Archivio del Tag ‘Forza Italia’
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Contro il popolo italiano: golpisti, da Roma a Bruxelles
«Colpo di Stato». Giulietto Chiesa è esplicito: «Se qualcuno ha un termine più adatto per descrivere questa situazione, lo dica». Legge elettorale, la “porcata” di Renzi e Berlusconi, ancora con liste bloccate e controllate dai partiti, senza possibilità di indicare preferenze. «Questa legge che si sta costruendo è un vero e proprio tentativo di privare gli italiani di una rappresentanza reale», anche se la Consulta, la Corte Costituzionale, ha appena espresso un giudizio chiarissimo, in favore del sistema proporzionale. Eppure, Pd e Forza Italia vogliono il maggioritario verticistico, con parlamentari “nominati” e candidati imposti dalle segreterie. Tutto questo, grazie anche a Napolitano: «Abbiamo un presidente della Repubblica che consente – approva, sollecita – delle cose illegali». Ovvero: «Si sta utilizzando un Parlamento illegale, costruito contro il popolo italiano, per fare un’altra legge che sarà contro il popolo italiano». Attenzione: “lo vuole l’Europa”, si potrebbe dire. In effetti è così: l’attuale assetto europeo teme la democrazia.«Quando è nata l’Europa – ricorda Giulietto Chiesa ai microfoni di “Siracusa Oggi” – c’era l’idea di fare un nuovo Stato – un vero e proprio nuovo Stato, una conferedazione – in pace, che non aveva precenti nella storia degli uomini: mai era accaduto che un paese si formasse con il consenso. Bene, questa Europa non c’è più, è stata cancellata». Parlano i fatti, a cominciare dalle carte: «Ci sono due documenti-chiave, il Trattato di Maastricht e il Trattato di Lisbona, che negano questa Europa. E invece pensano a un’Europa in un cui i più forti diventano ancora più forti, e i più deboli vengono abbandonati a se stessi. E i più deboli siamo noi: Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda». Domanda: a chi serve quest’Europa indebolita e azzoppata dalla crisi? Sappiamo che gli Usa si stanno concentrando sul Pacifico, per fronteggiare l’avanzata economica e geopolitica della Cina. Sempre gli Stati Uniti puntano a lacerare l’Ucraina, per poi spingere l’avamposto Nato fino ai confini con la Russia. Tutto questo ci conviene? «La mia risposta è no», dice Giulietto Chiesa. «Stati Uniti ed Europa non hanno interessi coincidenti».Prima ancora di un’Italia sovrana, sostiene il fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, dobbiamo avere un’Europa sovrana. «Significa che dobbiamo passare da questa società, che è insostenibile, a una società sostenibile – che è possibile». Per farlo, però, «occorre una strategia politica di transizione». Che punti, prima di tutto, ad assicurare all’Europa le risorse primarie di cui ha bisogno. «Alle nostre frontiere abbiamo la Russia: 9 fusi orari, il più grande paese del mondo, che ha tutte le risorse energetiche e minerarie, domani anche alimentari. Ma perché non facciamo un patto di cooperazione strategica con la Russia?». Alternativa che l’establishment filo-atlantico di Bruxelles non prende neppure in considerazione, per ora. Ecco perché sono potenzialmente decisive le elezioni europee di maggio: con l’operazione Tsipras, liste civiche a sostegno del leader greco di Syriza come candidato comune alla presidenza della Commissione Europea, la musica potrebbe cambiare. «A giugno potremmo avere in Europa un gruppo di 60-70 deputati in grado di costituire un baluardo per aprire questo tema. Io credo che sia possibile. Se l’Italia si presenta in Europa e chiede di contare, noi saremo molto più forti di quanto siamo oggi».«Colpo di Stato». Giulietto Chiesa è esplicito: «Se qualcuno ha un termine più adatto per descrivere questa situazione, lo dica». Legge elettorale, la “porcata” di Renzi e Berlusconi, ancora con liste bloccate e controllate dai partiti, senza possibilità di indicare preferenze. «Questa legge che si sta costruendo è un vero e proprio tentativo di privare gli italiani di una rappresentanza reale», anche se la Consulta, la Corte Costituzionale, ha appena espresso un giudizio chiarissimo, in favore del sistema proporzionale. Eppure, Pd e Forza Italia vogliono il maggioritario verticistico, con parlamentari “nominati” e candidati imposti dalle segreterie. Tutto questo, grazie anche a Napolitano: «Abbiamo un presidente della Repubblica che consente – approva, sollecita – delle cose illegali». Ovvero: «Si sta utilizzando un Parlamento illegale, costruito contro il popolo italiano, per fare un’altra legge che sarà contro il popolo italiano». Attenzione: “lo vuole l’Europa”, si potrebbe dire. In effetti è così: l’attuale assetto europeo teme la democrazia.
