Archivio del Tag ‘Giuseppe Conte’
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Magaldi: Salvini e Meloni si decideranno a battersi per noi?
Salvini che sparacchia su Bruxelles ma poi incarica Giorgetti di correggere il tiro, e intanto (evidentemente mal consigliato) bacchetta le donne che scambierebbero l’aborto per un’alternativa alla contraccezione, giusto per deliziare gli antiabortisti cronici. La Meloni risponde da par suo: condanna il bieco Fiscal Compact ma al tempo stesso assolve il suo gemello, il pareggio di bilancio. Gli altri politici? Non pervenuti: quei temi, nemmeno li sfiorano per scherzo. In questo frangente si salva solo l’indifendibile, inesistente Renzi: almeno, ha il coraggio di puntare sulla prescrizione, come ciambella di salvataggio in un sistema-giustizia che impiega secoli per emettere una sentenza, spesso dopo aver messo alla gogna presunti colpevoli che poi si scoprono innocenti. Ma che razza di paese è mai questo? C’è qualcuno che ha idea di come si potrebbe pilotare l’Italia, nel 2020 e soprattutto nei prossimi anni, in base a una parvenza di disegno strategico? Pare di no, purtroppo: si vive solo alla giornata, rincorrendo effimeri consensi. E mentre Lega e Fratelli d’Italia colpiscono nel mucchio, senza un piano preordinato né una visione leggibile, il Pd si limita all’eterno ruolo di cameriere italiano dell’Ue, attorniato dal fantasma imbarazzante dei 5 Stelle: dopo aver tradito tutte le promesse, i grillini credono di cavarsela tagliando futuri parlamentari e attuali vitalizi.
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I nostri leader nani: durano poco perché sono senza storia
Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.Venivano da qualcosa, in loro vedevi riflessa una storia, anche una storia collettiva, che magari era controversa, non ti piaceva, ti urtava o ti spaventava, ma c’era: la storia dei partiti e dei movimenti popolari di massa, la storia dei cristiano-democratici e dei socialisti e dei comunisti, dei missini o neofascisti e dei liberali e dei repubblicani; poi c’era la storia dei socialdemocratici, dei monarchici e di altre famiglie politiche e culturali, altre comunità con altri eroi, autori e simboli. Ciascuno non era giudicato a sé, in sé, ma come proveniente da una storia, ed erede di una cultura politica. Dietro di loro vedevi un simbolo, un tragitto, il riassunto di un albero genealogico. Invece, i dieci protagonisti odierni che abbiamo citato vengono praticamente da se stessi, non hanno storia e movimento politico; fanno parziale eccezione Zingaretti e la Meloni, che derivano quantomeno da tradizioni politiche seppur rifratte, di cui erano rappresentanti giovanili; ma gli altri no, sono parvenu o apolitici, apolidi, apatridi, self made man, mutanti, o come altro volete definirli. Pensate che sia una differenza da poco? Pensate che non conti nulla essere e sentirsi eredi e continuatori di una storia, di un modo di pensare, di un’ideologia, perfino, o comunque di una tradizione sociale, oltre che politica, di una comunità vivente oltre che di una collettività di interessi e valori? O solitari interpreti di una fase, attori che recitano a soggetto, personaggi in cerca d’autore e di target?Questa è la vera differenza e il vero salto nel buio che abbiamo fatto. La cosiddetta seconda repubblica fu ancora una via di mezzo, c’erano tradizioni politiche, storie di partiti che si spegnevano, si piegavano, mutavano nome e fattezze; ma qualche eredità ancora s’intravedeva di una storia comune venuta dal Pci, dalla Dc, dal Msi, e via dicendo. E restava in piedi sotto l’egida del bipolarismo, qualche richiamo alla destra o centro-destra e alla sinistra o centro-sinistra. Il primo parvenu della politica fu Berlusconi, che aveva, si, bazzicato molti leader ma da imprenditore, in cerca di protezioni, sponde, benefici reciproci per le sue aziende private. Con lui c’era Umberto Bossi, contro di lui ci fu Tonino Di Pietro. Ma la collocazione in un quadro bipolare rendeva riconoscibile la loro posizione e per certi versi risaltava un’appartenenza e una derivazione. Poi tutti gli altri avevano qualche precedente storico: D’Alema e Veltroni, Fini e Casini, in parte lo stesso Prodi, solo per citare i più eminenti; provenivano dal Novecento, perlomeno.Ora, invece, i leader sono autoreferenziali, traggono legittimazione da se stessi e dalle condizioni del momento, dai loro movimenti nuovi o sempre differenziati da ogni passato. I partiti aggiornano continuamente la loro app politica, cambiano ciclicamente nome, mission, struttura. Ma anche i leader devono rigenerarsi, hanno la durata di uno smartphone. Anzi è un male avere un curriculum, provenire da una storia, rivelare un’antichità. Preferibile essere marziani, extraterrestri, vergini, parvenu. Io sono il Nuovo. Ma è un’affermazione suicida nel medio periodo, perché il Nuovo invecchia in fretta e viene presto scavalcato dal più Nuovo. Per durare, il Nuovo deve scommettere sull’oblio, ovvero sulla perdita di memoria collettiva.Il populismo a questo punto diventa un’ancora per approdare nel presente e restare a tiro, in pole-position: non rappresento una storia ma un’opinione corrente, non rappresento radici ma umori diffusi. Il popolo tramite il sondaggio diventa il sostituto della tradizione e ben si sposa con la logica mercantile del nostro tempo riassunta nella formula “il cliente ha sempre ragione”. Ancor peggio del populismo è il suo nemico, il settarismo correttivo, ovvero l’assunzione di un canone ideologico obbligato rispetto a cui attenersi, che non deriva né dall’esperienza, cioè dalla realtà, dalla storia e dalla tradizione, né dal consenso popolare. Ma è mero bigottismo radical-progressista. Al di là delle specifiche stature dei dieci piccoli indiani citati come protagonisti della stagione politica in corso, a loro volta assai differenti, il paragone è disastroso perché non rappresentano altro che se stessi, in un determinato momento. Ed è questa la ragione per cui la loro parabola è breve, non lascia tracce, non si inscrive in nessuna storia ma solo in un presente che passa in fretta. Il precariato della politica, con i suoi fuochi fatui.(Marcello Veneziani, “Nani sulle spalle dei giganti”, da “Il Borghese” del febbraio 2020; articolo ripreso dal blog di Veneziani).Da una parte Andreotti e Fanfani, Moro e Craxi, La Malfa e Berlinguer, Almirante e Malagodi, Pannella e Spadolini. Dall’altra Berlusconi e Renzi, Grillo e Di Maio, Conte e Monti, Zingaretti e Gentiloni, Salvini e Meloni. Provate a paragonare alla fine di un ventennio cominciato nel duemila, dieci protagonisti della prima repubblica con dieci protagonisti dei nostri ultimi anni. E ditemi, senza nessuna preferenza di natura ideologica o politica, se non provate difficoltà anche solo a stabilire paragoni. Voi direte, ma quelli erano giganti, almeno rispetto a questi, qualunque giudizio abbiamo di ciascuno di loro; ma forse non è neanche così, molti di loro furono duramente criticati nel loro tempo e qualcuno di loro non fu o non parve all’altezza del proprio compito, e furono comunque considerati minori rispetto ai padri. Da De Gasperi a Saragat, da Nenni a Togliatti e indietro nel tempo, incluso L’Escluso per antonomasia, Mussolini. No, non credo alla teoria involuzionista, per cui i figli sono sempre minori e peggiori rispetto ai padri. Non è questo. La vera differenza è un’altra. Di tutti quei dieci protagonisti citati a proposito della prima repubblica ti accorgi di una cosa: non erano solo eminenti protagonisti in sé ma erano portatori, rappresentanti, eredi di una tradizione, di una storia, di un movimento.
