Archivio del Tag ‘giustizia’
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Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito
«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».«Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
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Cremaschi: divorzi dal Pd, o per la Cgil è finita
In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.E già abbiamo centinaia di licenziamenti che il giudice ha riconosciuto come ingiusti, che nel passato avrebbero avuto come conseguenza il ritorno del lavoratore colpito nel suo posto di lavoro, e che invece oggi si concludono con un po’ di soldi che non compensano certo un futuro di disoccupazione. È chiaro che Renzi vuole andare oltre, abolendo sostanzialmente la “reintegra” e soprattutto, come ha più volte dichiarato, togliendo ogni ruolo ai giudici – che per lui, come per ogni reazionario, non debbono più ingerirsi nel rapporto tra impresa lavoratore: lì ci deve essere solo il mercato, non il diritto. Susanna Camusso ha colto la gravità dei propositi del segretario del Pd capo di governo, ma cerca di chiudere un portone che ha lasciato spalancare. Se la Cgil avesse lottato sul serio contro Monti e la riforma Fornero delle pensioni, e allora c’ erano tra i lavoratori consenso e forza sufficienti, oggi non subirebbe impaurita gli sberleffi di Renzi, e soprattutto sarebbero i lavoratori a reagire.L’abilità manipolatrice permette invece al presidente del Consiglio di esercitare una operazione in totale malafede, ma non per questo poco efficace. Il capo del governo mette assieme il dilagante scontento in tutto il mondo del lavoro verso la passività di Cgil, Cisl e Uil, che per me è sacrosanto, con la vandea reazionaria di chi sostiene che il sindacato ha rovinato l’Italia. Lo può fare perché la Cgil, soprattutto in questi anni di crisi, si è ritirata dal conflitto per paura di perderlo. Così Renzi accusa di essere fermi agli anni ‘70 gruppi dirigenti sindacali che per primi hanno messo in discussione le pratiche e la cultura di quel decennio e che per primi in ogni riunione premettono: non siamo più negli anni ‘70! Sergio Cofferati probabilmente ricorderà che in un congresso della Cgil di quasi venti anni fa con Claudio Sabattini fu posta la necessità della totale indipendenza della Cgil dal quadro politico. Quella scelta non fu fatta e ora il collateralismo da condizione di sopravvivenza diventa un danno.Renzi può vantarsi: noi con la Cgil non c’entriamo niente, anzi, ma Susanna Camusso non può rompere con il Pd. Se lo facesse, per i promotori del Jobs Act sarebbe un colpo ben più duro che quello di uno sciopero generale. Ma ripeto, con l’attuale intreccio tra sistema politico e sistema sindacale, che percorre tutto il paese, Camusso non potrebbe dire basta con il Pd neppure se lo volesse. Ma la questione non è solo di rapporti politici. Ancora una volta la Cgil deve verificare che il patto tra i produttori, cioè quell’accordo tra i rappresentanti delle forze produttive con il quale condizionare la politica che il gruppo dirigente sindacale persegue da anni, quell’accordo non esiste. Dalla Confindustria alle banche alle cooperative, tutto il sistema delle imprese ha mollato la Cgil e si è schierato con Renzi. Cisl e Uil, naturalmente, han fatto lo stesso. Eppure solo il 10 gennaio di quest’anno si era firmato un testo sulla rappresentanza, per me liberticida, che veniva presentato come il nuovo avvio della stagione delle regole.Anche sul merito dei provvedimenti del governo, la Cgil non riesce ad avere una posizione senza contraddizioni. Come si fa ad accreditare la positività del contratto a tutele crescenti, quando è chiaro che con esso passa il principio che si è a termine in ogni istante del rapporto lavorativo, perché in ogni momento si può essere licenziati ingiustamente e mandati casa? Anche la Fiom qui ha preso una cantonata. Non credo che si possa davvero lottare contro la svolta reazionaria di Renzi, ispirata da Draghi e Marchionne, con il peso di tutte queste contraddizioni sulle spalle. Non credo che si possa ottenere un risultato restando in continuità con un modello sindacale che ha accumulato solo sconfitte. Renzi fa il gradasso e prende in giro la Cgil perché conta di aver sempre di fronte il solito sindacato rassegnato al meno peggio. O i sindacati, la Cgil, cambiano rapidamente e nella direzione esattamente opposta a quella seguita negli ultimi trenta anni, rompendo con il Pd e con il sistema di potere che sostiene il governo, oppure sarà un’altra terribile sconfitta. Che ricadrà tutta sulle condizioni di un mondo del lavoro che già sta precipitando verso i livelli più bassi d’Europa.(Giorgio Cremaschi, “Perché questa Cgil non ce la può fare con Renzi”, da “Micromega” del 1° ottobre 2014).In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.
