Archivio del Tag ‘Gas’
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Mdf: cari forconi, la rivoluzione parte dai consumi
Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.Con il massimo rispetto e pienamente consci della diversità delle situazioni che ognuno sta vivendo e dei drammi personali, vogliamo porre – anche in maniera provocatoria – alcune domande. Perché il punto fondamentale è chiedersi quale futuro (e quale modello di società) auspichiamo. Commercianti, artigiani, piccoli imprenditori, è evidente quanto la crisi che stiamo vivendo si sia abbattuta su di voi con violenza; ma vi chiediamo, quando chiudete il vostro negozio la sera, dove andate a comprare il pasto duramente sudato? All’ipermercato o in un piccolo negozio a km0 o magari da un gruppo di acquisto solidale che si rifornisce da piccoli contadini? Sapete che buona parte delle arance e dei pomodori che trovate nei supermercati sono raccolte da persone in condizioni di schiavitù, vendute ad un prezzo ridicolo dal produttore alla grande distribuzione che poi le rivende negli ipermercati vicino a casa?Cittadini e lavoratori, anche noi, seppure sosteniamo la riduzione della giornata lavorativa (“lavorare meno, lavorare tutti”), l’autoproduzione e la riduzione dei consumi, abbiamo bisogno di andare a lavorare, ci scontriamo con la precarietà e abbiamo il timore che i soldi che ci vengono versati in contributi non li vedremo mai; ma quando chiamiamo un elettricista o andiamo dal barbiere, chiediamo la ricevuta fiscale? Abbiamo il coraggio di spendere 20 euro in più o di rinunciare a qualche consumo – magari superfluo – scegliendo di pagare “il giusto” e premiare chi paga le tasse e contribuisce a sostenere le scuole, gli ospedali e il nostro sistema previdenziale? Scegliamo di orientare i nostri consumi verso chi paga le persone rispettando i diritti? Se scopriamo che il pub dove andiamo regolarmente paga i suoi baristi in nero, siamo disposti a cambiare per andare in un posto dove magari la birra costa 0,50€ in più ma dove la legalità è di casa? E se quei 50 centesimi in più fossero un problema sareste disposti a far massa critica con altre persone e chiedere insieme un prezzo più basso e/o competitivo?!Non cadiamo nel qualunquismo del “tutti rubano, tutti se ne fregano…”. Alzi la mano chi è disposto a comprare dell’olio da un gruppo di acquisto solidale pagandolo 3-4 euro in più al litro, invece di quello della grande distribuzione che, seppure prodotto in Italia, è ottenuto da olive che vengono da fuori l’Europa, mentre i nostri contadini sono allo stremo! A tutti coloro che ritengono come noi che la finanza sta distruggendo l’economia reale e le banche siano istituzioni corrotte e spesso immorali chiediamo: dove avete posto i vostri risparmi? Avete pensato di investirli nell’economia reale, nelle banche etiche o in mille altri luoghi dove non saranno oggetto di speculazione? Certo, non avremo il 3-4% di interesse come promettono (e probabilmente mantengono) alcune banche on-line… vi siete chiesti cosa se ne fanno dei vostri soldi?Anche noi, che nella vita di tutti giorni siamo presi dalle nostre difficoltà, speranze e mille impegni, vorremmo che la politica desse risposte ai nostri problemi. Ci piacerebbe vedere nei programmi politici come punti fondamentali diritti, ambiente, lotte alle speculazioni, alle mafie e tutti coloro che impediscono alle persone di poter realizzare il diritto a vivere senza patimenti e liberi di poter perseguire la propria felicità. Dopodiché, se questo non accade, dobbiamo imparare dalla frase di Gandhi “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Le cose possiamo cambiarle anche noi dal basso e subito senza chiedere niente a nessuno (senza per questo rinunciare al nostro diritto di manifestare e urlare la nostra rabbia se necessario). Domani forse inizia un altro giorno di proteste. Ma possiamo anche provare a informarci di più, cambiare le nostre abitudini e costruire un nuovo futuro a partire da noi stessi e dalle nostre scelte. Ora!(“Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo! Una nostra riflessione sulle recenti manifestazioni di protesta”, lettera-appello a cura del Circolo Mdf di Torino, pubblicata dal sito del Movimento per la Decrescita Felice il 12 dicembre 2013).Cari concittadini (lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati…) giustamente stufi e al limite della sopportazione, condividendo la preoccupazione di chi è sceso in piazza ed evitando considerazioni personali sul colore delle manifestazioni (fermo restando il rifiuto della violenza, aspetto che vogliamo ribadire), vorremmo solo condividere alcune riflessioni con voi. Siamo pienamente in sintonia con le motivazioni alla base della protesta (corruzione e sbando della classe politica, globalizzazione, finanza e mercato selvaggi e senza limiti che strangolano il piccolo commercio locale, etc); riteniamo, tuttavia, che un’alternativa migliore debba partire da noi e che il cambiamento di questo sistema economico deve essere attuato con azioni concrete.
