Archivio del Tag ‘geopolitica’
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Da dove viene il potere di Putin, l’uomo che non sbaglia mai
Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.Da delegato del Dipartimento per la gestione delle proprietà presidenziali (giugno 1996) Putin ascese alla poltrona di primo ministro (agosto 1999), passando per delegato al Personale dell’Amministrazione Presidenziale, delegato alle Politiche regionali, capo dei servizi segreti interni e membro del Consiglio di sicurezza. «Ricordo gli amici russi quando lo nominarono capo del governo: Putin chi? Non uno che lo conoscesse», scrive Scaglione su “Linkiesta”. E poi, certo: 31 dicembre 1999, Boris Eltsin si dimette; marzo 2000, Putin diventa presidente. «Insomma: Putin è bravo, ok, ma vi pare una storia normale?». A questo passaggio, dieci anni fa Scaglione dedicò quasi metà di un libro (“La Russia è tornata”). La tesi: «Putin non è un carrierista di successo, ma un uomo scelto e allevato per il Cremlino». Da chi? «Da chi comandava all’inizio degli anni Novanta, i “democratici” e quelli del Kgb, che avevano cooperato a liquidare l’elefante Pcus e l’Urss con relativo Gorbaciov ma non ne potevano più di Eltsin e degli sconquassi che agitavano il paese». Qualcosa di simile lo racconta anche il filologo Igor Sibaldi, di madre russa, che vede in Putin l’ultimo terminale del nuovo Kgb fondato da Andropov, che già nell’era Khrushev aveva intuito l’inevitabile collasso dell’Urss, fondando una super-struttura segreta incaricata di tenere in piedi la Russia. Lo stesso Gorbaciov era il protetto di Andropov e veniva pure lui da Kgb, cioè dal network dal quale proviene lo stesso Putin.Anche Scaglione sostiene che Putin è il prodotto di un progetto preciso, a lunga scadenza: «Se ho ragione sarà meglio mettersi seduti e cominciare a ragionare su quanto ancora avremo a che fare con la Russia di Vladimir Putin». Perché è chiaro: se “Vova” è l’astuto arrivista che ha conquistato la cima, finito lui finirà tutto. Se invece Putin ha rappresentato finora la realizzazione di un piano, «allora per certi ambienti occidentali sono cavoli amari, come si dice. E la Russia di Putin forse non finirà con Putin, che peraltro ha solo 65 anni e può star lì un altro bel po’». Nel 1996 Putin viene chiamato a Mosca, e l’anno dopo Zbigniew Brzezinsky, ex segretario di Stato di Jimmy Carter, pubblica il saggio principale diventato la Bibbia degli atlantisti: “La grande scacchiera”. Il sottotitolo era “La supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici”. «Chiaro, no? Sulla Russia, Zibi Brzezinski aveva idee precise: bisognava impedire la sua rinascita, anzi sperare che si spezzasse in diversi tronconi. E appoggiare l’allargamento della Ue, per contenerla il più possibile. Ecco, Putin ha mandato tutto questo a banane».Basta fare un piccolo elenco, osserva Scaglione: l’uomo del Cremlino «ha stroncato l’indipendentismo ceceno (nel 1999, quando scoppiò la seconda guerra del Caucaso, ormai subornato dall’islamismo) e ha rafforzato la verticale del potere, restituendo a Mosca il pieno controllo delle regioni e delle province. Frammentare la Russia? Addio». Poi lo “zar” «ha piantato picchetti solidissimi intorno alle risorse naturali della Russia, considerate asset strategico non solo per l’andamento economico del paese ma anche per la sua politica estera: un po’ come la “golden share” del nostro governo su Telecom ma con i modi un po’ più spicci della politica russa». Ovvero: «Mikhail Khodorkovskij vuole portare la Yukos a fare affari con le Sette Sorelle? Via, per un po’ in galera, così ci ripensa. O avete davvero creduto che il buon Misha, che aveva fatto i primi denari nei primi anni Novanta trafficando in valuta, fosse davvero preoccupato per la morale della vita pubblica? Quindi: impedire la rinascita della Russia, con il petrolio per anni sopra i 100 dollari il barile? Addio».E’ sul fronte europeo che Putin, secondo Scaglione, ha patito ciò che Brzezinski sperava: «La Ue si è allargata a tutto l’ex Est, anche a costo di sfrangiarsi e incepparsi, con grande soddisfazione dell’amico americano. E più “Vova” riproponeva l’idea di un’Europa che andasse dall’Atlantico agli Urali (copyright Charles de Gaulle), più gli Usa, sfruttando timori e fobie dei paesi usciti dal blocco sovietico, riproponevano la centralità della Nato e la sua espansione a Est, chiamando Georgia e Ucraina nel “Membership Action Plan” e varando il progetto di scudo missilistico in Polonia e Romania». Anche perché impegnato con le questioni interne, in Europa Putin ha subito, insomma. «E pure la reazione ai fatti di Ucraina, nel 2014, con la riannessione della Crimea e il sostegno alla lotta indipendentista del Donbass (che curiosamente è assai meno compatito della snobbissima Catalogna), sa di catenaccio più che di calcio totale». Però, secondo Scaglione, Putin è stato un buon judoka e due o tre mosse le ha imparate. «Alla spinta americana che voleva confinarlo a Est, il più lontano possibile da un inserimento in Europa e quindi in Occidente, il Cremlino ha reagito in due modi. Con un calcio-falciata laterale (mi pare che si chiami “o soto gari”), colpendo cioè da un’altra parte. Putin ha riportato la Russia in Medio Oriente dove, l’hanno capito anche i sauditi, è tutt’altro che di passaggio».L’attivismo del Cremlino nei paesi islamici è plateale: l’intesa con l’Iran, la fedeltà alla causa della Siria di Bashar al-Assad, il riavvicinamento all’Egitto che nel 1972 aveva espulso i consiglieri sovietici. E poi «la diplomazia con Israele, il tango con la Turchia di Erdogan, la partecipazione alle vicende del mercato mondiale del petrolio» sono tutte vicende che «hanno trasformato la Russia in un’insidia vera per gli Usa, che da decenni spadroneggiano nella regione». E poi, «sfruttando la spinta dell’avversario non potendo respingerla», Putin si è lasciato portare verso Est, «cogliendo l’occasione per un’alleanza strategica con la Cina che con il presidente Xi Jinping aveva abbandonato il tradizionale riserbo e aveva cominciato a picchiare i pugni sulla scena internazionale, dal Mar Cinese meridionale alla Siria». Cina che adesso «si espande in Africa e in Europa, ma intanto ha sete di materie prime, di cui la Russia abbonda». E poi tante altre cose, «belle e brutte, riuscite e non riuscite. Ma anche così, non è un po’ troppo per un uomo solo al comando, per un bruto tenuto in piedi dalle polizie, come ci piace raccontare?».Se così fosse, conclude Scaglione, «avremmo di fronte magari un tiranno ma certo anche un genio della politica, un grande amministratore e un fenomeno dai nervi d’acciaio, capace di sopravvivere a vent’anni di trappole, agguati, inganni, minacce e anche semplici grane. Un superuomo. Un eroe della Marvel. Un Avenger!». “Vova” è bravo, chi può negarlo. «Con il potere si sarà pure sbarazzato di qualche nemico e di qualche amico diventato ingombrante». Ma tutto da solo? «Resto della mia idea di dieci anni fa», insiste Scaglione: Putin è l’ottimo interprete di un grande progetto condiviso dietro le quinte. La pensa così anche Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere) aggiunge un elemento: sostiene che Putin sia affiliato alla Ur-Lodge “Golden Eurasia”, la stessa di Angela Merkel. E’ una delle 36 superlogge internazionali del massimo potere, dove le grandi decisioni vengono vagliate in anticipo sui tempi della politica. Nemmeno il potere sovietico è mai stato estraneo a quel livello decisionale: lo stesso Lenin, scrive Magaldi, fondò a Ginevra la superloggia (reazionaria) “Joseph De Maistre”. «Putin era un colonnello del Kgb, non un generale», sottolinea Sibaldi, come a dire che i generali ci sono e restano nell’ombra, magari non avendo il talento pubblico del frontman che regna al Cremlino. Chiosa Scaglione: «Lì dietro c’è un’idea, un progetto. E mi sa che continueremo ad averci a che fare per un bel po’».Esaltato e denigrato con la stessa facilità, Vladimir Putin, 65 anni appena compiuti, per noi è un mistero. Ma non nel senso solito, quello delle gazzette: ex ufficiale del Kgb, “mamma mia che paura”, occhi di ghiaccio e così via. È un mistero, scrive il giornalista Fulvio Scaglione, già corrispondente da Mosca, perché l’Occidente ha adorato da sempre lo stereotipo dello sbirro diventato presidente: da un lato perché è divertente ed esotico, dall’altro perché consente di liquidare una politica ingombrante con quattro luoghi comuni. «Nessuno si è troppo attardato a indagare come sia stato possibile che in piena Perestrojka un agente segreto di seconda fila dei servizi sovietici diventasse il braccio destro di Anatolij Sobciak, il governatore ultraprogressista di San Pietroburgo, che lo difese anche dalle grane che a “Vova” venivano dall’essere alla guida del Comitato per le relazioni esterne della città, incaricato di attrarre e favorire gli investimenti esteri. Posto dove circolavano tanti soldi e tante voci di corruzione». Nessuno che si sia chiesto perché nel 1996, quando il mitico Sobciak perse le elezioni per il governatorato contro l’assai più “politico” Vladimir Jakovlev, Putin non sia stato messo da parte ma invece chiamato a Mosca, dove in tre anni (dicesi tre) compì l’intero grand tour delle poltrone che contavano.