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Ttip: nel regno di Cosmopolis, lo Stato sarà fuorilegge
«Di certo non torneremo indietro. Guarderemo crescere la soglia di povertà da una parte, mentre dall’altra alcuni di noi potranno anche arricchirsi, viaggiare in limousine, guardare il caos fuori dai loro vetri. E dentro, sulle proprie fronti, tutto l’individualismo e la solitudine della contemporaneità. Avranno capito che il lavoro è limitante come lo Stato che una volta lo garantiva. Il capitale, invece – quello poco umano e molto finanziario – dà più sicurezze di arricchimento, è più veloce, più flessibile, più adatto alla propria volontà di potenza». Secondo Nicolas Fabiano, più che gli economisti e i politici sono proprio i visionari, gli scrittori come il Don DeLillo di “Cosmopolis”, a capire meglio i possibili orizzonti dell’umanità. Il libro, illuminato dalla trasposizione cinematografica di David Cronenberg, racconta un giorno poco quotidiano nella vita di un giovane miliardario. Si attraversa il quartiere di una città americana a bordo di un’auto di lusso. Sullo sfondo, il caos: il crollo dei mercati finanziari, la disoccupazione, la soglia sempre più alta tra chi ha e chi non ha. Ci stiamo arrivando, dopo vent’anni di globalismo esasperato.L’accordo di Marrakech del 1994 segnò l’inizio di un nuovo viaggio per l’umanità, scrive Fabiano nel blog “L’Intellettuale Dissidente”, ricordando la nascita del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Fine della guerra fredda e inizio del mondialismo. Dettaglio fondamentale: «Con il Wto in pratica si stabilivano regole “superiorem non recognoscens” rispetto a quelle degli Stati, l’inizio di una fase economica della politica: se una multinazionale americana riteneva la norma di un altro paese ostacolo per i propri prodotti, chiedeva al suo governo di porre la questione al tribunale del Wto». Una possibilità di pressione senza precedenti nella storia. Ma «c’era ancora una presenza, un vaglio dello Stato in questione, seppur assoggettato a un interesse privato qual è quello della multinazionale». Ora, vent’anni dopo, le norme “sfavorevoli al mercato” sono state per buona parte rimosse. «L’Occidente, piegato alla volontà del mercato, aveva fretta di coinvolgere nel Wto anche la Cina: e così, a partire dal 2001, abbiamo aperto la porta a più di un miliardo di persone. Ora ci stiamo accorgendo dei mali di quel vaso di Pandora che vorremmo tanto richiudere».La globalizzazione selvaggia, continua Fabiano, non ha solo provocato danni irreversibili alle politiche economiche degli Stati. Non sta soltanto erodendo il potere politico esercitato negli ultimi secoli dallo Stato nazionale. Proprio «per la sua vocazione internazionale ed esportatrice», la globalizzazione «sta formando dei vuoti di potere proprio nelle zone del mondo che non si vogliono assoggettare ad essa», come il Medio Oriente. E l’Europa, anziché fare retromarcia, «sta accelerando il mercatismo grazie alla “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, il famigerato Ttip o Trattato Transatlantico per il commercio. Lo sta negoziando a porte chiuse «l’organo più elitario dell’Unione Europea, la Commissione», insieme alle maggiori lobby occidentali, al vertice della finanza (Jp Morgan, Goldman Sachs) e alle grandi corporations, come la Microsoft. E in arrivo il capitalismo terminale: le multinazionali potranno farsi giustizia da sole, piegando gli Stati al loro volere.Il Ttip infatti decreterà «la scomparsa del vaglio dello Stato su richiesta della multinazionale di turno». Con questo trattato, infatti, «le multinazionali potranno fare da sé, aggredendo con cause costosissime i paesi che cercano, o meglio cercavano, di fare protezionismo». Tutto questo ovviamente «avvantaggerà i colossi economici, a discapito dei territori dove sono vissute le piccole medie imprese, le stesse che nel secondo dopoguerra hanno generato benessere in un paese come per esempio il nostro, l’Italia». Ciò che più rammarica, aggiunge Fabiano, «è la totale sconfitta della politica, la quale non conterà più niente: infatti, con la nascita del Ttip vengono messe a repentaglio non solo famiglie e imprese, ma l’idea stessa di Stato. E questa volta in modo definitivo». Il passo successivo non lo conosce ancora nessuno. «Ma il neoliberismo, la recessione degli ultimi anni, l’ossessione politico-economica di mantenere a bada i prezzi fino alla deflazione a discapito dell’occupazione, i pronostici di quest’ultimo trattato tra Europa e America che ci dicono come il Pil avrà una crescita dello 0,01%, fanno presagire il peggio». Giorno per giorno, “Cosmopolis” si avvicina.«Di certo non torneremo indietro. Guarderemo crescere la soglia di povertà da una parte, mentre dall’altra alcuni di noi potranno anche arricchirsi, viaggiare in limousine, guardare il caos fuori dai loro vetri. E dentro, sulle proprie fronti, tutto l’individualismo e la solitudine della contemporaneità. Avranno capito che il lavoro è limitante come lo Stato che una volta lo garantiva. Il capitale, invece – quello poco umano e molto finanziario – dà più sicurezze di arricchimento, è più veloce, più flessibile, più adatto alla propria volontà di potenza». Secondo Nicolas Fabiano, più che gli economisti e i politici sono proprio i visionari, gli scrittori come il Don DeLillo di “Cosmopolis”, a capire meglio i possibili orizzonti dell’umanità. Il libro, illuminato dalla trasposizione cinematografica di David Cronenberg, racconta un giorno poco quotidiano nella vita di un giovane miliardario. Si attraversa il quartiere di una città americana a bordo di un’auto di lusso. Sullo sfondo, il caos: il crollo dei mercati finanziari, la disoccupazione, la soglia sempre più alta tra chi ha e chi non ha. Ci stiamo arrivando, dopo vent’anni di globalismo esasperato.