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Travaglio: e secondo voi esiste ancora un Parlamento?
Giorgio Napolitano & Enrico Letta sono molto preoccupati per il Parlamento, profanato dalle squadracce pentastellate ansiose di trasformare quell’aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli. Tutte le forze democratiche, da Grasso alla Boldrini, da Renzi a De Luca a Farinetti, da Berlusconi a Verdini a Dell’Utri, da Alfano a Cicchitto a Giovanardi, da Monti a Piercasinando a Cesa, da Salvini a Maroni a Borghezio, senza dimenticare La Russa, la Cancellieri in Ligresti e tutto il cucuzzaro, sono precettate per stringersi a coorte in un nuovo arco costituzionale, pronte alla morte per difendere il sacro tempio del potere legislativo così orrendamente sfigurato dai nuovi lanzichenecchi. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che tre anni fa votava a gran maggioranza la mozione “Ruby nipote di Mubarak”.Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che ha approvato in vent’anni un centinaio di leggi vergogna, perlopiù incostituzionali, su misura per Berlusconi, i suoi reati, i suoi processi, le sue aziende, le sue tv, i suoi affari. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che dal 1994 a oggi ha eseguito punto per punto il “papello” di Totò Riina, abolendo le supercarceri di Pianosa e Asinara, l’arresto obbligatorio per i mafiosi, l’ergastolo, i pentiti e ora completando l’opera dimezzando le pene ai boss per farli uscire prima. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che ha salvato dall’arresto una trentina di parlamentari, compresi Dell’Utri, Previti e Cosentino. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che in vent’anni ha votato tre scudi fiscali e una dozzina fra condoni tributari, edilizi e ambientali.Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che ha regalato ai partiti 2,3 miliardi di rimborsi-truffa tradendo il referendum che abolì i finanziamenti pubblici. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che l’anno scorso, in un empito di dignità, approvò una mozione M5S-Sel per sospendere l’acquisto dei caccia F-35, dopodiché Napolitano riunì il Consiglio di Difesa e decretò che il Parlamento non doveva impicciarsi. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che Napolitano tratta come il cortile del Quirinale, minacciando le dimissioni casomai non obbedisse ai suoi ordini. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che un anno fa ricevette l’ordine di Napolitano & Letta di devastare la Costituzione, e pure con una certa urgenza, tant’è che doveva pure scassinarne l’art. 138 per fare alla svelta.Napolitano e Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che è stata totalmente bypassata per la nuova legge elettorale prima da Napolitano, che convocò i gruppi di maggioranza per discuterne aumma aumma al Quirinale; poi da Renzi&Berlusconi che han fabbricato l’Italicum Pregiudicatum in luoghi privati col beneplacito di Napolitano & Letta. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che è stata ridotta da Napolitano e dai suoi governi a passacarte di Palazzo Chigi e del Quirinale: nel primo settennato, Napolitano ha firmato e il Parlamento ratificato (quasi sempre strozzato dalle fiducie) 168 decreti, in gran parte incostituzionali perché privi dei requisiti di necessità e urgenza: 47 del governo Prodi-2, 80 del governo Berlusconi-3, 41 del governo Monti. Senza contare quelli del NapoLetta. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che ha appena eseguito il diktat di Letta convertendo il decreto che, con la scusa dell’Imu, regala 4,5-7,5 miliardi alle banche con soldi nostri, rapinati dalle riserve di Bankitalia. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento: perché, c’è ancora un Parlamento?(Marco Travaglio, “Napolitano & Letta: da che pulpito la predica!”, da “Il Fatto Quotidiano” del 2 febbraio 2014, intervento ripreso da “Megachip”).Giorgio Napolitano & Enrico Letta sono molto preoccupati per il Parlamento, profanato dalle squadracce pentastellate ansiose di trasformare quell’aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli. Tutte le forze democratiche, da Grasso alla Boldrini, da Renzi a De Luca a Farinetti, da Berlusconi a Verdini a Dell’Utri, da Alfano a Cicchitto a Giovanardi, da Monti a Piercasinando a Cesa, da Salvini a Maroni a Borghezio, senza dimenticare La Russa, la Cancellieri in Ligresti e tutto il cucuzzaro, sono precettate per stringersi a coorte in un nuovo arco costituzionale, pronte alla morte per difendere il sacro tempio del potere legislativo così orrendamente sfigurato dai nuovi lanzichenecchi. Napolitano & Letta sono preoccupati per il Parlamento, cioè per quella cosa che tre anni fa votava a gran maggioranza la mozione “Ruby nipote di Mubarak”.