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Pallante: monasteri del terzo millennio, così ci salveremo
Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.Se il regime di Wall Street e Bruxelles impone un nuovo feudalesimo senza più diritti, proprio dal cuore del medioevo Pallante ripesca una lezione dimenticata e attualissima: quella del sistema socio-economico cooperativo. “Monasteri del terzo millennio”, mini-saggio comparso per la prima volta diversi anni fa grazie al “Manifesto”, si ripresenta oggi per i tipi di Lindau in una versione aggiornata, e arricchita di nuovi contributi. Quei “monasteri” non invecchiano, tutt’altro: orto, comunità e fede restano le tre parole-chiave per tornare a respirare, verso un futuro credibile. Sovranità alimentare e cibo per tutti, relazioni sociali collaborative e liberate dalla mercificazione industriale. La “fede” di ieri si traduce oggi in un impianto ideologico che diventa una “contro-narrazione del mondo”. Televisione e pubblicità hanno desertificato il nostro immaginario di neo-schiavi compulsivi, ora frustrati anche dal ritrovarci in bolletta? La lezione dei monaci è chiara: contemplare la bellezza (letteralmente: racchiuderla in un tempio) è un “motore” potente, per animare un’umanità responsabile e vitale, non ostile, capace di produrre economia sana grazie al sistema della mutualità.A un quarto di secolo dal visionario “Comitato per l’uso razionale dell’energia”, fondato insieme a scienziati come Tullio Regge, il fondatore del Movimento per la Decrescita Felice torna a scommettere sui “suoi” monasteri, oggi reincarnati in casali di collina, borgate di montagna, quartieri “solidali”, orti urbani, co-housing, gruppi di acquisto solidale, finanza etica. «La potenza raggiunta dalla megamacchina industriale sta esaurendo gli stock di risorse non rinnovabili ed emette quantità crescenti di scarti», cioè residui liquidi, solidi e gassosi «non metabolizzabili dalla biosfera». Per questo, occorre cominciare a pensare a un “nuovo rinascimento” fondato su modelli economici praticabili e concreti, alternativi e funzionali. Solo «relazioni umane fondate sulla collaborazione e la solidarietà» hanno il potere di «promuovere l’autosufficienza, soprattutto alimentare ed energetica, delle comunità locali». Si comincia dal posto in cui si vive, ma l’obiettivo è il mondo: si tratta di «realizzare forme più eque di redistribuzione delle risorse tra i popoli», in modo da «garantire il futuro delle generazioni a venire», respingendo definitivamente il totem bugiardo della crescita indiscriminata di un valore-spazzatura come il Pil.Rivoluzione dolce, la chiama Pallante, citando Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo». La crescita incessante della produzione di merci, aumentata in modo esponenziale dalle innovazioni tecnologiche, «ha indotto a confondere il ben-essere col tanto-avere», e a utilizzare come unico indicatore il prodotto interno lordo, «ovvero il valore monetario degli oggetti e dei servizi scambiati con denaro». Così, i beni (quelli veri) sono finiti nel magma su cui galleggiano le merci (comprese quelle usa e getta, senza valore) e «le cose sono diventate più importanti delle relazioni». Scenari più che allarmanti: entro il 2050, il 75% dell’umanità si ammasserà nelle aree urbane, 27 delle quali supereranno i venti milioni di abitanti, e qualcuna i trenta. Risultato: dipendenza totale dai servizi, nessuna capacità di procurarsi cibo. Mai l’umanità è stata così vulnerabile. Milioni di persone (miliardi) lavorano in modo cieco, per servizi alienanti e prodotti di dubbia utilità, che non controlleranno mai. Pallante richiama l’attenzione sui monasteri medievali, vere e proprie “aziende” per comunità autosufficienti, a chilometri zero. «Se il lavoro che svolgi risponde davvero a un bisogno umano, questo attenua il disagio, riduce la fatica e migliora il rendimento, la comunicazione, la qualità della vita».Coi politici, è un dialogo tra sordi: non uno di loro rinuncia a parlare, ancora, di “crescita”. E’ un tragico equivoco: l’impennarsi del Pil è fatto anche di rifiuti, gas di scarico, auto in coda, case-colabrodo non protette dal freddo. Oggi, “crescita” è esattamente l’opposto di “progresso”. In più, ormai anche il mitico Pil sta franando. «Se la causa della crisi è la crescita, tutti i tentativi di superare la crisi rimettendo in moto la crescita sono destinati a fallire: non si può risolvere un problema aggravando le cause che l’hanno generato». La grande eresia della decrescita – ridurre gli sprechi velenosi, per pesare meno sulla Terra e vivere meglio, impedendo alla grande crisi di travolgerci – si sta facendo faticosamente strada, “aiutata” dal disastro che avanza: collasso energetico, climatico, economico-finanziario. Spesso, chi invoca una svolta sovranista e democratica per opporsi all’oligarchia del super-potere trascura il quadro mondiale, vicino all’implosione per raggiunti limiti di espansione e saturazione delle capacità di consumo. Intanto, cresce una foresta silenziosa di individui e gruppi, decisi a resistere ma non ancora rappresentati. Se il “monastero” potesse anche votare, e dotarsi di propri portavoce, probabilmente la “rivoluzione dolce” potrebbe davvero cominciare, col necessario sostegno di politiche strategiche, capaci di rilanciare l’occupazione “utile”: l’unica possibile, quella del futuro.(Il libro: Maurizio Pallante, “Monasteri del terzo millennio”, Lindau, 176 pagine, 13 euro).Ora che tutto sta crollando, meglio si intende la strana lingua degli eretici. Lo spettacolo aiuta a comprendere: l’economia in recessione, la frana del Pil, l’assurdità lunare delle “grandi opere inutili” e la catastrofica impresentabilità di una politica ridotta a balbettare rottami di dogmi. Sono solo appunti sotto dettatura, sillabati da un mainstream autistico e pilotato dalle grandi lobby coi loro economisti di complemento, i profeti disonesti del rigore altrui. Di fronte al crollo storico del mito progressivo dello sviluppo – “comunque vada, il futuro sarà migliore” – la scena critica è dominata da due approcci paralleli e complementari: il primo è quello di chi sostiene la necessità di dare innanzitutto battaglia, per impedire a una minoranza “golpista” di rovinare milioni di cittadini. Il secondo schieramento, nel quale milita da decenni un intellettuale come Maurizio Pallante, all’analisi dei rapporti di forza (lo scontro sociale) preferisce lo sguardo lungo, la prospettiva culturale, il mondo che verrà.
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Sapelli: Letta svende il paese perché non osa difenderlo
La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.Privatizzare la rete ferroviaria è impossibile, si potrebbero piuttosto vendere le Grandi Stazioni. Per quanto riguarda Poste Italiane, avrebbe senso privatizzarle a condizione di trasformarle in un grande gruppo di logistica. In questo momento però manca un disegno industriale, e lo documenta il fatto che sono un’entità ibrida a metà tra le poste e una banca. Quindi, parlare di privatizzazioni in questo momento è soltanto una concessione al pensiero dominante che ha distrutto la crescita del nostro paese. Gli effetti delle privatizzazioni negli anni ‘90 sono stati la spartizione di un bottino e l’indebolimento del nostro settore industriale. Le privatizzazioni attuate dal governo Letta per “ridurre il debito pubblico”? Cercare di fare passare un’idea di questo tipo è soltanto una presa in giro. L’Italia ha un debito pubblico da 2.000 miliardi, e 12 miliardi non sono certo sufficienti a cambiare le cose.I dividendi di queste imprese partecipate dallo Stato sono molto più utili a ridurre gli squilibri di bilancio. Mi domando come si possa credere a una manovra illusionistica come quella che sta facendo il governo. Enrico Letta ha delle pesanti responsabilità storiche, perché è stato lui, insieme a Pier Luigi Bersani, ad attuare la liberalizzazione dell’energia elettrica e del gas, in modo errato anche dal punto di vista tecnico. Il premier ora si trova costretto a privatizzare perché da un lato è messo sotto pressione da parte di Saccomanni, che non risponde agli interessi dell’Italia ma a quelli della tecnocrazia europea. Letta non ha la forza né il coraggio di battersi per cambiare la linea europea in politica economica, che sta producendo effetti suicidi. Non a caso Francia e Germania, che si rifiutano di applicare i diktat europei, stanno subendo una decrescita meno pesante rispetto al nostro paese.(Giulio Sapelli, dichiarazioni rilasciate a Pietro Vernizzi per l’intervista “La tecnocrazia europea vuole svenderci”, apparsa su “Il Sussidiario” il 23 novembre 2013).La privatizzazione di Eni è stata concepita fin dall’inizio in modo sbagliato. Eni non ha bisogno di essere privatizzata in modo classico, ma di avere un aumento del suo capitale attraverso gli investimenti dei soci stranieri. La società deve accrescere le sue dimensioni per affrontare le nuove sfide che si aprono a livello globale nel campo della ricerca “oil & gas”. Il governo dovrebbe favorire l’investimento di grandi gruppi, merger o fondi d’investimento, per aumentare il volume di Eni e farla diventare più grande. Il problema non è cambiare la forma di proprietà privatizzando, ma aumentarne le dimensioni. Eni ha un ruolo fondamentale perché rifornisce di petrolio e di gas l’intera nazione e varrebbe quindi la pena attuare un aumento della partecipazione statale, anche se purtroppo non è possibile. Gas ed elettricità sono strategici per il paese, e le liberalizzazioni dell’energia negli ultimi dieci anni hanno prodotto effetti disastrosi. Il prezzo del gas è aumentato, abbiamo un’over-supply, abbiamo avuto consolidamenti di piccole imprese che sono diventate grandi e sono ancora più dominate dalla politica di quanto non fosse un tempo.