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Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo
Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.(Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
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Troppi testimoni uccisi, non chiamatelo Mostro di Firenze
Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un’auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del Mostro di Firenze. Se n’è scritto tanto, e i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di Stato italiane.L’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. La vera e propria caccia al Mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del Mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal Mostro.C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti – non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno). Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la Procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo.Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la Procura di Firenze, sospetta un omicidio. Nel 2002 l’indagine sul Mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel Lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985.Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il Pm di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del Mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile.Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del Mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci e il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare.In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un’indagine del genere senza commetterne); la Procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una Procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della Procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento tra massoneria, delitti del Mostro e sette sataniche vengono querelati, anche se le querele verranno poi ritirate.Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali, di cui non vengono informati gli inquirenti. Il Pm Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del Mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul Mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la Procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narducci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la Procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore, Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti.Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro – anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla Procura di Genova, che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 – non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso, proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial killer è un mostro isolato, ancora in libertà.Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico perugino trovato morto nel Lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani, per la quale la Procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del Mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna.Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati.Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i “compagni di merende”, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo), Gabriella Pasquali Carlizzi, dandole alcune informazioni sul Mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un portasciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderlo più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto – l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero Mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il Mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì «aria fritta» l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri, e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un’indagine importante compare il binomio massoneria-servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione.Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: «Certo, Paolo, che dietro ai delitti del Mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi, un tempo, se toccavi il tasto mafia-politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione. Insomma, ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di Stato, ce ne sono molti altri – Rom, immigrati clandestini – che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente».Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anch’io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. Il vero mostro, in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso, ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello Stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello Stato. Il Mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.(Paolo Franceschetti, estratti da “Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello Stato”, dal blog di Franceschetti del 16 dicembre 2007).http://paolofranceschetti.blogspot.it/2007/12/il-mostro-di-firenze-quella-piovra-che.htmlHo deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un’auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del Mostro di Firenze. Se n’è scritto tanto, e i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di Stato italiane.
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Italia affondata dall’euro, ma non per Grillo e Travaglio
«Chi è oggi, cosa dice, cosa fa la sinistra italiana nel momento in cui la destra annaspa e dimostra di non essere la dispensatrice di miracoli che forse molti elettori avevano creduto che fosse? Si decide ad assumere un nome, un volto, un programma, oppure vuol continuare a fare (sia pure, bisogna riconoscerlo, sottovoce e urbanamente) delle prove d’orchestra alla Fellini? Sono domande che non aspettano risposte perché nessuno, purtroppo, ha i titoli per darne, ma che mezza Italia si pone. È vero che forse anche l’altra mezza. Ma non è una consolazione». Così Indro Montanelli, sul “Corriere” del 7 giugno 2001, un mese e mezzo prima di lasciarci, chiudeva quello che sarebbe stato il suo penultimo editoriale. S’intitolava “Il tricheco di sinistra” e, nel momento del massimo consenso berlusconiano, «profetizzava il declino del Caimano inseguito dalle sue bugie», scrive Marco Travaglio, «ma anche l’atavica incapacità della sinistra di proporre un progetto alternativo per le sue divisioni, compromissioni e confusioni». Oggi, «Grillo, Casaleggio e gli eletti M5S farebbero bene a leggerselo e a rifletterci».Il successo dei “5 Stelle”, continua Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «nasce proprio dal tradimento del centrosinistra», gravato da «inciuci e malaffari» e colpevole di aver «abbandonato i temi della legalità, dell’ambiente, dell’equità, della trasparenza e della partecipazione, regalando immense praterie ai “grillini”». Nella visione di Travaglio, tra le imputazioni a carico del centrosinistra, manca però la più importante, l’unica che pesi davvero nella grande crisi: l’analisi della situazione economica, la consegna dello Stato all’élite finanziaria per tramite dell’Unione Europea e del suo braccio armato, l’euro. Mai una denuncia chiara e inequivocabile, né da Travaglio né dai grillini. Alla vigilia delle europee, addirittura, Casaleggio dichiarò proprio a Travaglio: «Non siamo contro l’euro», testualmente. «Dopo sei mesi di campagna elettorale, Renzi è finalmente costretto a fare delle scelte e a misurare le sue slide con la dura realtà dei conti che non tornano e dei soldi che non ci sono», scrive Travaglio il 19 settembre sul suo giornale, ancora una volta senza domandarsi perché “i soldi non ci sono”.Il giornalista preferisce attaccare la propaganda di Renzi: «L’atterraggio dell’empireo dei tweet e dei selfie sulla terraferma dei numeri è tutt’altro che indolore». E aggiunge: «Il 99% degli annunci sono balle, ma soprattutto molte delle poche cose fatte non funzionano perché sono sbagliate. E qualcuno comincia a capire che la ripresa era una leggenda metropolitana e che a fare i sacrifici saranno i soliti noti: i lavoratori, un’altra volta scippati dei loro diritti; i contribuenti onesti, spremuti da un’evasione spaventosa che il governo non vuole neppure solleticare; e i cittadini, sempre più espropriati del diritto di voto (per il Senato e le Province, e pure per la Camera dei nominati)». Vero, in Parlamento i “5 Stelle” si sono battuti. «Ciò che manca però è un progetto complessivo che risulti credibile e autorevole», insiste Travaglio. Un progetto magari un po’ più solido delle sortite goliardiche di Grillo. Visibilità: manca «una figura credibile e autorevole» che ogni sera spieghi in televisione «la posizione della prima e spesso unica forza di opposizione». Quello che conta, però, i grillini non l’hanno ancora detto, né in aula né sui media. E cioè che, con l’euro – costosa moneta “straniera” presa a credito – nessuna uscita dalla crisi è possibile.«Chi è oggi, cosa dice, cosa fa la sinistra italiana nel momento in cui la destra annaspa e dimostra di non essere la dispensatrice di miracoli che forse molti elettori avevano creduto che fosse? Si decide ad assumere un nome, un volto, un programma, oppure vuol continuare a fare (sia pure, bisogna riconoscerlo, sottovoce e urbanamente) delle prove d’orchestra alla Fellini? Sono domande che non aspettano risposte perché nessuno, purtroppo, ha i titoli per darne, ma che mezza Italia si pone. È vero che forse anche l’altra mezza. Ma non è una consolazione». Così Indro Montanelli, sul “Corriere” del 7 giugno 2001, un mese e mezzo prima di lasciarci, chiudeva quello che sarebbe stato il suo penultimo editoriale. S’intitolava “Il tricheco di sinistra” e, nel momento del massimo consenso berlusconiano, «profetizzava il declino del Caimano inseguito dalle sue bugie», scrive Marco Travaglio, «ma anche l’atavica incapacità della sinistra di proporre un progetto alternativo per le sue divisioni, compromissioni e confusioni». Oggi, «Grillo, Casaleggio e gli eletti M5S farebbero bene a leggerselo e a rifletterci».
