiunque l’abbia ricevuto, magistrato o Presidente della Repubblica che fosse. Si badi bene: non è stato accolto, giudicato e poi, eventualmente, ritenuto infondato nel merito. Non è proprio stato recepito. Non solo. Chi si è permesso di denunciare abusi e pericoli è stato inquisito per false comunicazioni e procurato allarme. Come una certa Tina Merlin a proposito del Vajont. Alla lunga una certa disistima nelle istituzioni centrali appare giustificata. L’incrollabile convinzione del Procuratore di Torino sull’eversione ricorda con amarezza le “prove granitiche” che dieci anni fa sono state considerate dalla Cassazione insufficienti per sostenere proprio l’accusa di terrorismo nella nostra valle, non senza aver cagionato due suicidi in carcere e 4 anni di ingiusta detenzione al terzo indagato. Si sta recitando da capo lo stesso identico copione, e nessuno qui in giro vuole che si ripeta anche lo stesso epilogo.Nonostante tutto, rimane la speranza – forse ingenua – che la giustizia faccia il suo corso. Non si spiegherebbe altrimenti l’ostinazione nell’analizzare progetti, sorvegliare il cantiere, produrre documenti, redigere i famosi esposti. Va poi ricordato, per quanto fastidioso sia, che in tutta questa storia si annoverano tre sentenze: quella che ha assolto i presunti Lupi Grigi dall’accusa di terrorismo, quella che ha condannato la dirigenza Sitaf per turbativa d’asta per gli appalti di Venaus, quella che riconosce i pestaggi ingiustificati delle forze dell’ordine durante lo sgombero del 2005, sempre a Venaus. Quest’ultima addirittura proclama l’omertà dei funzionari e la loro reticenza davanti ai giudici! Sentenze, non chiacchiere NoTav. Tutte decisioni ultime della Magistratura che in qualche modo confermano le tesi degli oppositori alla Torino-Lione. Aspettiamo dunque rispettosamente le conclusioni dei processi istruiti negli ultimi due anni: potrebbero rivelare delle sorprese.Il Procuratore ha già radicato la convinzione che tutti i sabotaggi sono da ricondursi al movimento NoTav, nonostante non siano stati rivendicati, le indagini siano in corso, e addirittura alcuni bersagli abbiano dichiarato di pensarla diversamente. Ma il giudizio è già vissuto come inappellabile. Eppure, molti dubbi si affollano sulle dinamiche dei singoli episodi, così come sul contesto in cui sarebbero avvenuti. Ad esempio, si apprende dalla stampa che attentati simili si sono verificati nel chivassese e nell’emiliano, sempre a carico di ditte in qualche modo coinvolte nei movimenti di terre Tav. In quelle aree lontane, per fortuna, nessuno ha ancora incolpato i NoTav. Non sarà possibile, almeno in ipotesi, che anche in val Susa gli autori siano altri e abbiano altri scopi? Che la torta da spartire sia così succulenta da attirare appetiti più onnivori di qualche presunto contestatore più esuberante di altri? E’ positivo che la legge finanziaria in discussione preveda nuove risorse proprio per risarcire le ditte eventualmente colpite dai NoTav. Costringerà a individuare senza dubbi i veri autori dei danneggiamenti, perché senza responsabilità accertata in capo ai NoTav i risarcimenti saranno zero. Come in una famosa pubblicità: No colpevoli, No soldi!A nostro modo di vedere, c’è un sistema molto facile e immediato per scoprire se davvero esiste una frattura negli oppositori e se una frangia del movimento vuole lo scontro a tutti i costi. Ascoltare le voci degli amministratori e dei docenti universitari, che chiedono di fermarsi a riflettere – ma in maniera seria, trasparente e obiettiva – sui dati trasportistici, economici, ambientali e sociali dell’opera. Se dopo tale analisi si dovesse appurare che la Torino-Lione è utile, proposta in maniera cristallina, sopportabile dall’ambiente e dalle casse dello Stato, una buona parte di chi si oppone sarebbe disposto a farsi da parte. Noi, almeno, lo faremmo. In ogni caso, è indubitabile che sic stantibus rebus non si possa andare avanti. Occorre prendere atto che l’Osservatorio governativo istituito nel 2006 ha fallito. Era stato incaricato di condividere il progetto con il territorio, di facilitare l’accettazione dell’opera, di ridurre la contestazione e abbassare la tensione. Non c’è riuscito, per la semplice ragione che la Torino-Lione è indifendibile sotto ogni punto di vista.Per accorgersene definitivamente, basta