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Destinazione Italia, grande svendita del nostro paese
“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.Ma aldilà dell’umorismo, il Piano Destinazione Italia è un documento “strategico” con l’obiettivo, attraverso una serie di riforme, di rendere il paese un luogo attraente per i grandi investimenti finanziari dall’estero. Attraverso quali misure? Il Piano Destinazione Italia prevede alcuni provvedimenti “quadro”, dai quali si comprende subito dove si voglia andare a parare: la svendita dei diritti e dei beni comuni. Infatti, si prevedono, per investimenti oltre una certa soglia, accordi fiscali particolari (misura 1), la radicale modifica della conferenza dei servizi sulle grandi opere (misura 2), accordi specifici in materia di condizioni di lavoro, come quello già approvato per Expo 2015 (misura 4), completa liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica e del gas (misura 12). Conseguentemente a questi passaggi, l’Italia, a quel punto irresistibilmente sexy, può mettere in vendita le sue grazie.La seconda parte del piano si intitola infatti “Un Paese che valorizza i propri asset” e prevede: un piano di privatizzazioni di società direttamente o indirettamente controllate dallo Stato e un piano di privatizzazione e accorpamento in grandi mutiutility dei servizi pubblici locali (misura 17); un piano di rivitalizzazione del mercato borsistico attraverso il collocamento delle piccole e medie imprese (misura 19); l’affidamento a privati della gestione dei beni culturali (misura 23); la dismissione dei beni demaniali (misura 24); la totale liberalizzazione del mercato immobiliare (misure 25-29); la consegna della formazione e della ricerca universitaria agli investimenti delle imprese (misure 30-32); il rilancio delle grandi opere infrastrutturali, i cui relativi investimenti verranno esclusi dai vincoli del Patto di Stabilità (misura 36); l’abrogazione (misura 40) dei procedimenti di Via (Valutazione di Impatto Ambientale), Vas (Valutazione Ambientale Strategica) e Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale); la valorizzazione della green economy, attraverso lo sviluppo dei biocarburanti e della chimica verde, la termovalorizzazione dei rifiuti e la modernizzazione (leggi privatizzazione) del servizio idrico (misura 43).Siamo di fronte ad un vero e proprio piano di svendita del paese, attraverso la drastica riduzione dei diritti sociali e del lavoro, la consegna dei beni comuni ai mercati finanziari, la privatizzazione di ogni funzione pubblica e la prostituzione dell’intelligenza collettiva. Il tutto per rispondere ai diktat monetaristi di un’Europa in mano ai grandi interessi finanziari, che, attraverso le catene imposte col Trattato di Maastricht e con lo shock, creato ad arte, del debito pubblico, ha deciso, tra i profitti in Borsa delle grandi multinazionali e la vita delle persone, di scegliere senza ombra di dubbio, i primi. In pratica, e all’unico scopo di perpetuare il capitalismo finanziarizzato, si è deciso di dichiarare una vera e propria guerra alla società, basata sulla trappola del debito pubblico e sul mantra “i soldi non ci sono”, da contrapporre ad ogni rivendicazione sociale. Tanto più contro un paese che, solo due anni fa, ha osato, con la straordinaria vittoria referendaria sull’acqua, mettere in discussione il pensiero unico del mercato e l’ideologia del “privato è bello”, affermando a maggioranza assoluta la volontà di riappropriazione sociale dell’acqua, dei beni comuni e della democrazia.A quel paese va detto ora e a chiare lettere che, se anche fosse vero che “privato” non è bello, privato è in ogni caso obbligatorio e ineluttabile. È in questo quadro che avanza a livello istituzionale il tentativo di mettere mano alla Costituzione, permettendone, come recentemente affermato dalla banca d’affari Jp Morgan, la sua “modernizzazione”, attraverso la progressiva espunzione di tutti i richiami alla cultura antifascista, socialista ed egualitaria, di cui sarebbe ancora intrisa. D’altronde, come conciliare le politiche di feroce austerità, di spoliazione dei diritti, di privatizzazione dei beni comuni con il mantenimento di una Costituzione che quei diritti afferma, per quanto nel tempo ripetutamente violati? Serve una democrazia “austeritaria”, ovvero che usi l’autoritarismo per imporre le politiche di austerità e che risponda all’autolegittimazione del potere, quando quest’ultimo non possa più basarsi sul consenso.Oltre venti anni fa, il 2 giugno 1992, festa della Repubblica, lo yacht reale Britannia incrociava al largo dell’Argentario, con a bordo non principi e regine, né valletti o dame di compagnia, ma banchieri d’affari inglesi, banchieri italiani, boiardi e grand commis di Stato. L’evento venne organizzato da una società allora chiamata “British Invisibles”, una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie che oggi raggruppa 150 aziende del settore sotto il nome di International Financial Services. Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono Beniamino Andreatta, dirigente dell’Eni e futuro ministro, Riccardo Galli, dirigente dell’Iri, Giulio Tremonti, allora ancora in veste di avvocato fiscalista, e soprattutto Mario Draghi, chiamato da Guido Carli alla Direzione Generale del Tesoro all’inizio del 1991, che si presentò come punto di riferimento italiano per la finanza internazionale. E così, tra un’orchestrina della Royal Navy e un lancio di paracadutisti, che scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà, prese il via la stagione delle privatizzazioni italiane. Oggi, senza bisogno di salire a bordo di un fastoso quanto pittoresco panfilo reale, bensì occupando le grigie stanze di un governo di “larghe intese e zero consenso”, il premier Enrico Letta ci ripropone lo stesso scenario e un nuovo mastodontico processo di dismissione del paese. Dobbiamo impedirlo.(Marco Bersani, “Destinazione Italia: povertà”, intervento pubblicato dal sito di “Attac” e ripreso da “Megachip” il 25 novembre 2013).“Aprire l’Italia ai capitali e ai talenti del mondo”, così si apre la pagina destinazioneitalia.gov.it dedicata alla “consultazione popolare” che chiede ai cittadini di integrare le 50 misure del Piano Destinazione Italia, approvato dal governo Letta il 13 settembre scorso e presentato, ancor prima che al Parlamento e alle parti sociali, al gotha finanziario di Wall Street. Se non fosse che le misure indicate nel piano comporteranno nuove pesanti ricadute sociali per la popolazione italiana, il documento potrebbe essere definito esilarante. Come quando (misura 49) si dice: «Gli italiani che lavorano, insegnano e studiano all’estero sono i primi ‘Ambasciatori dell’Italia nel mondo’ e possono contribuire a raccontare l’Italia in modo nuovo». Mentre rimaniamo in spasmodica attesa di questi straordinari racconti, accontentiamoci per ora di sapere che, per gli studenti e i ricercatori italiani all’estero (cervelli in fuga da un paese impossibile), verrà attivato il programma di sensibilizzazione “V.I.P – Volunteer for Italy’s Promotion” per propagandare oltre frontiera il brand Italia.