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Il golpe dei mille giorni, Renzi continua a prenderci in giro
In una situazione di emergenza nazionale in cui sia indispensabile compiere determinate mosse, è legittimato un governo emergenziale transitorio, privo di mandato popolare, che si insedii per fare immediatamente quelle poche cose necessarie, diciamo in cento giorni, e poi si vada alle elezioni, per passare dalla legittimazione emergenziale a quella democratica, che è quella normale. Un governo così non è più legittimo, ma commette un colpo di Stato, se non fa quelle cose ma converte il proprio termine da cento giorni a mille giorni oltre quelli che è già stato in carica, cioè se si converte da governo transitorio in governo di legislatura e medio termine, come se avesse avuto il mandato popolare. Ancor più ciò è vero se quel governo è il terzo governo emergenziale di fila senza mandato popolare. Aggiungiamo che questo governo emergenziale e non eletto è anche il terzo governo di fila che persegue certe determinate politiche economiche e sotto cui i fondamentali dell’economia stanno peggiorando, assieme alle prospettive economiche.Aggiungiamo ancora che tutti questi governi sono stati nominati e sostenuti specificamente nelle loro politiche economiche dal medesimo Capo dello Stato, sia pure su indicazioni o direttive straniere; onde qualora anche questo governo dovesse fallire e andarsene, quel medesimo Capo di Stato dovrebbe andarsene insieme ad esso, perdendo la faccia. Perciò è da temersi che farà di tutto per difenderlo nonostante i suoi insuccessi e la sempre più chiara illegittimità politica del suo premier. Renzi o chi per lui ha impostato la sua politica su due tempi: nel primo tempo, fino alle elezioni europee, l’obiettivo era raccogliere quanto più consenso popolare possibile suscitando aspettative a brevissimo termine; per poi usare, nel secondo tempo, questo consenso così ottenuto come legittimazione per restare a lungo al potere pur avendo tradito quelle aspettative.Così abbiamo avuto, nel primo tempo: a) la promessa di una grande riforma al mese – poi irrealizzata; b) la promessa di cambiare le regole dell’Ue soprattutto in punto di vincoli di bilancio – poi tradita con la piena adesione al rigore merkeliano e alla linea di Monti; c) l’attrazione di voti con la mancia degli 80 euro, che ora si scopre finanziata con prelievi da altre parti; d) la promessa di estensione a tutti di questa mancia, che ora Renzi ammette irrealizzabile; e) la promessa di rottamare i vecchi e di adottare le primarie come metodo per le elezioni degli enti territoriali – nettamente tradita con le nomine e conferme di uomini di apparato, senza primarie, ma con logica “ripartitoria”, soprattutto in Toscana; f) l’immagine vincente di attivismo, forza, sicurezza di sé, velocità – che ora si scoprono come modi per svolazzare intorno ai problemi, dando l’impressione di averli in pugno tutti ma senza affrontarne e trattarne realmente alcuno: l’unica possibilità per un inetto; g) la promessa di dimettersi se non avesse mantenuto le suddette promesse.Tutte queste ingannevoli promesse hanno nondimeno prodotto un raccolto di voti europei per il Pd, grazie a cui oggi Renzi può dire: è andata come è andata, i tempi si allungano, ma comunque io ho avuto il 41% dei consensi, quindi sono legittimato a governare; passiamo al passo dopo passo, ci prendiamo (ulteriori) mille giorni da oggi, realizzeremo il programma, giudicateci dopo. E questo si chiama barare. Quanti voti avresti preso, Renzi, se la gente avesse saputo che avresti tradito tutte le promesse in base alle quali ti votava? E poi: i voti per il Parlamento Europeo, come fai a convertirli in voti politici nazionali? E anche: che maggioranza avresti ora, e avresti avuto ieri in Senato, se Berlusconi non avesse il guinzaglio elettrico dei suoi processi e dell’affidamento in prova al servizio sociale, se cioè fosse politicamente libero? E’ grazie a questi fattori a dir poco anomali, a dir poco incostituzionali, che resti ancora sulla poltrona e che sei riuscito a mettere le mani sulla Costituzione, cincischiando con riforme sterili, mentre l’economia si sfascia sempre di più.(Marco Della Luna, “Il golpe dei mille giorni”, dal blog di Della Luna del 4 settembre 2014).In una situazione di emergenza nazionale in cui sia indispensabile compiere determinate mosse, è legittimato un governo emergenziale transitorio, privo di mandato popolare, che si insedii per fare immediatamente quelle poche cose necessarie, diciamo in cento giorni, e poi si vada alle elezioni, per passare dalla legittimazione emergenziale a quella democratica, che è quella normale. Un governo così non è più legittimo, ma commette un colpo di Stato, se non fa quelle cose ma converte il proprio termine da cento giorni a mille giorni oltre quelli che è già stato in carica, cioè se si converte da governo transitorio in governo di legislatura e medio termine, come se avesse avuto il mandato popolare. Ancor più ciò è vero se quel governo è il terzo governo emergenziale di fila senza mandato popolare. Aggiungiamo che questo governo emergenziale e non eletto è anche il terzo governo di fila che persegue certe determinate politiche economiche e sotto cui i fondamentali dell’economia stanno peggiorando, assieme alle prospettive economiche.