smettere di ascoltare i proclami rassicuranti che il Commissario dipinge nei salotti e in luoghi protetti, ben lontano da ogni confronto. Non potranno certo essere installati i cantieri a Susa nei prossimi due anni, come più volte annunciato. In mezzo a quartieri abitati, aziende, scuole, strade e altre strutture pubbliche. Non ci si troverà più in una valle secondaria isolata tra i monti e disabitata. Dall’estate del 2011 Chiomonte e la val Clarea insegnano che costa di più difendere l’opera che costruirla. A Susa questi costi potrebbero decuplicare. E ormai dovrebbe essere evidente a tutti che repressione e falsità non sono i metodi idonei per uscire da questo buco.(Luca Giunti e Bruno Teghille, “Riflessioni sulla lettera del procuratore della Repubblica di Torino”, 24 ottobre 2013. Giunti e Teghille sono due esponenti del movimento No-Tav).Il Procuratore della Repubblica di Torino interviene sulla manifestazione di sabato 19 a Roma, spiegando che se una marcia pacifica si può fare a Roma allora in val Susa si possono e si devono isolare i violenti. Con il massimo rispetto per la sua figura e la sua storia, proviamo a esprimere qualche riflessione, perché da molti anni sentiamo ripetere questo ritornello. Giornalisti e politici, anche sensibili alle ragioni della protesta, spesso ci spiegano quali danni porterebbe alla causa non espellere le mele marce. Noi, stolidi montanari, continuiamo a non capire. In realtà anche a Roma qualche scontro si è verificato, certamente non come due anni fa, sempre in ottobre, quando un analogo corteo ha avuto tutt’altro esito, né come – ricordiamo tutti – a Napoli e ancor più a Genova nel 2001. In quelle situazioni, anche sabato scorso, i filmati mostrano che curiosamente la polizia fa agire i violenti per poi accanirsi con i più tranquilli. In qualche caso si vedono agenti in borghese confondersi con i manifestanti o con i giornalisti. La storia del nostro Paese ci ha fatto conoscere anche le figure dei provocatori e degli infiltrati. Non c’è ragione per credere che gli antitav siano riusciti a restarne immuni.
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Caselli ai No-Tav: imparate da Roma a isolare i violenti
«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.A partire dal giugno-luglio 2011, continua il procuratore, vi sono stati pesanti attacchi (di solito notturni) contro il cantiere di Chiomonte: «Un’infinità di oggetti atti a offendere (pietre, biglie di ferro, razzi, bombe carta e bottiglie incendiarie) è stata scagliata contro gli operai e poliziotti che sono costretti a vivere asserragliati in quel cantiere». A operare sono «squadre organizzate secondo schemi paramilitari», tanto da indurre il Tribunale della libertà di Torino (giudice “terzo”, indipendente) a parlare ripetutamente di “eversione” e “micidialità”. «E ancora recentemente – continua Caselli – è stata fermata un’auto (che viaggiava in convoglio con altre di copertura) zeppa di strumenti che una consulenza tecnica ha qualificato come assai pericolosi». Poi si sono registrati svariati sabotaggi, «con danni assai gravi», contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere: uno stile intimidatorio di stampo ‘ndranghetista, secondo Stefano Rodotà. Senza contare le «reiterate iniziative illegali contro vari giornalisti “sgraditi” in valle», tra cui il redattore della “Stampa”, Massimo Numa, a cui è stato recapitato un ordigno esplosivo in grado di uccidere. Attentato anonimo: lo stesso Numa non pare credere alla “pista No-Tav” ma, in linea di principio, la Procura non esclude la possibilità di “schegge impazzite”.Tra gli aspetti più antagonistici, Caselli include anche la cosiddetta “Libera repubblica della Maddalena”, l’occupazione temporanea dell’area di Chiomonte con cui i No-Tav nel 2011 tentarono di ritardare l’avvio del cantiere. Per il magistrato, la vicenda «avrebbe meritato ben altra attenzione», dal momento che «si è trattato di una “enclave” creata nei pressi del cantiere, con tanto di posti di blocco valicabili soltanto da coloro (forze dell’ordine comprese) che ottenevano il permesso dei sedicenti “repubblicani”». Dunque, scrive il magistrato, «un pezzo del territorio dello Stato italiano sottratto per qualche mese alla sovranità dello Stato medesimo». Un fatto che «può serenamente definirsi “eversivo”, così