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Il regno della Tv è finito, ora tocca al web dei giovani
Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.Gli italiani la considerano e la rispettano come un’istituzione, pur con la consapevolezza che si tratta della longa manus dell’establishment democristiano. Impaginata in un dignitoso bianco e nero, la tv costruisce l’identità nazionale a colpi di Tg monocratici, di sceneggiati e quiz a premi. Sono gli anni del boom economico e della Guerra Fredda, della Fiat e dell’Iri e la Rai, in quanto parte sostanziale del grande conglomerate parastatale, gode di immensi sostegni che le consentono di diventare la più grande industria nazionale della cultura. Siamo nell’era Bernabei e Agnes, i due instancabili alfieri di una cavalcata quasi trentennale. Il braccio tecnologico della Rai erige tralicci dovunque. La ricezione del segnale tende con fatica al 90% dell’aspro territorio italiano. C’è perfino una sezione nazionale dell’industria che costruisce Tv set e li alloca a rate nelle case. Tutti appaiono soddisfatti. La pubblicità è ridotta al mitico Carosello e la globalizzazione passiva non s’è ancora manifestata al suo peggio.Il matrimonio e la fedeltà tra il servizio pubblico e i suoi telespettatori cominciano ad incrinarsi verso la fine degli anni ‘70. In questo periodo la pressione della globalizzazione aumenta inverosimilmente. L’organizzazione dei consumi di massa ha bisogno della tv e certo Carosello non basta. I legislatori, ossequiosi delle richieste dell’industria internazionale e delle lobbies, non alzano vere barriere che impediscano la messa in discussione del monopolio. Del resto l’estetica e il gusto degli italiani, bramosi di costumi liberalizzati (costumi già sottoposti alle incursioni delle cosiddette radio libere che hanno fatto da apripista), esigono che ci sia un’alternativa alla limitata scelta dei tre canali offerti dalla Rai. Entra nella scena Silvio Berlusconi dopo aver prontamente sgominato i suoi competitors: Mondadori e Rusconi.L’imprenditore (che in realtà è un mercante di telespettatori) è sostenuto immediatamente dall’Upa – Utenti Pubblicitari Associati, un marchio che vede al suo interno un’agguerrita compagine di industrie multinazionali (travestite dalla loro sezione “Italy”), le quali pretendono e ottengono che nei palinsesti delle nuove tv, il 10-12% del tempo sia destinato ad ospitare filmati promozionali di merci e servizi. Il partito di Craxi prima e il suo governo poi, sostengono a loro volta. Il Pci non capisce, o fa finta di non capire che cosa sta succedendo, e si limita a una opposizione fiacca. La Dc appare molto divisa ma alla fine accetta di trasformare la Rai in quello che verrà definito il “sistema misto”: in parte servizio pubblico, in parte commerciale. A metà degli anni ‘80 la scena è profondamente mutata. Dall’idea di “qualità tv” si passa a tappe forzate all’idea di “quantità di audience”. Comincia con l’Auditel la “misurazione” e la conseguente compravendita di telespettatori inconsapevoli che vengono ridotti, anch’essi, a merce.Neanche il sindacato dei giornalisti Rai capisce un granché. Irrimediabilmente convinti che il consenso politico si costruisca solo con l’informazione, continuano per decenni una battaglia di retroguardia finalizzata a ridurre l’influenza dei partiti sulle nomine dei vertici Rai e dei Tg, senza rendersi conto che il consenso, e quello che a Madison Avenue chiamano puntualmente lo stile di vita, si organizza molto a colpi di film, miniserie e tanta, tanta pubblicità. L’infrastruttura tecnologica è ancora più o meno la stessa. La tv è analogica, diffusa da grandi antenne poste sui tralicci. Il passaggio, ormai digerito, da bianco e nero a colore, ha solo consolidato un parco utenti che esisteva. Debutta il videoregistratore, che modifica in modesta parte i consumi tv, ma in realtà il suo contributo alla storia della tv non è essenziale. Il suo vero contributo è quello di favorire il fenomeno della pirateria.La vera grande novità in questa fase è la frequentazione dei manager e di pochi autori ai mercati di Tv internazionale: Mip tv di Cannes, London Multimedia Market e Natpe di Las Vegas, oscurano progressivamente il ruolo svolto dal Mifed di Milano. In queste sedi internazionali si comprano al quintale (loro dicono “a pacchetti”) film, telefilm, serie e miniserie e si avviano coproduzioni faraoniche. Il prezzo dei contenuti tv si impenna vertiginosamente, mentre i messaggi da loro veicolati diventano sempre più orientati al liberismo qualunquista, alla violenza e sottostanno alla legge imperiale: “Chi prende il piatto ha sempre ragione”. Cominciano a scorrere fiumi di denaro per assicurarsi storie patinate, un po’ insulse ma seducenti, con le quali fare audience e conseguentemente soddisfare gli appetiti dei pubblicitari. Rai e Mediaset, con un finto terzo polo costituito da Telemontecarlo, si contendono di tutto: libraries, managers, uffici legali e intermediatori d’affari abili a sottrarre percentuali vistose nel corso delle compravendite (qualcuno finisce sotto inchiesta altri espatriano con il bottino).Sono gli anni di All Iberian e delle grandi manovre di Mediaset e dei suoi consulenti per evadere le norme fiscali e valutarie, che comunque appaiono esili e aggirabili. Il telespettatore medio è sempre più bombardato. Il “broadcasting” tipico della tv generalista comincia a lasciare spazio al “narrowcasting” mirato a audience segmentate e individuabili dalle tv “specializzate”. È nei primi anni ‘90 che appare con forza nella scena la prima grande innovazione tecnologica: i satelliti per televisione “diretta a casa”. L’Italia diventa velocemente un feudo Eutelsat, dopo che Giuliano Berretta, un ingegnere vicentino al comando del colosso parigino, sgomina il competitor Astra di base in Lussemburgo. I costruttori di apparati per ricezione tv esultano: oltre ai tv set, che diventano sempre più grandi e sempre più piatti, ora si apre lo sterminato mercato dei decoder.Tutto avviene ancora con tecniche analogiche ma si comincia ad intravvedere la grande rivoluzione digitale che gode delle esperienze informatiche. La parola d’ordine comincia ad essere “convergenza”: Tv, Pc e reti telefoniche tutti insieme appassionatamente. La tv è finalmente una vera industria, fondata su aree che interagiscono tra loro e determinano la scena complessiva: contenuti, reti e (ciò che in seguito verrà definito) modello di business. A questo punto i contenuti sono già tipici della globalizzazione passiva. A parte alcuni grandi sceneggiati da prime time nazional popolare, il calcio e alcuni programmi da studio, il resto della programmazione di successo arriva soprattutto dagli archivi internazionali, in barba alle “quotas” sancite dall’Europa e con grande gioia dell’industria del doppiaggio.Le reti di distribuzione e diffusione sono due: tralicci e satelliti. Il cavo è interdetto. Si accendono i riflettori sul modello di business, ovvero “quali sono le risorse che consentono alla tv di sopravvivere e eventualmente prosperare”? Se ne individuano 3. La prima è la risorsa pubblica: in arrivo dallo Stato o raccolta per legge. Parliamo del canone tv destinato (a quel tempo) solo ed esclusivamente alla Rai ma (come vedremo più avanti) posto in seguito in discussione. La seconda è la risorsa da pubblicità, gestita con mano sapiente e perversa dall’Upa e dalle agenzie non italiane, ovvero la compravendita di spot nei palinsesti, eventualmente integrata con sponsorizzazioni e product placement (dapprima occulto poi autorizzato). La terza (grande novità in Italia) è la risorsa “pay”, ovvero abbonamenti basic più costi addizionali per eventi speciali (pay per view). Il decoder è il vero protagonista di questa novità. I satelliti sono i primi a passare da trasmissioni analogiche a digitali e portano nelle case i decoder digitali, connessi eventualmente anche alla rete telefonica.È una opportunità imperdibile per alcuni soggetti, rigorosamente non italiani, che si avvicendano a godere dell’italica stoltezza. Prima Canal Plus e poi l’ineffabile Rupert Murdoch di Sky, a colpi di porno a notte alta e calcio, convincono 5 milioni di italiani a sottoscrivere abbonamenti alla pay tv. Uno scandalo di proporzioni inaudite, sul piano della sottrazione di risorse al mercato italiano, ma. Murdoch invita a cena tutti i politici e li convince a dargli di fatto il monopolio. Poi getta qualche piccola fiches sul tavolo dell’Anica e i produttori cinematografici fanno buon viso a cattivo gioco. Con la Lega Calcio continuerà a litigare per anni. La cavalcata trionfale della tv giunge a questo punto al guado. Di fronte ai protagonisti si pone il grande fiume che separa l’antico territorio della produzione e distribuzione analogica dal nuovo territorio sconfinato, promettente e sconosciuto del digitale. La Tv, da regina incontrastata dell’audiovisual, sta per abdicare al trono. Attorno a lei un coro di media digitali allevati nella rete internet e dalla telefonia le sottraggono il primato giorno dopo giorno.Sul piano dei contenuti la grande innovazione arriva prima da modesti siti internet, poi si afferma con le spallate di YouTube e altri social network. I contenuti generati dagli utenti mettono spesso in crisi i produttori di intrattenimento. Tremano perfino le grandi agenzie internazionali con le quali si imbottivano i Tg di news dall’estero. Comincia a saltare tutta la gerarchia di selezione talenti. Per far fronte al fenomeno la tv ricorre ai realities, grazie a format che danno lustro a sconosciuti nell’estremo tentativo di creare identificazione. La conta dell’audience però fa acqua. Nel frattempo la ripolarizzazione del mondo convince i pubblicitari a ridurre gli investimenti nelle tv occidentali a favore di quelle dei paesi del Brics. Nel 2009 si spostano con un solo colpo masse di risorse che non esisteranno più. Internet e i suoi succedanei, derivati dalla convergenza (smartphones, tablets, etc), cominciano una marcia trionfale che mette sempre più in discussione l’autorevolezza e il ruolo della tv.La digitalizzazione e il cosiddetto “riordino” dello spettro elettromagnetico (frequenze) tramutano le reti di distribuzione e diffusione in un groviglio sterminato difficile da tener sotto controllo, a meno di investimenti e capacità gestionali che le Old Tv non sembrano in grado di manifestare. È vero che si moltiplicano i canali ma l’audience – nella migliore delle ipotesi – resta la stessa. In realtà l’esodo dalla tv delle nuove generazioni è massiccio. Unico colpetto: Mediaset, approfittando della possibilità digitale, tenta con una sua “pay tv” la competizione con Sky di Murdoch. La Rai soffre: resta interdetta dal fare tv a pagamento, subisce l’avvicendarsi ai vertici di manager manovrati e inetti, assiste impotente al calo delle risorse pubblicitarie e comincia a tremare all’idea – ampiamente ventilata – che nel prossimo rinnovo di contratto del servizio pubblico possa essere affiancata da altri soggetti con i quali dovrà spartire la risorsa canone.