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Francia sfinita dai diktat di Berlino, l’Eurozona crollerà
Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».Nell’ultimo mezzo secolo, scrive O’Brien sull’“Independent”, il superamento della sanguinosa storia di questi due paesi – ben tre guerre, tra il 1870 e il 1944 – è stato un imperativo per entrambe le nazioni. «L’attacco illustra lo stato terribile delle relazioni franco-tedesche, che sono state il rapporto bilaterale europeo più importante nell’era successiva alla Seconda Guerra Mondiale». Tutto questo, afferma il giornalista in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, preannuncia guai seri tutti i paesi nell’Eurozona: «Se Parigi e Berlino non riescono ad andare d’accordo, la moneta unica e l’intero progetto di integrazione europea sono in pericolo». Ironia della storia: «Una valuta che è stata progettata per riunire l’Europa e contenere il potere della Germania unita sta ottenendo esattamente l’opposto», dal momento che «l’inevitabile necessità di regole condivise nell’area valutaria porta a scambi di accuse che stanno avvelenando i rapporti fra i suoi membri». Tendenza già evidente da tempo nella periferia europea, ma ora estesa al centro franco-tedesco.«Queste recriminazioni potrebbero svanire se l’economia europea si riprendesse per proprio conto o se venissero implementate delle modifiche di politica economica sostenute da tutti i paesi», continua O’Brien. «Ma se non dovesse accadere nessuna di queste due cose, il centro franco-tedesco della zona euro si indebolirà ulteriormente e probabilmente aumenterà ancora in entrambi i paesi il consenso verso i partiti favorevoli all’uscita dall’euro – compreso il Front National francese, che ha già il consenso di un elettore su quattro». Una ragione ancora più fondamentale per essere pessimisti sul futuro dell’euro, aggiunge O’Brien, è la difficoltà di trovare un modo condiviso di gestione del progetto euro, data la divergenza tra i due paesi sulla maggior parte delle questioni economiche. Se Francia e Germania credono ancora nella gestione pubblica di sanità, istruzione e welfare, «ci sono molte più differenze che somiglianze». I francesi, notoriamente, non si fidano del mercato, e per i servizi preferiscono uno Stato forte.Vale anche per le relazioni economiche internazionali: «Mentre la Francia è sempre tra i paesi Ue più restii a liberalizzare il commercio con altri paesi (inclusi, attualmente, gli Stati Uniti), la Germania è tradizionalmente nel campo pro-liberalizzazione. I loro diversi punti di vista sull’importanza relativa del mercato e dello Stato nella vita economica si riflettono anche nelle opinioni sulla gestione macroeconomica. Nessun governo francese, come si ricorda di continuo, ha presentato un bilancio in pareggio da quasi 40 anni, e le proposte di tagliare la spesa pubblica quasi inevitabilmente portano a proteste». I tedeschi, invece, hanno quasi un’ossessione per la disciplina fiscale. Per loro, un bilancio in rosso (cioè basato su un sano deficit positivo per sostenere la spesa pubblica) significa “vivere al di sopra dei loro mezzi”: «La Germania è una rarità, in quanto i politici che promettono tagli possono aspettarsi applausi, piuttosto che proteste». Così, le tendenze sulla politica monetaria sono diverse tanto quanto quelle sulla politica fiscale. «La classe politica francese chiede frequentemente alla Banca Centrale Europea di fare questa o quell’azione, mentre la loro controparte a est del Reno ritiene sacrosanta l’indipendenza dell’autorità monetaria e crede che anche il solo cercare di influenzarla comprometta tale indipendenza». Un po’ ipocrita, visto che poi la Bce prende ordini dalla Merkel e della Bundesbank.«Anche se l’euro fosse stato un club di soli due paesi – Francia e Germania – una serie dettagliata di regole avrebbero dovuto essere concordate, prima o poi, sulla falsariga del “Two Pack” e del “Six Pack” che ora governano l’Eurozona, continua O’Brien. E visto che la Germania «è economicamente e politicamente più forte della Francia», ne consegue che «la sua filosofia economica è dominante: ciò è particolarmente difficile da digerire per i francesi». Le parole di Montebourg «sottolineano non solo quanto molti in Francia già pensano», e cioè «che le politiche vengono loro imposte», ma dicono anche che «lasciare che ciò accada significa subire un’umiliazione, per un paese non incline a sottovalutare la sua grandeur». Proprio questo senso di umiliazione, osserva il giornalista dell’“Independent”, ha svolto un ruolo considerevole nell’ascesa del «reazionario» Jean-Marie Le Pen, «la cui retorica anti-Bruxelles è perfino più estrema di quella della maggior parte dei membri dell’Ukip in Gran Bretagna».Lo sfogo di Montebourg, insieme ad altri due membri di sinistra del governo che si sono uniti alla sua rivolta, ha costretto l’Eliseo al secondo rimpasto in soli quattro mesi. «La parola “crisi” non riesce nemmeno a descrivere la condizione della presidenza ormai biennale di François Hollande, ridicola perfino per gli standard di un elettorato francese perennemente scontento», scrive O’Brien. «Nessun presidente francese ha mai sperimentato gli infimi livelli che Hollande sta attualmente registrando nelle valutazioni di soddisfazione dell’elettorato». E anche se lo stato dell’economia francese non è ancora così tremendo come molti commentatori anglofoni sostengono, è comunque stagnante, esacerbato dall’assenza di crescita indotta proprio dal rigore euro-tedesco. «Non è chiaro se l’élite politica dell’Eurozona abbia pienamente interiorizzato la dimensione del cambiamento avvenuto con l’adesione all’euro», conclude O’Brien. In compenso, «è molto chiaro che l’élite politica francese non l’ha fatto». E questo, «insieme a una serie di altri fattori, porterà – prima o poi – a una rottura dell’Eurozona».Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».