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D’Orsi: povera Italia, se resta nelle mani di lorsignori
Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi.«Qualcuno annunciava la spaccatura del Pd», e invece «Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto», e tace pure «il giovin Civati», mentre Laura Boldrini ha «inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”», per bloccare il dibattito in aula e far convertire in legge «il vergognosissimo decreto Imu-Banca d’Italia». Per Angelo d’Orsi, della Boldrini offende il fatto che lei, Napolitano e Grasso «si comportino come parte integrante dell’esecutivo». Ovvero: «Stiamo assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (esecutivo e legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche», visto che Pd-Fi «ormai vanno verso una identità sostanziale», al netto di «leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali». Il nuovo blocco di potere «toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici».Stesso destino, scrive d’Orsi su “Micromega”, per i sindacati: «Come possiamo ancora distinguere la Cgil dalla voce del padrone?» Di Cisl e Uil «manco vale la pena di parlare, tanto appiattiti sono ormai da anni sulle logiche padronali». C’è il decreto-vergogna per la “ricapitalizzazione” della Banca d’Italia, gigantesco regalo alle grandi banche, e c’è «il silenzio ossequiente verso le scellerate scelte “strategiche” di Marchionne e dell’“azionista di riferimento” Fiat (Agnelli-Elkann), che meriterebbero risposte adeguate», per finire con l’altro scandalo, quello degli F-35 «appena dichiarati pericolosi e costosi dal Pentagono». Mentre il governo Letta, quello “virtuoso”, «persevera nella politica delle commesse alle multinazionali produttrici di questi giocattoli di guerra». E sul tappeto restano inevase le pratiche più scellerate, dall’inutile e mostruoso Tav Torino-Lione della valle di Susa fino al Muos di Niscemi, la piattaforma super-tecnologica siciliana per la guerra totale.«Insomma, un catalogo di orrori – aggiunfe d’Orsi – che sta facendo toccare con mano quanto fossero esatte le funeste previsioni all’ascesa alla guida del Pd del giovane rottamatore, che sta inanellando una vittoria dopo l’altra, nel silenzio complice o inerte degli uni, o nell’adesione convinta o necessitata degli altri». Ma attenzione: «Le vittorie di Renzi sono altrettante sconfitte della democrazia». E il gennaio 2014 sarà ricordato come una “macchia scura” nella vicenda dello stesso sistema liberal-democratico, «per il delitto perfetto che è stato consumato dai “democratici” Renzi e Letta, sotto la regia di Napolitano, con la benevolenza istituzionale dei presidenti delle Camere, e soprattutto la complicità attiva e interessatissima del riesumato Berlusconi e della sua gang». Non paghi di una legge elettorale «persino peggiore della precedente», l’infame “Porcellum”, Pd e Forza Italia mostrano di voler puntare su «uno scenario cimiteriale, dove due partitoni indistinguibili, come sovente sono laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Usa, occuperanno l’intero panorama politico». E questa sarebbe la “moderna democrazia”?Ma non basta, continua d’Orsi. La nuova «gioiosa macchina da guerra» guidata da Renzi, «il piccolo duce», avanza «nello stupefatto balbettio della minoranza interna», ma anche «nell’entusiasmo di chi lo chiama “Matteo” e lo acclama come la star da opporre finalmente al Berlusconi, e capace di fermare il “fenomeno Grillo”». Ora, guadagnato il fortilizio elettorale, «con un’ultima ignominiosa correzione per impedire che la Lega Nord esca dal giro», la macchina marcia verso la Costituzione, che da almeno tre decenni i soloni del “novitismo”, delle “riforme” e della “governabilità” hanno classificato come “obsoleta”: e in quattro e quattr’otto l’amputazione si farà, «recando una ferita che non sarà più possibile rimarginare, neppure quando ci si liberasse del Berluscone e del Berluschino». Secondo d’Orsi, a quel punto, «occorrerà una rivoluzione per restituire dignità al paese e valore alle sue leggi, rinnovando completamente la sua classe dirigente». Ma questa rivoluzione ancora non si vede: «Si vedono proteste, jacqueries, ribellioni, uno scontento generale e gigantesco che si traduce anche, per fortuna, in atti di resistenza». Episodi numerosissimi e diffusi, che «hanno il solo torto di non essere coordinati e spesso neppure conosciuti». Il che significa che «davanti a questo sfascio, se si prende atto che l’alternativa tra Pd e tutta l’ammucchiata di centrodestra è ormai fasulla, non solo ribellarsi è giusto ma è anche possibile».Purtroppo, sempre secondo d’Orsi, «al di là delle simpatie che si possano