È stato bello, vecchia Signora Tv. Ci hai dato tante gioie e tanti dolori. I tuoi addetti ai lavori hanno goduto di privilegi tali che, pur di non perderli, si sono prestati a mille ricatti da parte delle élites, prima nazionali e poi internazionali. Sei stata una degli strumenti più rilevanti della modernità. Tu, il telefono, gli aerei, le automobili, etc… avete aperto le porte del terzo millennio ad un’Italia comunque attonita e rimasta in gran parte inconsapevole delle mutazioni globali, anche grazie ai giornalisti e ai manager della tv. Resterai ovviamente nell’Olimpo dei grandi media insieme al cinema, alla radio e all’editoria. Ma d’ora in poi sarai chiamata a fare solo la tua parte, privata di quella maestà di cui hai goduto nel secolo scorso.(Glauco Benigni, “La Tv ha 60 anni ed è pronta ad abdicare”, dal blog di Benigni del 21 febbraio 2014).Per lo meno quattro sono i filoni di storie che si aggrovigliano l’uno agli altri dando vita alla storia della Tv in Italia, che quest’anno festeggia 60 anni di trasmissioni regolari: la storia dell’organizzazione del consenso e del dissenso; la storia dell’organizzazione dei consumi di massa; la storia dell’evoluzione tecnologica; la storia dell’educazione all’estetica e al gusto globalizzato. Ognuna di queste sottostorie è stata fondamentale, ognuna di esse ha goduto e ha subito contributi, influenze e pressioni che hanno fatto da contrappasso alla perdita progressiva di sovranità culturale nel Bel Paese. Al suo debutto la Tv in Italia è connotata dal fatto di essere posseduta dallo Stato. Ciò la colloca nella grande area delle Tv pubbliche europee e la differenzia dalla tradizione Usa e Giapponese, in cui invece l’orientamento commerciale la fa da padrone da sempre.
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La Grande Ipocrisia del nostro cinema marcio: i partiti
Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.In teoria (ma soltanto in teoria) è stato prodotto da Nicola Giuliano e Francesca Cima (quota Pd di stretta marca burocratica di scuola veltroniana) per conto della Indigo Film, i quali – senza Berlusconi – non sarebbero stati in grado neppure di pagarsi le spese dell’ufficio, dato che su 9 milioni di euro di budget, il buon Berluska ne ha messi 6,5. E’ stata buttata dentro anche la Lega Nord, che ha partecipato con la Banca Popolare di Vicenza (500 mila euro come favore amicale) e con la sponsorizzazione del Biscottificio Verona (in tutto il film non si vede neppure una volta qualcuno mangiare uno dei suoi biscotti), entrambe le aziende vogliose di entrare nel grande giro (sono bastate due telefonate per convincerli).Grazie alla malleverie politiche, attraverso fondazioni di partito hanno ottenuto altri 2 milioni di euro incrociati: il Pd se li è fatti dare grazie al solerte lavoro di relazioni europee attraverso il “programma Media Europa” (650 mila euro) mentre Renata Polverini ha partecipato alla produzione dando 500 mila euro per conto della presidenza della Regione Lazio attraverso il “fondo per il cinema e audiovisivi per il rilancio delle attività cinematografiche dei giovani” (soldi che ha dato a Giampaolo Letta, sulla carta lui sarebbe “il giovane” che andava aiutato).Nicola Giuliano ha messo su la squadra partitica. In teoria fa il produttore, ma fa anche il docente, il consulente.Ha la cattedra al corso di produzione della Scuola nazionale di cinema di Roma, ma allo stesso tempo ha anche la cattedra di docente di produzione cinematografica presso l’Università degli studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, oltre che docente di “low cost production” a San Antonio De los Banos nell’isola di Cuba e consulente per la Rai. E’ un funzionario tuttofare che mette su pacchetti partitici, il che poco ha a che fare con il cinema, ma molto ha a che vedere con l’idea italiana di come si fa il cinema. O meglio: molto ha a che fare con l’idea di come si uccide e si annienta una cinematografia.Secondo gli esaltatori di questo “prodotto Italia”, il film vincente aprirebbe la strada a investimenti, stimolando i giovani autori e lanciando il nuovo cinema italiano; mentre, invece, l’unico risultato che otterrà sarà quello di far capire a tutti, come severo ammonimento, che “o prendete la tessera di Forza Italia/Pd oppure non lavorate”, chiarendo a chiunque intenda investire anche 1 euro nel cinema che bisogna però passare attraverso la griglia dell’italianità partitica, il che metterà in fuga chi di cinema si occupa e attirerà invece squali di diversa natura il cui unico obiettivo consiste nel fare affari lucrosi in Italia con Berlusconi e il Pd, in tutt’altri lidi.I giovani autori, i cineasti italiani in erba, le giovani produzioni speranzose, il cinema indipendente, ricevono da questo premio un danno colossale perchè il segnale che viene dato loro è quella della contundente italianità, quella della Grande Ipocrisia, la vera cifra di questo paese che si rifiuta di aprire il mercato ai meritevoli, ai competenti, a quelli senza tessera. Il film ha vinto esattamente nello stesso modo in cui aveva vinto “Nuovo cinema Paradiso” nel 1990.Due parole tecniche per spiegarvi come funziona il meccanismo di votazione dell’oscar. Per votare bisogna essere iscritti al Mpaa (Motion Pictures Academy of Art) e bisogna essere sindacalizzati; dal 1960 vale anche il principio per cui chi è disoccupato non vota, nel senso che bisogna dimostrare con documenti alla mano che “si sta lavorando” da almeno gli ultimi 24 mesi ininterrottamente, garantendosi in tal modo il voto di chi sta veramente dentro al mercato. Perchè per gli americani l’unica cosa che conta per davvero è il mercato, per questo Woody Allen (autore indipendente) detesta Hollywood e non ci va mai, la considera una truffa. I votanti sono all’incirca 6.000 e sono presenti tutte le categorie dei lavoratori (si chiamano industry workers): produttori, registi, sceneggiatori, direttori di fotografia, macchinisti, tecnici del suono, delle luci, scenografi, sarti, guardarobiere, guardie di sicurezza, perfino i gestori degli appalti per gestire i catering sul set, ecc. Ogni voto vale uno, il che vuol dire che il voto di Steven Spielberg vale quanto quello di un ragazzino il cui lavoro consiste nel tenere l’asta del microfono in direzione della bocca del divo di turno nel corso delle riprese, purchè lo faccia da almeno due anni e paghi i contributi.Quando si avvicina il giorno della votazione scattano i cosiddetti “pacchetti” e a Los Angeles la lotta è furibonda e comincia la caccia già verso i primi di novembre, con i responsabili marketing degli “studios” (sarebbero le grandi majors) che minacciano, ricattano, assumono, licenziano, per convincere chi ha bisogno di lavorare a votare per chi dicono loro. Per ciò che riguarda i film stranieri la procedura è la stessa ma su un altro binario: vale il cosiddetto “principio Hoover” lanciato dal capo del Fbi alla fine degli anni ‘50: vince la nazione che più di ogni altra in assoluto farà fare affari alle sei grosse produzioni che contano, acquistando i suoi prodotti. E’ il motivo per cui l’Italia è la nazione al mondo che ha collezionato più oscar di tutti (la più serva e deferente) e la Russia e il Giappone quelle che ne hanno presi di meno.Quando l’Italia, per motivi politici (o di affari) ha bisogno dell’oscar, allora costruisce un poderoso business (per la serie: vi compro questi quattro telefilm che nessuno al mondo vuole e ve li pago tre volte il suo valore) e lo va a proporre a società di intermediazione di Los Angeles collegate ai due sindacati più potenti californiani, da 40 anni gestiti da famiglie calabresi e siciliane, quelli che danno lavoro alla manovalanza tecnica e gestiscono i pacchetti, dato che controllano il 65% dei voti complessivi. Per i film stranieri bisogna avere un forte “endorsement”, ovvero un sostegno di persona nota nell’industria che garantisce a nome dei sindacati, come è avvenuto quest’anno con Martin Scorsese che si è fatto il giro presso la comunità di amici degli amici a Brooklyn.Nel 1989 accadde la stessa cosa: Berlusconi doveva entrare nel mercato americano per mettere su un gigantesco business (quello per il quale è stato definitivamente condannato dalla Cassazione, il cosiddetto “processo media-trade”); doveva entrare a Hollywood dalla porta principale con la Pentafilm. Ma non c’erano film italiani che valessero, era già piombata la mannaia dei partiti, tanto è vero che perfino il compianto Fellini girava a vuoto da un produttore all’altro ed era disoccupato, motivo per cui finì per ammalarsi. Alla fine, l’abile Berlusconi riuscì a convincere il più intelligente e bravo produttore di quei tempi (che se la passava maluccio) Franco Cristaldi, a dargli un prodotto perchè lui doveva vincere comunque. Cristaldi era disperato e non sapeva che cosa fare perchè non poteva fare delle figuracce con gli americani che conoscono il buon cinema e non è facile ingannarli, ma si fece venire in mente un’idea geniale. Aveva fatto una marchetta con RaiTre e aveva prodotto un film, “Nuovo Cinema Paradiso”, che era stato un flop clamoroso, sia alla tivvù, con indici di ascolto minimi, che al cinema, dove era uscito e dopo dieci giorni era stato ritirato per mancanza di pubblico. Il film durava 155 minuti ed era francamente inguardabile, di una noia mortale. Senza dire nulla al regista, Cristaldi ci lavorò da solo – letteralmente – per tre mesi. Rimontò totalmente il film, tagliò e buttò via 72 minuti e usando dei filtri cambiò anche le luci, riuscendo anche a modificare dei dialoghi. Lo fece uscire in Usa dove ottenne un buon successo di critica, sufficiente per passare.Berlusconi fu contento ma non gli diede ciò che era stato pattuito. Il giorno in cui Tornatore