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Tenetevi forte, il vero Russiagate inguaia i Clinton e Obama
Bye bye Clintons. Scommettete che gli stessi che li hanno vezzeggiati e coperti per decenni stanno per farli fuori esattamente come hanno fatto col maiale Weinstein? Il dossier farlocco su Trump e la Russia l’hanno pagato i democratici, e tutti, Fbi compreso, sono stati complici. Uranium One è stata una svendita di patrimonio nazionale e materiale nucleare ai russi, pagata ai Clinton con denaro riciclato. Le due storiacce si intersecano e si intrecciano, partono da lontano, da un accordo di affari in Kazakistan siglato da Bill Clinton, passano per le famose email fatte sparire da Hillary, infangano niente male l’immacolato Barack Obama, il suo consigliere nazionale e il suo attorney-general. Avete letto qualcosa in proposito sui giornali italiani? Sarebbe una notizia. Eppure lo scandalo sta per esplodere, Hillary Clinton ha un bel dichiarare che è tutto un baloney, tutte cazzate, ma la prova del contrario sta nel fatto che ora i giornali suoi alleati e amici si affrettano a pubblicare notizie compromettenti e a ribadire la certezza delle fonti, nel fatto che il Congresso si è deciso a indagare, che persino il superprocuratore dell’inchiesta sul Russiagate sta cambiando direzione di indagini.Tenetevi forte, è proprio vero che a forza di tentare di fregare qualcuno, magari ricorrendo a fake news, arrivano le notizie vere e investono in pieno l’accusatore, in questo caso la candidata trombata Hillary Clinton, l’ex presidente Barack Obama, la sua Amministrazione, l’agenzia federale di investigazione, Fbi. Naturalmente l’affare si complica se uno dei collusi del passato, Robert Mueller, già direttore dell’Fbi, adesso è a capo dell’investigazione sull’avversario, ovvero su Donald Trump e la sua campagna, accusati pesantemente con campagna mediatica oltre che nomina di procuratore speciale, di collusioni con la Russia di Vladimir Putin tali da falsare il risultato elettorale. Ma invece è tutto il contrario, sono stati la campagna Clinton e il Comitato Democratico a pagare il dossier bufala su Trump che innescò il Russiagate. A questa operazione ha lavorato per i democratici proprio Paul Manafort, ovvero l’ex consigliere di Donald Trump, principale accusato dell’inchiesta di oggi. Seguono una serie di domande, alcune delle quali ormai praticamente retoriche.L’Fbi di James Comey ha utilizzato quel dossier pagato dalla campagna Clinton e dal Comitato democratico, e non verificato, per ottenere dalla Corte Fisa un mandato a sorvegliare il team Trump durante e dopo la campagna elettorale? I dati raccolti illegalmente sui componenti del team sono stati comunicati senza necessaria autorizzazione ad almeno due ministri dell’amministrazione Obama? L’operazione truffaldina è stata fatta non solo per danneggiare prima il candidato, poi il presidente, ma anche per coprire le collusioni passate con la Russia, arrivate fino a venderle un quinto dell’uranio, materiale nucleare, americano in cambio di denaro sporco a Bill Clinton e alla fondazione Clinton? L’intera operazione è stata scoperta dall’Fbi e non comunicata al Congresso su ordine del governo Obama? Il capo di allora dell’Fbi che tacque colpevolmente è lo stesso che ora presiede la commissione di inchiesta sul Russiagate?Il tutto cominciò con un viaggio di Bill Clinton nel 2005 assieme al socio canadese della fondazione, Frank Giustra, in Kazakistan a fare accordi con un pericoloso autocrate filorusso, Nursultan A. Nazarbayev, mentre la moglie Hillary era senatore e si preparava a candidarsi alle presidenziali? Frank Giustra era anche il titolare della UrAsia Energy, venduta ad Uranium One nel 2007. Queste notizie sono state tenute accuratamente nascoste per mesi, ipotesi avanzate solo dai pochi media vicini al presidente, come “New York Post”, “Fox News”, fino a “Breitbart News”, ma ora pubblicano scoop e ricostruzioni un giornale progressista come “The Hill”, l’arci avversario “Washington Post”, “Seattle Times” e “Los Angeles Times”, e persino il “New York Times” comincia a ricordarsi di accurate inchieste del passato poi sepolte. Probabilmente vuol dire che la realtà incalza e tocca correre.Viene la confusione a me, figuriamoci a voi. Proviamo ad andare per ordine. Questa vicenda è gravissima, altro che Watergate, lo dico da mesi e lo ribadisco oggi. Naturalmente potete decidere che preferite leggervi sui giornaloni importanti come il “Corriere” racconti puntuti su quanto non sia in realtà ricco Trump, evidentemente ne sanno più di “Forbes”, su come sia stata fondamentale la campagna su Facebook per far vincere le elezioni a Trump, evidentemente con 6500 dollari – tanti su 100mila ne sono stati dedicati al candidato repubblicano – si influenza una campagna presidenziale, sul fatto che Trump tenga appeso sul suo aereo privato, non nella Trump Tower giudicata dal “Corriere” troppo cafona per accettare di viverci, un Renoir che è una crosta perché l’originale sta al museo di Chicago, probabilmente ha ragione il museo, ma ricordare di quanti falsi siano pieni i musei, magari la storia del falsario Mark Landis, non guasterebbe. Se invece decidete che lo scandalo che presto potrebbe fare impallidire Watergate vi interessa, ecco i primi elementi certi.Il famoso dossier che conteneva immagini e racconti di uno scandaletto sessuale protagonista Donald Trump in un albergo di una città dell’Est europeo, e che suggeriva pesanti connections con Mosca e Putin, è stato finanziato e commissionato dalla campagna presidenziale di Hillary Clinton e dal Comitato Nazionale Democratico alla Fusion Gps, il cui presidente e vicepresidente in questi giorni si rifiutano di rispondere alla commissione di Intelligence, invocando il Quinto emendamento, ovvero il diritto a non autoincriminarsi. La Fusion Gps fa capo dal 2016 a Marc Elias, un avvocato che rappresenta la campagna Clinton e il comitato democratico. Fu assoldato un ex agente segreto inglese, Christopher Steele, che aveva mantenuto dei rapporti con Fbi e servizi segreti degli Stati Uniti, che aveva a lungo lavorato in Russia. Confezionò un insieme di pezzi di dossier vecchi in un unico falso, anche piuttosto sfacciato, come poi è risultato essere. Trump in quella città non c’è neanche mai stato. Il tutto è stato pagato circa 9 milioni di dollari. Steele fu tanto preso sul serio che quando incominciò l’indagine sul presunto Russiagate, l’Fbi lo assoldò sia pure per poco tempo.Il famoso dossier ha poi fatto il giro del mondo per alcuni mesi, dopo l’elezione del presidente, al Congresso ci ha pensato il repubblicano John McCain a farlo distribuire, dovrebbe spiegare perché, i giornali lo avevano tutti ma nessuno aveva il coraggio di pubblicarlo perché smaccatamente fasullo, finché non lo fece una piccola pubblicazione, e da lì si parte per il Russiagate. Due parole in più sullo scandalo invece di Uranium One, partendo da alcune precisazioni che finalmente si fanno strada. Basterebbe il mezzo milione di dollari che in una sola volta Putin ha fatto avere per una conferenza a Bill Clinton a suscitare un sospetto di connivenza. Invece tutti concentrati su centomila dollari in tutto di inserzioni su Facebook, che secondo i democratici e secondo anche alcuni giornalisti italiani, avrebbero sfacciatamente favorito l’elezione di Trump. Quelle inserzioni sono cominciate a giugno del 2015, e a controllarle tutte vedrete che sono genericamente messaggi sul razzismo e sul controllo di armi; secondo Marx Penn, analista e stratega politico, sempre di area democratica, sulle elezioni del 2016 si sono soffermate inserzioni per 6.500 dollari.Se qualche impiccio con la Russia va ipotizzato, varranno ben di più i soldi incassati dai Clinton tra conferenze e affare di Uranium One, no? Però, essendo all’epoca della stipula del contratto di vendita la Clinton segretario di Stato e membro di una commissione governativa incaricata degli accordi, non si può accusare solamente lei, ma l’intera amministrazione di Barack Obama, e qui si parla di interessi e sicurezza nazionale. Si parla di aver venduto un quinto della capacità americana di estrarre uranio alla Russia e per l’esattezza a una compagnia di energia nucleare controllata dallo Stato, la Rosatom. La quale nella sua filiale americana, come l’Fbi ben sapeva, si dava un gran da fare in truffe, ricatti riciclaggio di denaro, frodi ed estorsioni. Se l’Fbi indagò e riferì al dipartimento di Giustizia, quest’ultimo nascose, tanto che l’attività della Rosatom americana continua ancora indisturbata per 4 anni. L’avessero rivelata per tempo, la vendita non sarebbe mai avvenuta. C’era un informatore che aveva lavorato sotto copertura il quale voleva riferire tutto al Congresso, e fu minacciato e bloccato dal Fbi. Ora però parlerà. Per ora mi fermo. Tanto siamo solo agli inizi.(Maria Giovanna Maglie, “Il vero Russiagate scoppierà adesso, e travolgerà i Clinton che l’hanno fabbricato, complice Obama”, da “Dagospia” del 26 ottobre 2017).Bye bye Clintons. Scommettete che gli stessi che li hanno vezzeggiati e coperti per decenni stanno per farli fuori esattamente come hanno fatto col maiale Weinstein? Il dossier farlocco su Trump e la Russia l’hanno pagato i democratici, e tutti, Fbi compreso, sono stati complici. Uranium One è stata una svendita di patrimonio nazionale e materiale nucleare ai russi, pagata ai Clinton con denaro riciclato. Le due storiacce si intersecano e si intrecciano, partono da lontano, da un accordo di affari in Kazakistan siglato da Bill Clinton, passano per le famose email fatte sparire da Hillary, infangano niente male l’immacolato Barack Obama, il suo consigliere nazionale e il suo attorney-general. Avete letto qualcosa in proposito sui giornali italiani? Sarebbe una notizia. Eppure lo scandalo sta per esplodere, Hillary Clinton ha un bel dichiarare che è tutto un baloney, tutte cazzate, ma la prova del contrario sta nel fatto che ora i giornali suoi alleati e amici si affrettano a pubblicare notizie compromettenti e a ribadire la certezza delle fonti, nel fatto che il Congresso si è deciso a indagare, che persino il superprocuratore dell’inchiesta sul Russiagate sta cambiando direzione di indagini.