provare», il “Movimento 5 Stelle” non è ancora un’alternativa pienamente credibile. Grillo e Casaleggio, «i due capetti», lo tengono tuttora in pugno. Per contro, al di là del «fastidio per tanti suoi ridicoli esponenti (basti pensare a Vito Crimi, degno del senatore Razzi imitato dal comico Crozza», oggi «solo questi ragazzacci», i giovani parlamentari “5 Stelle”, «stanno provando ad alzare la voce contro lo schifo», e certo «è meglio di nulla». E se i colleghi del Pd non provano vergogna nell’intonare “Bella ciao” per difendere il decreto Imu-Bankitalia, Alessandro Gilioli osserva: «È davvero notevole lo sforzo con cui il Pd, Forza Italia, Boldrini e Napolitano stanno trasportando verso il “Movimento 5 Stelle” anche gli italiani meno attratti da Grillo e Casaleggio». Quanto agli antiberlusconiani «schifati di tutte le scelte del Pd» nonché «delusi di un Vendola rimasto capace di affabulare solo se stesso allo specchio», che fare? Rifugiarsi nell’astensionismo? Oppure, viceversa, «connettere le tante isole di opposizione allo schifo», perché «un’altra Italia esiste», e può unire tutti quelli che «sono contro lorsignori».Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi.«Qualcuno annunciava la spaccatura del Pd», e invece «Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto», e tace pure «il giovin Civati», mentre Laura Boldrini ha «inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”», per bloccare il dibattito in aula e far convertire in legge «il vergognosissimo decreto Imu-Banca d’Italia». Per Angelo d’Orsi, della Boldrini offende il fatto che lei, Napolitano e Grasso «si comportino come parte integrante dell’esecutivo». Ovvero: «Stiamo assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (esecutivo e legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche», visto che Pd-Fi «ormai vanno verso una identità sostanziale», al netto di «leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali». Il nuovo blocco di potere «toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici».
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Il Fatto: Renzi è stato finanziato con 4 milioni. Da chi?
Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere due campagne nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito: niente rimborsi elettorali né fondi pubblici. Come c’è riuscito? Grazie ad associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi e ai suoi due “fund raiser”, Marco Carrai e Alberto Bianchi, incaricati di raccogliere soldi. Missione compiuta: oltre 4 milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del paese. Lo racconta sul “Fatto Quotidiano” Davide Vecchi, che – conti alla mano – ripercorre l’ascesa del rottamatore.«Bianchi e Carrai – scrive Vecchi – oggi fanno parte del consiglio direttivo della Fondazione Open, cioè l’evoluzione della Fondazione Big Bang a cui lo scorso novembre è stato cambiato nome e composizione: Renzi ha azzerato il vecchio consiglio, confermando solo Bianchi e Carrai, inserendo Luca Lotti e Maria Elena Boschi, nominando quest’ultima segretario generale». Nel 2013 la fondazione ha raccolto 980.000 euro di donazioni, 300.000 euro in più rispetto all’anno precedente, quello della sua fondazione. Negli anni precedenti, continua Vecchi, l’attività politica di Renzi era passata attraverso altre due associazioni: Link e Festina Lente, che «non hanno mai avuto siti Internet né rendicontazione pubblica». Ultima iniziativa di Festina Lente: 120.000 euro raccolti a Milano in una cena per Renzi nel gennaio 2012 al Principe di Savoia. «Questa associazione è citata solamente una volta: nel resoconto delle spese elettorali sostenute da Renzi per le amministrative del 2009».Il comitato dell’allora candidato sindaco dichiarò di aver speso 209.000 euro, 137.000 raccolti tra i sostenitori e gli altri 72.000 coperti da un mutuo acceso e garantito dalla Festina Lente. Mutuo concesso dalla banca di credito cooperativo di Cambiano (presieduta dal potente sostenitore Paolo Regini e usata anche per le ultime primarie) con a garanzia una fidejussione firmata da Bianchi. Ben più attiva, invece, la Link, nata nel 2007 quando Renzi era presidente della Provincia di Firenze. Oltre a Carrai, tra i fondatori figura buona parte dell’attuale staff del rottamatore: come Lucia De Siervo, direttore della cultura ed ex capo segreteria di Renzi, nonché figlia di Ugo, presidente della Corte Costituzionale, e moglie di Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua. C’è Vincenzo Cavalleri, ora direttore servizi sociali di Palazzo Vecchio, e c’è Andrea Bacci, oggi presidente della Silvi (società pubblica partecipata dal Comune), intercettato nel dicembre 2008 al telefono con