prese l’oscar, nel 1990, accadde un fatto inaudito per la comunità hollywoodiana. La statuetta venne data al regista e all’improvviso Franco Cristaldi fece un salto sul palco, si avvicinò, strappò di mano la statuetta a Tornatore, prese il microfono in mano e disse «questo oscar è mio, questo premio l’ho vinto io, questo è il mio film, questo è un film del produttore». Fu l’inizio della fine della sua carriera in Italia, perchè il giorno dopo l’intera critica statunitense (in Italia non venne mai fatta neppure menzione degli eventi) lo volle intervistare e lui raccontò come i partiti stessero distruggendo quella che un tempo era stata una delle più importanti industrie cinematografiche del mondo. Lo scaricarono tutti in Italia e finì per lavorare all’estero. Di lì a qualche anno morì.Fu in quell’occasione che Tornatore, in una intervista, spiegò come si faceva il regista in Italia: «Bisogna occuparsi di politica, quella è la strada. Io mi sono iscritto al Pci e poi sono riuscito a farmi eleggere alle elezioni comunali in un piccolo paesino della Calabria dove sono diventato assessore. Mi davano da firmare delle carte e io firmavo senza neppure leggerle, dovevo fare soltanto quello. Dopo un po’ di tempo mi hanno detto che potevo anche dimettermi e andare a Roma a fare i film». Aveva ragione lui: in Italia funziona così;24 anni dopo è la stessa cosa, con l’aggravante del tempo trascorso. “La Grande Bellezza” appartiene a questo filone dell’italianità e il solo fatto di accostarlo a Fellini o a De Sica è un insulto all’intelligenza collettiva della nazione: è una marchetta politica.E si vede, si sente, lo si capisce; nell’arte non si riesce a mentire perchè l’arte è basata su uno squisito paradosso: poichè è finzione totale – e quindi menzogna pura – chi la produce non può darla ad intendere perchè la verità sottostante salta sempre fuori. E’ la cartolina di un piccolo-borghese costruita (a tavolino) per venire incontro agli stereotipi degli americani votanti, attraverso un’operazione intellettualistica che non regala emozioni, ma soltanto suggestioni di provenienza pubblicitaria marketing negativa. In maniera ingegnosa e diabolicamente perversa propone delle maschere in un paese dove la verità artistica passa, invece, nella necessità dello smascheramento, cioè nel suo opposto. E’ la quintessenza del paradosso italiano trasformato nel consueto ossimoro: un brutto film che si pone e si qualifica come la Grande Bellezza; proprio come Mario Monti che lanciò il decreto “salva Italia” che ha affondato il paese e Letta (Enrico) che lanciò il “governo del fare” licenziato dopo pochi mesi perchè non è riuscito a fare nulla.Il film, davvero noioso e privo di spessore, è un prodotto subliminare, promosso dai partiti politici italiani al governo solo e soltanto dopo che i due protagonisti, Toni Servillo e Paolo Sorrentino, si sono messi pubblicamente a disposizione della famiglia Letta. Il film, infatti, doveva uscire a settembre del 2013, ma hanno anticipato l’uscita a giugno perchè era il momento in cui era assolutamente necessario usare ogni mezzo per poter azzannare l’opposizione. Il 7 giugno del 2013, Servillo e Sorrentino vengono invitati da Lilli Gruber nella sua trasmissione “8 e 1/2” per l’emittente La7. L’intervista dura 32 minuti. I primi 20 minuti sono noiosi e si parla del film che, si capisce da come andava l’intervista, nessuno avrebbe mai visto. Dal 21esimo minuto in poi, avviene la svolta, fino alla fine. L’attore e il regista, ben imboccati dalla Gruber, si lanciano in un attacco politico personale contro Beppe Grillo e il M5s. Un fatto che non aveva alcun senso, dato che si trattava di un film che nulla – per nessun motivo – aveva a che fare con la vita politica italiana e con il dibattito in corso.Servillo fu durissimo nel sostenere a un certo punto che «mi faccio dei nemici ma me li faccio volentieri», spiegando ai telespettatori (che pensavano di ascoltare un attore che parlava di cinema) come «Grillo ripropone un’immagine di leader vecchio che passa da Masaniello a Berlusconi» – cioè il suo produttore – «e usa un linguaggio violento…. ». Sorrentino gli andò dietro e insieme, per dei motivi incomprensibili a chiunque si occupi di cinema in qualunque parte del mondo (tranne che in Italia) spiegavano che il M5s «è un movimento che vuole togliere la sovranità al Parlamento». Da quel momento i due sono andati in giro a promuovere il loro film in ambito politico nazionale allertando la popolazione sul pericolo rappresentato dal M5s, e così l’establishment nazionale l’ha imposto come moda propagandandolo in maniera esorbitante. Riguardando quell’intervista, ho scoperto, pertanto, che Toni Servillo ha stabilito che io sono un suo nemico. Non lo sapevo. Ieri sera, la Gruber, sempre attenta nel rispettare i codici della rappresentanza che conta, ha dedicato un’altra intervista al film, ma in questo caso ha invitato Walter Veltroni. Forse c’è stato qualche telespettatore che si sarà chiesto «ma che cosa c’entra con questo film?». Appunto.(Sergio Di Cori Modigliani, “La Grande Ipocrisia, trionfano le larghe intese consociative spacciandole per prodotto Italia”, dal blog di Modigliani del 4 marzo 2013).Il film è stato prodotto da un importante rampollo della dinastia Letta, il cugino dell’ex premier. Si chiama Giampaolo Letta, è uno dei quattro baroni del cinema italiano (lui è il più importante, non a caso è un altro dei nipotini) il cui compito principale consiste nell’impedire che in Italia esista e si manifesti il libero mercato multimediale, mantenendo un capillare controllo partitico dittatoriale sull’industria cinematografica. E’ l’amministratore delegato della Medusa film, il cui 100% delle azioni appartiene a Mediaset. Il vero oscar, quindi (in Usa conta il produttore, essendo il padre del film) lo ha vinto Silvio Berlusconi, al quale va tutto il merito per aver condotto in porto questo business nostrano. Ma nessuno in Italia lo ha detto. E’ un prodotto Pdl-Pd-Lega Nord tutti insieme appassionatamente.
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Brown: saremo 9 miliardi, grano e riso non ci basteranno
Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.«Dopo decenni di aumenti dei raccolti, i governi non hanno ancora capito che presto si raggiungerà il limite della capacità di produrre cibo», scrive Andrea Bertaglio su “La Stampa”, in un articolo che gli è valso il premio “Rendi l’informazione + Sostenibile”, al forum WiGreen di Milano. «Dal 1950, i raccolti globali sono triplicati, ma quei giorni sono finiti», fa presente Brown, ambientalista ed economista statunitense noto al pubblico internazionale per aver sviluppato diversi “Piani-B” per salvare il pianeta. L’agricoltura sta frenando: «Tra il 1950 e il 1990, la resa di granaglie nel mondo è aumentata in media del 2,2% all’anno», rallentando di molto il suo ritmo rispetto ai decenni precedenti. Il problema dei limiti nella produzione di alimenti, oltre che europeo, è anche e soprattutto asiatico: in India, paese che cresce ogni anno di 18 milioni di abitanti, «il livellamento delle rese del frumento è decisamente reale». Un discorso, aggiunge Bertaglio, che ovviamente «vale anche per la ancor più popolosa e vorace Cina».In Gran Bretagna, nazione europea che con la Svezia sta cercando più di altri di capire come fronteggiare questo fenomeno, Stuart Knight del National Institute of Agricultural Botany non la pensa allo stesso modo: «I raccolti hanno dei limiti fisiologici, ma pensiamo di essere ben lungi dal raggiungerli», assicura. Esattamente il contrario di quanto afferma Lester Brown, per cui l’agricoltura tradizionale non può più nemmeno sperare di aumentare la sua produttività. La Fao sembra dar ragione a Knight: secondo il suo ultimo rapporto trimestrale, la produzione cerealicola mondiale nel 2013 sarebbe aumentata di circa il 7% rispetto all’anno precedente, portando la produzione mondiale di cereali al livello record di 2.479 milioni di tonnellate. «Le rese di cereali per ettaro, come qualsiasi processo di crescita biologica, hanno i loro limiti e non possono continuare a salire all’infinito», insiste però Brown, preoccupato per la “scarsità” che ci attende: limitate risorse idriche, consumo di suolo, rese in calo e instabilità crescente dovuta al global warming.Che fare, quindi? Secondo alcuni la soluzione sta nello sviluppo degli Ogm. La pensano così il governo britannico, la Bill & Melinda Gates Foundation e l’International Rice Research Institute (Irri) nelle Filippine, che hanno già investito oltre 20 milioni di dollari nell’ingegneria genetica applicata al riso, sempre con la speranza di aumentarne la produzione. «Nonostante i massicci sforzi, però – rileva Bertaglio – i progressi sono stati fino a questo punto pochi e lenti, e ancora non è chiaro l’effetto che organismi di questo tipo possano avere sulla salute umana». Per sconfiggere il problema reale della scarsità in un pianeta che si appresta ad ospitare nove miliardi di persone, ciò che si può attuare da subito è ad esempio la riduzione degli sprechi alimentari, che dilagano nonostante la crisi. «Prima di trovare modi per aumentare le rese, quindi, c’è chi suggerisce di iniziare a non gettare cibo e risorse inutilmente. Anche perché, stando ai dati Fao, l’attuale produzione globale di alimenti potrebbe permettere di nutrire oltre 12 miliardi di persone».Entro la metà di questo secolo saremo tre miliardi in più e il nostro primo problema sarà la scarsità di cibo. «Abbiamo vincoli reali per l’acqua, l’erosione del suolo e le rese, a cui si aggiungono quelli dovuti ai cambiamenti climatici», avverte Lester Brown, analista alimentare di fama internazionale. «Si tratta di una convergenza che non abbiamo mai affrontato prima». L’allarme: molti paesi europei potrebbero non essere più in grado di aumentare la quantità di cibo che producono. Il motivo? Troppe colture di base sono vicine ai loro limiti fisiologici di crescita. Presidente dell’Earth Watch Institute, Brown segnala che «in Francia, Germania e Regno Unito, i tre produttori di grano leader nell’Europa occidentale, c’è stato poco aumento dei rendimenti per oltre 10 anni, e altri paesi raggiungeranno presto i loro limiti per le rese di granaglie». Un problema mondiale, che riguarda anche India, Corea del Sud, Cina e Giappone, dove la produttività dei raccolti di riso non cresce da ben 17 anni.