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Foa: così gli italiani credono a Mr. Bean, l’allievo di Blair
Matteo Renzi è un giocoliere delle parole e non è certo un caso se da ragazzo era soprannominato “il bomba” ovvero colui che la spara grosse. Il “physique du rôle” d’altronde ce l’ha: tutto guizzi, smorfie, moine. Il premier è dotato di un ego così ipertrofico da impedirgli di capire quando non è il caso ovvero quando la sua naturale teatralità sfocia nel grottesco e, sovente, nel ridicolo. Ognuno di noi arrossirebbe se venisse fotografato in pose che evocano più le gag di Mr Bean che la postura consona a un primo ministro. Lui no.Ed è permaloso, tenace, combattiero, replica colpo su colpo, come ha dimostrato con la scenetta del gelato in risposta agli sberleffi dell’“Economist”. L’uomo è fatto così. Ma se fosse solo un istrione di strada oggi non sarebbe primo ministro. L’istinto – per far carriera a questi livelli – non basta. Ci vuole anche del metodo. Che non è certo farina del suo sacco.Per giudicare Renzi non basta esaminarlo con i parametri della politica italiana, bisogna ricorrere a quelli dello spin, ovvero delle tecniche che da oltre un ventennio consentono a leader politici, anglosassoni ma non solo, di brillare sulla scena politica, dissimulando i loro veri obiettivi politici (ed economici) con una strategia di comunicazione volta a sedurre e a distrarre il pubblico. Da Tony Blair a Bill Clinton a Barack Obama, passando per il primo Nicolas Sarkozy, per l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder e persino per l’ex presidente americano George Bush, inetto nella comunicazione, ma che grazie alle alchimie del suo “stregone” Karl Rove è riuscito a farsi eleggere due volte. Matteo Renzi è il primo politico italiano che ha raggiunto il potere usando le stesse tecniche e, non a caso – a quanto si deduce dalle biografie più autentiche, quelle non agiografiche – ha frequentato gli stessi referenti internazionali, soprattutto anglosassoni.Discorso lungo, questo che non posso liquidare in un post. Qui mi limito a rilevare due tecniche tipiche dello spin. Nella fase di creazione del consenso, Renzi ricorreva sistematicamente agli ossimori, ovvero alla capacità di accostare termini o concetti in contrastro tra loro. Esempi: Io sono contro la disoccupazione, però non si può negare che di fronte a certi comportamenti il licenziamento è giusto. Io, da uomo di sinistra, riconosco i diritti dei lavoratori, però non possiamo dimenticare quelli degli imprenditori. Io, da cattolico, sono per la famiglia tradizionale, però non posso non essere solidale con i gay. In questa maniera Renzi è riuscito a piacere quasi a tutti: a cattolici e atei, alla sinistra chic e alla destra borghese, perchè attraverso l’ossimoro ogni ascoltatore si sentiva rassicurato nelle sue convinzioni più profonde e ognuno pensava: Renzi è uno dei nostri.Poi, una volta al governo, ha applicato la teoria dell’annuncio, sul modello di Tony Blair e del suo bravissimo e spregiudicato spin doctor Alistair Campbell, i quali dovendo “nutrire” la stampa e, sapendo che pubblico e giornalisti hanno la memoria corta, si inventarono letteralmente le notizie, prediligendo quelle di facile comprensione, familiari al grande pubblico e sensazionaliste. Quasi tutte naturalmente risultarono dei bluff, però servivano a Blair per passare come un innovatore, movimentista, uno che “cambiava le cose”. Sia chiaro: in 10 anni a Downing Street Blair ha comunque lasciato il segno, ma se non avesse fatto ampio uso dello spin non sarebbe passato alla storia come un grande comunicatore e probabilmente sarebbe finito rosolato dalla stampa. Avete capito a chi si ispira Matteo Renzi?Dubito fortemente che abbia la capacità innovativa di Tony Blair – anche perchè se anche volesse cambiare davvero, le ganasce dell’Unione Europea e di Maastricht scatterebbero immediatamente, impedendoglielo – ma sul fronte dello spin può considerarsi il suo italico erede. Ricordate i primi mesi a Palazzo Chigi? Era una sequenza di annunci roboanti: “una riforma al mese”, prometteva («A marzo facciamo la riforma del lavoro, ad aprile della pubblica amministrazione, a maggio del fisco…», e così via). Roboanti quanto alla luce dei fatti inconsistenti. Non ha concluso nulla, però le rifome le ha vestite bene, consapevole della forza degli slogan. Decreto Slocca Italia, Bonus 80 euro, Rivoluzione Giustizia, Miliardi per le Grandi Opere, condite con frasi del tipo: «Non lasceremo il futuro ai gufi e a chi scommette sul fallimento. Siamo al lavoro». «Se l’Italia deve cambiare, nessuno può chiamarsi fuori. Nessuno può tirarsi indietro. Vale per tutti i settori». «Dobbiamo giocare all’attacco, non in difesa. Scegliere il coraggio, non la paura».Così irresistibilmente generiche e volte a suscitare un consenso esclusivamente emotivo. Chi vuole essere dalla parte dei gufi? Chi non vuole cambiare? Chi non ha coraggio? Nella conferenza stampa odierna il velocista Matteo ha scoperto improvvisamente le virtù del mezzofondo e ha presentato il decreto “Passo Dopo Passo”. L’uomo che voleva cambiare l’Italia in cento giorni ora ne chiede mille, per essere giudicato, udite, udite, nel maggio 2017. Ma naturalmente la colpa non è sua: è dei gufi, dei disfattisti, dei paurosi. Lui è il pifferaio senza paura. Il dramma è che, a quanto pare, incanta ancora gran parte degli italiani. Per ora.