Riccardo Fusi (ex patron del gruppo Btp condannato a due anni in primo grado per i lavori alla Scuola marescialli e imputato per il crac del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini e indagato per bancarotta fraudolenta) per organizzare un viaggio in elicottero a Milano per Renzi.Nell’atto costitutivo della Link, aggiunge il “Fatto”, oltre al presidente Marco Seracini compare anche Simona Bonafè, ex assessore e oggi onorevole. L’associazione ha la propria sede in via Martelli 5, dove poi nascerà la fondazione Big Bang. Nei primi due anni di vita la Link ha chiuso in attivo, dopo aver raccolto 200.000 euro. «Tutt’altra musica nel 2009, anno delle primarie e delle amministrative, quindi fondi che vanno ad aggiungersi a quelli dichiarati dal Comitato». Link ha speso 330.000 euro, perdendone 154.000. Perdita «in parte appianata nel 2010 attraverso erogazioni liberali ricevute per 156.350 euro e in parte nel 2011, ultimo anno di vita dell’associazione». Complessivamente, la Link ha sostenuto l’attività politica di Renzi con circa 750.000 euro. «Da dove arrivano queste “erogazioni liberali”?», si domanda Vecchi. «Abbiamo cercato per giorni inutilmente il presidente Marco Seracini sia nel suo studio, dove venne registrata l’associazione, sia al cellulare. Ci siamo rivolti a Carrai che pur rispondendo molto gentilmente al telefono e rendendosi inizialmente disponibile a incontrarci, ha poi preferito non rispondere né in merito alla Link né ad altro». Ha invece risposto Vincenzo Cavalleri, anche che «non alle domande sui donatori – “dei quali”, ha detto, “non so niente”». Però ha spiegato al “Fatto” che l’associazione è una “scatola”, costruita per organizzare incontri. Di che tipo? «Raccolta fondi ma non solo, non faceva attività politica però, erano incontri sociali diciamo». Sociali? «Sì, eventi promozionali per diciamo sviluppare le idee di cui Renzi era portatore». E cene elettorali? «Non ricordo».Nel 2009, continua Vecchi, dopo aver vinto le primarie fiorntine Renzi partecipò ad alcune iniziative organizzate anche da Denis Verdini, all’epoca coordinatore regionale di Forza Italia. Oggi, Verdini è l’uomo che deve scegliere il candidato sindaco da contrapporre a Renzi per le prossime amministrative di maggio. «Nel 2009 – racconta il “Fatto” – l’allora rottamatore sedette al tavolo d’onore insieme a Verdini e consorte alla festa de “Il Giornale della Toscana”, presenti tutti i parlamentari forzisti dell’epoca». Mesi dopo, Renzi partecipò a un evento organizzato dalla signora Verdini, Maria Simonetti Fossombroni. «Molti del Pdl ricordano inoltre che la scelta di candidare sindaco nel 2009 l’ex calciatore Giovanni Galli fu considerato un “regalino” al giovane prodigio Renzi. Che lo asfaltò. Verdini non ha mai negato la propria simpatia per il rottamatore». E dal centrodestra sono mai arrivati fondi alle associazioni di Renzi? «Gentile e disponibile quanto Carrai si dimostra anche Alberto Bianchi, che come Carrai alla domanda non risponde».Domande: da dove arrivano i fondi e come ha coperto il mutuo Festina Lente? E come è riuscito ad appianare il debito della Fondazione e a raccogliere il 30% in più l’anno successivo? «Neanche a queste domande riceviamo risposte», aggiunge Vecchi. «Una cosa è certa: l’imprenditore e l’avvocato fanno benissimo il loro lavoro di fund raiser. Sempre dall’ombra, mai in prima fila. Meno si parla di loro meglio è». La cena di finanziamento di Renzi a Milano nell’ottobre 2012, «che passò come un evento organizzato da Davide Serra», secondo “Il Fatto” «in realtà è stata opera esclusiva di Carrai». L’amico di Renzi «mal sopporta la pubblicità, i suoi interessi sono nel privato». Oggi, Carrai è presidente di Aeroporto Firenze, della C&T Crossmedia, della Cambridge Management Consulting e della D&C, mentre ha appena lasciato la carica di amministratore delegato della Yourfuture srl. Inoltre è socio dell’impresa edile di famiglia Car.im, società che ha realizzato la trasformazione della storica libreria fiorentina Martelli in un negozio Eataly, proprio davanti alla sede della Fondazione Open. «Ma certo, sono affari privati».Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere due campagne nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito: niente rimborsi elettorali né fondi pubblici. Come c’è riuscito? Grazie ad associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi e ai suoi due “fund raiser”, Marco Carrai e Alberto Bianchi, incaricati di raccogliere soldi. Missione compiuta: oltre 4 milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del paese. Lo racconta sul “Fatto Quotidiano” Davide Vecchi, che – conti alla mano – ripercorre l’ascesa del rottamatore.