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Renzi stai sereno, con l’euro il tuo governo è già morto
Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.Non ha una banca centrale che possa controllare inflazione, prezzo del denaro, tassi d’interesse, né monetizzare la spesa decisa dal Parlamento. Renzi non possiede una moneta, e deve usare gli euro, da restituire con tassi non decisi da lui ai mercati di capitali internazionali. Dovrà dunque tassarci a morte sempre, per fare quanto appena detto. Dovrà quindi mentire all’Italia fingendo col gioco delle tre carte di spostare fondi e investimenti essenziali (lavoro, infrastrutture, crescita) da qui a lì, per poi rimangiarseli tutti con gli interessi. Dovrà rispettare il pareggio di bilancio, che peggiora ciò che ho appena scritto. Ovvero: chemiotassazione garantita, impossibilità di investire per le aziende e tagli alla spesa. Qui abbiamo la garanzia della decapitazione di speranze di posti di lavoro, salari, pensioni, modernizzazione del paese, sanità, risparmi privati, piano industriale, risanamento bancario, crescita del Pil e domanda aggregata. Potrei finire qui, ce n’è già a sufficienza, ma purtroppo…Renzi si ritroverà in una spirale di deficit negativi mortali, cioè di tutte quelle spese di Stato imposte dalla crisi dell’Eurozona ma che non risolvono nulla, non producono nulla e che aumentano il debito di Stato. Per prima cosa l’economia continuerà a contrarsi, come è già previsto per l’Italia dal Fmi, Bloomberg, Ocse, Commissione Ue, e quindi calerà sempre il gettito fiscale, che quindi va a ingrandire il debito. L’economia impantanata significa che il miliardo di ore di cassa integrazione rimarranno e aumenteranno, pompando di nuovo il debito. I fallimenti aziendali non caleranno, la curva dei prestiti bancari insolventi aumenterà e le banche italiane, che già sono in parte fallite, dovranno essere ri-salvate, a suon di denaro pubblico, e ancora il debito sale. Assieme ad esso salgono gli interessi da pagare, sempre spesa di Stato, ancora più debito. Ma stando in Eurozona, un debito che lievita è grave (con la lira non lo sarebbe) perché porta all’allarme delle agenzie di rating, che porta all’allarme dei mercati di capitali che prestano a Renzi gli euro, che porta a tassi più alti sui titoli di Stato, che porta a più debito.Che farà Draghi a ’sto punto? Si metterà a comprarci i titoli di Stato per far scendere i nostri tassi? Farà cioè la famosa Outright Monetary Transaction? Se lo fa, la Germania lo ammazza. Non lo farà. Renzi rimane nel letame. Renzi si ritrova con un’economia che si è contratta del 18% dalla fine degli anni ’90. Per riportarci a quel livello di vita, dovrebbe riuscire a far crescere l’Italia del 20%. No, calma, visto che oggi cresciamo dello 0,1% se va bene…. il 20% fa ridere. Renzi non è Roosevelt e non ha la sua testa. Poi abbiamo il problema della deflazione che sta aggredendo tutta l’Eurozona, con la Bce disperata perché non sa più che fare per fermare il crollo dei prezzi (deflazione = contrario di inflazione). E quel che è peggio, è che in un clima di crisi di queste proporzioni la gente corre a risparmiare disperatamente per il timore del domani (mica scemi), ma questo sottrae denaro in circolo, cosa che non solo affama tutta l’economia, ma peggiora la deflazione stessa. Vorrei che capiste che questo è uno dei mali economici peggiori e che c’è tutta la tecnocrazia europea che non sa più come fermarlo. Immaginatevi Renzi, il bulletto del Pd.Renzi, poi, fra otto mesi si ritroverà l’implosione del sistema creditizio europeo, quando i test dei regolamentatori dell’Eba inevitabilmente mostreranno che alcune delle maggiori banche sono irrecuperabili. Da qui il terremoto delle piccole-medio banche, fra cui quelle italiane sono quelle messe peggio d’Europa sia come buchi di bilancio che come capitale di copertura. Prometeia stima che solo per i prestiti insolventi le banche italiane siano scoperte per 150 miliardi di euro. E chi le salva? E con che soldi? No, Renzi, la sovranità monetaria non ce l’hai, non le puoi nazionalizzare. Che fai? Chiami Benigni?Ma Renzi almeno ha la carta delle privatizzazioni… Vendi il vendibile, incassa l’incassabile. Funziona? No. Non ha funzionato in nessun paese del mondo, meno che meno da noi quando proprio il centro sinistra si mise negli anni ’90 a svendere pezzi di beni di Stato a un ritmo talmente forsennato che fece il record europeo delle privatizzazioni nel 1999. Sapete di quanto ridussero il debito di Stato italiano? Di un maestoso 8%. E allora i prezzi contrattati per i beni pubblici da alienare erano, circa, decenti. Oggi, con l’Italia sprofondata dall’Eurozona in una svalutazione della sua economia da piangere, Roma deve svendere a prezzi stracciati qualsiasi cosa offra, con margini che saranno patetici. Renzi, farà la Thatcher dei poveri.E la disoccupazione? Sapete cosa costa all’Italia avere il 12% (fasullo, è molto di più) di disoccupati? Trecentosessanta miliardi all’anno perduti. E i giovani? Il 76% di loro è costretto alla flessibilità, con limiti invalicabili all’acquisto di una casa o al matrimonio. L’Eurozona fu pensata ed edificata proprio per ridurre il sud Europa a un serbatoio di lavoratori pagati alla kosovara ma in strutture moderne. Il futuro di questi ragazzi è ormai certo: stipendi dai 600 agli 800 euro per i più qualificati, al lavoro per investitori stranieri. Questo non è più un economicidio, è un olocausto economico e generazionale, che Renzi dovrà gestire sotto l’egida della Germania che già oggi sta affossando il resto d’Europa coi suoi diktat criminosi. Tradotto in termini specifici: il potere neomercantile della mega-industria tedesca, quello della Bundesbank, quello dei maggiori speculatori-rentiers del mondo, contro Renzino da Firenze.Matteo, tu fai fesso qualcun altro. Perché è vero che ignori il 70% di tutto questo, ma sul restante 30% sei pienamente d’accordo, da bravo leader del partito di destra finanziaria peggiore d’Italia, il Pd. Conclusione. Renzi non si rende conto di cosa lo aspetta, ma soprattutto del fatto che la catastrofe dell’economia italiana è un MACROPROBLEMA STRUTTURALE nell’Eurozona, e finché esisteranno i parametri economicidi dell’euro non esiste salvezza. Il governo Renzi è morto prima di nascere. Poi, sapete, uno si stufa di scrivere sempre le stesse cose.(Paolo Barnard, “L’Eurozona ha già ucciso il governo Renzi”, dal blog di Barnard del 18 febbraio 2014).Tragica cosa per le persone di questo paese, non per ’sto egocentrico servo della finanza europea. Renzi fallirà come un cretino qualsiasi. Perché neppure può provarci. Non sto provocando, è che la sua è una missione impossibile. Se non fosse ’sto pupazzo pompato che è, se conoscesse l’Eurozona e la macroeconomia, non si sarebbe cacciato in questo pasticcio (e badate che sto dicendo che pure i suoi padroni speculatori ci smeneranno il muso, perché ’sto gioco di creare una moneta unica per distruggere mezza Europa e fare un gran banchetto si è già ritorto contro chi l’ha pensato. Gli speculatori ci hanno fatto un po’ di fortune per pochi anni, ma sta finendo). Per prima cosa Renzi si ritrova senza sovranità monetaria, quindi senza nessuna delle leve economiche fondamentali di cui deve godere un governo degno di questo nome, e di cui godono gli Usa, la Gran Bretagna, la Svezia o il Giappone.