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Crisi e terrore, ma il Nuovo Ordine Mondiale lo farà la Cina
Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.«Il destino profetizzato dai consulenti del Club di Roma è stato previsto anche da altri ricercatori, che hanno puntato in particolare sulla forza economica e finanziaria della Cina che negli ultimi anni si sta accaparrando le risorse naturali, dall’energia ai minerali, dalle foreste alle derrate agricole, insidiando così le zone d’influenza che appartenevano all’Occidente», afferma Enrica Perucchietti in un’intervista su “Letture.org” in occasione dell’uscita dell’edizione aggiornata dal saggio “Governo globale, la storia segreta del nuovo ordine mondiale” (Arianna), scritto insime a Gianluca Marletta. «Credo che nonostante gli sforzi dell’imperialismo mondialista di portare avanti i propri progetti, nel giro di qualche anno lo scettro passerà di mano e probabilmente il centro del potere si sposterà in Cina», ribadisce la Perucchietti, pur ammettendo che le variabili imprevedibili sono comunque molte, «così come sono da prendere in considerazione delle anomalie che si sono registrate come l’elezione Trump e la Brexit, che sono state evidentemente sottostimate». Tuttavia, come segnala lo stesso Paolo Barnard, colpisce l’arma segreta di Pechino: il suo “capitalismo di Stato” con moneta sovrana mette il governo al riparo dallo strapotere della finanza mondialista non allineata agli oligarchi del partito unico.La riflessione sul futuro “cinese” del mondo conclude un’analisi che la giornalista affronta partendo dallo studio del Nwo, inizialmente liquidato come fiaba cospirazionista. «Oggi la sensazione che sia in atto un progetto di mondialismo (seguente alla globalizzazione delle merci) è comunemente accettato: pensiamo per esempio a Henry Kissinger che ha dato un’opera dal titolo altisonante come “World Order”». Sempre più politici, ministri, capi di Stato e pontefici, aggiunge Perucchietti, negli ultimi decenni hanno parlato pubblicamente dell’esigenza di costituire un “nuovo ordine mondiale”. Lei e Marletta, nel libro, ricostruiscono la storia (documentata) di questo progetto, e le tappe che arrivano fino a noi. «Al di là delle confusioni generate dalla cultura web, lungi dall’essere il delirio di una manciata di paranoici, il nuovo ordine mondiale è al contrario un argomento serissimo, che merita di essere indagato». L’elezione di Trump? «Ha illuso alcuni di poter condurre a una battuta d’arresto del progetto mondialista, ma nei mesi abbiamo assistito a una “normalizzazione” del neo-presidente e l’anacronistico ritorno alla guerra fredda, che ha portato anche alla comparsa di un nuovo nemico sullo scacchiere geopolitico, la Corea del Nord».Se Pyongyang è solo l’ultimo apparente “nemico pubblico” da gettare in pasto alla società per distrarla dalla crisi e «compattarla rispetto a una emergenza esterna», visto che ormai «la Russia non poteva più rispecchiare quel ruolo, dato che la figura di Putin desta sempre maggior consenso o comunque meno diffidenza», posto che un conflitto contro la Corea del Nord «sarebbe non solo inutile, ma svantaggioso e pericoloso», dato che «non apporterebbe nemmeno benefici da un punto di vista geopolitico», vale la pena inquadrare anche questo capitolo («solo teatrale», anche secondo Gioele Magaldi) come parte dello stesso copione mondialista che sta tenendo in scacco il pianeta da ormai moltissimo tempo. Per comprendere che cosa sia il nuovo ordine mondiale, secondo Enrica Perucchietti, è necessario ricostruire le tappe storiche che hanno portato, attraverso i secoli, allo sviluppo dell’ideologia globalista, riscoprendone le radici e i presupposti filosofici, spirituali e teologici. «L’ideologia del Nwo, infatti, attinge la sua linfa vitale da un preciso contesto storico, identificabile con il mondo protestante dei secoli XVII e XVIII. È a partire dall’Inghilterra protestante che l’idea di una Nuova Era di “trasformazione del mondo”, di un progetto prima utopistico e poi politico di “rinnovamento” dell’umanità trova adesione, sostegno e suoi primi “profeti”».Un progetto, rileva la giornalista, che è nato inizialmente come contraltare all’universalismo della nemica Chiesa cattolica e dell’Impero Asburgico e fusosi, successivamente, con analoghe correnti fiorite nello stesso periodo in Nord Europa. L’ideologia mondialista ha recepito e rielaborato nei secoli anche altri tipi di influssi: sull’originario substrato protestante-anglosassone, infatti, si innestano successivamente almeno altre due correnti politico-spirituali: l’ideologia universalistica di matrice massonica (su cui si innestano alcune derive occultistiche) e un certo neo-messianismo di matrice sionista. «Queste correnti così diverse tra loro troveranno una convergenza fondata sull’elitismo di chi (gli Usa in primis) si sente in diritto e in dovere di promuovere anche con la forza il proprio imperialismo e assoggettare il resto del mondo ai propri interessi». L’autrice respinge la tesi del Grande Complotto Universale: è storicamente indimostrabile e serve solo a screditare chi indaga seriamente sul mondialismo. Però, «se è impossibile affermare l’esistenza di una “continuità programmatica” nello sviluppo del Nwo, è legittimo tuttavia parlare di un’evidente continuità ideale che lega, attraverso i decenni e persino i secoli, una serie di “forze” e “poteri” in una complicità di interessi e di azioni».Non esiste un Grande Complotto unico, monolitico? «Esiste però una dottrina di base e una “confluenza di interessi” che spingono verso la costituzione del mondialismo, così come esistono i suoi profeti e “architetti” che ne hanno scritto e parlato anche pubblicamente». Ovvero: «Dalla rete inestricabile dei poteri occulti, delle logge e delle sette, dei potentati economici e dei gruppi di pressione impegnati da tempo a promuovere il progetto del nuovo ordine mondiale, emergono con una frequenza non casuale, nomi, realtà e concreti gruppi di potere che nel nostro “Governo Globale” definivamo il “volto visibile del Nwo” di cui trattiamo ampiamente nella prima parte del saggio». Il progetto mondialista? «Nasce in ambito anglosassone ed è quindi naturale che esso abbia avuto, nella potenza degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il perno della sua potenza (a cui si è aggiunto, a partire dal secondo dopoguerra, il fattore geopolitico costituito dallo Stato di Israele). Quando parliamo del potere di queste nazioni, tuttavia, ci riferiamo a certe strutture di potere che rimangono invariate nel tempo». Nel suo saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi le chiama Ur-Lodges, superlogge: sarebbero la chiave segreta del back-office del potere mondiale, ormai esteso anche alla Cina nel disegno condiviso della globalizzazione autoritaria.Fatte salve le differenze che contraddistinguono le diverse correnti, osserva Perucchietti, esistono alcune costanti fondamentali alla base del progetto mondialista, e alcuni interessi specifici: per esempio, l’aspirazione a costituire una res-pubblica universale e sovranazionale controllata più o meno direttamente da un’autoselezionata élite. «Quindi la creazione di un governo elitario, di pochi». Inoltre, si registra «la diffusione o imposizione di un pensiero omologato, tendente a dissolvere le identità e le particolarità culturali, politiche e religiose in una sorta di pensiero unico globale». Il progetto di costituzione di un mondo nuovo, infatti, richiede anche «un uomo nuovo, che sia omologato e omologabile, facilmente controllabile», magari anche attraverso l’ideologia gender, di cui la Perucchietti ha parlato in libri come “La fabbrica della manipolazione” e “Unisex”. A cascata, pesano «la conseguente lotta contro le “identità forti” difficilmente omologabili alla cultura mondialista e l’abbattimento dei valori tradizionali». Non solo: ci sono anche «censura e psicoreato, ossia il controllo della comunicazione, dei mass media ma anche delle menti e dell’espressione dei cittadini, di cui la recente battaglia contro le “fake news” è un lampante esempio».E’ all’opera una strategia d’azione che privilegia «l’utilizzo strumentale della politica (una sorta di vera e propria criptopolitica basata su ricatti e complotti per lo più sotterranei)», di cui – come vetta dell’iceberg – abbiamo vaghe notizie, attraverso sigle come la Trilaterale o il Bilderberg, cenacoli «i cui membri si riuniscono a porte chiuse per discutere del destino dell’umanità». Alcuni aspetti ideologici restano imprescindibili, «come il neomalthusianesimo che considera l’eccesso delle nascite nelle classi povere come un problema per la qualità di vita». E infatti «gli architetti del Nwo sono ossessionati dal contenimento/riduzione della popolazione». Nell’immaginario collettivo, il Nwo «ha finito per identificarsi con il potere dei colossi bancari e delle multinazionali che ne sono, per certi versi, l’espressione più visibile». E non è tutto: c’è anche «una visione prometeica e luciferina che convoglia nel Transumanesimo e nelle sue applicazioni cibernetiche, virtuali e tecnologiche: l’idea di fondo è che l’uomo può farsi Dio e abbattere la natura, arrivando a derive post-umane finora impensabili». Nel frattempo, le masse occidentali (e mediorientali, manipolate anch’esse) possono “godersi” l’orrore del terrorismo, una macchina infernale che genera paura, «e la paura è un potente strumento di controllo».Riflette Enrica Perucchietti: «Manipolando le persone in fase di shock, sull’ondata emotiva degli eventi, è possibile introdurre misure liberticide fino a quel momento impensabili, lasciando credere ai cittadini che i provvedimenti scelti siano per il loro bene e la loro sicurezza». Terrorismo ed estremismo «vengono sfruttati abilmente, evocati quotidianamente, politicizzati per poterne sfruttare l’ondata d’urto emotiva». Citando Orwell, la sensazione è che la “guerra al terrore” sia stata concepita come perenne per «poter mantenere intatta la struttura della società» e introdurre uno Stato di polizia. «La guerra non deve cioè aver fine, ma deve servire per poter legittimare misure estreme». Per questo, aggiunge l’analista, «non si può distruggere Al-Qaeda senza pensare che spunti un altro pericolo, Isis o altra organizzazione terroristica che sia». E il terrore «doveva finire per divampare anche in Europa», perché «si stava affievolendo la tolleranza del popolo ad accettare sacrifici per “esportare” la democrazia in paesi lontani». Sicché, «l’unico modo per poterlo spingere a continuare a oliare la macchina da guerra era far assaggiare all’Occidente quel genere di “paura” che noi italiani conosciamo bene: gli anni di piombo».Gli artefici del mondialismo, conclude Perucchietti, «hanno sfruttato con cura occasioni tragiche e non si sono fatti problemi a inscenare od ordire attentati, o comunque a strumentalizzarli per creare i presupposti per poi poter raccogliere e sfruttare delle opportunità calcolate con cura». In questo contesto «rientrano anche le cosiddette “false flag”», ovvero le operazioni “sotto falsa bandiera” come quelle che hanno funestato la Francia con sinistra, cronometrica precisione. Lo rileva Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, secondo cui – nella Francia che ha imposto il silenzio alle indagini su Charlie Hebdo (segreto militare, dopo la scoperta del possibile ruolo dell’intelligence nell’armamento del commando), l’opaco neo-terrorismo ha colpito Nizza il 14 luglio, giorno “sacro” per i massoni progressisti anti-oligarchici, e Parigi il 13 novembre (Bataclan), nell’anniversario di una giornata infausta per i Templari perseguitati nel ‘300, a cui evidentemente i mandanti dell’Isis, mondialisti e atlantici, vorrebbero richiamarsi, firmando il loro sanguinoso delirio. Dove finiremo, di questo passo? A Pechino, risponde Enrica Perucchietti: sarà probabilmente a Cina a mandare in fumo i giochi “illuminati” dell’élite nera, insediando sul trono del pianeta – diversamente mondializzato, ma sempre senza democrazia – da una futura élite “gialla”.Il nuovo ordine mondiale? Lo farà la Cina. «Non è solo il maggior creditore degli Usa, ma nel breve tempo di un decennio si è contraddistinta per l’assalto alle roccaforti del capitalismo statunitense e per una nuova forma di colonizzazione africana». Il destino della Cina sembra quindi sfuggire allo storico braccio di ferro di Washington e Mosca: «Nell’espansionismo cinese c’è infatti l’impronta di una nuova classe dirigente, tecnocratica e pragmatica, silenziosa e lungimirante». La Cina diventerà egemone perché, oltre alla capacità di azione, ha sufficienti risorse interne per conquistare il potere globale. A tutto ciò si aggiunge che i cinesi hanno la volontà e la capacità «di controllare i flussi di investimenti con cui raggiungere i propri obiettivi». La studiosa torinese Enrica Perucchietti, autrice di saggi come “L’altra faccia di Obama”, “Utero in affitto” e “False flag, sotto falsa bandiera”, oggi segnala un dossier del Club di Roma: “2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni”. Quaranta ricercatori coordinati da Jorgen Randers provano a delineare il futuro globale: la Cina sarà il leader mondiale entro trent’anni. Diverrà «la forza trainante del pianeta», superando in tal mondo i due blocchi storici che competono per la supremazia globale, Usa e Russia.