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Gregoretti, giustizia politica: oggi Salvini, domani chiunque
Il caso Salvini-Gregoretti? Ne va del principio della separazione dei poteri, garanzia dello Stato di diritto. Tutto nasce da un divieto di sbarco. C’è o no c’è il reato di sequestro di persona? È un’accusa basata su una fattispecie di reato a dir poco incongrua, addirittura bizzarra. Innanzitutto non è chiaro chi sarebbero stati gli esecutori materiali del sequestro. Chi concretamente ha posto in essere la condotta criminosa? L’equipaggio? Inoltre il sequestro di persona è un reato di carattere permanente, significa che l’offesa del bene giuridico si protrae nel tempo. Il fatto è avvenuto sotto i riflettori del mondo. Sulla nave salirono anche rappresentanti delle istituzioni. A fronte di un episodio di quella gravità, al quale tutti hanno avuto modo di assistere, perché la polizia giudiziaria ad esempio non è intervenuta? Un sequestro di persona che nessuno avrebbe fatto nulla per impedire o interrompere. Dunque si tratta al massimo di un limitazione della libertà di circolazione, secondo quanto stabilito dall’articolo 16 della Costituzione. Se fosse arrivata per ipotesi un’altra nave disposta a trasferire i migranti altrove, il ministro dell’interno lo avrebbe forse impedito? No di certo. L’ipotesi del sequestro non regge nella maniera più assoluta. E comunque le libertà, tutte le libertà, non sono mai assolute, ma incontrano dei limiti.Il 20 gennaio scorso l’ex ministro Salvini ha chiesto a tutti componenti della Giunta per le immunità, compresi i senatori della Lega, di essere mandato a processo, nella convinzione di avere difeso l’interesse nazionale. Sul piano politico il messaggio è chiaro: l’ex ministro ritiene di avere agito nell’interesse dell’Italia difendendone i confini, la sovranità, il diritto-dovere del governo di regolare il fenomeno migratorio e di reprimere il traffico di esseri umani da parte di organizzazioni criminali. Il senatore Salvini ritiene pertanto di non avere nulla da temere da un processo. Ma la questione è più complessa. L’autorizzazione a procedere riguarda esattamente un punto specifico: non si entra nella fattispecie del reato di sequestro. Si deve soltanto giudicare se il ministro abbia agito ai sensi della legge costituzionale 1/1989 “per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”. Certo, si può dissentire sulla decisione di chiudere i porti. La questione è divisiva e non riguarda solo l’Italia.Guardate cosa succede quotidianamente alle frontiere francesi. Ma che la decisione dell’ex ministro fosse atto politico – e per definizione libero nel fine e insindacabile dall’autorità giudiziaria – è un dato assolutamente evidente. La concessione dell’autorizzazione a procedere da parte del Senato è un precedente pericoloso: significa che, per non essere indagati dalla magistratura, da oggi in poi si dovrebbe fare entrare in Italia, unico paese al mondo, chiunque si presentasse alle frontiere senza documenti. La questione comunque prescinde dalla persona Matteo Salvini. Oggi la questione riguarda Salvini, ma domani potrebbe riguardare qualunque altro ministro al posto suo. Domani, qualsiasi altro ministro potrebbe essere indagato dalla magistratura per avere appunto esercitato funzioni politiche. Posso dire che personalizzare la vicenda è un grave errore. Nell’autorizzazione a procedere non è in gioco l’avversario politico da abbattere, anche perché l’avversario politico non si abbatte per via giudiziaria, semmai lo si batte nelle urne. Ne va invece del principio della separazione dei poteri, postulato del moderno costituzionalismo e garanzia dello Stato di diritto.Conte ha accusato Salvini dicendo che la sua non è stata una scelta collegiale dell’esecutivo e ha distinto tra sbarco e ricollocazione: Salvini ha impedito lo sbarco, mentre il premier si occupava di trovare i paesi disposti ad accogliere. È una motivazione che non convince dal punto di vista costituzionale. Secondo l’articolo 95 della Costituzione, il presidente del Consiglio dirige la politica generale del governo e ne è responsabile, innanzitutto di fronte al Parlamento e in attuazione del mandato ricevuto. Se il presidente del Consiglio reputa inaccettabile e ingiustificabile l’atto politico o amministrativo di un ministro, ha il potere, ai sensi della legge 400/1988, di sospenderne l’adozione. Ma non c’è stato niente di tutto questo: non soltanto Conte non ha disconosciuto ufficialmente l’operato di Salvini, ma nemmeno ha sospeso la sua azione. Se non lo ha fatto, implicitamente ha avallato l’operato di un ministro che agiva con il consenso di tutto il governo. Ricordiamoci dell’articolo 40 del codice penale: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.Ora Salvini potrebbe incorrere nelle due fattispecie previste: la sospensione, che ha carattere retroattivo, come ha detto la Corte Costituzionale nel 2015, e che può concretizzarsi a seguito di condanna di primo grado. Può arrivare fino a 18 mesi. L’altra misura prevista è l’incandidabilità per coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva a più di 2 anni di reclusione per reati punibili almeno fino a 4 anni. Poiché il reato di sequestro aggravato è punibile da 3 a 15 anni, si rientra anche in questa ipotesi. I tempi? Non sono fattispecie immediate, ma potrebbero prima o poi arrivare. Si apre un capitolo complesso, lungo e irto di insidie. La richiesta di autorizzazione a procedere su una questione come questa, che è politica per definizione, non sarebbe mai dovuta neppure arrivare nelle aule parlamentari. Sottoporre a sindacato giudiziario atti politici rischia di trasformare gli stessi atti giudiziari in atti politici. La deriva illiberale che ne potrebbe derivare è evidente. Ritengo che su questo gigantesco conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato si dovrà prima o poi pronunciare la Corte Costituzionale.(Ginevra Cerrina Feroni, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Il voto del Senato non riguarda solo Salvini, ma tutti i politici”, pubblicata dal “Sussdiario” il 12 febbraio 2020. La professoressa Cerrina Feroni è docente ordinario di diritto costituzionale nell’università di Firenze. Il caso esaminato, com’è noto, riguarda la decisione di Salvini di impedire lo sbarco della nave Gregoretti, della Guardia Costiera, con a bordo 131 immigrati. Il 25 luglio 2019 la Gregoretti recuperò in acque Sar maltesi 50 migranti imbarcati dal peschereccio Giarratano e altri 91 da un pattugliatore della Guardia di Finanza. Vennero fatti sbarcare a Pozzallo il 31 luglio e poi redistribuiti nei paesi europei disponibili ad accoglierli).Il caso Salvini-Gregoretti? Ne va del principio della separazione dei poteri, garanzia dello Stato di diritto. Tutto nasce da un divieto di sbarco. C’è o no c’è il reato di sequestro di persona? È un’accusa basata su una fattispecie di reato a dir poco incongrua, addirittura bizzarra. Innanzitutto non è chiaro chi sarebbero stati gli esecutori materiali del sequestro. Chi concretamente ha posto in essere la condotta criminosa? L’equipaggio? Inoltre il sequestro di persona è un reato di carattere permanente, significa che l’offesa del bene giuridico si protrae nel tempo. Il fatto è avvenuto sotto i riflettori del mondo. Sulla nave salirono anche rappresentanti delle istituzioni. A fronte di un episodio di quella gravità, al quale tutti hanno avuto modo di assistere, perché la polizia giudiziaria ad esempio non è intervenuta? Un sequestro di persona che nessuno avrebbe fatto nulla per impedire o interrompere. Dunque si tratta al massimo di un limitazione della libertà di circolazione, secondo quanto stabilito dall’articolo 16 della Costituzione. Se fosse arrivata per ipotesi un’altra nave disposta a trasferire i migranti altrove, il ministro dell’interno lo avrebbe forse impedito? No di certo. L’ipotesi del sequestro non regge nella maniera più assoluta. E comunque le libertà, tutte le libertà, non sono mai assolute, ma incontrano dei limiti.
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Nessuno cresce per caso: la Meloni piace all’establishment
Nessuno cresce per caso. O meglio, non basta essere bravi politici per crescere in punti percentuali. Questa è la prima regola delle democrazie occidentali. Per capire l’evoluzione dello scenario partitico italiano occorre leggere tra le righe delle geometrie nazionali e internazionali. Così da non illudersi troppo facilmente per alcuni, o scandalizzarsi troppo istericamente per altri. Facciamo un passo indietro negli anni. Quando Matteo Salvini diventò segretario, era dicembre del 2013, la Lega era al 4 per cento, mentre il Movimento 5 Stelle già rompeva la dicotomia destra/sinistra diventando il partito più votato dagli italiani col 25 per cento di consensi dopo le elezioni di febbraio (sempre del 2013). Insomma la cavalcata del “Capitano” – aldilà della sua non ordinaria capacità di calarsi fisicamente nei luoghi, a una velocità supersonica, tra un comizio, una fiera locale o una sagra di paese – serviva in quel momento storico ad arginare l’ascesa dirompente del M5S ma soprattutto a fermare l’emorragia dei voti di centro-destra. Col tempo, Matteo Salvini sfrutta il vuoto mediatico lasciato dai diktat di Beppe Grillo che costringono i suoi a non andare in televisione, diventa uomo di copertina e da talk show, abbandona la “secessione”, avvia un progetto di architettura “nazionale” e introduce il “sovranismo” nel suo manifesto politico in contrapposizione al “populismo civico pentastellato”.Con questa strategia riesce a portare la Lega dal 4 al 17 (marzo 2018), al 34 per cento (maggio 2019), con una parentesi di governo “nazional-populista” durata 15 mesi che spiazzò tutte le centrali cultural-finanziarie, al punto ora da concorrere per la prima volta della storia repubblicana con il Partito Democratico in Emilia Romagna, e da conquistare in Calabria la prima regione del Sud Italia. Incredibile ma vero. Matteo Salvini gode di consenso popolare ma è isolato all’estero. Se non fosse per la sua animalità politica – la campagna elettorale in Emilia Romagna, dettata da un’agenda dell’ubiquità, è da manuale – avremmo potuto annunciare la sua fine, eppure dobbiamo aspettare ancora un po’ di tempo. In compenso esiste una seconda regola nelle democrazie occidentali. Per governare in Italia non basta il consenso popolare ma occorre anche avere una sponda all’estero molto forte. Il leader della Lega dovrebbe impararla a memoria perché a furia di stare tra le folle – impressionanti, dovremmo aggiungere per onestà intellettuale – ha trascurato i tavoli internazionali, laddove si decidono anche le sorti dell’Italia. Dopo essere stato più o meno scaricato da Donald Trump che in fase di consultazioni fece un endorsement a “Giuseppi”, nonché dal Cremlino dopo il caso “moscopoli”, ora cerca con ritardo e in modo sconclusionato di incassare un sostegno da Israele e dai suoi circoli in Italia.Chi ha capito questa regola è appunto Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, che in maniera chirurgica e silenziosa tesse la sua ragnatela negli spazi che contano, laddove Matteo Salvini è stato marginalizzato o si è auto-marginalizzato: Washington e Bruxelles. Aderendo al Parlamento Europeo al Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei ha scelto un percorso riformista e moderato, e senza scattarsi fotografie con il berretto rosso con scritto “Make America Great Again” già prepara una missione alla Casa Bianca per parlare direttamente con Donald Trump o in alternativa con il vicepresidente Mike Pence. Proprio di questo si sarebbe parlato martedì 12 novembre in un incontro super riservato a Villa Taverna rivelato da “Repubblica”, con l’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg. E non è un caso che di recente, in una prospettiva avveniristica di consolidamento dell’asse anglo-americano con la rielezione di Trump e la Brexit già annunciata da Boris Johnson, anche il “Times” l’abbia inserita tra le 20 persone che potrebbero cambiare il mondo nel 2020. In sintesi, il blocco anglo-americano ha bisogno dell’Italia per tenere un piede in Europa, e Giorgia Meloni sembrerebbe molto più affidabile di Matteo Salvini. E’ quando sei tra le “stelle nascenti” del “Times” che devi domandarti se stai facendo la cosa giusta.Ad aver intuito queste dinamiche sono i nemici di Matteo Salvini, i quali hanno capito di non poterlo sfidare frontalmente, così hanno deciso di indebolirlo portando lo scontro nel suo campo, dall’interno, alimentando la crescita di Fratelli d’Italia al fine di ridimensionare i rapporti di forza nel centro-destra. Non è un caso infatti che i sondaggi danno Fdi in crescita, proporzionalmente al calo della Lega, e sui mezzi d’informazione riceve più inviti di tutti gli altri. Stando all’ultimo studio di Mediamonitor.it sulle presenze dei politici italiani nei principali tv nazionali (Rai, Mediaset, La7, SkyTg24), che ha diviso gli ultimi sei mesi in due periodi distinti (gli ultimi tre mesi dell’esecutivo Conte I; e i primi tre mesi del Conte II), Giorgia Meloni è infatti quella che cresce di più in fatto di ospitate: +58,8 per cento. Chi dice che è merito del tormentone musicale “Io sono Giorgia” o del suo social media manager (come dicono a “L’Espresso”), non ha capito che le partite non si giocano in superficie ma in profondità, oppure a un livello molto più alto. Dipende dai punti di vista, ma la sostanza è la stessa. Le logiche dell’establishment sono molto più potenti dei semplici algoritmi. Vallo a spiegare ai “giovani coglioni” (direbbe Céline) che perseguitano la “Bestia”.(Sebastiano Caputo, “L’ascesa di Giorgia Meloni”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 20 gennaio 2020).Nessuno cresce per caso. O meglio, non basta essere bravi politici per crescere in punti percentuali. Questa è la prima regola delle democrazie occidentali. Per capire l’evoluzione dello scenario partitico italiano occorre leggere tra le righe delle geometrie nazionali e internazionali. Così da non illudersi troppo facilmente per alcuni, o scandalizzarsi troppo istericamente per altri. Facciamo un passo indietro negli anni. Quando Matteo Salvini diventò segretario, era dicembre del 2013, la Lega era al 4 per cento, mentre il Movimento 5 Stelle già rompeva la dicotomia destra/sinistra diventando il partito più votato dagli italiani col 25 per cento di consensi dopo le elezioni di febbraio (sempre del 2013). Insomma la cavalcata del “Capitano” – aldilà della sua non ordinaria capacità di calarsi fisicamente nei luoghi, a una velocità supersonica, tra un comizio, una fiera locale o una sagra di paese – serviva in quel momento storico ad arginare l’ascesa dirompente del M5S ma soprattutto a fermare l’emorragia dei voti di centro-destra. Col tempo, Matteo Salvini sfrutta il vuoto mediatico lasciato dai diktat di Beppe Grillo che costringono i suoi a non andare in televisione, diventa uomo di copertina e da talk show, abbandona la “secessione”, avvia un progetto di architettura “nazionale” e introduce il “sovranismo” nel suo manifesto politico in contrapposizione al “populismo civico pentastellato”.