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Il super-ministro di Renzi: italiani, soffrire vi fa bene
Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».Capo-economista dell’Ocse nonché professore universitario alla Sapienza di Roma, Padoan ha avuto incarichi come consulente presso la Banca Mondiale, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea. E’ stato inoltre direttore di Italiani Europei, la fondazione di Massimo D’Alema, un think-tank politico che si occupa di temi economici e sociali. Tra il 2001 e il 2005 ha ricoperto il ruolo di direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale con responsabilità su Grecia, Portogallo, San Marino, Albania e Timor Est, mentre dal 1998 al 2001 è stato consigliere economico presso la presidenza del Consiglio dei ministri, collaborando con i premier Massimo D’Alema e Giuliano Amato.Lo stesso Padoan, super-tecnocrate perfettamente in linea con la Troika europea protagonista delle politiche di rigore che stanno devastando l’Europa del Sud, è stato anche responsabile per il coordinamento della posizione italiana nei negoziati dell’ Agenda 2000 per il bilancio Ue, l’Agenda di Lisbona, il Consiglio Europeo, gli incontri bilaterali e i vertici del G8. Dal 1992 al 2001 ha anche insegnato al College of Europe ed è stato visiting professor in Italia, Argentina, Giappone, Polonia e Belgio. Al “New York Times” ha confidato che, a suo parere, la crescente percezione che l’austerità sia futile è completamente sbagliata. «Il consolidamento fiscale sta producendo risultati», ha detto. Aggiungendo che i politici dell’Eurozona dovrebbero cercare di fare un lavoro migliore per comunicare i loro “successi” ad una popolazione stremata. «Rimane sempre la speranza che stesse facendo dell’ironia spinta», chiosa Debora Billi.Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».
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Forze speciali: la guerra segreta di Obama in 134 paesi
Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».All’epoca di George W. Bush, le forze speciali statunitensi dislocate in “appena” 60 paesi, saliti poi a 75 nel 2010, secondo Karen DeYoung e Greg Jaffe del “Washington Post”. Per arrivare poi a proiettarsi in 120 nazioni nel 2011, come annunciato dal colonnello Tim Nye, portavoce del Socom, il Comando Operazioni Speciali. «Questa cifra oggi è già obsoleta», scrive Turse in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Nel 2013, le forze d’élite Usa erano dislocate in 134 paesi, secondo il colonnello Robert Bockholt ». Questo aumento del 123% durante l’amministrazione Obama «dimostra come, in aggiunta ai conflitti decennali convenzionali, alla campagna dei droni svolta dalla Cia, alla diplomazia e all’esteso controllo della cybersfera, l’America ha lanciato un ulteriore forma significativa di controllo nei paesi esteri». Una strategia «condotta per lo più con missioni-ombra svolte dalle forze d’elite», l’operazione «rimane per lo più sconosciuta ai media ed a ogni forma di controllo», proteggendo la Casa Bianca dalle ripercussioni di «conseguenze spesso catastrofiche e imprevedibili».Prima limitato a 32.000 unità, dopo l’11 Settembre il raggruppamento delle forze speciali è cresciuto in modo esponenziale, raggiungendo quota 72.000 soldati. Idem il costo: da 2,3 miliardi di dollari agli attuali 6,9 miliardi. Secondo ricerche di Tim Dispatch, nel biennio 2012-2013 le operazioni speciali si sono estese a 106 nazioni. Il comando Socom non chiarisce i dettagli sull’impiego di Berretti Verdi, Rangers, Navy Seals e Delta Force, ma alla fine ammette che sono ora impegnati in 134 paesi, in tutto il mondo. Il Pentagono sta «aumentando la propria rete globale», conferma l’ammiraglio William Mc Raven, collaborando con partner stranieri per «prevenire possibili minacce» ma anche «cogliere opportunità». Operativamente, «la rete rende possibile la presenza di piccole unità in posizioni critiche e ne facilita l’azione ove necessario o appropriato». L’aumento del 12% dei dispiegamenti – da 120 a 134 durante la gestione Mc Raven – secondo Turse rivela l’ambizione di «acquisire posizioni strategiche in ogni parte del pianeta», sia pure al riparo dall’opinione pubblica, che di fatto non è informata delle missioni segrete.Addestramenti a Gibuti, in Malawi e alle Seychelles. Poi la “guerra simulata” dei Navy Seals nel porto di Aqaba, in Giordania, insieme a unità irachene, giordane e libanesi. Nel luglio 2013, i Berretti Verdi si sono spostati a Trinidad e Tobago per addestrare forze locali. Un mese dopo, la stessa unità ha addestrato la marina dell’Honduras sull’uso di esplosivi. E a settembre si è svolta una maxi-esercitazione a Sentul, Java occidentale, coinvolgendo Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar, Cambogia, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, India, Cina e Russia. Molto più scarse, invece, le informazioni sulla guerra “non simulata”: rapimenti di sospetti terroristi in Somalia, raid in Libia e nel Corno d’Africa, operazioni nel Sud Sudan e accanto all’esercito afghano. Non mancano missioni umanitarie, come quella condotta a novembre in soccorso ai sopravissuti dell’uragano Haiyan nelle Filippine. Particolare cura è dedicata alla promozione dell’immagine: propaganda affidata a siti web «su misura per l’utenza straniera» e «fatti in modo da sembrare attendibili punti d’informazione». Il cyber-spazio è anch’esso terra di conquista, da parte del Socom.«Anche se il presidente Obama raccolse milioni voti nelle passate elezioni del 2008 con la sua politica di disimpegno – rileva Turse – ha dimostrato di essere un comandante in capo alquanto interventista, le cui politiche hanno già causato innumerevoli di quelle che, nel gergo Cia, vengono definite “blowbacks”», cioè conseguenze inaspettate subite durante un’operazione clandestina di intelligence, che possono «portare violenze random verso forze o popolazioni ritenute amiche». La Casa Bianca ha anche battuto ogni record di Bush sull’impiego di droni: 330 missioni, contro 51. «Solo nello scorso anno gli Usa hanno diretto azioni di combattimento in Afghanistan, Libia, Pakistan, Somalia e Yemen». Di recente, le rivelazioni di Edward Snowden (fonte, Nsa) hanno svelato all’opinione pubblica «la vastità della sorveglianza elettronica, che sotto l’amministrazione del Premio Nobel della Pace ha raggiunto un livello globale».Nel frattempo, le “blowbacks” devastano intere regioni: a 10 anni dalla famosa “missione compiuta”, il nuovo Iraq voluto dall’America è in fiamme, in preda ai terroristi di Al-Qaeda schierati contro l’Iran. L’abbattimento di Gheddafi ha destabilizzato il Mali, minacciando anche l’Algeria e provocando «una specie di “diaspora del terrore” in tutta la regione». E l’odierno Sud Sudan – nazione che gli Usa hanno artificialmente creato e che tuttora sostengono, nonostante l’impiego massiccio di bambini-soldato – viene utilizzato come base Hush-Hush, cioè segretissima, per operazioni speciali. Così, il paese «sta a letteralmente implodendo su stesso e scivolando verso una nuova guerra civile». Tutto questo, senza che gli americani abbiano la più pallida idea di quello che sta davvero avvenendo. Secondo l’ex colonnello Andrew Bacevich, docente all’università di Boston, l’utilizzo sempre più massiccio delle forze speciali «ha ridotto drasticamente la credibilità delle forze armate Usa, posto le basi per una “Presidenza Imperiale” e messo un piedi una guerra senza fine».L’utilizzo delle forze speciali per missioni-ombra, aggiunge Turse, «riduce la già sottile differenza fra politica e guerra». Così, sempre più spesso, «le conseguenze di queste operazioni segrete sono impreviste e disastrose». La storia insegna: Osama Bin Laden fu ingaggiato dalla Cia contro i sovietici in Afghanistan, prima di tornare sulla scena come protagonista (mediatico) dell’11 Settembre. «Stranamente, il Pentagono sembra non aver imparato nulla da quella devastante “blowback”», l’attacco alle Torri. Oggi, in Afghanistan e in Pakistan si vivono ancora strascichi da guerra fredda, «con la Cia che, per esempio, compie attacchi missilistici contro la rete Haqqani», network terroristico che, negli anni ‘80, la stessa Cia «aveva rifornito, appunto, di missili». Senza un quadro chiaro del mandato reale di queste forze, conclude Turse, il popolo americano non potrà neppure accorgersi del vero motivo di tanti “ritorni di fiamma”, ritorsioni per azioni “coperte” costate morti e feriti, terrore e sangue. In nome dell’America, forse, ma all’insaputa dei cittadini statunitensi.Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».