(Marcello Foa, “Renzi, tecniche di manipolazione: così seduce e inganna gli italiani”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 1° settembre 2014).Matteo Renzi è un giocoliere delle parole e non è certo un caso se da ragazzo era soprannominato “il bomba” ovvero colui che la spara grosse. Il “physique du rôle” d’altronde ce l’ha: tutto guizzi, smorfie, moine. Il premier è dotato di un ego così ipertrofico da impedirgli di capire quando non è il caso ovvero quando la sua naturale teatralità sfocia nel grottesco e, sovente, nel ridicolo. Ognuno di noi arrossirebbe se venisse fotografato in pose che evocano più le gag di Mr Bean che la postura consona a un primo ministro. Lui no. Ed è permaloso, tenace, combattiero, replica colpo su colpo, come ha dimostrato con la scenetta del gelato in risposta agli sberleffi dell’“Economist”. L’uomo è fatto così. Ma se fosse solo un istrione di strada oggi non sarebbe primo ministro. L’istinto – per far carriera a questi livelli – non basta. Ci vuole anche del metodo. Che non è certo farina del suo sacco.
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Pasolini profetizzò gli orrori di oggi: chi l’ha ucciso?
Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco. Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti. Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».La visione di Pasolini di un nuovo totalitarismo, in cui l’ipermaterialismo distrugge la cultura italiana, può essere considerata un’acuta previsione di ciò che è avvenuto in tutto il mondo nell’era di Internet. Ma la sua critica era stata, per molti mesi prima dell’assassinio, più specifica. Aveva accusato la televisione di esercitare un’influenza estremamente pericolosa, prevedendo con grande anticipo l’emergere e la presa del potere di un soggetto come il magnate mediatico e primo ministro Silvio Berlusconi. Ancor più nello specifico, aveva scritto una serie di articoli per il “Corriere della Sera” di denuncia della dirigenza del partito al potere, la Democrazia Cristiana, come pervasa dall’influenza della mafia, prefigurando gli scandali della cosiddetta Tangentopoli di 15 anni dopo, quando un’intera classe politica venne messa agli arresti nei primi anni ’90. Nei suoi articoli, Pasolini affermava che la dirigenza democristiana doveva essere processata non solo per corruzione, ma per associazione con il terrorismo neofascista, come le bombe sui treni e i fatti di Milano.Un ulteriore elemento agghiacciante: quelli erano i cosiddetti “anni di piombo” in Italia, culminati nella bomba alla stazione di Bologna cinque anni dopo la morte di Pasolini, per mano di neofascisti in collaborazione coi servizi segreti, che uccise 82 persone. Io ero uno studente nella turbolenta Firenze del 1973, dove ritornai da allora ogni anno, e militante in un’organizzazione radicale chiamata Lotta Continua; e ricordo bene che il giornale “Lotta Continua” riceveva contributi da Pasolini, benché il suo rapporto con i movimenti radicali nati nel 1968 fosse ambiguo. Lui si identificava con i poliziotti contro gli studenti che manifestavano, perché, diceva, loro erano “figli dei poveri” attaccati dai borghesi “figli di papà”. Sta di fatto che al momento dell’omicidio nel 1975, le persone vicine a Pasolini videro la mano del potere dietro al suo assassinio. Non sarebbe stato il primo caso: eminenti personaggi della sinistra furono spesso aggrediti o uccisi; la femminista Franca Rame, che avrebbe sposato l’artista anarchico Dario Fo, venne rapita da neofascisti appoggiati dai carabinieri.Membri della famiglia di Pasolini, il giro dei suoi amici, e gli scrittori Oriana Fallaci e Enzo Siciliano evidenziarono possibili motivi politici per l’assassinio e fornirono prove che contraddicevano la confessione di Pelosi, come un maglione verde ritrovato nella macchina che non apparteneva né a Pasolini né a Pelosi, e un’impronta insanguinata della mano di Pasolini sul tetto (c’era appena qualche macchia di sangue su Pelosi). Dei motociclisti ed un’altra macchina furono visti seguire l’Alfa Romeo. Nel gennaio 2001 uscì un articolo su “La Stampa”, che portava la teoria della cospirazione su un terreno pesante. Si trattava della morte, nel 1962, in un incidente aereo, di Enrico Mattei, presidente del gigante dell’energia Eni, su cui fu girato un famoso film da Francesco Rosi, con cui Pasolini aveva lavorato. L’autore dell’articolo, Filippo Ceccarelli – uno dei più esperti giornalisti politici italiani – citava le inchieste di un giudice, Vincenzo Calia, sugli intrighi politici interni ad Eni, che rivelarono che l’aereo era stato abbattuto. Il giudice Calia coinvolse il successore di Mattei, Eugenio Cefis, in connivenza con leaders politici. Il rapporto citava un giornalista, Mauro di Mauro, che aveva lavorato con Rosi per il film “L’affare Mattei”, che fu rapito e di cui si perse ogni traccia.Molto