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La grande sete: senza cibo per tutti, un futuro di guerre
Quello che non ci raccontano è che la grande sete ci sta ormai minacciando da vicino, come una vera e propria guerra: solo dalla Siria, 800.000 persone sono scappate già nel 2010, ben prima dell’esplosione del conflitto, abbandonando le aree rurali del paese. Motivo dell’esodo, oltre alle dighe turche che drenano le acque dell’Eufrate, «la peggiore siccità a lungo termine e il più grave insieme di fallimenti agricoli da quando cominciarono le civiltà nella Mezzaluna Fertile», quelle che “inventarono” l’agricoltura. Francesco Femia, co-fondatore del “Center for climate and security”, sostiene che – insieme all’esplosione demografica – l’innalzamento del clima terrestre (e quindi la scarsità d’acqua) si stiano traducendo in un problema drammatico, a livello planetario: la carenza di cibo. Ne risentono persino le aree centrali degli Stati Uniti, oltre al Medio Oriente e all’Asia Centrale. L’emergenza non ha confini: investe Cina e India, ripercuotendosi anche sull’Africa.Per i climatologi, la recente e prolungata siccità nel Mediterraneo orientale è dovuta al surriscaldamento terrestre, rivela Katie Horner in un report sullo stato del pianeta, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Poco più a sud della Siria, vacilla anche l’Arabia Saudita, che già oggi è uno dei primi 5 importatori mondiali di riso: dopo aver pompato acqua per decenni dal sottosuolo per far crescere il grano nel deserto, l’emirato petrolifero sa che dal 2016 sarà probabilmente dipendente al 100% dalle importazioni di derrate alimentari. Una spia allarmante: «Dato il ruolo dell’Arabia Saudita come produttore di petrolio, disordini politici dovuti al clima e all’acqua potrebbero gettare scompiglio sull’economia globale». Di acqua e terra fertile è invece ricchissima l’Africa, che però fa gola agli assetati e agli affamati. secondo “Oxfam International”, il Medio Oriente e l’Asia – Cina in primis – hanno già comprato qualcosa come 560 milioni di acri di terra africana, in una sorta di “neo-colonialismo climatico” che prevede l’inevitabile sfratto dei nativi, espropriati dei loro terreni e costretti a emigrare. «Non c’è bisogno di dire che anche questa dinamica è una ricetta per un conflitto».Due giganti come Cina e India sono costrette ad affrontare gravissime crisi idriche, «con popolazioni affamate dai raccolti asciutti». Inoltre, l’energia richiesta per pompare e canalizzare l’acqua è normalmente fornita da impianti potenti, che per funzionare richiedono a loro volta grandi quantità d’acqua. Come se non bastasse, Pechino controlla la più grande fonte di acque fluviali, a nord dell’India. Per Brahma Chellaney, esperto geostrategico dell’università di Nuova Delhi, nessuna nazione nella storia ha costruito più dighe della Cina: più di quelle del resto del mondo messo insieme. Sbarramenti che dirottano altrove anche l’acqua che fluirebbe in India. L’acqua manca per tutti, ci si affida alle piogge stagionali e l’agricoltura diventa instabile: dovendo affrontare la prospettiva di nutrire due miliardi e mezzo di persone, «non è difficile immaginare tensioni in ebollizione», lungo i confini tra i due colossi dell’Est.Non troppo lontano, in Asia Centrale, la caduta dell’Urss ha provocato il collasso del bacino irriguo del Syr Darya, il fiume che bagna Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kazakistan prima di svuotarsi nel lago d’Aral, a sua volta prosciugato dalle monocolture come il cotone introdotte negli anni ’50. Rimasto senza il gas russo a buon mercato, ora il Kirighizistan trattiene a scopo idroelettrico le acque del lago artificiale di Toktogul, creato per scopi irrigui. A valle, ne soffrono uzbeki e kazaki: finora, nessun accordo internazionale ha risolto il problema, neutralizzando le tensioni. Senza contare i guai dei paesi meno sospettabili, dal punto di vista della carenza idrica: l’ennesima siccità nel Midwest degli Usa ha seriamente compromesso il raccolto di prodotti strategici come il mais e la soia. Visto che il paniere agricolo americano influenza i prezzi del cibo globale, la penuria apre un conflitto coi paesi in via di sviluppo. Basandosi su dati storici, il “New England Complex Systems Institute” dimostra che, oltre una certa soglia, il rincaro dei prezzi alimentari causa quasi certamente rivolte: la stessa “primavera araba”, del resto, fu innescata dalla protesta per il costo del pane.Quello che non ci raccontano è che la grande sete ci sta ormai minacciando da vicino, come una vera e propria guerra: solo dalla Siria, 800.000 persone sono scappate già nel 2010, ben prima dell’esplosione del conflitto, abbandonando le aree rurali del paese. Motivo dell’esodo, oltre alle dighe turche che drenano le acque dell’Eufrate, «la peggiore siccità a lungo termine e il più grave insieme di fallimenti agricoli da quando cominciarono le civiltà nella Mezzaluna Fertile», quelle che “inventarono” l’agricoltura. Francesco Femia, co-fondatore del “Center for climate and security”, sostiene che – insieme all’esplosione demografica – l’innalzamento del clima terrestre (e quindi la scarsità d’acqua) si stiano traducendo in un problema drammatico, a livello planetario: la carenza di cibo. Ne risentono persino le aree centrali degli Stati Uniti, oltre al Medio Oriente e all’Asia Centrale. L’emergenza non ha confini: investe Cina e India, ripercuotendosi anche sull’Africa.