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Polveriera Europa, replay: la Grande Guerra del 2014
I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.La diseguaglianza sociale ed economica nel paese è peggiorata, con la Merkel. Ma anche prima del piccolo incidente sportivo, la cancelliera non sembrava disposta a fare grandi passi (come spesso accade nella miglior tradizione autoritaria ereditata da Guglielmo di Prussia e Germania) e aveva già indicato un “erede al trono”, per assicurare stabilità e continuità anche nel periodo post-Merkel. In altre parole, le politiche economiche neoliberali probabilmente continueranno ad essere applicate in Germania e in Europa per ancora un po’ di tempo. Il 2014 ripropone la situazione del 1914: una possibile Germania imperialista del XXI secolo; il declino della monarchia spagnola e una repubblica italiana fatiscente. Con la sua “volontà d’acciaio”, nel suo terzo mandato la cancelliera sembra determinata a proseguire le politiche draconiane di austerity (distruggendo ulteriormente la crescita economica e favorendo la disoccupazione). Questa scelta implica più fatica e meno guadagni per i milioni di persone che riceveranno questo trattamento, come ad esempio gli spagnoli.A differenza di Berlino e della sua calma apparente, la capitale spagnola si trova ad assistere a continue proteste. Nel frattempo, un vecchio re (a sua volta zoppo per una brutta caduta e costretto ad usare le stampelle per camminare) sta affrontando una “crisi della fiducia in se stesso”. Il re di Spagna Juan Carlos, la cui popolarità un tempo era il simbolo del ritorno alla democrazia dopo il regime franchista, sta assistendo ad una crescente ondata di proteste popolari. Il crescente dissenso della popolazione è fomentato da interminabili scandali dovuti ad episodi di corruzione. La figlia è attualmente coinvolta in uno scandalo per truffa e riciclaggio di denaro. Nel calderone, anche una costante crisi economica. La Spagna riuscì a rimanere neutrale allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Nel 2014, il paese è ancora in prima linea nella lotta contro l’austerity in Europa. Il futuro della monarchia resta incerto. In tutto il Mediterraneo, il 2013 si è concluso con le strade invase da proteste, come ad esempio in Italia (una repubblica decrepita, se mai è stata una repubblica) con la “protesta dei forconi”. Come la Spagna, l’Italia è contaminata da una profonda corruzione, instabilità sociale, sistematica instabilità istituzionale (a causa delle associazioni criminali), che ostacolano il processo democratico. Ne consegue una diffusione di movimenti demagogici o clownesco-populistici e la crescente xenofobia. Il movimento anti-politico, da quelle parti, sta sfruttando l’ondata di rabbia contro Roma e Bruxelles (il quartier generale dell’Unione Europea).I Balcani, storica polveriera d’Europa, sono nuovamente pronti ad esplodere. Non ci saranno omicidi in programma forse per il prossimo anno nei Balcani, ma sicuramente troverete sul menù un radicale cambiamento politico. Gli scioperi di massa e i movimenti di protesta che sono scoppiati in Grecia nel 2008 si sono estesi agli stati del Sud dei Balcani. Le proteste di massa contro l’aumento del costo della vita, che ha raggiunto livelli usurari (sull’onda della privatizzazione di massa), e contro il costo dell’energia imposto ai consumatori locali, stavano per rovesciare il governo in Bulgaria. Nella vicina Romania, la corruzione dilagante e la lotta epica tra il movimento civile sociale e un’azienda mineraria canadese, sono quasi riusciti a scuotere le fondamenta del governo rumeno. Nonostante quest’elenco di situazioni esplosive, Bruxelles rifiuta ostinatamente di allentare le restrizioni connesse alla libertà di movimento imposta ai cittadini di questi due stati. Il loro ingresso nella “zona Schengen” è stato nuovamente rimandato a data da definirsi. Sicuramente una politica di contenimento di questo tipo sarà pericolosa nel 2014.Oltre ai confini meridionali d’Europa, troviamo ancora forti instabilità nel 2014, che ricordano misteriosamente le tensioni del 1914, quando stava per iniziare la guerra. La promessa di una benigna “primavera araba” si è trasformata in un incubo terribile. In Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e, più recentemente, in Libano, si stanno sviluppando conflitti somiglianti a guerre civili. Nel caso della Siria, non è una somiglianza ma una tragica realtà. Questa instabilità regionale rischia di contagiare la Turchia (gli Stati Uniti chiudono le alleanze nella regione). A quei tempi la Turchia era senza dubbio il fulcro dell’Impero Ottomano che governava sulla maggior parte del Medio Oriente. Circa un secolo fa entrò sfortunatamente, già distrutta, nella “grande guerra”. Questo accelerò la sua rovina e condusse al genocidio armeno del 1915. Per quanto tempo ancora Ankara potrà stare a guardare, prima di essere risucchiata nel più ampio conflitto dei suoi vicini? Il 2014 probabilmente sarà determinante.Internamente la Turchia è afflitta da forti dissensi e scossa da continue proteste dal giugno scorso. Il dissenso popolare nei confronti dell’autoritarismo del primo ministro Ergodan non si è placato. La continua lotta tra il movimento laico (kemalista) e quello neo-islamico (e all’interno del partito Akp stesso, “Adalet ve Kalkinma Partisi”, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) rischia di distruggere lo stato turco nel 2014, con le modalità già sperimentate un secolo fa dall’Impero Ottomano. Il potere del governo ha inoltre subito un ulteriore indebolimento negli ultimi tempi a causa degli scandali per corruzione che hanno interessato i suoi vertici. La conseguente epurazione dei corpi di polizia e di pubblica sicurezza ha inasprito la situazione. La tregua con i ribelli curdi nelle zone orientali del paese rimane instabile. In ultimo, il tentativo della Turchia, ormai vecchio di decenni, di diventare un membro dell’Unione Europea, è essenzialmente congelato a causa della repressione contro attivisti e giornalisti locali. Quindi, come nel 2014, il paese è un calderone che galleggia nel mare di instabilità che caratterizza la regione.Passando all’Asia, troviamo crescenti movimenti di protesta in Thailandia, Cambogia e Bangladesh, o rivolte in corso contro le trincerate e corrotte oligarchie locali. Fino ad ora questi sollevamenti sono stati brutalmente repressi con l’ausilio delle forze militari. Chissà se gli eventi attuali saranno la scintilla di un’esplosione simile a quella del 1914. Probabilmente no. Tuttavia questi paesi emergenti sembrano essere nel mezzo di quella che io chiamo “situazione pre-rivoluzionaria”. Quello che vedremo accadere da queste parti nel 2014 somiglia moltissimo allo scenario della rivoluzione messicana (1910-1920), un decennio di dure lotte per liberarsi di quel regime corrotto conosciuto come “Porfiriato”. Se aggiungiamo a quanto detto il rischio di uno scontro militare tra i “grandi poteri” locali, siano essi in crescita o in crisi, così come accadeva nel 1914 (lo dimostra l’attuale ostentazione militare sulle contese Diaoyu e Tiaoyutai nel lontano oriente), si ha realmente l’impressione che la storia si ripeta ancora una volta.(Michael Werbowski, “La polveriera storica, il 2014 come il 1914 in Europa e nel mondo?”, da “Global Research” del 10 gennaio 2014, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).I giornalisti internazionali hanno predetto un’archetipica “situazione Sarajevo” per quest’anno. Una scintilla che potrebbe causare una detonazione come quella che circa un secolo fa vedeva protagonista l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Difficilmente accadrà anche quest’anno che un nazionalista radicale spari al successore al trono dell’impero; nonostante ciò, esistono oggi una serie di sconvolgimenti potenziali in Europa e altrove. Esaminiamo la situazione. La Germania, “fortezza economica” dell’Europa, sembra essere entrata in un periodo di incertezze, proprio come prima dello scoppio della “grande guerra”. All’inizio del nuovo anno, la caduta improvvisa della cancelliera tedesca (forse un presagio della rottura dell’Eurozona?) è stato un evento infausto. La signora Merkel, che appariva come una figura politica indebolita (anche a causa delle stampelle), è riuscita ad assemblare una “grande coalizione”, la cui durata è incerta.
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Un giorno il Giappone sgancerà l’atomica su New York
Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka, ha replicato: «La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?». E il governo nipponico ha tenuto il punto: «Questa forma di caccia è una tradizione culturale». E’ il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta «delusa» perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati «anche 14 leader politici e militari giapponesi», condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l’equivalente nipponico di quello di Norimberga; nel settembre 1986 il ministro dell’educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l’elementare domanda: «Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?»).In realtà dietro queste schermaglie c’è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall’università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su “americanismo e antiamericanismo, il ruolo dell’Europa”. In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è “la quarta sponda” degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell’animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c’era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene, per giorni e giorni lo “Yumiuri Shimbun” e l’“Asahi Shimbun”, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire “rubato”. La partita era solo un pretesto.I giapponesi non hanno mai digerito l’Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di “dedivinizzare” l’Imperatore. L’Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c’è stato un solo tentativo di attentato all’Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la “dedivinizzazione” dell’Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l’anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di atomiche su New York.(Massimo Fini, “Un giorno i giapponesi getteranno 30 atomiche su New York”, intervento pubblicato da “Il Gazzettino” il 24 gennaio 2014 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.