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Droga Nato: viene dall’Afghanistan e ha salvato Wall Street
L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La produzione afghana di oppio, iniziata negli anni ‘80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli anni ‘90 durante la guerra civile, era stata bandita dai Talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine anni ‘90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.A gestire il business afghano della droga non sono i guerriglieri islamici, bensì i signori della droga legati al governo sostenuto dall’Occidente. «Gli insorti afgani intascano mediamente non più del 2,5%-5% del valore di esportazione dell’eroina afghana», spiegavano nel 2006 Onu e Banca Mondiale e poi di nuovo l’Onu nel 2009, sottolineando che «i 25-30 più grossi narcotrafficanti afghani controllano le principali transazioni e spedizioni lavorando a stretto contatto con complici che ricoprono alte cariche governative». A volte sono essi stessi parte del governo, come nel caso del defunto Ahmend Wali Karzai, boss di Kandahar e fratello dell’allora presidente, o di Sher Mohammed Akhundzada, ex governatore della provincia di Helmand, o di Mohammed Fahim, vicepresidente della repubblica e ministro della difesa, o del generale Abdul Rashid Dostum, vicepresidente e capo di stato maggiore delle forze armate, o di Mohammed Daud Daud, viceministro dell’interno con delega all’antidroga. Boss del narcotraffico ma intoccabili per il loro ruolo politico-militare o perché informatori della Cia o alleati della Nato.Afghanistan, Stati Uniti e Nato hanno deciso di sacrificare la lotta alla droga in nome di quella al terrorismo. La stessa scelta fatta in Europa, Asia e America Latina in nome della lotta al comunismo. Per mantenere il controllo, gli americani si sono alleati con potenti criminali e signori della guerra locali, chiudendo un occhio su tutta l’industria della droga afghana risorta dopo il 2001. Una strategia che ha garantito non solo la tenuta del protettorato Usa/Nato in Afghanistan, ma anche quella delle grandi banche di Wall Street dopo la crisi del 2008 grazie all’enorme massa di narcodollari riciclati e immessi nel circuito finanziario: unica quanto vitale liquidità disponibile all’epoca, come denunciato dall’ex direttore generale del dipartimento antidroga e anticrimine dell’Onu, Antonio Maria Costa.(Enrico Piovesana, “Afghanistan, un protettorato fondato su tonnellate di oppio” dal “Fatto Quotidiano” del 9 ottobre 2017).L’eroina è tornata a uccidere nelle nostre città: 266 morti per overdose l’anno scorso, soprattutto tra i giovanissimi. L’allarme è rimbalzato su tv e giornali, che hanno parlato di droga spacciata dai nigeriani. Non un cenno all’origine di questa nuova epidemia: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale, fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La produzione afghana di oppio, iniziata negli anni ‘80 nelle zona controllate dai mujaheddin sostenuti dalla Cia e cresciuta negli anni ‘90 durante la guerra civile, era stata bandita dai Talebani nel 2000. Sotto l’occupazione alleata, con il ritorno al potere dei mujaheddin, la produzione è ripartita e nel giro di pochi anni ha superato ogni record storico: oggi in Afghanistan ci sono 200 mila ettari di piantagioni di papavero contro le 80-90 mila di epoca talebana, con una produzione annua di 5-6 mila tonnellate contro le 3 mila di fine anni ‘90. Un boom produttivo che, dice l’Onu, riguarda le regioni settentrionali del paese (+324% nel 2016) controllate dal governo, mentre nel sud sotto controllo talebano la produzione è stabile.
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Di Maio e i vaccini obbligatori: aprite gli occhi, amici 5 Stelle
Di Maio & company? Non abbiamo ancora visto niente: se vanno al potere i 5 Stelle (non la base: i dirigenti), «ci terremo intatto lo strapotere delle multinazionali del farmaco, della chimica, dell’alimentazione devitalizzata, dei megamedia del potere». E soprattutto «il dominio della finanza, i livelli di inquinamento, l’ossequienza al Vaticano e alle massonerie varie, alla Trilateral, a Goldman Sachs». Parola di Fausto Carotenuto, promotore del network “Coscienze in Rete” e già analista internazionale per l’intelligence: un uomo esperto, che conosce a fondo – dall’interno – le dinamiche del vero potere, quello che indossa diverse maschere per compiacere e illudere i cittadini-elettori. Ma perché tanto allarme per Di Maio? durante una visita all’ateneo di Harvard, «una delle università dove oramai i candidati premier vanno a prendere la benedizione», lo scorso maggio il beniamimo di Beppe Grillo ha dichiarato che i vaccini «in Italia sono obbligatori per legge», e quindi, ha aggiunto, «noi non abbiamo intenzione di eliminarla», quella legge. «E lo dice quello che poi verrà “unto” con un plebiscito di finta “democrazia diretta” come capo politico del 5 Stelle e candidato alla presidenza del Consiglio», protesta Carotenuto.Domanda che sorge spontanea: «Per chi lavora questo signore? Per chi lavorano i vertici manifesti e occulti del 5 Stelle? Non certo per la gente e per la nostra libertà», scrive Carotenuto su “Coscienze in Rete”. «E’ chiaro che chi è contro l’obbligatorietà dei vaccini non potrà mai votare per questo signore», Di Maio, che appare «al servizio di chi vuole vaccinare obbligatoriamente i nostri bambini». Per l’analista, semplicemente «occorre svegliarsi», perché «con questa gente al governo – e non parliamo dei militanti, ma di chi li dirige in modo del tutto privo di vera democrazia – si verificheranno anche altri fatti, che i votanti grillini pieni di ingenuo entusiasmo non immaginano nemmeno: rimarremo saldissimamente in Europa, ci terremo l’euro, l’appartenenza alla Nato e gli interventi militari “umanitari”». Peggio: Big Pharma non ha nulla da temere dai grillini, e nemmeno Wall Street, la super-oligarchia, i ras della devastazione agroalimentare, gli scienziati del cibo-killer, cancerogeno. Nessuno trema, di fronte a Di Maio: né i media mainstream, professionisti della disinformazione, né le multinazionali onnivore e globaliste, né i santuari supermassonici dell’élite finanziaria.«Stiamone certi», aggiunge Carotenuto: «Se vogliamo che nulla di importante cambi nel sistema di potere che ci manipola, votiamo tranquillamente per questo signore». Non che Di Maio sia il peggiore il campo, sia chiaro: «Certo, anche se voteremo per gli altri partiti ora in Parlamento, nulla cambierà di tutto questo». Ma almeno, evitando di votare 5 Stelle, «non avremo sprecato le nostre migliori energie e le nostre scelte facendoci abbindolare da questa ennesima trappola per le coscienze in risveglio». La tesi di Carotenuto: il potere lavora per rendere eterno il nostro “letargo”, ben sapendo che – statistiche alla mano – un cittadino su tre ha ormai fiutato l’imbroglio e non crede più a nessuno, né ai politici né ai media. «Il nostro vero terreno di operazioni – sottolinea il fondatore di “Coscienze in Rete” – non è delegare a comici o a giovanottini legati a “nonsisachi”, comunque dipendenti dalla finanza internazionale, come minimo. E nemmeno delegare agli altri partiti, che dipendono dagli stessi poteri di controllo».Carotenuto propende per il rifiuto del potere istituzionale che viene dall’alto, frutto di “piramidi” irrimediabilmente compromesse e inattendibili, a prescindere dai personaggi dietro i quali si nascondono: meglio la solidarietà circolare dei territori, dal basso. «Utilizziamo le nostre energie e la nostra voglia di bene senza delegare, facendo il bene là dove siamo, nel locale, orizzontamente, intorno a noi», sapendo che un giorno «da questa crescita orizzontale, quando sarà ampia e solida, verranno fuori istituzioni nuove». Ma non oggi, non ancora: «Ora è il momento della maturazione delle coscienze attraverso l’impegno diretto là dove siamo e possiamo verificare che le nostre forze alimentano veramente il bene di tutti». Poù in alto, la nostra possibilità di controllo è pari a zero: restiamo in balia delle solite manipolazioni. L’ultima, in ordine di tempo, sarebbe proprio quella del Movimento 5 Stelle: pura illusione ottica, certificata dal Di Maio “pro-vax”, di fronte alla potentissima platea di Harvard. «Non dimentichiamo…».Di Maio & company? Non abbiamo ancora visto niente: se vanno al potere i 5 Stelle (non la base: i dirigenti), «ci terremo intatto lo strapotere delle multinazionali del farmaco, della chimica, dell’alimentazione devitalizzata, dei megamedia del potere». E soprattutto «il dominio della finanza, i livelli di inquinamento, l’ossequienza al Vaticano e alle massonerie varie, alla Trilateral, a Goldman Sachs». Parola di Fausto Carotenuto, promotore del network “Coscienze in Rete” e già analista internazionale per l’intelligence: un uomo esperto, che conosce a fondo – dall’interno – le dinamiche del vero potere, quello che indossa diverse maschere per compiacere e illudere i cittadini-elettori. Ma perché tanto allarme per Di Maio? durante una visita all’ateneo di Harvard, «una delle università dove oramai i candidati premier vanno a prendere la benedizione», lo scorso maggio il beniamimo di Beppe Grillo ha dichiarato che i vaccini «in Italia sono obbligatori per legge», e quindi, ha aggiunto, «noi non abbiamo intenzione di eliminarla», quella legge. «E lo dice quello che poi verrà “unto” con un plebiscito di finta “democrazia diretta” come capo politico del 5 Stelle e candidato alla presidenza del Consiglio», protesta Carotenuto.
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Blondet: Cane Pazzo fermerà il Cretino della Casa Bianca?