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Nato economica: giudici scavalcati, il business sarà legge
«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».Il meccanismo attraverso cui si arriva a tutto ciò, scrive Monbiot in un servizio ripreso da “Megachip”, è noto come “investor-State dispute settlement”, cioè: risoluzione delle controversie tra Stati e investitori. «E’ già utilizzato in molte parti del mondo per togliere di mezzo le regolamentazioni a tutela delle persone e del pianeta vivente». Primo esempio, l’Australia: dopo un lungo dibattito dentro e fuori del Parlamento, il governo ha deciso che le sigarette avrebbero dovuto essere vendute in semplici pacchetti, contrassegnati solo con delle scioccanti avvertenze per la salute. Decisione convalidata dalla Corte Suprema australiana. «Ma, in seguito a un accordo commerciale tra l’Australia e Hong Kong, la società del tabacco Philip Morris ha agito presso un tribunale offshore per ottenere una ragguardevole somma a titolo di risarcimento per la perdita di quella che definisce una sua proprietà intellettuale». Altro caso, l’Argentina: durante la crisi, in risposta alla rabbia popolare, Buenos Aires aveva imposto il congelamento delle tariffe dell’energia e dell’acqua. Anche lì, però, il governo è stato citato in giudizio da quelle stesse società (internazionali) decise a lucrare sui servizi. Morale: «L’Argentina è stata costretta a pagare più di un miliardo di dollari di risarcimento».Stesso copione nel Salvador, dove le comunità locali hanno pagato un caro prezzo (tre attivisti uccisi) per convincere il governo a rifiutare la concessione per una grande miniera d’oro che minacciava di contaminare le riserve idriche. «Una vittoria per la democrazia? Non per molto, forse», annota Monbiot. «La società canadese che aveva chiesto la concessione ora sta citando El Salvador per 315 milioni di dollari – per la perdita dei suoi profitti futuri». Dal Salvador al Canada: un tribunale aveva revocato due brevetti di proprietà della società americana Eli Lilly, perché la società non aveva prodotto prove sufficienti sui presunti effetti benefici dei suoi prodotti. Eli Lilly ora sta facendo causa al governo canadese per 500 milioni di dollari, e chiede che le leggi sui brevetti del Canada siano cambiate. «Queste aziende (insieme a centinaia di altre) stanno utilizzando le regole sulla risoluzione delle controversie investitore-Stato incorporate nei trattati commerciali firmati dai paesi», scrive il giornalista del “Guardian”. «Le regole sono applicate da giurie che non offrono nessuna delle garanzie assicurate nei nostri tribunali».Le audizioni si svolgono a porte chiuse e i giudici sono avvocati aziendali, molti dei quali lavorano per le stesse società che agiscono in giudizio. I cittadini e le comunità colpite dalle loro decisioni non hanno più alcun valore legale: attraverso quei “giudici del business”, le aziende «possono rovesciare la sovranità dei Parlamenti» e perfino le sentenze delle corti supreme nazionali. Ammette uno dei giudici di questi tribunali: «A tre individui privati è affidato il potere di rivedere, senza alcun limite e senza possibilità di appello, tutte le azioni dei governi, tutte le decisioni dei tribunali, e tutte le leggi di regolamentazione emanate dal Parlamento. Non ci sono dei corrispondenti diritti dei cittadini, osserva Monbiot. «Non possiamo agire in questi tribunali per chiedere una migliore protezione dall’avidità delle società». Come dice il Democracy Centre, questo è «un sistema di giustizia privatizzata per società globali». Parlando delle regole introdotte dal North American Free Trade Agreement, un funzionario del governo canadese rivela: «Ho visto lettere in arrivo da New York e da studi legali con sede a Washington, praticamente su tutte le nuove normative e proposte a tutela dell’ambiente degli ultimi cinque anni. Riguardano prodotti chimici per lavaggio a secco, prodotti farmaceutici, pesticidi, diritti dei brevetti. Praticamente tutte le nuove iniziative sono state prese di mira e la maggior parte non ha mai visto la luce del giorno».Tecnicamente, è la fine della democrazia. E questo, aggiunge Monbiot, è esattamente «il sistema che ci governerà se il trattato transatlantico va avanti». Gli Usa e la Commissione Europea? Entrambi “catturati” dalle multinazionali. Per Bruxelles, i tribunali nazionali non offrono alle aziende una protezione adeguata perché «potrebbero essere prevenuti o non indipendenti». E’ vero il contrario, scrive il “Guardian”: «E’ proprio perché i nostri tribunali generalmente non hanno pregiudizi e sono indipendenti che le imprese vogliono bypassarli». Così, le nuove regole sulle controversie tra investitori e Stati «potrebbero essere utilizzate per distruggere ogni tentativo di salvare il sistema sanitario nazionale dal controllo societario, di regolamentare di nuovo le banche, di frenare l’avidità delle compagnie energetiche, di rinazionalizzare le ferrovie, di lasciare i combustibili fossili nel terreno». Queste regole, sintetizza Monbiot, «distruggono le alternative democratiche» e «mettono fuorilegge le politiche di sinistra», decretando la fine del welfare e della sicurezza sociale, storico pilastro dell’Europa nella quale siamo tutti cresciuti. “Riforme” clandestine, sostenute di soppiatto dai nostri attuali politici: «Questo è il motivo per cui non vi è stato alcun tentativo da parte del governo britannico di informarci su questa mostruosa aggressione alla democrazia, per non parlare poi di fare una consultazione popolare». A tacere sono i politici che «sbuffano a sentir parlare di sovranità», conclude Monbiot. «Svegliamoci, gente: ci stanno fregando».«Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».