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Conte non cade? Conviene a tutti, tranne che a noi italiani
Dunque, il governo non cadrà. Almeno così appare dal voto in Emilia, così incautamente caricato di valenze simboliche e nazionali. A dir la verità, avevo forti dubbi che il governo cadesse anche in caso di vittoria del centro-destra a Bologna; l’intenzione era quella di restare comunque al governo perché, se cadono, Conte, Zingaretti e i grillini tornano nel niente da cui provengono. Solo la fine rapida e ingloriosa dei 5 Stelle può produrre a questo punto un’accelerazione sulla sua caduta, ma è difficile immaginare chi possa essere il kamikaze. Aggiungo una considerazione insolita: se il governo non cade adesso è meglio per tutti. Salvo per gli italiani. Ma tutto sommato conviene sia a chi ci governa, altrimenti sparirebbe nel nulla, sia all’opposizione, altrimenti al governo finirebbe nei guai. E conviene pure a Renzi, che ha poche aspettative dal voto, e a Berlusconi, idem con patate. In una situazione così difficile, non avendo neanche un po’ lavorato per costruire un governo ma solo per fabbricare il consenso immediato, a presa rapida, i sovranisti, e Salvini in particolare, si troverebbero tra le mani una patata bollente ed esplosiva.Non hanno lavorato su alleanze interne e internazionali, non hanno predisposto una compagine efficace di governo, non hanno selezionato il personale viaggiante, hanno scelto e stanno scegliendo candidati regionali spesso inadeguati e sbagliati, non stanno pensando la politica ma solo esprimendosi a gesti, gag e battute per tenere sui sondaggi; in questa situazione, meglio aspettare, meglio rivedere gli equilibri interni al centro-destra. E non lo diciamo col senno di poi, lo abbiamo già scritto prima, più volte. La vittoria di Bonaccini, su cui ho sempre scommesso, ha dato una boccata d’ossigeno al governo e al Pd, ma è stata anche l’estrema unzione per i grillini, e la certificazione della loro irrilevanza politica; oggi, se si votasse a livello nazionale rischierebbero di scivolare da primo partito a quinto, dopo Fratelli d’Italia e forse anche Forza Italia. Se escono dal gioco di governo i grillini finiscono la loro parabola subito; se resistono al governo la parabola finirà comunque col governo. Chi invece ha solo da perdere dalla permanenza di questo governo e del suo illusionista premier è quella trascurabile massa chiamata “gli italiani”.Loro sì, hanno solo da perdere su troppi piani se resta in piedi un governo d’incapaci in malafede, ridicoli agli occhi del mondo, che puntano solo alla propria sopravvivenza. La sinistra riprende fiato in Emilia in una campagna elettorale falsa e asimmetrica, in cui Bonaccini nascondeva il Pd e il governo, e Salvini nascondeva la Borgonzoni. Le sardine, di cui già si figurano decorazioni al valore e cavalierati al merito, sono servite solo a rendere esplicito quel che era implicito; con la loro illusione ottica/ittica di piazza, non hanno spostato consensi ma hanno restituito qualche astensionista di sinistra alle urne. Hanno svolto la funzione degli ascari nelle truppe coloniali. Zingaretti si salva nascondendosi nei pantaloni di Bonaccini, sopravvive se non si fa vedere, il Pd passa la dogana elettorale travestito da clandestino, confuso tra le casse di sardine. Non so davvero come possa rilanciarsi un Pd sotto falso nome e con falso leader; non so che futuro possa avere restando in quelle mani così inadeguate e in quella situazione surreale, con falso passaporto.Dalle elezioni non si impara quasi mai qualcosa. Men che meno se le vinci. Però quando si allenta la tensione per il voto, magari è possibile sospendere la tattica e gli slogan e cominciare la strategia e la riflessione politica. Con la vittoria di Bonaccini in Emilia e del centro-destra in Calabria, riprende forma il bipolarismo. L’unico dato politico che si conferma ormai per la terza volta è che il grande equivoco dei grillini sta finendo ingloriosamente e precipitosamente. Non sono capaci di governare, potevano funzionare finché urlavano dall’opposizione e intercettavano i rancori, le pernacchie e i vaffa del paese. Ma da statisti sono ridicoli, inadeguati, dannosi. A un certo punto molti temettero e alcuni si illusero che stesse nascendo un nuovo bipolarismo tra populisti gialloverdi ed establishment italo-europeo. Quell’ipotesi tramontò, il populismo non trovò una sintesi col sovranismo, e non riuscì a spazzare l’establishment euro-italiano; il populismo fu sconfitto e assorbito, sopravvisse a sé stante solo il sovranismo.Salvini cresce da solo, non cresce in compagnia della Meloni e di Berlusconi, ma non ha altra via se vuole tradurre il suo consenso in possibilità di governo. Lo conferma ormai il quadro delle regioni in mano al centro-destra. Certo, dire centro-destra contro sinistra significa tornare indietro, arrotolare il nastro, regredire a dieci, vent’anni fa. Il fatto positivo di questa fase è il ritorno del bipolarismo, il fatto negativo è il ritorno dei fantasmi. Forse bisogna fare un salto di qualità, battezzare già in altro modo l’alleanza per un’Italia sovrana e popolare. Poi bisogna capire che incidenza avrà l’incognita del nostro paese, il fu Matteo Pascal, al secolo Renzi. Ho l’impressione che altre veloci meteore si stiano scaldando ai bordi della galassia politica. Intanto possiamo dire: l’Italia resta nei guai, ma Conte ha salvato le sue preziose chiappe. Un paese sacrificato a pochi casi personali.(Marcello Veneziani, “Il governo non casde? Meglio per tutti, salvo gli italiani”, da “La Verità” del 28 gennaio 2020).Dunque, il governo non cadrà. Almeno così appare dal voto in Emilia, così incautamente caricato di valenze simboliche e nazionali. A dir la verità, avevo forti dubbi che il governo cadesse anche in caso di vittoria del centro-destra a Bologna; l’intenzione era quella di restare comunque al governo perché, se cadono, Conte, Zingaretti e i grillini tornano nel niente da cui provengono. Solo la fine rapida e ingloriosa dei 5 Stelle può produrre a questo punto un’accelerazione sulla sua caduta, ma è difficile immaginare chi possa essere il kamikaze. Aggiungo una considerazione insolita: se il governo non cade adesso è meglio per tutti. Salvo per gli italiani. Ma tutto sommato conviene sia a chi ci governa, altrimenti sparirebbe nel nulla, sia all’opposizione, altrimenti al governo finirebbe nei guai. E conviene pure a Renzi, che ha poche aspettative dal voto, e a Berlusconi, idem con patate. In una situazione così difficile, non avendo neanche un po’ lavorato per costruire un governo ma solo per fabbricare il consenso immediato, a presa rapida, i sovranisti, e Salvini in particolare, si troverebbero tra le mani una patata bollente ed esplosiva.