«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».Lo stesso Kelly e il generale James Mattis, il segretario alla difesa, avrebbero discusso fra loro cosa fare se Trump ordinasse il “first strike”, il temutissimo “primo colpo” nucleare. «Gli si opporranno?», si domanda l’anonimo spifferatore della storia a “Vanity Fair”, indicato come ex funzionario della Casa Bianca. Altra indiscrezione: in una riunione dello scorso luglio, Trump avrebbe espresso il desiderio di «decuplicare l’arsenale atomico», salvo poi negare via Twitter, minacciando di «togliere la licenza» alla catena televisiva “Nbc” per quella “fake news”. Ma diverse voci smentiscono il presidente e confermano la notizia, aggiunge Blondet: saputo in quella riunione che gli Usa hanno attualmente 4.000 testate nucleari, contro le 32.000 a loro disposizione nel 1960, Trump avrebbe «espresso il desiderio di riportarle a quel numero, lasciando basiti i generali». Si parla anche di una riunione del consiglio di sicurezza nazionale nella Situation Room, a luglio, in cui Trump avrebbe «ordinato ai capi militari di licenziare il comandante dello forze Usa in Afghanistan», paragonando i loro consigli a quelli di un consulente di sua conoscenza di un ristorante di New York, «i cui suggerimenti sbagliati avevano fatto perdere tempo e denaro».La riunione era stata convocata perché il presidente approvasse la nuova strategia sull’Afghanistan, ma è stata così improduttiva che i consiglieri hanno deciso di continuare la discussione il giorno dopo al Pentagono, con la speranza che in una riunione con meno persone il presidente si sarebbe «concentrato di più». Si interroga Blondet: forse non è il Deep State ad aver messo alle costole di Trump i generali Mattis e Kelly per neutralizzarlo e fargli continuare la politica bellicista di sempre. Forse i “buoni” sono proprio i generali, che provano a frenare un presidente che «gioca a fare il dittatore folle, impartendo ordini pericolosissimi». Ordini «aggravati da una mente sconclusionata, incapace di concentrarsi», nonché «da una furiosa mancanza di conoscenze» specifiche e da «idee da cartone animato». Così almeno scrive il sito “Red State”, politicamente ostile a “The Donald”. Fatto sta che Trump ha apertamente sconfessato il suo segretario di Stato, Tillerson, nei suoi sforzi di aprire (o mantenere aperto) un canale diplomatico con la Corea del Nord, con tweet del tipo: «Risparmiati la fatica, Rex. Serve una sola cosa», la Bomba. Tillerson, aggiunge Blondet, «appare in lotta non solo con il Cretino, ma anche con il Deep State, che quanto a intensità di follia non è certo secondo».Se infatti l’inquilino della Casa Bianca sembra quantomeno in confusione, lo “Stato Profondo” rappresentato dal complesso militare-industriale, Cia e Pentagono più Wall Street, è «sempre più fanaticamente impegnato a portare le relazioni con Mosca ad un punto di non ritorno», come dimostra «l’uccisione del generale Asapov, la bollatura della redazione americana di “Russia Today” come “agenzia straniera”, il bando all’antivirus Kasperski in Usa, accusato dagli israeliani di avere dentro un software spionistico, l’armamento nuovo ai ribelli in Siria». Lo stesso Tillerson, aggiunge Blondet, ha fatto una telefonata cordiale a Lavrov, in cui, secondo il comunicato ufficiale, s’è parlato perfino della «prospettiva di collaborazione Russia-Usa per far funzionare le zone di de-escalation» in Siria. «Una telefonata che ha forse solo il senso di dare un disperato segnale: non è il segretario di Stato la fonte degli attacchi e delle provocazioni», scrive Blondet. Ancor più grave: Tillerson è a favore dell’idea che gli Usa «continuino a mantenere l’accordo nucleare iraniano, che Trump invece sicuramente straccerà, fra l’altro aggravando la rottura con gli europei che invece continuano a sostenerlo». E quindi «cosa farà, imporrà sanzioni agli europei che commerciano con Teheran?».Tillerson, continua Blondet, «ha indetto una conferenza stampa per smentire – non già di aver dato del cretino al suo presidente (su questo ha glissato) – ma di essere sul punto di dare le dimissioni». Anche lui, come Kelly, «per senso del dovere». E pure il generale “Mad Dog” Mattis, nonostante il suo soprannome (“cane pazzo”), «esercita quanto può il ruolo di ragionevole trattenitore» del Folle. «Anche lui davanti al Congresso s’è dichiarato a favore del fatto che gli Usa mantengano fede all’accordo con l’Iran (e gli alleati europei e la Russia) sul nucleare iraniano, che Teheran sta rispettando. Ciò ha fruttato a Mattis la furiosa visita di un altro pazzo, il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman», il quale sostiene la posizione di Trump e ha informato il capo del Pentagono – testualmente – che «il conflitto Israele-Iran in Siria ha raggiunto il punto di non ritorno», e che «siccome Teheran continua ad ignorare gli altolà di Israele all’espansione iraniana nel Medio Oriente, Israele va ad un conflitto con l’Iran» in Siria. Infatti «Israele ha reso chiaro, sia gli iraniani che ai siriani, e anche ai russi, che non consentirà alcuna presenza iraniana in Siria, specialmente aerei da guerra o un molo iraniano nel porto di Tartus».Per adesso, scrive il sito israeliano “Yenet News”, ciò che Lieberman potrà ottenere sarà al massimo l’appoggio del Pentagono per intensificare la guerra contro quello che chiamano «la sovversione dell’Iran in Medio Oriente, dallo Yemen a Gaza al Libano». Già esiste «un piano americano contro Hezbollah come parte della guerra contro l’Iran e i suoi satelliti». Un piano che farebbe parte delle misure contro «l’espansione iraniana nella regione», vale a dire – traduce Blondet – la continuazione della sovversione del governo siriano con il pieno sostegno ai jihadisti e con le uccisioni di russi. Nell’articolo di “Vanity Fair” si racconta che Steve Bannon, quand’era ancora il capo-stratega alla Casa Bianca, ha detto francamente a Trump che, col suo comportamento, non doveva temere l’impeachment, ma il 25° emendamento. Al che, Trump ha risposto: «E che cos’è?». Blondet fa notare «quante personalità disturbate, irresponsabili, pericolosamente instabili o con gravi problemi di sociopatia» siano attualmente al potere, citando anche Netanyahu e Erdogan, «che sta rompendo i rapporti diplomatici con gli Usa, nello sgomento dei suoi ministri». Per Blondet, questo è «un passo apocalittico della storia», che aumenta «il disordine demolitorio ed esplosivo», là dove prima esistea un ordine mondiale fondato su equilibri dinamici.«E’ un cretino», avrebbe detto di Trump il segretario di Stato Rex Tillerson, anzi «un fottuto cretino». «Compariamo i quozienti intellettivi e vediamo chi vince», ha twittato in risposta “The Donald”, confermando involontariamente la valutazione di Tillerson. Secondo Steve Bannon, Trump «ha il 30% di probabilità di terminare regolarmente il mandato», visto che potrebbe decadere non per impeachment, ma per il 25° emendamento, in base al quale il gabinetto, a maggioranza, può rimuovere il presidente per ragioni (fra l’altro) psichiatriche. Lo riporta Maurizio Blondet, registrando lo stato di caos che regnerebbe a Washington. «Diverse persone vicine al presidente mi hanno detto in privato che Trump è “instabile”, che “perde colpi”, che “va in pezzi”», scrive Gabriel Sherman su “Vanity Fair”, dopo l’intervista rilasciata al “New York Times” del senatore repubblicano Bob Corker, che ha definito la Casa Bianca di questi giorni «un asilo nido per adulti» e ha detto di temere che Trump scateni la Terza Guerra Mondiale. Esagerazioni? «Il capo di gabinetto, generale John Kelly, è profondamente a disagio e infelice nella sua carica, ma vi resta per senso del dovere, per frenare le decisioni più disastrose che Trump da solo potrebbe prendere: per esempio, ordinare un attacco atomico preventivo contro la Corea del Nord».
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Carpeoro: Fusaro e Di Pietro, tribuni dell’Italia non-pensante
Diego Fusaro in televisione accusa Antonio Di Pietro e i magistrati di Mani Pulite di aver fatto un colpo di Stato? Da un punto di vista linguistico, non definirei Mani Pulite un colpo di Stato, quanto piuttosto un complotto internazionale, nel senso che il golpe ha caratteristiche squisitamente politiche e personalistiche, che quella storia non ha avuto. Dietro c’erano interessi internazionali e servizi segreti: altre cose. Il colpo di Stato è il voler sostituire un regime con un altro regime. Qui non si voleva sostituire un regime politico: si voleva soltanto mandare a casa la sua dirigenza. Cosa che è stata fatta, con una serie di fattori che si sono incrociati, e una serie di persone che pensavano di poter gestire questo fenomeno e poi ne sono rimaste esse stesse vittime. Una di queste è stato Andreotti: quand’è stato fatto senatore a vita da Cossiga, insieme a Gianni Agnelli, circa sei mesi prima che esplodesse Mani Pulite, Andreotti sapeva bene cosa sarebbe scoppiato. Lo sapeva molto bene, come lo sapeva Cossiga – che guardacaso ha nominato due senatori a vita, Andreotti e Agnelli: vi sembra complicato dedurre che Giulio Andreotti e Gianni Agnelli sapessero cosa stava accadendo, e che lo sapesse anche Cossiga?Pensavano di poter gestire la situazione, ma queste cose scappano di mano: come diceva Craxi, prima o poi le volpi ci finiscono, in pellicceria. Poi si sono incrociate vendette internazionali: se uno sottrae all’arresto americano colui che ha materialmente ucciso uno dei capi del B’nai B’rith, non può pensare che quel braccio operativo, connesso col Mossad, “se la tenga”. E quindi ci è entrato il problema di Sigonella e tutta una serie di problemi. Di Pietro un golpista? No: Di Pietro è un opportunista, che ha lucrato politicamente (e probabilmente anche economicamente) sul fatto di trovarsi in una posizione gestita dai servizi segreti sin dalle origini, fin da quando da poliziotto diventa magistrato, sulla base di un certo piano, gestito anche dagli americani. E tramite questa posizione ha gestito rapporti con servizi segreti di tutto il mondo: dimessosi da magistrato, risulta che il primo viaggio che Di Pietro fa è in Turchia, dove partecipa a incontri con i servizi segreti turchi.Non è stato il primo, Fusaro, a sollevare la questione Mani Pulite in quei termini. Ma il problema è che Fusaro rappresenta una categoria non-pensante dell’Italia (per delle cose che ha detto prima, per come si pone). Non ho detto che lui è non-pensante: ho detto che è gradito ai non-pensanti. E questo è pericoloso, per Di Pietro, perché il suo successo lo ha dovuto ai non-pensanti. Questo per lui è un rischio forte: Di Pietro ha temuto lo scontro televisivo con Fusaro perché entrambi sono sullo stesso piano; affondano nello stesso pubblico, attingono allo stesso consenso, e quindi per Di Pietro è molto pericoloso, incrinare questo tipo di copertura. Il problema, in Italia, è che quelli che fanno qualcosa contro qualcuno vorrebbero prendergli il posto. Questa è la dinamica: attacco qualcuno perché voglio fare le cose che fa lui, al posto suo.Se questa è la dinamica, perché dovrei essere entusiasta di Fusaro? Se non lo sono stato di Di Pietro, non posso esserlo neanche di Fusaro. Le motivazioni sono uguali, le modalità sono uguali: le modalità di analisi, il populismo, la superficialità di certi giudizi, il non voler far pensare la gente (o forse, il non riuscirci). E quindi perché dovrei essere entusiasta di Fusaro se non lo sono stato di Di Pietro e di qualunque altro di questi Cola di Rienzo, di questi personaggi un po’ tribunizi che hanno cavalcato le scene italiane negli ultimi anni? Io sono per una politica diversa, una politica non fatta di tribuni. In Italia si sono abolite le tribune e si sono potenziati i tribuni. Io vorrei che venissero rispolverate le tribune e aboliti i tribuni. Magari ci riusciremo.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” durante la diretta web-streaming “Carpeoro Racconta” del 22 ottobre 2017, ripresa su YouTube. Il filosofo Diego Fusaro si è scontrato il 19 ottobre nel corso della trasmissione “L’aria che tira”, condotta sul La7 da Myrta Merlino. Il riferimento di Carpeoro al B’nai B’rith è relativo a Lion Klinghoffer, israelo-statunitense ucciso dal commando palestinese del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, che dirottò la nave da crociera Achille Lauro nel 1985. Dirottamento organizzato dagli uomini di George Habbash, leader del Fplp, e poi “risolto” dall’inviato di Arafat, Abu Abbas, con la collaborazione dell’Egitto e dell’Italia, il cui premier Craxi protesse poi il rimpatrio dei dirottatori e dello stesso Abu Abbas, dopo averli contesi a Sigonella ai marines schierati da Reagan per catturarli e tradurli negli Usa).Diego Fusaro in televisione accusa Antonio Di Pietro e i magistrati di Mani Pulite di aver fatto un colpo di Stato? Da un punto di vista linguistico, non definirei Mani Pulite un colpo di Stato, quanto piuttosto un complotto internazionale, nel senso che il golpe ha caratteristiche squisitamente politiche e personalistiche, che quella storia non ha avuto. Dietro c’erano interessi internazionali e servizi segreti: altre cose. Il colpo di Stato è il voler sostituire un regime con un altro regime. Qui non si voleva sostituire un regime politico: si voleva soltanto mandare a casa la sua dirigenza. Cosa che è stata fatta, con una serie di fattori che si sono incrociati, e una serie di persone che pensavano di poter gestire questo fenomeno e poi ne sono rimaste esse stesse vittime. Una di queste è stato Andreotti: quand’è stato fatto senatore a vita da Cossiga, insieme a Gianni Agnelli, circa sei mesi prima che esplodesse Mani Pulite, Andreotti sapeva bene cosa sarebbe scoppiato. Lo sapeva molto bene, come lo sapeva Cossiga – che guardacaso ha nominato due senatori a vita, Andreotti e Agnelli: vi sembra complicato dedurre che Giulio Andreotti e Gianni Agnelli sapessero cosa stava accadendo, e che lo sapesse anche Cossiga?