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Ecco Iron Man, il cyber-guerriero per la fine del mondo
Provate a ribellarvi, e ve la dovrete vedere con Iron Man, il primo guerriero “bionico”, forse già in azione tra meno di un anno. Ha lo stesso nome di Tony Stark, l’industriale che diventa supereroe grazie a una corazza totale munita di razzi e alimentata autonomamente, ma non è un clone del personaggio della Marvel Comics. Quello in preparazione è un cyber-soldato vero, indistruttibile e progettato per sterminare qualunque nemico. A volerlo è il comando delle forze speciali americane, che ha aperto una gara tra aziende della difesa, università e laboratori del governo per la produzione di un’armatura hi-tech destinata a soldati d’élite e dotata di arti bionici, esoscheletro a prova di proiettili e schegge, batteria per l’auto-alimentazione. A guidare Iron Man sull’obiettivo, un sistema di caricamento dei dati ricevuti in tempo reale dai droni e proiettati su un display trasparente montato all’interno dell’elmo. Sarà il guerriero-guardiano incaricato di “riportare l’ordine” in un mondo in rivolta, nel caos che verrebbe scatenato da un collasso finanziario?Nessun contratto è ancora stato firmato e il Pentagono sta tuttora selezionando le idee, precisa Alessandra Baldini sul sito dell’Ansa. Ma l’obiettivo è chiarissimo: affidandosi a micro-motori, l’esoscheletro (cioè la struttura cibernetica esterna) permetterebbe al soldato di correre e saltare senza fatica, pur portandosi addosso un carico di decine di chili. Ad esempio, il modello “Exoskeleton Xos 2” prodotto dalla Raytheon può sollevare 77 chili con uno sforzo percepito dal soldato che lo indossa pari a 4,5 chili. «Almeno in teoria, questo cyber-soldato sarebbe in grado di curarsi da solo le ferite sul campo applicando tourniquet gonfiabili nel raro evento che l’indistruttibilità dell’armatura venisse violata». La super-corazza conterrebbe anche scorte di ossigeno in caso di attacco coi gas, un sistema di raffreddamento per mantenere la temperatura a livelli accettabili e una serie di sensori per trasmettere al quartier generale i segnali vitali del combattente.«Vogliono una corazza alla Iron Man: sono stati chiarissimi», ha riferito al “Los Angeles Times” Adarsh Ayar, un ingegnere di Bae Systems, uno dei colossi contattati per lavorare sul tipo di armatura chiesta dalle forze speciali. Anche il nome ufficiale del progetto è un omaggio al supereroe della Marvel: si chiama “tactical assault lihght operator suite”, o Talos, come il guerriero gigante fatto di bronzo della mitologia greca che difese, non sempre con successo, l’isola di Creta dagli invasori. Ma a preoccupare i comandanti di Iron Man sarebbero ancora i “barbari” o gli eventuali concittadini in rivolta? «Siamo di fronte a un ridimensionamento generale del mondo sviluppato», avvertiva già nel 2012 il finanziere George Soros: «La gente non capisce quello che sta succedendo, ma è paragonabile alla caduta dell’Unione Sovietica». O magari, per dirla con Giulietto Chiesa, a quella dell’Impero Romano. «Sarà una scusa per dare il giro di vite definitivo usando maniere forti per mantenere legge e ordine», disse Soros a “Newsweek”. Mantenere legge e ordine: grazie a minacciosi robocop come Iron Man?Provate a ribellarvi, e ve la dovrete vedere con Iron Man, il primo guerriero “bionico”, forse già in azione tra meno di un anno. Ha lo stesso nome di Tony Stark, l’industriale che diventa supereroe grazie a una corazza totale munita di razzi e alimentata autonomamente, ma non è un clone del personaggio della Marvel Comics. Quello in preparazione è un cyber-soldato vero, indistruttibile e progettato per sterminare qualunque nemico. A volerlo è il comando delle forze speciali americane, che ha aperto una gara tra aziende della difesa, università e laboratori del governo per la produzione di un’armatura hi-tech destinata a soldati d’élite e dotata di arti bionici, esoscheletro a prova di proiettili e schegge, batteria per l’auto-alimentazione. A guidare Iron Man sull’obiettivo, un sistema di caricamento dei dati ricevuti in tempo reale dai droni e proiettati su un display trasparente montato all’interno dell’elmo. Sarà il guerriero-guardiano incaricato di “riportare l’ordine” in un mondo in rivolta, nel caos che verrebbe scatenato da un collasso finanziario?
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Grazie a Putin, il mondo allontana l’incubo della guerra
Due missili Tomahawk, sparati contro la Siria ma intercettati dalla flotta russa schierata di fronte a Damasco: citato da molte fonti (ma non confermato da nessuna autorità) questo episodio potrebbe aver “convinto” gli americani a rinunciare all’attacco. Da quel momento, sostiene lo scrittore ebreo russo Israel Shamir, tutto è cambiato di colpo: Obama è giunto a parlare direttamente col presidente dell’Iran, irritando Tel Aviv, e l’Esercito Siriano Libero ha accettato di dialogare con Assad, spiazzando gli alleati jihadisti. Ora il presidente Usa ha potuto utilizzare il rischio-collasso della finanza federale per depennare la guerra (e i suoi costi folli) dall’agenda della Casa Bianca. La crisi siriana tra America e Russia è stata «rapida e rischiosa quanto la crisi dei missili a Cuba nel 1962: le probabilità di un conflitto mondiale erano alte». E i contraccolpi saranno epocali, sostiene Shamir, che quando crollò il Muro di Berlino era a Mosca e scriveva per il quotidiano israeliano “Haaretz”. Potrebbe essere la fine dell’Urss, disse ai dirigenti del Politburo. Gli risero in faccia, ma due anni dopo l’Unione Sovietica non c’era più.Ben lieto, Obama, di scrollarsi di dosso la casta militare-industriale? Di sicuro ha colto al volo l’assist di Londra (Cameron bloccato dal Parlamento) per chiedere a sua volta l’ok del Congresso, come alibi per fermare la macchina da guerra. «Non aveva nessuna voglia di dare il via all’Armageddon da solo», e dopo aver «tentato di intimorire Putin al G-20 di San Pietroburgo, ma senza successo», il capo della Casa Bianca «ha salvato la faccia» proprio grazie alla proposta russa di rimuovere le armi chimiche siriane. Disavventura che «ha inferto un colpo magistrale all’egemonia, alla supremazia e all’eccezionalità degli Usa». Attenzione: «Con la fine dell’egemonia statunitense, i giorni del dollaro come valuta delle riserve mondiali sono contati». E se la Terza Guerra Mondiale stava quasi per scoppiare, «dobbiamo dire grazie ai banchieri: hanno troppi debiti, compreso l’insostenibile debito estero