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Usa e Israele ricattano l’Italia, pavida e disonesta con l’Iran
Dilaga la disonestà intellettuale. Per avventura ho partecipato a una trasmissione televisiva dove un invitato e la conduttrice non sapevano niente di Iran e delle sanzioni imposte dagli Usa alla Repubblica islamica, distorcendo i fatti e la realtà. In onda si perde tempo a correggere errori marchiani di gente che per ignoranza o evidenti motivi ideologici – demonizzare l’Iran e sostenere Usa e Israele – non sa neppure la sequenza degli eventi. È la propaganda del nostro regime mediatico, asservito a Washington e a Israele, sostenuto dai cosiddetti sovranisti con la complicità di una sinistra ufficiale inesistente. Soprattutto adesso che l’Europa – con Gran Bretagna, Francia e Germania – contesta agli iraniani la violazione dell’accordo sul nucleare del 2015 in seguito alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio che è seguita all’uccisione da parte di Trump del generale Qassem Soleimani. Riepiloghiamo i fatti. L’accordo, un trattato internazionale supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015 e con molte difficoltà l’Iran rientra nel circuito degli scambi internazionali. In realtà neppure con Obama era facile: le banche occidentali erano costantemente bersaglio del Tesoro americano se aprivano linee di credito con Teheran.L’Italia che aveva 30 miliardi di euro di commesse con l’Iran dovette rinegoziare con il governo iraniano arrivando a un accordo per una linea di credito da 5 miliardi di euro, che doveva coprire le nostre esportazioni. Il governo Gentiloni aspettò la vigilia delle elezioni nel 2018 e non fece mai il decreto attuativo perché messo sotto pressione di Usa e Israele. Così abbiamo perso altri soldi e posti di lavoro. Nel 2018 Trump straccia l’accordo sul nucleare ma per un anno l’Iran non vìola nessuna delle regole del trattato e non arricchisce l’uranio. Il governo del moderato Hassan Rohani, tenendo a freno i falchi del regime, aspettava che l’Europa mettesse a punto un sistema, definito Instex, per l’aggiramento delle sanzioni. A questo sistema, voluto da Gran Bretagna, Francia e Germania, aderiscono oggi sei nazioni europee ma l’Italia non vi partecipa ancora. Ufficialmente perché lo sta studiando, in realtà in quanto ha subito nuove pressioni americane e israeliane, anche da parte dei sovranisti della Lega che al governo con i Cinquestelle sostenevano soprattutto Israele e non gli interessi nazionali. I Cinquestelle, prima ancora della rottura con la Lega, hanno adottato le stesse posizioni con Conte e Di Maio nonostante una parte del movimento fosse contrario.Il sistema Instex comunque non ha ancora funzionato e il governo iraniano si è così trovato strangolato da continue sanzioni: ecco perché Teheran, sotto attacco di Trump, ha ripreso l’arricchimento dell’uranio. Il presidente americano continua falsamente a dire di essere pronto a negoziare una nuova intesa con Teheran che comprenda anche i missili balistici, non solo il nucleare. Ma invece di incoraggiare il negoziato prima fa assassinare il vero numero 2 del regime poi impone altre sanzioni giugulatorie. Trump non vuole negoziare con Teheran ma strangolarla, e spingere se possibile verso un cambio di regime sfruttando le piazze e le laceranti divisioni interne. Senza naturalmente sapere bene chi mettere al posto degli ayatollah, magari aprendo altre voragini come è accaduto in Iraq o in Libia o come stava per accadere in Siria. È parso evidente che Trump in Medio Oriente ha a cuore soltanto le sorti di Israele e quelle dell’Arabia Saudita, il suo maggiore cliente di armi. Il prossimo G-20 a Riad sancirà la piena assoluzione del principe ereditario Mohammed bin Salman, mandante, anche secondo la Cia, dell’assassinio del giornalista Jamaal Kashoggi.In questo ultimo anno Trump ha riconosciuto l’annessione israeliana di Gerusalemme e del Golan e sarebbe pronto a farlo anche per la Cisgiordania: contro tutte le risoluzioni Onu. Trump odia i trattati multilaterali e la legalità internazionale: li considera un impedimento all’uso della forza. Gli europei devono stare bene attenti. Ora Trump bastona arabi e iraniani, poi toccherà anche a noi europei. Anzi ha già iniziato, praticamente sciogliendo la vecchia Nato e consentendo a un suo membro, la Turchia, di acquistare armi dalla Russia, di fare una strage di curdi siriani, i nostri maggiori alleati contro il terrorismo e l’Isis, e di tentare l’avventura libica con soldati e mercenari jihadisti. La Nato gli serve soltanto per mettere i soldati italiani ed europei al posto dei marines in Iraq se gli americani se ne dovessero andare o ridurre le truppe: carne da cannone per avere mano libera nei raid con i droni. Ma la cieca propaganda dei media italiani e in parte europei fa sì che andremo al macello senza lamentarci. Non come agnelli sacrificali di biblica memoria ma come asini felici di essere bastonati. Anzi, meno ancora degli asini, perché ogni tanto pure loro si ribellano e mollano quale calcione. E i media dietro, a tirare il carro della propaganda. Che stampa, bellezza!(Alberto Negri, “Sull’Iran dilaga la disonestà intellettuale”, dal “Manifesto” del 17 gennaio 2020; articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).Dilaga la disonestà intellettuale. Per avventura ho partecipato a una trasmissione televisiva dove un invitato e la conduttrice non sapevano niente di Iran e delle sanzioni imposte dagli Usa alla Repubblica islamica, distorcendo i fatti e la realtà. In onda si perde tempo a correggere errori marchiani di gente che per ignoranza o evidenti motivi ideologici – demonizzare l’Iran e sostenere Usa e Israele – non sa neppure la sequenza degli eventi. È la propaganda del nostro regime mediatico, asservito a Washington e a Israele, sostenuto dai cosiddetti sovranisti con la complicità di una sinistra ufficiale inesistente. Soprattutto adesso che l’Europa – con Gran Bretagna, Francia e Germania – contesta agli iraniani la violazione dell’accordo sul nucleare del 2015 in seguito alla ripresa dell’arricchimento dell’uranio che è seguita all’uccisione da parte di Trump del generale Qassem Soleimani. Riepiloghiamo i fatti. L’accordo, un trattato internazionale supervisionato dall’Onu, entra in vigore alla fine del 2015 e con molte difficoltà l’Iran rientra nel circuito degli scambi internazionali. In realtà neppure con Obama era facile: le banche occidentali erano costantemente bersaglio del Tesoro americano se aprivano linee di credito con Teheran.
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L’Italia frana, mentre Salvini & Sardine pensano all’Emilia
Mentre le Sardine prodiane si affannano nelle piazze a insultare l’Uomo Nero sulla base di slogan vuoti e istericamente pericolosi, come la pretesa di togliere all’odiato nemico la libertà di esprimersi sul web, emerge sempre più chiaramente la vera natura dell’altro colossale abbaglio gialloverde, il cosiddetto fronte sovranista (in realtà solo salvinista). E’ vistoso il panico del Pd di fronte alle elezioni emiliane, in una Regione-simbolo che, per la prima volta nella storia, sembra seriamente contesa dal centrodestra. Ma pur di sviare l’attenzione dal vero pericolo – la fine dell’eterno poltronificio “rosso” – il Pd preferisce scendere sullo stesso terreno di Salvini, fingendo cioè di credere che a Bologna sia in gioco chissà cosa, la fine del mondo, il tramonto dell’umanesimo di fronte all’incombere della barbarie. L’Emilia come linea del Piave, come soglia psicologica: se crollasse, però, insieme all’onesto buongoverno dell’uscente Bonaccini finirebbe rottamato soprattutto lo storico radicamento territoriale di un potere che, partendo dalla genuinità campagnola dei tanti industriosi Peppone, una volta insediatosi a Roma (dopo la fine della Prima Repubblica) ha tranquillamente svenduto il paese alla famelica finanza globalista, grazie a condottieri anti-italiani come Prodi. E qualcuno può pensare seriamente che, con il baldo Salvini, la musica sarebbe diversa?In premessa, ovviamente, del Pd si può dire tutto il male possibile. Liquidati Moro dalla strategia della tensione e Bettino Craxi da Mani Pulite, la filiera ex-Pci ha consegnato quel che restava dell’elettorato di sinistra al turbocapitalismo neoliberista e privatizzatore, che ha distrutto l’economia mista (gruppo Iri) che faceva dell’Italia un paese anomalo, insopportabilmente benestante grazie al traino dell’industria di Stato, pur al netto delle tante piaghe nazionali: il clientelismo atavico e la corruzione dei partiti, l’evasione fiscale record, il ruolo invasivo delle mafie nell’economia. Quell’Italia è stata sabotata già nel 1981 con il divorzio fra Tesoro e Bankitalia, poi