come è “eversivo” bloccare mezzi di trasporto sull’autostrada, circondarli con un manipolo di persone molte delle quali travisate, pretendere l’esibizione di documenti personali e di trasporto per verificare che il carico non abbia a che fare col cantiere, com’è successo a un ignaro e terrorizzato camionista olandese, al cui mezzo è stata anche squarciata una ruota per meglio bloccarlo».Tutto ciò, conclude Caselli, comporta l’usurpazione di funzioni che ogni Costituzione democratica riserva esclusivamente al potere pubblico. «E se le parole hanno ancora un senso, per definire tale usurpazione ce n’è una soltanto: che è appunto eversione». Eppure, secondo il capo della Procura di Torino, «la voce delle persone per bene del Movimento o non si è fatta sentire per nulla o ha balbettato qualche confuso distinguo, quando non ha addirittura preteso di legittimare con pubblici proclami certe azioni violente come i sabotaggi». Risultato: «Le persone per bene del Movimento potrebbero anche avere tutte le ragioni del mondo (non lo so, non rientra nel perimetro delle mie competenze) circa l’utilità e i costi del Tav: ma per quanto siano eventualmente valide, queste ragioni non possono che risultare screditate dall’accettazione di fatto di forme anche gravi di violenza».In modo ormai irreversibile, lo scontro sulla Torino-Lione «sembra diventato un pretesto per professionisti della violenza assortiti (le persone “per male”), affluiti nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico». Una sorta di “laboratorio”, «che si spera non abbia mai a rivelarsi come incubatrice di vicende ancor più gravi». Per Caselli, «sono fatti che non si possono non vedere. Invece, fra politici, amministratori, intellettuali e opinionisti si trovano ancora – purtroppo – personaggi che a prendere le distanze, condannandola senza riserve, dalla commissione di reati (anche violenti) gli viene l’orticaria. Per cui preferiscono tacere o addirittura manifestare indulgenza. Inglobando in questo “generoso” atteggiamento un catalogo di attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali. In realtà per esprimere radicale insofferenza verso la prospettiva che i violenti possano essere soggetti – come qualunque altro cittadino – all’obbligo di rispondere delle illegalità commesse».«Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in val di Susa, con i No-Tav?». Così il capo della Procura di Torino, Gian Carlo Caselli, dalle colonne del “Fatto Quotidiano”. Il movimento valsusino, aggiunge il magistrato, è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. «Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene – aggiunge Caselli – non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata» nelle forme di protesta adottate.
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Costituzione fai da te, Giulietto Chiesa: senatori golpisti
Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega lei stessa nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.Questo Senato sbrigativo non ci rappresenta, protesta su “Megachip” Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”. «E’ una Camera che ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale». Dettaglio decisivo: questa «maggioranza indegna» non è certo appannaggio dei soli “berluscones”, di Casini e di Monti, visto che «ne è parte integrante il Partito Democratico», che dopo lo “smacchiatore” Bersani propone il neoliberista Renzi, col contraltare mediatico di un uomo d’apparato come Cuperlo, che richiama la sinistra ai suoi doveri storici ma senza ovviamente disturbare il manovratore europeo, che col limite del deficit al 3% rende vuoto qualsiasi proclama sociale e democratico. Molte delle attuali direttive europee e degli accordi-capestro (Maastricht, Lisbona, Fiscal Compact) da cui dipende la nostra crisi, accusa un giurista come l’ex ministro Giuseppe Guarino, sono tecnicamente illegali, Costituzione alla mano. E, anziché rimediare impugnando la Carta, la si preferisce cambiare, neutralizzandola, in modo che non possa più ostacolare il super-potere europeo.La maggioranza con cui è passato al Senato il testo della deroga all’articolo 138 della Costituzione, storico baluardo contro tentazioni manipolatorie della Carta su cui si è finora basata la Repubblica nata dalla Resistenza, ha superato i due