degli Stati Uniti». Sicché, «se quei Tomahawk fossero volati, i banchieri si sarebbero appellati alla causa di forza maggiore e non avrebbero più onorato il debito. Milioni di persone sarebbero morte, ma miliardi di dollari si sarebbero salvati nei caveau di Jp Morgan e Goldman Sachs». Sono loro, gli uomini di Wall Street, i veri sconfitti: «Gli Stati Uniti dovranno trovare delle nuove occupazioni per tantissimi banchieri, carcerieri, militari e anche politici».Il mondo è cambiato, avverte Shamir, e ce ne accorgeremo. «La ribellione russa all’egemonia americana è iniziata a giugno, quando il volo dell’Aeroflot da Pechino che portava Ed Snowden è atterrato a Mosca», dove il dissidente Cia-Nsa minacciato da Obama ha ricevuto asilo politico. Niente a che vedere con la Russia in macerie degli anni ’90, troppo debole per opporsi alla devastazione Nato della Jugoslavia e all’irruzione delle truppe occidentali verso Est, condotta «infrangendo la promessa fatta a Gorbaciov». Altro passo cruciale, la distruzione della Libia: per nessuna ragione Putin avrebbe sarebbe rimasto alla finestra anche in Siria, dove però la decisiva resistenza di Mosca «non sarebbe stata possibile senza il sostegno della Cina», anch’essa “scesa in campo” per la prima volta, con navi militari inviate nel Mediterraneo. «Miracolosamente, in questo tiro alla fune bellico, i russi hanno avuto la meglio», osserva Shamir. Le alternative sarebbero state tremende: «La Siria sarebbe stata distrutta come la Libia, i cristiani d’Oriente avrebbero perso la loro culla e l’Europa sarebbe stata invasa di milioni di rifugiati».La Russia ha capito che, se stavolta non avesse agito con fermezza, «sarebbe apparsa come potenza inutile, incapace di difendere i propri alleati», incoraggiando così l’inesauribile aggressività degli Usa. «Tutto quello per cui Putin aveva lavorato per tredici anni sarebbe sfumato: la Russia sarebbe tornata indietro al 1999, quando Clinton fece bombardare Belgrado». Il punto più critico dello scontro tra i due presidenti? «Putin era infastidito dall’ipocrisia e dall’insincerità che avvertiva in Obama». La Siria, ha chiarito il capo del Cremlino a Bridget Kendall della Bbc, si era dotata di armi chimiche per cautelarsi dalla minaccia nucleare di Israele: per l’Occidente le bombe atomiche di Netanyahu non sono un problema? «Putin ha tentato di parlare amichevolmente con Obama», racconta Shamir. Gli ha chiesto: «Che pensi della Siria?». E Obama: «Sono preoccupato che il regime di Assad non osservi i diritti umani», cioè i diritti infranti dai miliziani jihadisti armati dagli Usa, che hanno scatenato la guerra civile in Siria. «A Putin sarà quasi venuto da vomitare di fronte alla sconcertante ipocrisia di quella risposta». Così, il Cremlino ha deciso di varcare il Rubicone: sfidare apertamente l’America, per evitare la Terza Guerra Mondiale. Il futuro è più che mai incerto, conclude Shamir, ma negli Usa ci sono anche politici come il senatore Ron Paul, che sollecita l’abbandono delle basi militari all’estero e il taglio alla spesa bellica, restituendo sovranità al pianeta. Se così fosse, «il mondo potrà ancora amare l’America».Due missili Tomahawk, sparati contro la Siria ma intercettati dalla flotta russa schierata di fronte a Damasco: citato da molte fonti (ma non confermato da nessuna autorità) questo episodio potrebbe aver “convinto” gli americani a rinunciare all’attacco. Da quel momento, sostiene lo scrittore ebreo russo Israel Shamir, tutto è cambiato di colpo: Obama è giunto a parlare direttamente col presidente dell’Iran, irritando Tel Aviv, e l’Esercito Siriano Libero ha accettato di dialogare con Assad, spiazzando gli alleati jihadisti. Ora il presidente Usa ha potuto utilizzare il rischio-collasso della finanza federale per depennare la guerra (e i suoi costi folli) dall’agenda della Casa Bianca. La crisi siriana tra America e Russia è stata «rapida e rischiosa quanto la crisi dei missili a Cuba nel 1962: le probabilità di un conflitto mondiale erano alte». E i contraccolpi saranno epocali, sostiene Shamir, che quando crollò il Muro di Berlino era a Mosca e scriveva per il quotidiano israeliano “Haaretz”. Potrebbe essere la fine dell’Urss, disse ai dirigenti del Politburo. Gli risero in faccia, ma due anni dopo l’Unione Sovietica non c’era più.
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La fine di Lizzani: vivere è un diritto, non un dovere
«Poter morire con dignità è una conquista ancora da fare. Ci vuole una legge». L’oncologo Umberto Veronesi commenta così il tragico suicidio dell’ultranovantenne regista Carlo Lizzani, gettatosi dalla finestra come Mario Monicelli. Ex ministro della sanità e autore di testi sul diritto all’eutanasia, Veronesi chiede che si torni a parlare di “fine vita” perché morti come quella di Lizzani sono anche «una forte forma di denuncia e di protesta». Lo ha sostenuto anche il figlio: se in Italia fosse stato possibile, il padre avrebbe chiesto l’eutanasia. Purtroppo, invece – in Italia come anche in molte parti d’Europa – il diritto di spegnersi con dignità non è ancora riconosciuto, dice Veronesi. «Non è possibile immaginare Mario Monicelli che si alza dal letto di un ospedale, che apre la finestra e si butta giù, o i tanti che lo fanno senza avere titoli di giornale. Ci sono mille modi di interrompere la propria vita più serenamente. E’ necessario avviare un dibattito serio».Un terzo dei suicidi, annota Flavia Amabile della “Stampa”, è a carico di chi ha più di 65 anni: metà degli anziani soffre di depressione. «E’ un problema vero», conferma Veronesi, che più che di “depressione” preferisce parlare di “demotivazione alla vita”: «Sono persone che pensano: sono anziano, non sto bene, sono di peso alla società e alla famiglia, perché devo vivere?». Sul tema, è stata presentata una richiesta di legge di iniziativa popolare, supportata dalle necessarie firme. «Se si dovesse avviare l’iter di legge si parlerà finalmente di questo complesso tema», osserva il professor Veronesi, anche se poi la legge non dovesse essere approvata. «Non dimentichiamo quello che accadde negli anni Settanta con l’interruzione di gravidanza». Sia in quel caso che ora, si tratta di un problema molto sentito dagli italiani: in tanti hanno un parente anziano che “non ce la fa più” e minaccia di farla finita. «Abbiamo tremila suicidi in Italia, tutti purtroppo tragici. La maggior parte si impiccano o si buttano giù dalla finestra. Sono un po’ di meno quelli che si asfissiano con il gas perché è un’operazione lunga, complessa. Ancora di meno quelli che usano i barbiturici perché spesso non funzionano. Rari quelli che si ammazzano con un colpo di pistola perché le armi non si trovano facilmente».