al resto ha provveduto il Trattato di Maastricht: dopo il lavoro sporco affidato a Prodi e Draghi, il “vincolo esterno” imposto alla politica nazionale è stato salutato con giubilo da leader come D’Alema. Agli ex amici dell’Urss è stato finalmente permesso di guidare il paese, sia pure solo formalmente, a patto che si limitassero a eseguire gli ordini del grande capitale finanziario neoliberale. Un’opera che solo l’ex sinistra poteva condurre in porto, con provvedimenti come la legge Treu per ridimensionare il peso e i diritti dei lavoratori, d’intesa con la Cgil.A conferma delle menzogne quotidiane fabbricate dalla propaganda sinistrese, per finire l’opera c’è stato bisogno che si chiudesse l’inutile parentesi del cosiddetto ventennio berlusconiano: la pietra tombale sui diritti del lavoro è infatti giunta solo con Renzi, sotto forma di Jobs Act e abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Contro il nuovo partito scelto dal potere per regnare sull’Italia si era levato il Movimento 5 Stelle, che aveva individuato nel Pd – giustamente – il vero nemico della sovranità italiana. Se però l’ex sinistra aveva fatto ricorso a politiche sofisticate e a menti raffinatissime per ingannare l’elettorato, spacciando per medicina il veleno che veniva somministrato al paese, i grillini hanno sfondato alla velocità della luce ogni limite estetico, ogni diaframma di decenza politica: in un pugno di mesi hanno rinnegato al 100% il loro programma iniziale, calpestando tutte le promesse e gettando nella spazzatura le speranze di un elettore su tre. Per un anno, usando come paravento l’uomo-ombra Giuseppe Conte, al governo coi 5 Stelle c’era pure la Lega di Matteo Salvini, che aveva ereditato da Bossi un Carroccio al 4% dei consensi. Quadruplicati, i suffragi leghisti, occupando stabilmente le televisioni per anni, essenzialmente con invettive: contro l’euro e l’Europa matrigna, contro i migranti e i campi Rom da spianare con le ruspe, contro l’atlantismo servile da rimpiazzare con una politica multipolare più rispettosa della Russia e delle istanze nazionali, ricalcando posizioni come quelle espresse in Francia da Marine Le Pen e in Ungheria da Viktor Orban.Una volta al governo, però, il Capitano (coraggioso, a quanto patre, solo a parole) ha cominciato a frenare: ha ingoiato la bocciatura di Paolo Savona imposta dai grandi poteri tramite Mattarella, ha subito senza fiatare il siluramento del fido Armando Siri, l’uomo della Flat Tax, e ha incassato l’umiliante “niet” di Bruxelles in relazione alla richiesta di espandere il deficit: si trattava peraltro solo del minimo sindacale, per finanziare investimenti capaci di dare un po’ di fiato al made in Italy, ma al nostro paese è stato negato anche quello. Di che pasta fosse il sovranismo di Salvini lo si è poi visto nel dicembre 2018, con l’avvilente genuflessione di fronte a uno dei massimi terminali del potere imperialista, nella versione israeliana incarnata dal famigerato Benjamin Netanyahu, uno dei politici più pericolosi del Medio Oriente. Il resto è cronachetta: le penose risse sugli sbarchi e gli strascichi giudiziari all’italiana mentre il vero potere si mangia la Libia, l’inaudita condanna inflitta alla Lega (costretta a “restituire” 49 milioni di euro, in realtà mai rubati) e l’imbarazzante vicenda di Gianluca Savoini, sorpreso a Mosca a discutere di forniture energetiche: fatto su cui Salvini si è finora rifiutato di dare spiegazioni.Unico politico italiano capace di esprimere un esultante tifo calcistico a favore del brutale omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, l’ex mattatore del Papeete è oggi contestato dalle Sardine essenzialmente per il lessico politicamente sgarbato, intollerabile per il buonismo dei gretini che proprio non vedono i 100 trilioni di dollari già pronti, per la speculazione del secolo che si avvale dell’ingenuità della minorenne svedese. Un grande spettacolo per ciechi: da una parte l’implume Greta elogiata dal fantasma-Zingaretti e dall’altra il villanzone lombardo, mentre i tre grandi poteri del mondo (gli azionisti di Vanguard, BlackRock e State Street) stabiliscono – al posto dei politici – come dovremo vivere e cosa dovremo pensare, nei prossimi anni. Avanza nel modo pià subdolo l’ambigua rete wireless 5G, destinata a rivoluzionare il nostro modo di esistere e di lavorare. Secondo medici e scienziati, prima di decretarne la sicurezza per la salute pubblica occorrerebbero almeno tre anni di test e di studi seri e indipendenti, che invece nessuno pretende: del 5G non si preoccupano né Salvini né le Sardine, per non parlare del Pd e dei resti umani pentastellati.Per la prima volta nella storia repubblicana, 130.000 bambini italiani quest’anno sono stati esclusi da nidi e materne: la tragedia dell’obbligo vaccinale imposto senza motivazioni mediche ha messo nei guai milioni di famiglie, ma il problema semplicemente non esiste nell’agenda politica di nessun soggetto, inclusa la Lega e i suoi valorosi detrattori “ittici”. Le autostrade crollano, l’Ilva agonizza e l’Alitalia traballa, la Fiat svende ai francesi l’auto italiana senza dare nessuna garanzia sulla sopravvivenza degli stabilimenti nazionali, ma Salvini & Sardine (come anche grillini e zingarettiani, meloniani e renziani) hanno ben altro per la testa: legge elettorale, prescrizione, taglio dei parlamentari. E soprattutto: elezioni regionali in Emilia Romagna, cruciale bivio per i destini delle italiche poltrone. Interrogativi amletici: riusciranno i Conte-boys e resistere un altro anno, per piazzare 500 figurine (suggerite dai soliti sovragestori) negli enti strategici del sottopotere, fino ad arrivare poi alla poltronissima del Quirinale? Viceversa – ohibò – scatterebbe l’ora di Matteo Salvini, l’eroe del glorioso sovranismo italiano ispirato direttamente da Medjugorje. Lui, il titanico artefice del riscatto nazionale, armato di crocefisso e devoto a San Donald, noto patrono dell’indipendenza italiana di cielo, di terra e di mare.Mentre le Sardine prodiane si affannano nelle piazze a insultare l’Uomo Nero sulla base di slogan vuoti e istericamente pericolosi, come la pretesa di togliere all’odiato nemico la libertà di esprimersi sul web, emerge sempre più chiaramente la vera natura dell’altro colossale abbaglio gialloverde, il cosiddetto fronte sovranista (in realtà solo salvinista). E’ vistoso il panico del Pd di fronte alle elezioni emiliane, in una Regione-simbolo che, per la prima volta nella storia, sembra seriamente contesa dal centrodestra. Ma pur di sviare l’attenzione dal vero pericolo – la fine dell’eterno poltronificio “rosso” – il Pd preferisce scendere sullo stesso terreno di Salvini, fingendo cioè di credere che a Bologna sia in gioco chissà cosa, la fine del mondo, il tramonto dell’umanesimo di fronte all’incombere della barbarie. L’Emilia come linea del Piave, come soglia psicologica: se crollasse, però, insieme all’onesto buongoverno dell’uscente Bonaccini finirebbe rottamato soprattutto lo storico radicamento territoriale di un potere che, partendo dalla genuinità campagnola dei tanti industriosi Peppone, una volta insediatosi a Roma (dopo la fine della Prima Repubblica) ha tranquillamente svenduto il paese alla famelica finanza globalista, grazie a condottieri anti-italiani come Prodi. E qualcuno può pensare seriamente che, con il baldo Salvini, la musica sarebbe diversa?
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La Cupola ha in mano il governo. Ma l’alternativa dov’è?
Ma davvero vi aspettavate che la Corte costituzionale desse il via libera al referendum promosso dalla Lega? Ma in che mondo vivete, conoscete le biografie dei giudici costituzionali, chi li ha voluti lì, e più in generale conoscete le leggi inesorabili del potere, il loro reciproco sostegno? E la stessa cosa vale per la decisione della Cassazione in merito alla questione Carola Rackete; pensavate davvero che accadesse il contrario? Per anni siamo stati abituati a considerare chi è al potere come la Casta. È tempo di fare un salto di qualità e considerare che il potere è oggi piuttosto la Cupola. La casta riguardava solo i privilegi, la Cupola è un assetto di potere interdipendente e non espugnabile in modo fortuito. La cupola è una struttura sovrastante che non accetta né immissioni di estranei, né circolazione delle classi dirigenti, né il minimo cedimento dei suoi assetti consolidati. I suoi metodi e i suoi scopi sono finalizzati alla pura conservazione del potere, allo scambio di favori tra poteri, all’associazione di scopo finalizzata al reciproco sostegno. Quello che il popolino al sud sintetizzava nella formula “mantienimi-che-ti-mantengo”, ossia uno regge l’altro ed ambedue impediscono l’accesso di estranei, outsider.