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Eroina, soldi e “terre rare”: perché restiamo in Afghanistan
Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.I caduti afghani sono combattenti (oltre 100.000, un terzo governativi e due terzi talebani) e civili (35.000, in aumento negli ultimi anni). E sono stime ufficiali dell’Onu, che trascurano le tante vittime civili non riportate. Senza considerare i civili afghani morti a causa dell’emergenza umanitaria provocata dal conflitto: sono 360.000, secondo i ricercatori americani della Brown University. Chi sostiene la necessità di portare avanti questa guerra si appella alla difesa dei progressi ottenuti. Quali? A parte un lieve calo del tasso di analfabetismo (dal 68% del 2001 al 62% di oggi) e un modestissimo miglioramento della condizione femminile (limitato alle aree urbane e imputabile al lavoro di organizzazioni internazionali e Ong, non certo alla Nato), l’Afghanistan – aggiunge Piovesana – ha ancora oggi il tasso più elevato al mondo di mortalità infantile (113 decessi su mille nati), tra le più basse aspettative di vita del pianeta (51 anni, terzultimo prima di Ciad e Guinea Bissau) ed è ancora uno dei paesi più poveri del mondo (207° su 230 per ricchezza procapite).Politicamente, il regime integralista islamico afghano (fondato sulla sharìa e guidato da ex signori della guerra della minoranza tagika) «è tra i più inefficienti e corrotti al mondo e ben lontano dall’essere uno Stato di diritto democratico: censura, repressione del dissenso e tortura sono la norma». Per non parlare del problema del narcotraffico: l’Afghanistan sotto occupazione occidentale è fonte dell’80% dell’eroina globale, che raggiunge l’Europa non più solo attraverso la rotta balcanica, ma soprattutto attraverso l’Africa, con la Nigeria come snodo principale. La cartina al tornasole dei “progressi” portati dalla presenza occidentale è il crescente numero di afghani che cercano rifugio all’estero: tra i richiedenti asilo in Europa negli ultimi anni, gli afghani sono i più numerosi dopo i siriani, precisa “Micromega”. E anche dal punto di vista militare i risultati sono deludenti. Dopo 16 anni di guerra, i Talebani controllano o contendono il controllo di quasi metà del paese. «Una situazione imbarazzante che ha spinto il presidente americano Donald Trump a riprendere i raid aerei e rispedire truppe combattenti al fronte, e la Nato a spostare i consiglieri militari dalle retrovie alla prima linea per gestire meglio le operazioni e intervenire in caso di bisogno».Il fronte occidentale è sotto il comando italiano: per fronteggiare l’avanzata talebana, dall’inizio dell’anno i nostri soldati (un migliaio di uomini, il secondo contingente dopo quello Usa: alpini della brigata Taurinense e forze speciali del 4° reggimento alpini paracadutisti) sono tornati in prima linea a pianificare e coordinare le offensive dei soldati afghani. Gli esperti militari dubitano del successo di questa strategia, riferisce Piovesana: perché mai poche migliaia di soldati che combattono a fianco dell’inaffidabile esercito locale dovrebbero riuscire laddove gli anni passati hanno fallito 150.000 soldati occidentali armati fino ai denti? «Secondo esperti e diplomatici, l’unica via d’uscita è il dialogo con i Talebani e la loro inclusione in un governo federale e multietnico, il ritiro delle truppe Usa e Nato e la riconversione della cessata spesa militare in ricostruzione e cooperazione». Piovesana ricorda che i Talebani, fortemente sostenuti dalla maggioranza Pashtun degli afghani, non rappresentano una minaccia per l’Occidente: la loro agenda è infatti la liberazione del suolo nazionale, non la jihad internazionale.Per questo i Talebani combattono i jihadisti stranieri dell’Isis-Khorasan infiltratisi in Afghanistan e non hanno mai organizzato attentati in Occidente, «né hanno avuto alcun ruolo negli attacchi dell’11 Settembre, che avevano apertamente condannato». L’alternativa all’accordo? Non esiste. O meglio, sarebbe «il prolungamento indefinito di una guerra sanguinosa che nessuno ha la forza di vincere e che sprofonderà l’Afghanistan in una situazione di caos e instabilità crescenti, facendone un rifugio ideale per formazioni terroristiche transnazionali come Isis-Khorasan». Secondo Piovesana si tratta di una prospettiva «pericolosa ma utile da un punto di vista geostrategico», dal momento che «uno stato di guerra permanente giustificherebbe un’altrettanto permanente presenza militare occidentale che, seppur minima, basterebbe a scoraggiare interferenze da parte di potenze regionali avverse». Russia, Cina, Iran e Pakistan sarebbero infatti desiderose di estendere la loro influenza strategica per «stroncare il narcotraffico afghano che le colpisce» e, non ultimo, «mettere le mani sulle ricchezze minerarie afghane (in particolare le “terre rare” indispensabili per l’industria hi-tech) valutate tra i mille e i tremila miliardi di dollari».Sette miliardi e mezzo in sedici anni, cioè quasi mezzo miliardo l’anno: un milione e 300.000 euro al giorno. Questo – a fronte di 260 milioni per la cooperazione civile – è il costo della partecipazione dell’Italia alla campagna militare afghana, la più lunga della nostra storia, secondo il rapporto “Afghanistan, sedici anni dopo” pubblicato dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane, che traccia un bilancio di questa guerra, iniziata il 7 ottobre 2001. «In realtà l’onere finanziario complessivo della missione italiana è assi più pesante considerando i suoi costi indiretti, difficilmente quantificabili: l’acquisto ad hoc di armi, munizioni, mezzi da combattimento ed equipaggiamenti, il loro continuo aggiornamento a seconda delle esigenze operative e il ripristino delle scorte, l’addestramento specifico del personale e, non da ultimo, i costi sanitari delle cure per le centinaia di reduci feriti e mutilati», scrive Enrico Piovesana su “Micromega”. In 16 anni, la guerra in Afghanistan è costata complessivamente 900 miliardi di dollari: 28.000 dollari per ogni cittadino afghano (che mediamente ha un reddito di 600 dollari l’anno). In termini umani è costata la vita di 3.500 soldati occidentali (53 italiani) e di 140.000 afghani.
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Soros, 18 miliardi a Open Society: nuovo colpo in arrivo?
George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?Per “Bloomberg”, semplicemente, il gesto sarebbe nato dalla necessità di pagare meno tasse sui gestori degli hedge fund negli Stati Uniti. “Bretibart News”, il portale dell’Alt-Right americana, ha sottolineato, nel riportare la notizia, che Soros è coinvolto, tra le varie campagne più attuali, in azioni contrastanti l’attuale governo israeliano, nel promuovere l’integrazione e l’arrivo dei migranti e in alcune promozioni di campagne pro-aborto in Irlanda. “Breitbart”, ovviamente, si riferisce a Soros come a un influencer che starebbe contribuendo all’invasione islamica dell’Occidente. Il sospetto, per l’Alt-Right e per quanti hanno messo in evidenza le attività di Soros in questi anni, è che il magnate si prepari per mezzo di questo maxifinanziamento ad operare con forza nel campo della geopolitica e in quello degli equilibri economico-finanziari mondo. Leggere le prossime mosse, in questo senso, potrebbe risultare decisivo. Un obiettivo possibile è certamente Donald Trump, contro la cui presidenza Soros ha già scommesso.Oltre ad aver finanziato la campagna elettorale di Hilary Clinton, infatti, il fondatore della Open Society aveva scommesso un miliardo di dollari sul fatto che Trump non vincesse le elezioni presidenziali. Sappiamo com’è andata a finire. Ultimamente, poi, il nome del magnate che ha adottato gli Stati Uniti come seconda patria era stato citato dal quotidiano spagnolo “La Vanguardia” in relazione alla Catalogna. L’Open Society Foundationc ha finanziato con 27.049 dollari il consiglio per la diplomazia pubblica della Catalogna. Indirettamente, quindi, il miliardario avrebbe avuto un ruolo anche nella partita per l’indipendenza catalana. Il fine del maxifinanziamento potrebbe essere quello di allargare ancor di più la sua influenza nel mondo. La fondazione avrebbe dichiarato, tuttavia, di non essere intenzionata ad espandersi nell’immediato. L’Open Society, del resto, è già operativa in 120 nazioni del mondo. Se questo denaro dovesse servire per cercare di modificare indirettamente gli equilibri globali, per sostenere ancor di più l’arrivo dei migranti in Occidente e per sponsorizzare la causa gender e quella favorevole all’aborto, si scoprirà solo nel tempo. Di certo c’è che Soros pare intenzionato a mettere nuovamente mano al portafoglio.(Francesco Boezi, “Quegli strani giri di soldi di Soros: sta preparando un nuovo colpo?”, dal “Giornale” del 19 ottobre 2017).George Soros ha “donato” 18 miliardi di dollari alla Open Society Foundation, facendo registrare una cifra record per una donazione ad un ente di diritto privato. Il trasferimento di questo ingente quantitativo di denaro sarebbe avvenuto negli anni passati. La notizia, però, è stata ripresa solo ieri dai quotidiani. Il “Wall Street Journal”, al riguardo, ha parlato di “Instant Giant”. Alcuni, ancora, mettono in evidenza come più che di una “donazione” si possa parlare di un “trasferimento di denaro”. L’Open Society Foundation, lo strumento che Soros ha utilizzato per le sue iniziative “filantropiche”, diverrebbe così un vero e proprio gigante della “beneficenza”, ma questo ente, in realtà, è anche il cavallo di Troia che Soros mette puntualmente in moto per le sue campagne progressiste e per orientare mediante i finanziamenti la politica americana e non. Alcuni quotidiani stanno inserendo questa notizia all’interno di una narrativa che vedrebbe Geroge Soros contrapposto a Bill Gates in una sfida tra titani nel campo della “filantropia”. Secondo questo articolo, poi, i 18 milardi di dollari donati da Soros corrisponderebbero all’80% del suo patrimonio totale. Un moto di bontà giunto durante la terza età oppure l’avvio di una campagna spietata sui temi cari al magnate ungherese?