È un insieme di vicende tragiche su cui dovremmo ricominciare a riflettere, aggiunge Veronesi. «Se si è stanchi di vivere si ha anche il diritto di andarsene, la vita è un diritto ma non un dovere. Nessuno può toglierti la vita, ma decidere di troncarla da soli è un diritto». I cattolici, osserva la giornalista della “Stampa”, sostengono che la vita sia un dono e di conseguenza non si è liberi di interromperla, né prima della nascita né dopo. Verissimo, risponde lo scienziato, «ma esiste anche l’autodeterminazione». Ed in Italia, oltre ai cattolici, «esistono dieci milioni di atei e agnostici», senza contare «milioni di persone che professano religioni diverse». Quindi: «Chi è fedele agli insegnamenti della Chiesa li segua, ma non può pretendere di invadere la legge civile. Chi non è credente ha il diritto di non ascoltare i dettami della religione».Certo, bisognerebbe provare a vivere sempre e comunque, ma «la decisione spetta solo a noi», e perciò «non è giusto mettere la nostra vita nelle mani di medici che ci torturano con macchine capaci di far vivere un corpo senza coscienza, senza ricordi, senza pensieri». La sopravvivenza artificiale garantita dal cosiddetto “accanimento terapeutico” «è una forzatura», quando invece «bisognerebbe assecondare la natura». Per Veronesi, “eutanasia” è un pessimo termine: «Preferisco parlare di desistenza dalle cure, di aiutare a morire». E qualsiasi sia il termine, che cosa direbbe agli italiani che non hanno più voglia di vivere? «Di procurarsi una corda o di aprire una finestra: non c’è altra soluzione legittima o accettabile. È assurdo, perché uccidersi non è reato. Anche il tentato suicidio non è punibile. Allora, perché è reato aiutare qualcuno se questa persona ha scritto chiaramente qual è la sua volontà?».«Poter morire con dignità è una conquista ancora da fare. Ci vuole una legge». L’oncologo Umberto Veronesi commenta così il tragico suicidio dell’ultranovantenne regista Carlo Lizzani, gettatosi dalla finestra come Mario Monicelli. Ex ministro della sanità e autore di testi sul diritto all’eutanasia, Veronesi chiede che si torni a parlare di “fine vita” perché morti come quella di Lizzani sono anche «una forte forma di denuncia e di protesta». Lo ha sostenuto anche il figlio: se in Italia fosse stato possibile, il padre avrebbe chiesto l’eutanasia. Purtroppo, invece – in Italia come anche in molte parti d’Europa – il diritto di spegnersi con dignità non è ancora riconosciuto, dice Veronesi. «Non è possibile immaginare Mario Monicelli che si alza dal letto di un ospedale, che apre la finestra e si butta giù, o i tanti che lo fanno senza avere titoli di giornale. Ci sono mille modi di interrompere la propria vita più serenamente. E’ necessario avviare un dibattito serio».
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Bruxelles: crepi la Grecia, purché resti lontana dalla Russia
Torturati da Bruxelles, i greci non hanno futuro: sono senza cibo e non hanno soldi per curarsi. Quello che sta accadendo alla Grecia nel 2013 non ha eguali in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: la popolazione è abbandonata a se stessa, senza lavoro e senza protezioni, tantomeno sanitarie. E nelle manifestazioni di piazza cominciano a circolare armi. «Un’esplosione sociale è inevitabile», afferma l’ex diplomatico greco Leonidas Chrysanthopoulos. Ormai l’unica domanda è: quando la rivolta scoppierà. Perché tutto questo? Semplice: per il lucro degli speculatori di Wall Street, gli avvoltoi del debito greco, e per il dominio dell’egemonia euro-atlantica: se la Grecia dovesse collassare e uscire dall’Eurozona, spiega al “Corriere della Sera” l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer, Europa e Usa potrebbero perdere il controllo sui Balcani: gli Stati oggi attratti da Bruxelles potrebbero spaventarsi e tornare sotto l’ala della Russia.
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Pilger: il nostro grande nemico, di cui nessuno osa parlare
Attaccata al muro di fronte a me c’è la prima pagina del “Daily Express” del 5 settembre 1945 con le parole: «Scrivo questo come avvertimento per il mondo». Così cominciava il rapporto da Hiroshima di Wilfred Burchett. Fu lo scoop del secolo. Per quel suo solitario, pericoloso viaggio che sfidava le autorità di occupazione americane, Burchett fu messo alla gogna, anche dai colleghi che lavoravano con lui, ma fece sapere al mondo che un atto premeditato di omicidio di massa, su scala epica, aveva innescato una nuova era di terrore. Quasi ogni giorno, ora, ci si riconosce nelle sue parole. Tutta l’intrinseca criminalità dei bombardamenti atomici si è sprigionata, dagli archivi nazionali Usa, per decenni di militarismo camuffati da democrazia. Come si vede chiaramente oggi nello psicodramma della Siria. Ancora una volta, tengono il mondo in ostaggio per combattere un terrorismo, la cui natura e la cui storia è ormai negata anche dal più liberale dei critici. L’Innominato, che è il più grande e pericoloso nemico dell’umanità, abita a Washington.
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Fukushima, Tokyo ammette: il rischio-apocalisse è adesso
Era tutto vero: il pericolo Fukushima comincia solo adesso e il Giappone non sa come affrontarlo. Le autorità hanno finora mentito, ai giapponesi e al mondo intero: Fukushima era una struttura a rischio, degradata dall’incuria. Un impianto che andava chiuso molti anni fa, ben prima del disastro nucleare del marzo 2011. Da allora, la situazione non è mai stata sotto controllo: la centrale non ha smesso di emettere radiazioni letali. Tokyo finalmente ammette che, da mesi, si sta inquinando il mare con sversamenti continui di acqua radioattiva, utilizzata per tentare di raffreddare l’impianto. Ma il peggio è che nessuno sa esattamente in che stato siano i reattori collassati: si teme addirittura una imminente “liquefazione” del suolo. L’operazione più pericolosa comincerà a novembre, quando sarà avviata la rimozione di 400 tonnellate di combustibile nucleare. Operazione mai tentata prima su questa scala, avverte la “Reuters”: si tratta di contenere radiazioni equivalenti a 14.000 volte la bomba atomica di Hiroshima. Enormità: bonificare Fukushima – ammesso che ci si riesca – richiederà 11 miliardi di dollari. Se tutto va bene, ci vorranno 40 anni.