terzi con appena 218 a favore rispetto ai 214 del quorum richiesto (58 i contrari e 12 gli astenuti). Hanno votato a favore la stragrande maggioranza dei senatori Pd, Pdl e “Scelta Civica”. Contrari M5S e Sel, cui si aggiungono 5 senatori Pd: Felice Casson astenuto, mentre non hanno partecipato al voto Walter Tocci, Silvana Amati e Renato Turano. Con loro anche l’ex direttore di “RaiNews24”, Corradino Mineo, che pure – accettando di candidarsi – sperava in una “legislatura costituente” di ben altro livello. Decisivo, osserva il “Fatto Quotidiano”, il supporto numerico offerto della Lega Nord per sostenere il provvedimento, fortemente voluto dal governo delle larghe intese su sollecitazione del Quirinale. Se il quorum dei due terzi venisse superato anche alla Camera, sarà possibile evitare il referendum confermativo per le leggi di riforma costituzionale.Molte, al Senato, anche le defezioni nel Pdl, tra cui quella di Francesco Nitto Palma, senatore campano e presidente della commissione giustizia. Nel Pdl, scrive il “Fatto”, il colpo di mano sulla Costituzione ripropone lo scontro tra “falchi” e “colombe”: la fronda interna al partito berlusconiano nel voto sul ddl costituzionale ha coinvolto 11 senatori, che si sono astenuti al momento del voto (al Senato, l’astensione vale come un voto contrario). Oltre a Palma, gli altri sono Maria Elisabetta Alberti Casellati, Vincenzo D’Anna, Domenico De Siano, Ciro Falanga, Pietro Iurlaro, Pietro Langella, Eva Longo, Antonio Milo, Domenico Scilipoti e l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini. «Di questi solo Nitto Palma, Minzolini e Falanga hanno annunciato in aula la loro astensione, in disaccordo col fatto che il ddl non affronta il tema della riforma della giustizia. Altri 12 senatori del Pdl, compreso Silvio Berlusconi, non erano invece presenti in aula». Alla Camera, ovviamente, la strada sarà spianata. E gli appelli di Zagrebelsky e Rodotà per non manomettere pericolosamente la Costituzione? Tutto inutile. «Faremo quanto è possibile per cancellare questa vergogna», annuncia Giulietto Chiesa. «Un Parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale con un colpo di mano. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza».Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega ora nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.
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Io faccio così: diario dall’Italia che ha voltato pagina
Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».Ne è testimone Daniel Tarozzi, reduce da un “giro d’Italia” di sette mesi, alla guida del suo camper, lungo i paesaggi dell’Italia in cambiamento. Tutte e 20 le Regioni dello Stivale, isole comprese. Migliaia di contatti, centinaia di storie. Tutte diverse e tutte simili. «Quando avete cominciato, a vivere così?». Risposta invariabile: «Cinque, sei anni». Cioè da quando la Grande Crisi ha affondato le zanne nel tessuto socio-economico: gli sciacalli della speculazione, Wall Street, il rigore imposto dall’Eurozona. Ovvero: la certezza matematica che sarebbe crollato, con la recessione, un sistema peraltro insopportabile e insostenibile come quello basato sui consumi inutili, drogati dalla pubblicità. Vite in scatola? No, grazie. «La scoperta – racconta Daniel Tarozzi – è che si sta creando una rete diffusa, dal nord al sud, di micro-economie che valorizzano il territorio e le competenze delle persone, spesso promuovendo lavori che le statistiche nemmeno rilevano».Succede anche in città, non solo in campagna, per iniziativa di gruppi organizzati ma anche di singoli “pionieri” convertiti alla sostenibilità, al risparmio e alla qualità della vita. Parola d’ordine: ridurre le dipendenze. Autocostruzione, energia pulita e autoprodotta, cibo di stagione assicurato tutto l’anno dall’orto sotto casa, grazie alla pratica della permacoltura. E’ una rivoluzione culturale, che spinge le persone a cooperare tra loro riscoprendo il valore spontaneo della solidarietà. «Io credo che dobbiamo passare dal “vinco io, perdi tu” al “vinciamo tutti”», sintetizza Michela Scibilia, di Venezia. E non è solo un orizzonte per nuovi contadini. Ci sono anche inventori, imprenditori, manager. E artigiani, neolaureati, artisti. «Le loro storie non fanno più parte dell’aneddotica, ma ormai costituiscono una