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Il grande bluff: Italia a picco, ma Saccomanni sorride
I dati di novembre 2013 sul commercio estero dell’Italia indicano 360 miliardi di euro di esportazioni da inizio anno contro 330 miliardi di importazioni. Il saldo commerciale è di 30 miliardi. Sembra una buona notizia confrontato con i 10 miliardi del 2012. Peccato che sia dovuto al calo delle importazioni per il collasso della domanda interna. Gli italiani stanno stringendo la cinghia. Fino ad ora la crescita delle esportazioni ha limitato il crollo del Pil dovuto al calo dei consumi domestici, ma le cose stanno cambiando. A novembre 2012 le esportazioni sono state in calo del 2% su ottobre. Se le esportazioni diminuiscono ci si avvia a un calo del Pil anche nel quarto trimestre 2013 con buona pace di Saccomanni e del suo tunnel. In questi giorni il quadro economico sta cambiando (in peggio). Dall’Argentina a Turchia, Messico, Russia, le valute extra euro sono sotto pressione per motivi monetari, economici e politici. Questo rafforza l’euro a danno delle nostre esportazioni, tipico di chi ha un’economia debole e una moneta forte.La Banca d’Italia ha rivisto al ribasso la sua stima di Pil per il 2014: a 0,7% contro 1,1% stimato dal governo. Stessa cosa ha fatto il Fmi. Tra pochi mesi ci sarà il segno meno davanti a questi numeri (scommettiamo?) e verrà detto che la ripresa arriverà nel 2015 (si allunga il tunnel). La stessa Banca d’Italia prevede la disoccupazione in aumento fino al 2015. Ci si chiede: quando a Roma si sveglieranno? Ogni politica economica si concede dei margini di fallimento, raggiunti i quali si prende atto che non funziona. Si cambia rotta. Fino a quando si è disposti far salire la disoccupazione per ammettere che l’Eurozona non funziona? Disoccupazione al 30%? La situazione peggiora, come qualunque cittadino vedecon i suoi occhi, ma nessuno fa mea culpa. Hanno creato la “realtà economica alterata”. Dicono, pieni di orgoglio: «Guardate, lo spread sceso sotto i 200 punti». E anche qui mentono sapendo di mentire.Lo spread si è dimezzato in 24 mesi, ma quello che conta è il costo REALE del debito, quindi quanto potere d’acquisto devono cedere i contribuenti al Tesoro attraverso le tasse per finanziare il rimborso delle cedole sui titoli di Stato. Se si guarda allo spread reale nulla è cambiato, perché anche l’inflazione è in crollo verticale. Da fine 2011 l’inflazione è scesa da 3% a 0.7% in Italia, e in Germania da 2,5% a 1,5%. Lo spread reale, dedotta l’inflazione, allora era 2,5% oggi è più o meno quello. Ci finanziavamo allora al 5,5% di interesse sui titoli con l’inflazione al 3%. Oggi ci finanziamo al 3% con l’inflazione a 0,7%. Trucchi da prestidigitatori, ma il portafoglio non ammette trucchi.Lo spettro in arrivo per i mercati si chiama deflazione, in sostanza inflazione negativa. In deflazione ci sono già Grecia (-1,8%) e Cipro (-1,3%), mentre il Portogallo è prossimo con uno 0,2% seguito dalla Spagna a 0,3%. La Francia è a un tasso di inflazione dello 0,8% e la Germania di 1,2%. L’intera Eurozona è scesa a 0,8% a dicembre contro 0.9% a novembre. E l’Italia? Come detto, è crollata dal 3% di due anni fa a 0,7%. Tutti negano uno scenario da decade giapponese di zero crescita e inflazione negativa, ma sta succedendo. Lo stesso Draghi per la prima volta ha citato la parola deflazione come rischio reale. Per l’Italia come per ogni paese ad alto debito la deflazione è un dramma perché, in assenza di crescita, pone il debito/Pil in una traiettoria esponenziale.L’Italia è avviata verso l’insostenibilità del debito/Pil (con il debito che sale mentre il Pil è in diminuzione) eppure i mercati continuano a comprare il nostro debito. Sembra un mistero, ma non lo è. Il motivo è presto detto: con questo governo eterodiretto da Draghi, i mercati si sentono protetti, sanno che ci sono le tasse, i risparmi ed il patrimonio degli italiani a salvaguardia delle ricche cedole che banche e investitori incassano sui nostri titoli, e alla fine pagherà Pantalone. E’ il più grosso trasferimento di ricchezza dalle famiglie alla finanza che il nostro paese abbia mai visto. Con il Grande Bluff l’Italia è avviata verso la miseria.(“Il Grande Bluff”, dal blog di Beppe Grillo del 25 gennaio 2014).I dati di novembre 2013 sul commercio estero dell’Italia indicano 360 miliardi di euro di esportazioni da inizio anno contro 330 miliardi di importazioni. Il saldo commerciale è di 30 miliardi. Sembra una buona notizia confrontato con i 10 miliardi del 2012. Peccato che sia dovuto al calo delle importazioni per il collasso della domanda interna. Gli italiani stanno stringendo la cinghia. Fino ad ora la crescita delle esportazioni ha limitato il crollo del Pil dovuto al calo dei consumi domestici, ma le cose stanno cambiando. A novembre 2012 le esportazioni sono state in calo del 2% su ottobre. Se le esportazioni diminuiscono ci si avvia a un calo del Pil anche nel quarto trimestre 2013 con buona pace di Saccomanni e del suo tunnel. In questi giorni il quadro economico sta cambiando (in peggio). Dall’Argentina a Turchia, Messico, Russia, le valute extra euro sono sotto pressione per motivi monetari, economici e politici. Questo rafforza l’euro a danno delle nostre esportazioni, tipico di chi ha un’economia debole e una moneta forte.
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Chiedetevi perché il Pd non vuole aiutare gli italiani
Mistero: ma perché quelli del Pd non propongono mai nessuna vera via d’uscita dalla crisi? Due ipotesi: sono semplicemente cretini, oppure sono stati comprati. Il professor Guido Ortona, che insegna all’università del Piemonte Orientale, propende per la seconda ipotesi: «E’ molto plausibile che il Pd si sia venduto ai padroni», sia pure «padroni di tipo nuovo, diversi dai loschi commendatori di un tempo». E la stessa Sel, ovvero «l’unico partito di sinistra che rimane», dimostra «una analoga mancanza di coraggio nel fare proposte chiare» per uscire dal tunnel. Un critico come Paolo Barnard invita a rileggere lo spietato “memorandum” dell’avvocato d’affari Lewis Powell, incaricato già all’inizio degli anni ‘70 – dalla destra americana – di risolvere il “problema” della sinistra. La ricetta di Powell? Semplicissima: “comprare” i generali nemici costa molto meno che sostenere una guerra contro i loro eserciti. Dunque: stroncare la sinistra radicale – politica e sindacale – e “addomesticare” la sinistra riformista, in modo che rinunci a difendere i diritti sociali.«Nessuna componente del Pd sta mettendo al centro del suo programma politico delle proposte per uscire dalla crisi», premette Ortona in un post su “Goofynomics”. «La cosa è tanto più strana», perché «nella cultura economica della sinistra queste proposte invece non solo esistono, ma sono ovvie». Come spiegare questo silenzio? «Non è sufficiente invocare la stupidità, la corruzione e l’ignoranza dei politici del Pd, che sono peraltro sotto gli occhi di tutti», perchè «essere ignoranti e stupidi può essere non tanto un caso quanto una scelta, come lo è ovviamente essere corrotti». Per Ortona, le conseguenze del massacro sociale in atto – per volere dell’élite oligarchica che regge l’Unione Europea – non sono che «ovvietà storiche ed economiche». La prima: non è mai esistita un’economia capitalistica basata solo sull’efficienza dei mercati. E’ sempre stato necessario un poderoso intervento dello Stato, declinabile in due modi: politica monetaria (espandere l’offerta di moneta e/o operare sui tassi di cambio) o politica fiscale (espandere il debito pubblico e/o trasferire redditi mediante politiche redistributive). Problema: una politica monetaria espansiva «è resa impossibile dalla partecipazione all’euro», mentre una politica fiscale espansiva è bloccata «dal livello del debito pubblico».In queste condizioni, quindi, «non si può uscire dalla crisi». Anzi, «la crisi è destinata ad aggravarsi, perché ogni anno lo Stato sottrae alcune decine di miliardi al circuito economico per pagare gli interessi sul debito». “Sottrae”, perché la maggior parte del debito è sottoscritto dal sistema bancario internazionale; solo per un settimo circa è in mano alle famiglie italiane. «Ciò significa che gli interessi pagati non stimolano la domanda italiana se non in minima parte, a differenza per esempio del Giappone, dove il debito è quasi tutto in mano a cittadini giapponesi, e quindi il pagamento di interessi si traduce quasi solo nella trasformazione di domanda pubblica in domanda privata». Verità palesi, eppure negate – senza timore del ridicolo – da chi, come lo stesso Renzi, continua a sostenere che per uscire dal disastro basti tagliare la spesa pubblica (proprio come vogliono le super-lobby) senza fare alcuna politica monetaria, ovvero senza uscire dall’euro o trasformarlo in moneta sovrana. «Dato che nessuno può sostenere quanto sopra in buona fede, abbiamo un primo indizio per risolvere il mistero: in realtà il Pd non vuole uscire dalla crisi». Già, ma perché?È evidente, continua Ortona, che chi avesse il coraggio di proporre delle soluzioni serie alla crisi avrebbe un cospicuo vantaggio elettorale; e tanto più se queste soluzioni implicassero una seria politica redistributiva ai danni di una minoranza e a favore di una maggioranza. «I ricchi in Italia non sono mai stati così ricchi: difficilmente una politica di perequazione sarebbe impopolare». Per esempio, «un’imposta dell’1% sulla ricchezza finanziaria dei ricchi basterebbe a risolvere il problema della povertà». Eppure, «non solo non lo si fa», ma «non lo si dice nemmeno». Peggio: «Non si vuole redistribuire il reddito mediante politiche fiscali. E poiché è ovvio che questa sarebbe una politica possibile e popolare, è evidente che il Pd come partito di governo è disposto a rinunciare a massimizzare il consenso. A riprova di ciò, il colossale trasferimento di voti ai “5 Stelle” non ha destato particolari preoccupazioni». Sicché, gli “indizi” cominciano ad assumere una direzione precisa. «È evidente che se un partito politico non ha più come obbiettivo quello di massimizzare i voti è perché ne ha qualche altro. Quale può essere?». Seguite i soldi, direbbe l’investigatore. E i soldi dei nuovi super-ricchi sono quelli della finanza, ormai svincolata dall’economia reale. Un vero, mostruoso apparato di dominio.