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Magaldi: bravo Salvini, si fa processare sfidando gli ipocriti
Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di fermare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato vent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.In video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi chiarisce la sua posizione: per i politici (almeno, fin che sono in carica) è necessaria la tutela dell’immunità parlamentare assicurata nel modo più forte, anche per salvaguardare la piena dignità della funzione politica. Quanto a Salvini, ben venga il salto di qualità della sua condotta: fino a ieri, di fronte ad analoghe contestazioni (nave Diciotti), il capo della Lega era passato dall’ostentare tranquillità al quasi-implorare l’immunità, fino a essere “salvato” da Conte e Di Maio. Oggi, con il quadro parlamentare ribaltato e i 5 Stelle al governo col Pd, il no” agli sbarchi diventa materia giudiziaria: un pretesto per cercare di indebolire il nuovo leader dell’opposizione. Eloquente il parere di Zingaretti, secondo cui Salvini (che starebbe esasperando la vicenda) agirebbe «per motivi personali». Il che la dice lunga sulla perdurante ipocrisia di un Pd che, in fondo, è l’erede diretto di quella “casta di maggiordomi” che accettò senza condizioni il vincolo esterno dell’Ue, pur di sedersi al governo dopo il crollo (giudiziario) della Prima Repubblica. Un Pd senza idee né identità, che strizza l’occhio al neo-ambientalismo propagandistico di Greta e all’imbarazzante exploit delle Sardine, che pretendono di imbavagliare i ministri negando loro accesso a Twitter.Salvini tira dritto: vuole andare a processo per la Gregoretti (spiazzando anche la Meloni e Forza Italia) e intanto si protegge le spalle omaggiando Trump e Netanyahu: clamoroso l’applauso del leghista per l’uccisione americana del generale iraniano Qasem Soleimani, temuto da Israele. E a proposito: Salvini è tornato sul tema mediorientale, tifando per la promozione di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico, dopo aver equiparato l’antisemitismo alle critiche al sionismo. In un recente convegno alla presenza dell’ambasciatore israeliano in Italia, l’ex vicepremier si è rammaricato dell’assenza di Liliana Segre: «Lei avrebbe tanto da insegnare, Carola Rackete no», ha aggiunto, attaccando la “capitana” della Sea Watch che speronò una motovedetta della Guardia di Finanza. Il fatto che una tragedia come la Shoah venga costretta a galleggiare nello stesso mare in cui nuotano i migranti descrive bene il tenore della speculazione politica corrente, mentre l’Italia perde i pezzi: vessato dalla Commissione Europea, il Belpaese non riesce a risolvere nessuna delle sue crisi industriali, e in più assiste impotente anche alla perdita della Libia, ormai “appaltata” al duopolio russo-turco senza che il fantasmatico Conte-bis riesca a battere un colpo per dimostrare di esistere.«Salvini sta studiando», disse Magaldi la scorsa estate, dopo la diserzione del Papeete e la fine del governo gialloverde, clamorosamente rimpiazzato da quello giallorosso. Per i detrattori (e i grandi media), si trattò di un autogoal: il capo della Lega sperava nelle elezioni anticipate, mai si sarebbe aspettato che i 5 Stelle si stringessero al Pd – e a Renzi – per giunta mantenendo Conte a Palazzo Chigi. Salvini fornisce una versione diversa: gli sarebbe stato impossibile giustificare ancora, presso l’elettorato leghista, un governo senza risultati. Non solo la problematica autonomia regionale per il Nord-Est, ma soprattutto il miraggio della Flat Tax, o comunque il sollievo fiscale promesso da Armando Siri. Ai gialloverdi, leghisti inclusi, Magaldi non ha mai fatto sconti: «Bravissimi ad abbaiare contro Bruxelles, e altrettanto bravi a prendere ceffoni, tornando a Roma con le pive nel sacco e senza neppure la magra consolazione del 2,4% di deficit». Erano i tempi in cui il campione sovranista Salvini flirtava con Marine Le Pen e l’ungherese Orban, insieme all’intero cartello di Visegrad ostile alle frontiere aperte. Poi è arrivata la bombetta-Moscopoli, con i silenzi imbarazzati sulla presenza di Savoini al Metropol, intercettato (da quale servizio segreto?) mentre discuteva di forniture energetiche, non si sa a che titolo, con oligarchi russi.Nella conversione atlantista di Salvini, peraltro anticipata già nella visita in Israele lo scorso anno, Magaldi vede il bicchiere mezzo pieno: «Salvini si sta schierando, dopo esser stato tacciato di essere inaffidabile in quanto filo-russo». Per la precisione, si sta allineando a Trump e Netanyahu. Magaldi apprezza: «Sono a favore della creazione di uno Stato palestinese e denuncio gli abusi della politica israeliana», premette, non senza aggiungere: «Israele resta pur sempre l’unica democrazia dell’area: se si vuole la pace, è più facile partire proprio dagli elementi israeliani progressisti, piuttosto che dai paesi – tutti autoritari – che circondano lo Stato ebraico». E cita il coraggioso tentativo di Yitzhak Rabin, «massone progressista» assassinato nel ‘95 da un colono ultra-sionista per aver tentato, davvero, di stringere una pace storica coi palestinesi. Nulla di simile è oggi all’orizzonte: era ancora vivo Arafat quando la scelta della pace fu pagata, dall’Olp, con la secessione di Gaza, finita sotto il controllo di Hamas, «una formazione fondamentalista sciita, vicina all’Iran, che nega tuttora a Israele il diritto di esistere». Mala tempora currunt: Medio Oriente nel caos, Libia contesa da potenze lontane dall’Ue, Europa inesistente, Italia paralizzata da una crisi che sembra senza vie d’uscita. E in mezzo a questo disastro, l’impresentabile Pd pretende di crocifiggere Salvini, per via giudiziaria, con il pretesto dell’opposizione agli sbarchi?A far salire la temperatura, ovviamente, sono le imminenti regionali in Emilia Romagna: una lunghissima campagna elettorale, punteggiata dai comizi casa per casa dell’onnipresente Salvini, cui si oppone – agitando addirittura l’antifascismo – l’ambigua ciurma delle Sardine prodiane. Per Magaldi, sono tappe della guerra tattica che, dietro le quinte, vede contrapposti due supermassoni occulti, «il “fratello” Romano Prodi e il “fratello” Mario Draghi, entrambi proiettati verso la conquista del Quirinale, dopo Mattarella». Quanto all’Emilia, si tratta di una Regione «ben governata dall’uscente Stefano Bonaccini». Se dovesse perdere, però, non sarebbe una tragedia: «E’ inconcepibile – dice Magaldi – la pretesa di mantenere al potere sempre la stessa parte politica, ininterrottamente, per mezzo secolo: non bisogna avere paura dell’alternanza, che è il sale della democrazia, e questo dovrebbe valere anche per la Lega». Nel frattempo, resta comunque inevasa la questione di fondo: «L’Italia – sintetizza Magaldi – ha bisogno di un cambio radicale nella governance dell’Ue, ottenendo il via libera a investimenti per 200 miliardi non computabili nel deficit. C’è un paese da ricostruire, facendolo uscire dall’incubo artificiale dell’austerity, progettata da un’élite reazionaria di cui sia Draghi che Prodi sono stati al servizio, con la differenza che oggi Draghi si dice pentito del suo operato, mentre Prodi se ne guarda bene».Fa benissimo, Matteo Salvini, a sfidare apertamente chi lo vorrebbe alla sbarra. Ottima idea, quella del leader della Lega: opportuna e coraggiosa la decisione di sottoporsi al processo per il caso della nave Gregoretti, fermata l’estate scorsa davanti al porto siciliano di Augusta con i suoi 116 migranti. Lo afferma Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: se qualcuno pensa di tornare a processare la politica nei tribunali (in questo caso, tentando di neutralizzare per via giudiziaria un leader che sembra politicamente imbattibile), tanto vale affrontare l’accusa in aula e porre il problema, una volta per tutte, davanti alla nazione. Ha senso inquisire un ministro per i suoi atti politici? Tema drammaticamente illuminato dal film “Hammamet”, appena uscito nelle sale, e dai tanti libri freschi di stampa che propongono una radicale rilettura della sorte di Bettino Craxi, liquidato trent’anni fa ricorrendo all’iniziativa del pool Mani Pulite, ai tempi in cui la Lega Nord, in Parlamento, agitava il cappio. Troppo spesso, sottolinea Magaldi, si è cercato di strumentalizzare le toghe (magari inconsapevoli) per fini politici: e il clamore sul caso Gregoretti, dove l’accusa di sequestro di persona appare effettivamente debole, secondo il leader del Movimento Roosevelt ha l’aria di una mera speculazione politica di basso profilo.
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Carpeoro: Craxi ucciso dai nostri nemici, complici gli italiani
Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” l’Italia, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».Avvocato per trent’anni, Carpeoro (Pecoraro, all’anagrafe) – massone, simbologo, saggista e romanziere – era cresciuto tra i giovani socialisti calabresi alla corte di Giacomo Mancini. A Milano, aveva seguito Bobo Craxi e ricoperto vari incarichi nel Psi. Poi, tra lui e il leader socialista c’erano stati dissapori, quando a Carlo Tognoli fu preferito Paolo Pilliteri come sindaco milanese: «Il problema, con Bettino, era che non accettava che gli si desse torto, né in pubblico né in privato». Si riconciliariono in piena tempesta Mani Pulite: «Gli scrissi, apprezzò le mie parole. Poi, quando riparò ad Hammamet, andai a trovarlo due volte». Beninteso: «Craxi non è semplicemente morto: è stato ucciso», sottolinea Carpeoro, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. L’accusa: gli fu impedito di essere curato in modo adeguato, in Italia, senza venire arrestato. Era piagato dal diabete, insidiato da un tumore. E Craxi preferì morire, piuttosto che affrontare il carcere. In un suo libro appena uscito, Fabio Martini ricorda: l’allora premier Massimo D’Alema chiese al procuratore Francesco Saverio Borrelli di attivare una procedura umanitaria, in modo che Craxi potesse essere operato a Milano, da uomo libero. Ma Borrelli rifiutò. A quel punto, D’Alema avrebbe potuto emanare un decreto, ma non osò farlo. E Craxi, poco dopo, morì. «In carcere, sarebbe sopravvissuto tre giorni», dice Carpeoro: «E per impedirgli di dire la sua, comunque, gli avevano minacciato i figli».Rivelazioni clamorose, anticipate da Carpeoro nel 2015 durante una conferenza dell’associazione “Salus Bellatrix” di Vittorio Veneto, guidata da Francesca Salvador. «Perché Craxi non si difese a viso aperto, contrattaccando, visto che si sentiva vittima di un complotto? Ci aveva provato, contattando Paolo Mieli, Giovanni Minoli e Giancarlo Santalmassi, cioè il “Corriere” e la televisione. Ma quella sera stessa lo raggiunse un avvertimento anonimo e minaccioso all’hotel Raphael, dove alloggiava a Roma». Messaggio esplicito: attento, se parli colpiremo i tuoi figli. «Nel giro di poche ore lo chiamarono Bobo e Stefania: lui aveva trovato la sua casa messa a soqquadro, mentre a lei avevano anche preso i vestiti dagli armadi e glieli avevano bruciati sul terrazzo». I figli erano spaventati, il padre pure: i responsabili della sicurezza di Craxi gli dissero che si trattava di minacce credibili, pericolose. Al che, continua Carpeoro, Bettino rinunciò alle interviste-bomba e passò al Piano-B: «Chiamò l’allora capo della polizia, Vincenzo Parisi, e lo incaricò di mediare coi giudici di Milano». L’offerta: siate “morbidi”, e io lascerò l’Italia. Detto fatto: «In molti notarono l’anomala mitezza di Di Pietro nell’interrogatorio di Craxi». Era il segnale atteso: Craxi lasciò il paese da uomo libero, come pattuito. «La Tunisia, l’estradizione non l’avrebbe mai concessa. Ma l’Italia non l’ha comunque mai chiesta».Ipocrisie colossali? E non è tutto: «Nell’archivio del tribunale di Milano – aggiunge Carpeoro – c’è una stanza inaccessibile dove sono tuttora tenuti sotto chiave i dossier riguardanti 6 anni di indagini condotte prima che si venisse a sapere di Mani Pulite». Indagini-fantasma? «A quanto pare, condotte con metodi non legali», cioè senza avvertire gli indagati. «Me ne parlò direttamente un magistrato», dichiara Carpeoro. «Riferii subito la cosa a Bettino, ma decise di non fare nulla: sottovalutò il pericolo. Io comunque sono pronto a testimoniare in aula, se si apre un’inchiesta su questo». Si riaprirà? Carpeoro ne dubita: «Troppi poteri forti non vogliono che se ne parli: dovranno passare altri dieci anni, prima che questo capitolo si possa riaprire». Ancora tanti, i protagonisti in circolazione. L’ex giustiziere Di Pietro? «Una figura interamente costruita per affondare l’Italia colpendo Craxi. Ogni giorno era a colazione con il console americano: al punto che, per l’imbarazzo, gli Usa furono costretti a liberarsi di quel diplomatico». Bruciava ancora la notte di Sigonella: quale altro leader europeo aveva mai osato far circondare i marines dalla propria polizia, per proteggere un commando palestinese? Gli americani volevano Abu Abbas, inviato da Arafat per risolvere la crisi della nave da crociera Achille Lauro. Craxi lo difese, in nome della sovranità nazionale, pagando per questo un prezzo altissimo.«Quello che i cialtroni della nostra carta stampata continuano a non dire, e a far finta di non sapere – aggiunge Carpeoro – è che l’unica vittima dei sequestratori della nave, l’anziano paralitico Lion Klinghoffer, non era solo un pensionato ebreo con passaporto statunitense: era anche e soprattutto un alto esponente del B’nai B’rith», l’esclusiva massoneria ebraica che rappresenta il nerbo del Mossad, che in quegli anni si era reso responsabile di azioni sanguinose contro i palestinesi. Era il 1985: l’Italia, quinta potenza industriale del mondo, aveva ancora una politica estera (oltre che un vero governo). Bel problema: andava “risolto”. Aldo Moro era stato “sistemato” come sappiamo, dopo esser stato minacciato di morte da Henry Kissinger. Un anno dopo Sigonella, i killer colpirono Olof Palme a Stoccolma: «Era il leader carismatico dei socialisti europei», ricorda Carpeoro: «Lui vivo, non sarebbero mai riusciti a fare questo aborto di Ue». Per un po’ resistette la Francia, «ma lo stesso Mitterrand fu messo fuori gioco». Restava Craxi, e si sa com’è finita. «Se ti metti contro certi poteri, devi solo sperare di vincere», aggiunge Carpeoro: «Sai già in partenza che, se perdi, poi finisci ad Hammanet. E infine muori, assassinato – di fatto – dai nemici del tuo paese, e con la complicità dei tuoi stessi concittadini, che il potere ha messo contro di te».Carpeoro non fa sconti, agli italiani: si sono lasciati manipolare, come i topolini dal pifferaio di Hameln. Solo oggi, vent’anni dopo, molti di loro aprono gli occhi. «Craxi aveva un progetto ben preciso: voleva un’Europa unita, ma governata dai socialisti». Era stata la dottrina di Olof Palme: «Tagliare le unghie al capitalismo, frenarne gli eccessi». Peccato che il potere, in programma, avesse ben altro: neoliberismo assoluto e “totalitario”, svuotamento della democrazia e sottomissione della politica. Tagli alla spesa, crollo della classe media, rigore fiscale, mortificazione dell’economia reale a favore delle grandi concentrazioni finanziarie. In altre parole, l’attuale Disunione Europea: «Profetiche, in questo senso, le invettive di Craxi da Hammamet di fronte all’avvento dell’euro: ma ormai era un leader screditato in ogni modo, esiliato, latitante». Si era battuto per l’Italia, senza che gli italiani se ne accorgessero. La fine della scala mobile? Per Carpeoro, una concessione tattica al sistema. Il “serpente monetario” Sme? Una vittoria craxiana: uno stratagemma per proteggere la lira dalle speculazioni dei Soros. Dopo di lui, il diluvio: privaizzazioni selvagge, fine dello Stato. Oggi l’Italia è in ginocchio, col cappello in mano a mendicare elemosine a Bruxelles, e senza uno straccio di progetto politico – e men che meno, di statista – in grado di disegnare un futuro diverso.Ha stravinto il peggior potere, il neoliberismo finanziario che ci ha imposto l’austerity come dogma religioso. E l’Italia l’ha messa nel sacco nel solito modo, cooptando italiani “collaborazionisti”. «Siamo un paese così, fin dal Rinascimento: pur di sconfiggere la signoria rivale, ci si allea con gli stranieri». Ben lieti, i baroni dell’ex Pci, di accettare il “vincolo esterno” imposto dall’Ue alla politica italiana: caduta la Prima Repubblica arrivarono finalmente al governo, ma a patto di obbedire agli ordini della sovragestione internazionale. «Craxi fu tolto di mezzo perché, esattamente come Moro, una cosa simile non l’avrebbe mai accettata. Non c’era modo di piegarlo: bisognava eliminarlo». Il suo grande errore? «Si fidava degli italiani: immaginava che prima o poi capissero che lavorava per loro». E invece, gli hanno dato del ladro. Non cambiarono idea neppure il giorno che nessun parlamentare alzò la mano per contestarlo, quando in Parlamento chiese: qualcuno può dire di non aver mai percepito finanziamenti politici illegali? «Si evita sempre di ricordare che, in assenza di una legge adeguata per coprire i costi della politica, la Dc fu finanziata per decenni dagli Usa, e il Pci dall’Urss». Ma il ladro era “Bottino” Craxi, come lo chiama Travaglio, anche se persino Borrelli – prima di morire – si è domandato se Mani Pulite non abbia finito per favorire i grandi poteri che volevano depredare l’Italia.«E’ vero che i soldi servivano a finanziare il partito, ma qualcosa restava attaccato alle dita», dice a Craxi un personaggio del film “Hammamet”. «Di sicuro – replica Carpeoro – le dita non erano quelle di Craxi, che per sé non hai preteso una lira: del suo famoso “tesoro”, solo immaginario, non c’è traccia». Aveva tollerato personaggi discutibili, nel Psi? «Certo, ma era inevitabile: se avesse tagliato anche quelli, avrebbe dimezzato i voti. E il suo grande cruccio è sempre stato quello di non essere riuscito a superare il 15%. Già così, comunque, dava fastidio sia alla Dc che al Pci, che avrebbero preferito fingere in eterno di combattarsi, continuando a spartirsi il potere sottobanco in modo consociativo». Cos’è mancato, a Craxi? Gli italiani: il consenso del paese, nonostante gli enormi successi economici. «E il bello è che la parola “socialismo” riscuoteva generale simpatia». Il maggior merito di Craxi? «Aver sgombrato il campo, una volta per tutte, dalla lotta di classe: l’idea di poter raggiungere un socialismo vero con le riforme, cioè senza la violenza di una rivoluzione». Riforme per il popolo, non contro il popolo (come quelle neoliberiste). E com’è che il potenziale campione diventa un nemico pubblico? Pensiero magico: la fabbricazione dell’Uomo Nero. Carpeoro ne fa una teoria argomentata: si educa la gente a votare “contro”, se si vuole distruggere un paese. Caduto un avversario, eccone un altro. L’importante è non costruire mai niente di buono. Ed eccoci qua, con Salvini e le Sardine, Conte e Di Maio. E l’Italia – o quel che ne resta – divorata in un sol boccone dal pescecane di turno.Dove siamo, col cervello, mentre le cose accadono? Perché non riusciamo quasi mai a leggerne il vero segno? Fa impressione, oggi, ascoltare i mea culpa di tanti italiani che, vent’anni dopo la sua morte nella solitudine di Hammamet, rimpiangono in Bettino Craxi il politico puro, lo statista, l’uomo irriducibilmente indipendente dal sistema mainstream, anche a costo di apparire antipatico, altezzoso, insopportabile. E fa ancora più impressione ascoltare un suo antico collaboratore come Gianfranco Carpeoro, spietato con gli storici detrattori di Craxi: «Fino a quando continueranno a dar retta a gente come Travaglio e Scanzi, gli italiani verranno sodomizzati quotidianamente». La durezza di Carpeoro è impietosa: «Quelli che oggi ancora scrivono, mentendo, che Berlusconi fu una sorta di erede politico di Craxi, dimenticano la lite furobonda che li oppose. Insieme ad Andreotti, Craxi costrinse Berlusconi a cedere “l’Espresso” e “Repubblica”. Così poi Berlusconi tradì Craxi, scatenando le sue televisioni nel cavalcare Mani Pulite». L’Italia del benessere in crescita stava finendo: «Prodi svendette la Sme a De Benedetti per 600 milioni, e il gruppo fu poi rivenduto per 20 miliardi». Era l’inizio della fine: per “terminare” il Belpaese, dopo aver eliminato Moro, bisognava far fuori anche Craxi: «I nemici di Bettino erano gli stessi che avevano tolto di mezzo Moro, per la salvezza del quale proprio Craxi (con Pannella) fu l’unico a battersi».