prima dell’indagine di Calia, pubblicata nel 2003, Pasolini aveva lavorato al volume “Petrolio”, pubblicato postumo, in cui si delineavano le figure, a malapena dissimulate, di Mattei e Cefis, e si mostrava a conoscenza di come lo scandalo Eni e l’assassinio conducessero al cuore del potere e della loggia massonica P2, di cui Cefis era membro fondatore. «Con 25 anni di anticipo», scrisse Ceccarelli, «lo scrittore Pasolini era consapevole dell’esito di una lunga indagine». Poi, nel 2005, si ruppero gli argini. Pelosi, intervistato in televisione, ritrattò la confessione, dichiarando che due fratelli e un altro uomo avevano ucciso Pasolini, chiamandolo “pervertito” e “sporco comunista”, mentre lo colpivano a morte. Disse che essi frequentavano la sede tiburtina del partito neofascista Msi. Tre anni dopo, Pelosi fece altri nomi in un saggio dal titolo “Profondo Nero”, pubblicato dall’editore radicale “Chiarelettere”, in cui rivelava connessioni con cellule fasciste ancor più estreme, legate ai servizi segreti, dicendo che non aveva osato parlare prima, a causa di minacce alla sua famiglia.Uno degli amici più stretti di Pasolini, l’aiuto regista Sergio Citti, uscì allo scoperto dicendo che le sue personali indagini avevano condotto a prove del tutto trascurate: dei pezzi di bastone insanguinati scaricati vicino al campo di calcio, e un testimone, ignorato dall’indagine ufficiale, che aveva visto cinque uomini tirare fuori Pasolini dalla macchina. Citti introdusse un nuovo argomento: il furto delle bobine dell’ultimo film di Pasolini, “Salò”, di cui aveva tentato di negoziare la restituzione. Venne fuori che la banda di ladri frequentava lo stesso bar del biliardo di Pelosi, e aveva contattato Pasolini l’ultimo giorno della sua vita per combinare un incontro. Un’altra ricerca dello scrittore Fulvio Abbate collegava gli assassini alla famosa banda criminale della Magliana, che operava nella periferia del litorale romano. Il caso è ormai chiuso, e c’è chi, nella cerchia di Pasolini come nella classe politica, preferisce così.(Ed Vulliamy, estratto da “Chi ha davvero ucciso Pier Paolo Pasolini?”, articolo pubblicato sul “Guardian” il 24 agosto 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”, in occasione della presentazione a Venezia del film di Abel Ferrara, che ricostruisce la figura del grande intellettuale partendo dalla sua tragica e misteriosa fine, il 1° novembre 1975, nel corso di un’esecuzione in cui risultò dapprima coinvolto il giovane Giuseppe “Pino” Pelosi).Nell’aprile di quest’anno il Vaticano, che aveva a suo tempo perseguitato Pasolini e ne aveva appoggiato una condanna per blasfemia, ha definito il suo capolavoro, “Il Vangelo secondo San Matteo”, «il miglior film mai realizzato su Gesù Cristo». Questa espressione della fede radicale di Pasolini dipinge Gesù come un rivoluzionario “Messia rosso”, secondo la dottrina francescana della santa povertà, che ha una parziale influenza sull’attuale pontefice Francesco. Ma l’attenzione ossessiva per la sua morte è meno spiegabile: nel 2010 l’ex sindaco di Roma e leader del Partito Democratico di centro-sinistra Walter Veltroni chiese che il caso venisse riaperto sulla base di un insieme di strane circostanze convergenti e politicamente rilevanti. Pasolini venne ucciso il giorno dopo il suo ritorno da Stoccolma, dove aveva incontrato Ingmar Bergman e altri dell’avanguardia cinematografica svedese, e aveva rilasciato un’esplosiva intervista al settimanale “L’Espresso”, in cui aveva esplicitato il suo argomento preferito: «Ritengo che il consumismo sia una forma di fascismo peggiore delle versioni classiche».
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Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa
Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.(Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.
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Smith: un nuovo 11 Settembre firmato Isis, cioè Cia
L’Isis è una creatura dell’Occidente al 100%: perché non aspettarsi che siano proprio gli “alleati coperti” del Califfato Islamico a firmare l’eventuale prossimo replay dell’11 Settembre? Se lo domanda Brandon Smith, in una lucida analisi nella quale mette a fuoco la storia recente e recentissima. «Il terrorismo “false flag” architettato dai governi è un fatto storico accertato: per secoli, le élite politiche e finanziarie hanno affondato navi, incendiato edifici, assassinato diplomatici, rimosso leader eletti e fatto saltare la gente per aria, per poi incolpare di questi disastri un conveniente capro espiatorio, così da generare paura nel pubblico e acquisire più potere». Gli scettici potranno discutere se una qualche specifica calamità sia stata o meno un evento terroristico “sotto falsa bandiera”, ma nessuno può negare che queste tattiche, in passato, siano state usate puntualmente, in tutto l’Occidente. «I governi hanno ammesso apertamente di creare tragedie sanguinarie e catalizzatrici con falsi pretesti, come l’Operazione Gladio, un programma false-flag in Europa, supportato dai servizi segreti europei e americani, che durò per decenni, dagli anni ’50 ai ’90».