realtà che va raccontata e fotografata. E dimostrano che un altro Pil, più vero e di qualità, è possibile». Ci sono tantissime realtà italiane in movimento, conferma l’altoatesino Hans Schmieder, promotore dell’Accademia dei Colloqui di Dobbiaco, Bressanone. «Il problema è che queste realtà sono invisibili: dobbiamo lavorare per farle vedere».E’ quello che ha fatto Daniel Tarozzi, col suo diario “on the road” pubblicato da “Chiarelettere”. «L’idea di questo viaggio e poi di questo libro – dice – è nata da un’esigenza fortissima che sentivo da dieci anni». Da giornalista, direttore del newsmagazine “Il Cambiamento”, si è sempre occupato di sostenibilità, decrescita e transizione. «Tutti questi movimenti e queste realtà, solo apparentemente piccoli, non solo sono attivi sul territorio, ma riescono a incidere concretamente e positivamente nel cambiare, nel raggiungere i propri obiettivi. E la cosa bella è che queste persone alla fine riescono nel loro intento». “Io faccio così”, il leit-motiv di tanti incontri, è diventato il titolo del libro, anticipato da un blog sul “Fatto Quotidiano”. Fotogrammi da un popolo in marcia. Il cambiamento richiede pazienza, ammette un religioso come don Gianni Fazzini, promotore dell’iniziativa “Bilanci di giustizia”, per aiutare le persone bisognose a risparmiare. L’importante, però, è non perdere mai di vista un fatto decisivo: «Il bene più prezioso è un bene immateriale: il tempo». Pazienza e fiducia. «C’è un’Italia che non molla, che va avanti e crede nel futuro».Dal centro di Bologna alla trincea degradata di Scampia, si moltiplicano iniziative solidali che diventano attività organizzate e sostenibili. Nel libro di Daniel Tarozzi, abbondano i paesaggi extraurbani. E il ritorno alla terra è un richiamo potente. «Vogliamo convincere le amministrazioni a inserire gli orti nei loro piani regolatori», dicono Gianfranco Bettega e Adriana Stefani dello Slow Food di Trento, ideatori del progetto “orto in condotta”, nelle scuole. «E’ andato molto bene: ci cercano in tantissimi, non riusciamo a star dietro a tutte le chiamate». Cristina Tagliavini, di “Accesso alla Terra”, sta realizzando una cooperativa aperta a tutti, che acquisti terreni abbandonati o destinati all’edilizia, per affidarli a chi voglia iniziare a coltivare la terra. «Vogliamo seguire i neo-contadini offrendo assistenza e formazione, mettendoli in rete tra loro». Buone notizie da tutta Italia. «Oggi in Puglia c’è un ritorno di tanti giovani che erano emigrati e che – spesso per mancanza di lavoro – decidono di riprovare a costruirsi un futuro qui», racconta Virginia Meo di “Ressud”, sodalizio che mette in contatto le realtà di economia solidale dall’Abruzzo alla Sicilia. «Sono davvero tante – dice Daniel Tarozzi – le persone che, in questo momento di crisi e senza neppure avere le spalle coperte, si licenziano e cercano di costruire una vita diversa». Motivo: «Contestano il sistema in cui vivono, e i suoi falsi valori». Ebbene sì: «C’è davvero un’Italia che cambia, ed è quella che ho cercato di raccontare».(Il libro: Daniel Tarozzi, “Io faccio così”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 14,50).Il futuro, questo sconosciuto. Da una parte la faccia dura della crisi, l’Europa-zombie che sembra stata creata apposta per non funzionare, se non a scapito di milioni di sventurati senza più lavoro né diritti. Sopravvive benone solo la cosiddetta casta: partiti e istituzioni, banche e finanzieri, ex industriali convertiti alla finanza speculativa. Ma il sistema sembra ora sul punto di crollare, schiantato da una globalizzazione senza paracadute. Un disastro, che sta già travolgendo l’altra Italia, quella che ancora presidia i territori, li difende dalle “grandi opere inutili” e prova a resistere al deserto della deindustrializzazione. E’ rabbia, che sfila in corteo e chiede giustizia e democrazia. Ma soprattutto sovranità. Che in fondo significa: tornare padroni della propria vita. E’ quello che, in silenzio, migliaia di italiani hanno cominciato a fare, completamente ignorati dai grandi media. Una foresta che cresce, e che sta gettando semi. Giovani e famiglie che, semplicemente, hanno cambiato vita. Si sono rimboccati le maniche, inventandosi un nuovo lavoro. Un nuovo modo di stare al mondo. «E funziona?». «Sì, certo: guarda, io faccio così».