«I padroni del Monte dei Paschi hanno sperperato miliardi, ma ogni euro sperperato da qualcuno è un euro guadagnato da qualcun altro», continua Ortona. «E quei miliardi erano sicuramente abbastanza per creare un enorme sistema di potere. Non solo Mussari e compagni: un sacco di gente ha bisogno che i crediti del sistema bancario vengano pagati. È una lotta di classe. Da una parte i padroni della finanza, e i loro vassalli, vogliono che l’economia reale rimborsi i loro crediti e paghi i loro interessi; dall’altra l’economia reale, dato che è in crisi profonda (sopratutto in Italia) deve sottrarre queste cifre ad altri usi, come le pensioni, i salari e i servizi pubblici. Ciò naturalmente crea ulteriore depressione, e così via: come in Grecia, se vincono i primi ci si fermerà solo quando non ci saranno più ossa da spolpare». Quindi: ci sono delle lobby così ricche e potenti da imporre agli italiani di pagare «col sudore e col sangue i loro crediti». E un sacco di gente «vive dei profitti (meglio, delle rendite) di costoro». Eppure – altro indizio – il Pd non denuncia questa situazione.Mettiamo allora insieme gli indizi, continua Ortona. Il Pd non vuole uscire dalla crisi; dalla crisi si esce solo contrastando il potere del capitale finanziario (per esempio uscendo dall’euro, il che svaluta il debito e rilancia le esportazioni, oppure congelando il debito o facendo default, il che riduce i pagamenti per interessi); il capitale finanziario è potentissimo; il Pd ha obbiettivi diversi dal massimizzare il consenso. «La conclusione sembra chiara: il Partito Democratico è stato comprato dal capitale finanziario». Attenzione: «Non è detto che questo sia sempre stato fatto con il vecchio metodo delle valigette piene di denaro. Fra questo estremo e la perfetta buona fede ci sono infinite gradazioni, e i dirigenti del Pd, a partire dal presidente delle Repubblica, hanno ampiamente dimostrato di sapere venire a patti molto bene con la loro coscienza. Se un dirigente del Pd vuole pagare fior di quattrini per degli inutili F-35 potrà essere perché è stato pagato, o perché è riuscito a convincersi che servono davvero. Sono affari suoi. La sostanza non cambia».Purtroppo, aggiunge Ortina, gli “indizi contrari” non sono attendibili. «Il primo è risibile, ma viene spesso citato: e cioè che la base del Pd è composta perlopiù da persone per bene». L’ovvia obiezione è che «la base del Pd ha ben poco a che fare coi suoi vertici». La seconda obiezione: la crisi sta travolgendo anche gli stessi vertici. In effetti, «sembra difficile che un partito così pasticcione e pasticciato possa essere un buon strumento nelle mani di chi l’ha comprato». Eppure, la contraddizione è solo apparente: «La lotta fra satrapi di partito diventa violenta (nel caso del Pd la si potrebbe definire, con Karl Kraus, una lotta disperata ma non seria) quando la ricollocazione del partito stesso apre da una parte prospettive ricchissime per chi sa posizionarsi bene, e dall’altra una tragica fine per chi sbaglia scelta». Lo slogan del festival nazionale del Pd a Genova era “perché l’Italia vale”. «Non deve essere stato facile trovare una frase così stupida e soprattutto così priva di significato: ma questa mancanza indica appunto quanto sia grande la paura di spaventare qualcuno che domani potrebbe essere vincente».Il terzo controindizio è anche quello a prima vista più convincente: molti esponenti intermedi del Pd sono seri professionisti che fanno il loro mestiere, non sono corrotti e non hanno tempo da perdere con tutte quelle beghe politiche. Ci sono Comuni da gestire, appalti da assegnare, concorsi da indire. Se il partito ha deciso di comprare gli F-35, al sindaco spetta il compito di amministrare i fondi che ne derivano alla sua istituzione. La decisione ormai è presa. Chi riceveva soldi dal Monte dei Paschi non aveva né tempo né interesse a chiedersi da dove venivano. «Ma supponiamo che invece se lo fosse chiesto. Cosa cambiava? Se avesse dato l’allarme avrebbe ottenuto solo di perdere il posto, senza in realtà produrre nessun cambiamento nel sistema. Meglio tacere. Ora, in realtà c’era, e c’è, una soluzione ancora migliore del tacere: non sapere. È molto più rapido e sicuro non porsi le domande piuttosto che dovere gestire delle risposte scomode. Essere ignoranti e apparentemente sciocchi non è quindi necessariamente una caratteristica antropologica (anche se naturalmente in molti casi uno sciocco è più utile di un non sciocco): può benissimo essere una scelta».Così, «l’ignoranza diventa buon senso, la limitatezza delle vedute diventa realismo». Anche il sistema di potere Craxi-Andreotti-Forlani era un sistema di potere “normale” per chi vi operava, «come ha coerentemente e nostalgicamente ricordato Fassino non molto tempo fa». Risultato finale: «La tragica scomparsa del livello reale dei problemi dal dibattito politico», ignorando sempre «il livello in cui la gente normale vive e soffre». Conclusioni: «Parafrasando Sherlock Holmes, “quando tutte le ipotesi assurde devono essere rifiutate, allora rimangono solo quelle plausibili”». Esatto: il Pd è stato “comprato” – secondo la ricetta di Lewis Powell – perché evitasse di disturbare i grandi manovratori del noeliberismo, che in Europa hanno trasformato Bruxelles in una capitale coloniale, mettendo al guinzaglio tutti i governi dell’Eurozona. Altrimenti non si spiega la condotta del Pd: che continua a non voler risolvere nulla e si rassegna persino a perdere voti, dal momento che rinuncia “misteriosamente” a difendere gli italiani. «Voglio sperare che si tratti solo di ignoranza e inadeguatezza», conclude Ortona, «ma non ne sono sicuro».Mistero: ma perché quelli del Pd non propongono mai nessuna vera via d’uscita dalla crisi? Due ipotesi: sono semplicemente cretini, oppure sono stati comprati. Il professor Guido Ortona, che insegna all’università del Piemonte Orientale, propende per la seconda ipotesi: «E’ molto plausibile che il Pd si sia venduto ai padroni», sia pure «padroni di tipo nuovo, diversi dai loschi commendatori di un tempo». E la stessa Sel, ovvero «l’unico partito di sinistra che rimane», dimostra «una analoga mancanza di coraggio nel fare proposte chiare» per uscire dal tunnel. Un critico come Paolo Barnard invita a rileggere lo spietato “memorandum” dell’avvocato d’affari Lewis Powell, incaricato già all’inizio degli anni ‘70 – dalla destra americana – di risolvere il “problema” della sinistra. La ricetta di Powell? Semplicissima: “comprare” i generali nemici costa molto meno che sostenere una guerra contro i loro eserciti. Dunque: stroncare la sinistra radicale – politica e sindacale – e “addomesticare” la sinistra riformista, in modo che rinunci a difendere i diritti sociali.
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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Gallino: il totalitarismo dell’Ue sarà la nostra rovina
La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.Sul mercato del lavoro sono entrate quindi meno persone di quelle stimate, quindi il tasso di disoccupazione è più alto, mentre oltre 100 milioni di persone vivono in condizioni di povertà: per proteggerle non basta nemmeno il salario minimo che Obama intende aumentare a 10 dollari all’ora. «Il salario è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno reddito per le famiglie che hanno dovuto mettere al lavoro tutti, nonni e figli compresi», sostiene Gallino in un’inervista realizzata da Roberto Ciccarelli per “Doppiozero” e ripresa da “Megachip”. L’ex segretario Usa al Tesoro, Lawrence Summers, parla addirittura di «stagnazione secolare». Colpa della globalizzazione, delle nuove tecnologie e delle delocalizzazioni. «Ciò ha portato al paradosso per cui gli Usa contribuiscono alla crescita della Cina ma non alla propria». La stagnazione è devastante in Europa, dove allarga le diseguaglianze in tutti i suoi paesi. «Non si dice mai che in Germania esiste una parte della popolazione che ha inflitto costi umani e sociali elevati alla maggioranza e ne prende grandi vantaggi». In questo meccanismo, continua Gallino, ha influito negativamente sui bilanci degli altri paesi l’eccesso dell’export tedesco.Per Gallino, l’euro rappresenta l’incubo numero uno. «È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto». Il sociologo torinese teme però che dalla trappola dell’Eurozona non sia così facile uscire: «Il marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica». L’aspetto più inquietante è che la moneta unica rappresenta in Europa lo strumento operativo principale del “totalitarismo neoliberista”, quello delle politiche di rigore, concepite per rendere gli Stati incapaci di proteggere i cittadini, impedendo loro di promuovere l’occupazione attraverso un impiego strategico degli investimenti pubblici. «Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze». E se sull’euro c’è scritto “chi tocca, muore”, si può cominciare dalla politica: e cioè costringendo Bruxelles (e la Bce) a invertire la rotta, allargando i cordoni della borsa.Uscire dalla recessione col rilancio della produzione e dei consumi di massa come nel “trentennio glorioso” tra il 1945 e 1973? «Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà». Gallino non crede a questa prospettiva. Inoltre, se mai avvenisse, un nuovo “miracolo economico” sarebbe «un vero disastro», perchè la crisi «non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi». In più «rischiamo di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo».L’Ocse avverte che la crescita tornerà, ma non produrrà nuova occupazione stabile. Senza considerare che i milioni di posti fissi bruciati nella crisi sono irrecuperabili. Che fare, allora? «Bisogna ridiscutere i trattati europei e modificare lo statuto della Banca Centrale Europea, innanzitutto». La legislazione europea è infatti soffocante: le 300.000 leggi in vigore in Italia (come le 9-10.000 esistenti in Francia e in Germania) sono all’80% ispirate e comunque vincolate alle direttive europee. «Se non si passa di lì, penso che sia molto difficile fare politiche economiche che non siano quelle sconsiderate fatte negli ultimi tre anni: i governi continueranno a battere i tacchi e a firmare qualsiasi cosa che Bruxelles, la Bce o l’Fmi gli propongono». Gallino trova «scandaloso» che sia il Trattato di Maastricht che lo statuto della Bce «ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione».L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali: è un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del trattato. È difficile modificarlo, a causa della contrarietà dei tedeschi. Ed è «curioso» notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario, cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di Stato, di cui 103 italiani. «Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera». Invece, Draghi «ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni», e in più «si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche». In realtà quei soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni.«Senza risorse – sottolinea Gallino – le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa». Molti economisti, tra cui quelli della Banca Mondiale, ritengono ormai che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la salute dell’economia, e propongono altri indicatori per valutare il tasso di sviluppo umano. «Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica». In questa fase, però, «mancano le premesse politiche per realizzarla». Per Gallino, i discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, «sono di un’ottusità incomparabile». Ovvero: «Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro», cioè green economy, ricerca, alimentazione, beni culturali, manutenzione idrogeologica del territorio. «La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero».La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.