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Potere subdolo e mostruoso, ci truffa cambiando maschera
Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.Attraverso tale accentramento nel corso dei secoli il sapere è stato, ed è tuttora, monopolio di una cerchia ristretta di intellettuali e scienziati, che si sono arrogati il diritto – e ancora oggi lo fanno – di stabilire ciò che è scientifico e ciò che non lo è, ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è cultura e ciò che non lo è. Si possono fare in realtà innumerevoli esempi delle modalità attraverso le quali agisce il potere, è sufficiente uscire dagli steccati ideologici per contemplare con distacco e disincanto la sua machiavellica capacità di mimetizzarsi in regimi politici e sistemi economici molto diversi tra loro. Perché la vera natura del potere consiste nella sua capacità di assumere di volta in volta la forma che meglio conviene per nascondere la sua brutalità e per farsi accettare benvolmente da una società, un popolo, un insieme di nazioni. Anche qui è conveniente fare un esempio. L’altro giorno Eugenio Scalfari, il trombone d’Italia, in un articolo ha spiegato, dall’alto della sua cattedra, che la costituzione degli Stati Uniti d’Europa è un qualcosa di ineluttabile.Ineluttabile significa dire che i popoli europei non possono avere alcuna voce in capitolo su tale processo. Anzi, Il giornalista sosteneva che tale processo non può essere lasciato alla mercé del capriccio dei popoli, ma deve essere attuato dalle élites economiche-politiche europee. Ecco, in poche righe Scalfari ha spiegato molto bene come il potere agisce, presentando le decisioni che prende e che fa attuare a una pletora di docili esecutori come necessarie e improcrastinabili. Per poter agire impunemente il potere ha poi bisogno di una casta di encomiastici elogiatori, ruffiani appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo e della scienza. A questo scopo vengono piazzati in questi campi dei fedeli servitori, che hanno la missione, dietro lauto stipendio, di veicolare la visione totalitaria di cui il potere è di volta in volta espressione. A questo servono i vari Piero Angela, Roberto Saviano ed Eugenio Scalfari.Un’altra modalità tipica attraverso cui il potere preserva se stesso è l’ideologizzazione della politica: si fa credere, in un determinato periodo storico, che la destra o la sinistra o un movimento bipartisan o al di sopra delle parti sia il candidato ideale ad attuare dei cambiamenti essenziali per una nazione e la sua società civile, e il gioco è fatto. In realtà tali cambiamenti non solo non vengono attuati, ma la parte politica appoggiata dal potere è funzionale al mantenimento dello statu quo, e ciò accade sempre, in maniera più o meno accentuata secondo il periodo storico. Il motto a cui si rifà il potere è “cambiare tutto per non cambiare niente”. Cambiare le facce, i metodi, le istituzioni ma conservare l’esistente, con tutte le sue brutture e anomalie, questa è la funzione di chi viene scelto dal potere per ricoprire ruoli di comando. Lo abbiamo visto con la sinistra negli anni ’90, con la destra berlusconiana e forse vedremo agire lo stesso meccanismo con il Movimento 5 Stelle, se riuscirà ad andare al potere.Non si illudano i militanti del M5S: il potere non lascerà mai che la base possa entrare nei processi decisionali, avendo esso anzitempo individuato ad hoc precise figure interne al movimento e che rivestono ruoli di comando, che hanno il compito di bypassare le istanze della base. Ecco spiegata l’ambiguità e l’evanescenza del programma del M5S, che può essere definito “un non programma”, poiché non definisce chiaramente qual è, per esempio, la linea di politica economica e di politica estera che il movimento intende sposare. E questa evanescenza è determinata da una ragione ben precisa: evitare che il movimento possa compromettersi ed esporsi con posizioni troppo nette. Il potere, infatti, potrebbe dispiacersene. Per concludere, vorrei fare un accorato invito a chi mi segue ad uscire da una ristretta visuale ideologica della realtà, da qualsiasi angolazione la si guardi. Occorre comprendere che il potere è è un’Idra a cento teste. Al potere non interessa la giacca che di volta in volta gli esecutori delle sue decisioni indossano. Esso può allearsi tanto con la destra, con la sinistra e con movimenti neutrali, a seconda della convenienza del momento. In tal senso il potere non é né di destra né di sinistra, ma al di sopra di tali categorie, che sviano i fessacchiotti ammalati di ideologismo.Oggi il potere è alleato con le sinistre, per il semplice fatto che esse, meglio di altre parti politiche, da circa 20 anni si prostituiscono volentieri alle sue logiche perverse. Non esiste – e forse non è mai esistita – una sinistra antisistema, essendo destra e sinistra le maschere intercambiabili dietro le quali si cela il potere. Ingenuo (o in malafede) è chi pretende di identificare il potere unicamente con le destre. Questa identificazione è oggettivamente un’aberrazione, veicolata dai media, che portano avanti tale identificazione con uno scopo preciso: sviare dai partiti di sinistra il sospetto di connivenza col potere. Connivenza che è sotto gli occhi di tutti, meno che per gli allocchi ideologizzati e per i fanatici di questo o quell’altro movimento politico civetta. Cercate di ragionare con la vostra testa e non secondo le categorie deviate che il Pensiero unico, strumento ideologico del potere, propina generosamente attraverso i suoi indefessi araldi. Non saranno né la destra né la sinistra a salvare l’Italia e il mondo interno, ma la vostra capacità di smascherare impietosamente le mimetizzazioni del potere e le sue infiltrazioni in tutti i gangli della società.(Federica Francesconi, “Sulla natura mostruosa del potere e sulle sue subdole dinamiche”, dal blog della Francesconi del 26 settembre 2017).Mai come nell’attuale momento storico di fine ciclo il potere è riuscito a schermarsi alla perfezione dietro un sistema apparentemente libero e democratico. Apparentemente perché dietro al sistema presentabile in cui bazzica da più o meno 70 anni l’Occidente si cela un Leviathan che sta gradualmente distruggendo tutto ciò che di buono era stato attuato nel secolo scorso: il Welfare State (soprattutto l’istruzione, capace, fino a inizio anni ’90, di formare coscienze critiche) e la libertà di pensiero, oggi polverizzata da un apparato mediatico pervasivo e spersonalizzante. Ma che cosa si intende per “potere”? Il potere non deve essere identificato con strutture, istituzioni politiche ed economiche visibili all’occhio profano. Il potere è prima di tutto una dinamica, un rodaggio di per sé immutabile, che si perpetua nel corso dei secoli attraverso molteplici forme e modalità. Per fare un esempio spicciolo, una tipica manifestazione del potere è l’accentramento della formazione e del sapere nelle mani di pochi accademici e intellettuali integratissimi nel sistema, un tempo chierici, oggi laici, che bollano come non scientifiche tutte le teorie, riflessioni e opinioni che non vengono sfornate da loro e da tutti i loro epigoni.