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La Lega non ha idee, chiede le elezioni ma spera resti Conte
Conte regnerà tranquillo e indisturbato, perché l’opposizione non c’è. Lega e Fratelli d’Italia? Sembrano scalpitare, ma sperano che non si voti: una volta al governo, non saprebbero cosa fare. Lo afferma Calogero Mannino, ex ministro Dc. La tesi: questo sperare nell’eterno rinnvio dimostra che non c’è un progetto politico per l’Italia. Da nessuna parte: né da Salvini, né dalla sedicente sinistra. «Lo spettro che si agita – avverte Mannino, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario” – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine». Attenti: sarà lo stesso schieramento che eleggerà il nuovo capo dello Stato, per di più con la benedizione di Trump, nuovo involontario garante dello status quo. Il Conte-bis nel frattempo non cade, sostiene Mannino, per via della crisi politica generale: in Parlamento «non c’è un’opposizione che metta la pseudo-maggioranza di governo di fronte alle proprie responsabilità». E la Lega, dunque? «Soffre della disabilitazione operata dal sistema mediatico e dalla convergenza para-politica “al lupo al lupo”. Ma è piuttosto una tigre di carta: ha timore di risultare eccessivamente aggressiva, e al tempo stesso ha una debolezza organica, un deficit di consistenza politica. Non è un partito, sta ancora sull’onda lunga della protesta leghista del ‘92».Se non è un partito, l’ex Carroccio che cos’è? «Uno spazio aperto – secondo Mannino – dove si è imposta la leadership di Salvini in ragione della sua esuberanza». Ma ecco il suo limite: «Salvini non ha né una strategia, né un progetto politico preciso». Quanto a Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia – annota Ferraù – oggi viene accreditata di simpatie atlantiche, indispensabili per andare al governo. «La coerenza con la quale pratica il verbo sovran-nazionalista la rende gradita al giro di Trump», conferma Mannino. Il vero problema è questo: molti osservatori – scrive Ferraù – cominciano a supporre che Salvini e Meloni non facciano vera opposizione perché, se domani andassero al governo, non saprebbero cosa fare. L’ex ministro democristiano conferma: devono “minacciare” di voler andare al governo, ma si augurano che la scadenza elettorale sia la più lontana possibile. La verità è che «temono di vincere», e così «offrono a questa maggioranza l’alibi-pretesto per rimanere in sella, peraltro ben utilizzato dal trasformismo di Conte». L’unico serio problema per la tenuta della maggioranza sembra dunque venire dalla possibile dissoluzione dei 5 Stelle? «Sembra, ma è un’eventualità lontana dai fatti», dice Mannino: «Ogni giorno si accentua la polemica, ma al momento decisivo Di Maio si guarda bene dal rompere, perché non ha alternativa al restare al governo».Oggi, sempre secondo Mannino, nella sostanza i 5 Stelle seguono la linea Grillo-Fico. Obiettivo? Controllare i grillini, una volta che saranno diventati «una corrente nel Pd». Niente male, come orizzonte: «Lo spettro che si agita – aggiunge Mannino – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine. Un rassemblement radicale di massa, con dentro la componente chic». A legittimare questo scenario, secondo Mannino è il ruolo del Pd: «Ha rinunciato anch’esso a essere un partito politico di garanzia democratica per porsi sul terreno movimentistico della resistenza alla Lega». In questa veste, il partito di Zingaretti «ha aperto in tutte le direzioni», in questo non si è accorto di una costante fondamentale: inseguendo i movimenti, i partiti spariscono. «Ogni superamento della forma-partito postula una cangiante versione del populismo», sostiene Mannino: «Anche Berlusconi fu un movimento populista: così si oppose all’armata partitica di brancaleoniana memoria assoldata nel 1994 da Achille Occhetto». Ci risiamo? «Assistiamo a qualcosa di simile nei maggiori paesi», dice Mannino. «I partiti pretendono di intercettare i movimenti, ma in questa operazione diventano instabili, mobili qual piuma al vento. Vale per Trump, per Spd e Cdu in Germania, per il Ps francese messo in crisi da Macron».Domanda Ferraù: sarà dunque questa legislatura a votare nel 2022 il nuovo capo dello Stato? «Al momento attuale – risponde l’ex ministro – questa legislatura è intatta e intangibile, quindi pronta per quella scadenza». E cosa pensare dello strano intreccio tra nuova ipotesi di proporzionale, referendum Calderoli per il maggioritario e referendum contro il taglio dei parlamentari? «Alla fine – afferma Mannino – nessuno vuole il proporzionale, tranne i più piccoli. Ma questi vorrebbero anche essere garantiti, e non potendo esserlo con il proporzionale, un sistema in parte maggioritario e in parte proporzionale come l’attuale rende loro possibile un’alleanza (a sinistra con il Pd, e a destra con la Lega)». La Consulta dirà se il referendum Calderoli è ammissibile. Intanto, Salvini e Meloni hanno detto sì al Mattarellum. Perché? «Siamo alle mosse tattiche: o facciamo la legge nuova insieme o insieme lasciamo l’attuale». Secondo Mannino, questo «significa che la filosofia dominante, nell’attuale confusione temporale e spaziale, è “hic manebimus optime”. Tutti ragionano così: mi tengo quello che ho e sto bene dove sono».Mannino non crede che in Italia possa irrompere un fattore imprevisto che possa mettere in discussione questo status quo, che «dipende dal superamento della linea strategica rooseveltiana che l’America ha costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale». E’ un fatto: «Oggi l’impero è in crisi e le province sono nel caos». Ovvero: «Gli Stati Uniti hanno organizzato l’impero per comparti. Uno è l’Europa: Italia, Francia e Germania facciano pure la Ceca, l’Euratom e tutto il resto, cioè l’Europa unita. Io – gli Usa – però ne dispongo, perché la Nato tiene l’Europa». Ed ecco l’effetto-Donald: «Il sovranismo confusionario di Trump, inserito come elemento di contraddizione nell’attuale sgretolamento dell’assetto politico mondiale, ha un risultato sorprendente: non è avversario dello status quo, ne diviene causa e condizione». Allora sarà Washington, ancora una volta, a dirci chi eleggere al Quirinale? «Assisteremo a un aggiustamento all’interno della maggioranza Pd-M5S», scommette Mattino. Tradotto: Conte al Colle e Zingaretti al governo? «Non riesco a seguire questo giochino di figurine», chiosa Mannino. «Vince chi soffia più forte».Conte regnerà tranquillo e indisturbato, perché l’opposizione non c’è. Lega e Fratelli d’Italia? Sembrano scalpitare, ma sperano che non si voti: una volta al governo, non saprebbero cosa fare. Lo afferma Calogero Mannino, ex ministro Dc. La tesi: questo sperare nell’eterno rinnvio dimostra che non c’è un progetto politico per l’Italia. Da nessuna parte: né da Salvini, né dalla sedicente sinistra. «Lo spettro che si agita – avverte Mannino, intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario” – non è quello della conquista dell’Italia da parte della Lega, quanto piuttosto da parte di questo rassemblement di sinistra che da Leu, passando per il Pd, arriverà ai 5 Stelle e alle Sardine». Attenti: sarà lo stesso schieramento che eleggerà il nuovo capo dello Stato, per di più con la benedizione di Trump, nuovo involontario garante dello status quo. Il Conte-bis nel frattempo non cade, sostiene Mannino, per via della crisi politica generale: in Parlamento «non c’è un’opposizione che metta la pseudo-maggioranza di governo di fronte alle proprie responsabilità». E la Lega, dunque? «Soffre della disabilitazione operata dal sistema mediatico e dalla convergenza para-politica “al lupo al lupo”. Ma è piuttosto una tigre di carta: ha timore di risultare eccessivamente aggressiva, e al tempo stesso ha una debolezza organica, un deficit di consistenza politica. Non è un partito, sta ancora sull’onda lunga della protesta leghista del ‘92».
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Billi: Travaglio ha “normalizzato” i 5 Stelle, ora globalisti
Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.Qualche illuso continua ad aggrapparsi all’idea del “torniamo al M5S delle origini”: ebbene, questo è impossibile. Il M5S delle origini rappresentava una sintesi di posizioni possibile in tempo di pace, a globalismo imperante. Questo momento storico, piaccia o no, impone invece di schierarsi: pro, o contro. Succede ovunque, in tutti i paesi, in tutti i continenti, e il M5S non può pretendere di starsene fuori dalla storia per rimanere aggrappato a un purismo ultras partes che avrà sì rappresentato in passato un successo politico, ma che ormai non è più quello che gli stessi elettori chiedono. Per questo perde voti (#stacce, direbbero su Twitter). Il dibattito interno del M5S è completamente fuori sintonia: dito e luna, in due parole. Questo è ciò che succede quando ci si fa orientare la discussione dai giornali, d’altronde. Il “Fatto”, in primis, sta schiacciando l’acceleratore: mi spiace per Luca De Carolis, persona perbene e giornalista serio (uno dei pochi), ma il suo “scoop” su Di Maio contribuirà a dare il colpo di grazia al M5S e normalizzarlo nella direzione voluta dal potere, ovvero l’allineamento al paradigma dominante.Ma soprattutto, lo scopo di tutta l’operazione in corso da mesi è scongiurare il coagularsi di una formazione antiglobalista in Italia: quindi distruzione dell’anima M5S statalista, pro-lavoratori, contro l’arroganza Ue, della finanza, delle banche, le ingerenze e i ricatti delle potenze straniere, via insomma quell’anima ribelle che non avrebbe potuto fare altro che appunto ribellarsi alla prepotenza di un potere che, messo in discussione ovunque, vuole ora imporsi in modo più aggressivo che mai. Tutto il panorama politico italiano va normalizzato, e la scheggia imprevedibile messa sotto controllo (così come è ancora sotto controllo la Lega, tante volte qualcuno si illuda). Non si possono correre rischi di Gilet Gialli nelle strade o peggio, che spunti qualche leader alla Johnson in Parlamento… non che se ne intravedano all’orizzonte del M5S, ma non si sa mai. Di Maio, seppur moderatissimo (ahimé, e questo è il suo errore) dovrà essere asportato in quanto rappresentante del vecchio M5S incontrollabile, e sostituito con qualche figura dal carisma zingarettiano che assicuri la transizione verso la soporifera reincarnazione piddina. Conte il liquidatore farà il resto, come sta peraltro già attivamente facendo.(Debora Billi, “La normalizzazione globalista del M5S”, dalla pagina Facebook della Billi dell’11 gennaio 2020).Il “Fatto” ci prova da mesi. Da anni, forse, e non ce ne eravamo accorti. Il giornale a torto considerato “fiancheggiatore del MoVimento”, in realtà ha inoculato nel tempo e a piccole dosi il suo veleno girotondino. Già, perché altro che Sardine: il girotondinismo non è mai morto. Quel vecchio sogno morettiano di cambiare il Pd perché “con questi leader non vinceremo mai”, rinacque a nuova vita con l’apparizione sulla scena politica del M5S. Molti, moltissimi dem videro nel Movimento l’incarnazione del Pd tanto auspicata: la “base”, i giovani, lo spirito ribelle, le tematiche ambientali e del lavoro, persino il centralismo democratico casaleggino tanto criticato aveva però quel profumo leninista capace di destare più di una nostalgia. Insomma, un’estetica da Pci, ma innestando quei contenuti globalisti tanto cari ai dem di tutto il mondo: che dire, proprio un sogno. Così, mentre i media tutti hanno picconato per anni il M5S concorrente dem, il “Fatto” ha scelto una strada più astuta: trasformarlo nella reincarnazione. Il M5S, appunto, non se ne è accorto. Soprattutto, in moltissimi non si sono accorti che nel frattempo è cambiato il mondo: dalla Brexit a Trump ai Gilet Gialli, lo scontro con la pressione delle idee globaliste sull’umanità è ormai aperto.