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Un mondo migliore? No, grazie. Così la letteratura è morta
Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.Sembra che l’Impero Romano avesse perso la sua anima molto prima di scomparire come organizzazione politica. Spesso, ho l’impressione che stiamo seguendo la stessa strada verso il collasso seguita dall’Impero Romano, ma più rapidamente. Fatevi questa domanda: riesco a citare un pezzo letterario recente (intendo, diciamo, di 10 o 20 anni) che penso che i posteri ricorderanno? (E non come esempio di cattivo gusto). Personalmente non ci riesco. E penso che si possa dire che la letteratura nel mondo occidentale abbia declinato a partire degli anni 70, più o meno, e che oggi non sia più una forma d’arte vitale. Naturalmente, le percezioni in questo campo potrebbero essere molto diverse, ma posso citare un sacco di grandi romanzi pubblicati durante la prima metà del XX secolo, racconti che hanno cambiato il modo in cui le persone guardavano il mondo. Pensate alla grande stagione degli scrittori americani a Parigi degli anni 20 e 30, pensate a Hemingway, a Fitzgerald, a Gertrude Stein e a molti altri. E a come la letteratura americana ha continuato a produrre capolavori, da John Steinbeck a Jack Kerouac ed altri. Ora, siete in grado di citare uno scrittore americano equivalente successivo?Pensate a grandi scrittori come John Gardner, che scriveva negli anni 70 ed oggi è stato in gran parte dimenticato. Qualcosa di simile sembra essere successo dall’altra parte della Cortina di Ferro, dove diversi scrittori sovietici dotati (Dudintsev, Grossman, Solzhenitsyn ed altri) hanno prodotto un corpus letterario negli anni 50 e 60 che ha fortemente cambiato l’ortodossia sovietica ed ha giocato un ruolo nel crollo dell’Unione Sovietica. Ma non sembra che esista più nulla di paragonabile nei paesi dell’Europa dell’est che si possa paragonare a quei romanzi. Non è solo una questione di letteratura scritta, le arti visuali sembrano aver attraversato lo stesso processo di appassimento: pensate a Guernica di Picasso (1937) come ad un esempio. Riuscite a pensare a qualcosa dipinta negli ultimi decenni con un impatto lontanamente comparabile? Riguardo ai film, quale è stato davvero originale o ha cambiato la percezione del mondo? Forse coi film stiamo facendo meglio che con la letteratura scritta, perlomeno alcuni film non passano inosservati, anche se i loro meriti letterari sono discutibili.Pensate a “La notte dei morti viventi” di George Romero, che risale al 1968 e che ha generato uno tsunami di imitazioni. Pensate a “Guerre Stellari” (1977), che ha plasmato un intero piano strategico dei militari statunitensi. Ma durante l’ultimo decennio, più o meno, l’industria cinematografica non sembra essere stata in grado di fare meglio che lanciare legioni di zombi e mostri assortiti contro gli spettatori. Non che non abbiamo più bestseller, proprio come abbiamo film da blockbuster. Ma siamo in grado di produrre qualcosa di originale e rilevante? Sembra che abbiamo ripercorso i passi dell’Impero Romano: non siamo più in grado di produrre un Virgilio, al massimo un equivalente di Ausonio. E c’è una ragione per questo. La letteratura, quella grande, ha a che fare col cambiare la visione del mondo del lettore. Un grande romanzo, un grande poema, non sono solo una trama interessante o delle belle immagini. La buona letteratura porta avanti un sogno: il sogno di un mondo diverso. E quel sogno cambia il lettore, lo rende diverso. Ma per svolgere questa azione, il lettore deve essere in grado di sognare un cambiamento. Deve vivere in una società dove sia possibile, almeno teoricamente, mettere in pratica i sogni. Ma non è sempre così.Nell’Impero Romano del IV e V secolo D.C., il sogno era scomparso. I Romani si erano ritirati dietro le loro fortificazioni ed avevano sacrificato tutto – compresa la loro libertà – in nome della sicurezza. La poesia era diventata semplicemente una lode al governante di turno, la filosofia una compilazione dei lavori precedenti e la storia una mera cronaca. Una cosa del genere sta capitando a noi oggi: dove sono finiti i nostri sogni? Ma è anche vero l’uomo non vive di solo pane. Ci servono i sogni come ci serve il cibo. E i sogni sono qualcosa che l’arte ci può portare; sotto forma di letteratura o altro, non importa. E’ il potere dei sogni che non può mai scomparire. Se la letteratura romana era scomparsa come fonte originale di sogni, poteva ancora funzionare come veicolo di sogni provenienti dall’esterno dell’impero. Dal Confine Orientale dell’Impero, i culti di Mitra e di Cristo avrebbero fatto incursioni profonde nelle menti romane.All’inizio del V secolo, in una città di provincia meridionale assediata dai barbari, Agostino, il vescovo di Ippona, ha completato “La Città di Dio”, un libro che leggiamo ancora oggi e che ha cambiato per sempre il concetto di narrativa; è stato forse il primo romanzo – in senso moderno – mai scritto. Pochi secoli dopo, quando l’Impero non era niente di più che una memoria spettrale, un poeta sconosciuto ha composto il Beowulf e, ancora più tardi, è apparsa la saga dei Nibelunghi. Durante questo periodo, sono cominciate ad apparire le storie sul signore della guerra della Britannia che poi sarebbero confluite nel Ciclo Arturiano, forse il cuore della nostra visione moderna della letteratura epica. Così, il sogno non è morto. Da qualche parte, ai margini dell’impero, o forse al di fuori di esso, qualcuno sta sognando un bel sogno. Forse lo scriverà in una lingua lontana o forse userà il linguaggio dell’Impero. Forse userà un mezzo diverso dalla parola scritta, non possiamo dirlo. Ciò che possiamo dire è che, un giorno, questo nuovo sogno cambierà il mondo.(Ugo Bardi, “Dove sono finiti tutti i nostri sogni? La morte della letteratura occidentale”, dal blog di Bardi del 21 gennaio 2015).Il romanzo di Vladimir Dudintsev “Non di solo pane” è stato pubblicato nel 1956. E’ stato un grande successo nell’Unione Sovietica con la sua critica dei modi sovietici stagnati ed inefficienti. Insieme ad altri autori russi, come Vasily Grossman e Aleksandr Solzhenitsyn, Dudintsev è stato parte di un’ondata di scrittori che hanno cercato di usare la letteratura per cambiare la società. Quel tipo di approccio sembra essere sfiorito, sia nei paesi dell’ex Unione Sovietica, sia in occidente. Ad un certo punto, fra il secondo e il terzo secolo D.C., la letteratura latina dell’Impero Romano è morta. Non che le persone abbiano smesso di scrivere, al contrario, il tardo Impero Romano d’Occidente ha visto una piccola rinascita della letteratura latina, soltanto che non sembra che avessero più niente di interessante da dire. Se consideriamo i tempi d’oro dell’Impero, intorno al primo secolo A.C., è probabile che molti di noi siano in grado pensare ad almeno qualche nome di letterati di quel tempo: poeti come Virgilio ed Orazio, filosofi come Seneca, storici come Tacito. Ma se ci spostiamo agli ultimi secoli dell’Impero d’Occidente, è probabile di non essere in grado di pensare a nessun nome, a meno che non si legga Gibbon e ci si ricordi che cita il poeta del IV secolo Ausonio per evidenziare il cattivo gusto del tempo.
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Magaldi: oligarchi, da Pechino all’Ue. Tutto il resto è teatro
«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.«Non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda il topo», disse Deng, il rifondatore della Cina capital-comunista. Ai microfoni di “Colors Radio”, Magaldi sintetizza: non contano le bandiere, ma le azioni. Americani ed europei, russi e cinesi: non è questione di frontiere, ma di democrazia. Tutti d’accordo, finora, su questa globalizzazione dal volto disumano: gli oligarchi di Pechino sono perfettamente in linea con quelli occidentali che permisero alla Cina di entrare nel Wto scatenando la loro potenza industriale priva di protezioni sociali e diritti sindacali. Non a caso Trump si lamenta, denunciando il “dumping” cinese: già in campagna elettorale aveva puntato il doto contro la deindustrializzazione degli Usa, accelerata dalle delocalizzazioni delle multinazionali, attratte dal lavoro a basso costo garantito dall’Asia. «La Cina è uno dei pilastri di questa globalizzazione, e non per caso è in polemica con Trump», dice Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, nel quale rivela la sottoscrizione del patto segreto “United freemasons for globalization” in base al quale, all’inizio degli anni Ottanta, le 36 superlogge internazionali del massimo potere mondiale progettarono esattamente questo tipo di mondializzazione, cinicamente affaristica.«Se la globalizzazione non è stata democratica – ragiona Magaldi – è dovuto anche al fatto che un grande attore delle reti commerciali globali, la Cina, si è rivelato un cattivo esempio anche per l’Occidente, dove ormai si tende a “cinesizzare” i rapporti di lavoro, instaurando una sorta di neo-schiavitù e di gioco al ribasso nell’impiego della manodopera». A questo corrisponde una crescente “cinesizzazione” delle nostre strutture di governance: «Sempre di più assistiamo al prepotere di strutture oligarchiche, sempre più simili alle strutture di potere e di governo della Cina». Il gigante asiatico resta gestito da «un regime fascio-comunista, dirigista», pur avendo una sua specificità, con «sacche di libertà crescente e di apertura modernizzante». Ma il problema, aggiunge Magaldi, non è della Cina, quanto «di chi l’ha ammessa nel Wto senza richiedere garanzie di natura democratica e liberale», diritti economici, tutele del lavoro, reale libertà del mercato interno: «Gran parte degli oligarchi di partito sono diventati grandi magnati, grandi imprenditori privati, con un piede nelle leve del potere pubblico e l’altro piede nel privato, dove si costruiscono fortune».Attenzione: «Non ne usciamo, se non ci diciamo che questa globalizzazione non è nemmeno imperniata sulla tanto sbandierata libertà del mercato, ma è viziata in Europa dal mercantilismo della Germania e altrove dalle carte truccate della Cina», distribuite sul tavolo da gioco grazie alla totale complicità del super-potere economico occidentale. Di questo passo, continua Magaldi, non si aiuta nemmeno la Cina ad evolvere, «il giorno in cui un tale colosso economico e sociale si trovasse di fronte al bivio: doversi adeguare, abbracciando democrazia e libertà interna, o rinunciare all’accesso dei mercati internazionali». Qualcosa sta per cambiare? «Credo che oggi i tempi siamo maturi perché la Cina ripensi se stessa», sostiene Magaldi. «Ma dipende da noi, dall’Occidente, da chi ha costruito culturalmente la democrazia e oggi pare essersi dimenticato di come dovrebbe funzionare – e anzi, la erode anche all’interno delle nostre stesse società». In altre parole: oligarchi al potere, all’Est come all’Ovest, dove l’Europa è finita sotto le grinfie di banchieri e tecnocrati, e anche per questo forse non rinuncia a distrarre l’opinione pubblica attaccando a testa bassa il capo del Cremlino.«Devo dire che Putin comincia a starmi simpatico», ammette Magaldi, che pure si definisce solidamente atlantista. Certo il regime di Mosca non risponde agli standard della democrazia liberale. Ma è al centro di una ignobile campagna mediatica, alimentata da una martellante propaganda faziosa: «Dov’erano, i media occidentali oggi così severi con Putin, quando la Russia era in sfacelo sotto il regno corrotto di Eltsin?». Quella post-sovietica era «una società comunque spietata, spesso gangsteristica, egemonizzata dai famosi oligarchi, stuprata da privatizzazioni selvagge». Creazione di miseria, risorse pubbliche destinate all’arricchimento personale improvviso di personaggi corrotti: in quegli anni «penetravano in Russia interessi sovranazionali che hanno fatto carne di porco, della società russa». Ma dall’Occidente, aggiunge Magaldi, «non venivano gli stessi atteggiamenti di malevolenza che invece sono costanti nei confronti di Putin». Un consiglio? La video-intervista di Oliver Stone all’uomo del Cremlino: emerge un ritratto complesso, da valutare con attenzione. Forse Putin «sta cambiando, si sta muovendo su una nuova prospettiva: potrebbe recitare un ruolo costruttivo e interessante, negli svolgimenti globali dei prossimi anni». Sbaglia, chi lo vede come alternativa all’involuzione oligarchica dell’Occidente: «O lo si odia o lo si ama, Putin, come fosse il messia di chissà quale nuovo sistema». Non è un messia, ma merita rispetto, in un mondo di missili veri e peresunti, democrazie apparenti e oligarchie reali: «La storia di Putin va riconsiderata con serenità, perché quell’uomo ha reso la Russia un paese migliore».«Arricchirsi è glorioso», proclamò l’anziano Deng Xiaoping, aprendo alla Cina l’autostrada mondiale dei tassi di crescita a due zeri che ne hanno fatto oggi la prima potenza commerciale del pianeta, al punto da spaventare gli Usa. In particolare i neocon, ancora prima del duemila, avevano avvertito che il gigante asiatico sarebbe diventato il principale avversario strategico degli Stati Uniti entro il 2017. «Perciò non stupitevi dell’escalation teatrale inscenata dalla Corea del Nord», avverte Gioele Magaldi: «Il regime di Pyongyang è solo il cane da guardia di Pechino: i suoi missili sono semplici avvertimenti che la Cina, per interposta persona, sta lanciando a Donald Trump», dopo che la Casa Bianca ha manifestato insofferenza per la “concorrenza sleale” rappresentata dal turbo-capitalismo del regime cinese, senza diritti per i lavoratori. Lo stesso Trump nel frattempo sconta «stucchevoli e pretestuosi attengiamenti di protesta, che ricordano la delegittimazione a priori riservata in Italia a Berlusconi», ma intanto i veri giochi sono ben altri: la Cina fa “abbaiare” la Corea del Nord per dissuadere gli Usa dal cambiare le regole del gioco mettendo fine alla cuccagna. Regole però progettate proprio da quell’Occidente che oggi svuota la sua stessa democrazia, distraendo l’opinione pubblica anche attraverso la demonizzazione di Putin.