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Bertani: attaccando Napolitano, Grillo vincerà le elezioni
«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.«Lo share di Napolitano è uno fra i più bassi del mondo occidentale», scrive Bertani nel suo blog, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Soltanto la metà dei cittadini lo approva (parecchi sondaggi recano queste cifre)». E questo, per un capo di Stato che ha basato il suo agire sul motto “state tranquilli, qui ci sto io a controllare”, secondo Bertani «è una débacle», tant’è vero che ormai «metà dei cittadini ha capito il trucco». “Sparando” contro Napolitano, Grillo prepara dunque una campagna elettorale nella quale una sola forza politica, il “Movimento 5 Stelle”, si candida a vincere a mani basse, grazie ai voti di chi è «schifato, annichilito, provato dal disgusto» di fronte allo spettacolo che avanza. «Difatti, Napolitano – che è un gran furbacchione – ha dichiarato di non essere preoccupato per la messa in stato d’accusa in merito alla Costituzione, bensì d’esserlo molto per cosa sta succedendo in Parlamento. Là sì che si stanno giocando i futuri equilibri europei! Devono riuscire a tagliar la pelle all’asino senza farlo ragliare! E bene fanno quelli del M5S ad urlare più forte: non si facciano intimorire dalle tigri di camomilla come Letta!».La verità è che il Parlamento «ha raggiunto forse il limite inferiore della sua storia», anche se «in futuro potrà scendere ancora». E tutte le istituzioni, compresa la presidenza della Repubblica, «sono oramai gli zombie di ciò che erano non più di un anno fa». Gli unici ad essere felici «sono gli uomini di Bankitalia, che ringraziano per il generoso regalo di 4 miliardi di euro fatto ai loro azionisti: credevamo che l’Imu servisse per rimettere in sesto il bilancio italiano. No, adesso abbiamo la conferma ufficiale che serviva a rimpinguare i conti degli azionisti privati di Bankitalia». Tutto questo, però, non basta a motivare la messa in stato d’accusa di Napolitano. Primo rilievo: espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e abuso della decretazione d’urgenza. «Su questo punto – osserva Bertani – andrebbero processati tutti i presidenti, almeno da Pertini in avanti: le leggi contro il terrorismo sono state la “prova generale” della decretazione d’urgenza. Poi, il diluvio: oggi, si decreta “d’urgenza” anche un finanziamento di 1.000 euro a qualche parente, oppure un ministro entra a gamba tesa nella decisione su quale parente abbia diritto di gestire il bar di un ospedale».Seconda accusa: riforma della Costituzione e del sistema elettorale. Qui invece i grillini hanno ragione, sostiene Bertani: «L’eventuale riforma della Costituzione è argomento staccato dalla legge elettorale, e bene ha fatto il M5S a lottare perché (finora) non avvenisse. C’è il rischio che riescano a raggiungere i 2/3 dei voti, e quindi che riescano ad evitare il referendum confermativo». Napolitano? «E’ chiaro che non considera il M5S un soggetto politico “attivo”: al più, dei divertenti clown». Detto questo, purtroppo, «le leggi elettorali – salvo il proporzionale puro e senza sbarramenti (una testa, un voto) – sono tutte delle truffe: dipende da chi vuoi farti truffare». Più difficile, invece, sostenere la terza accusa, quella del mancato esercizio del potere di rinvio presidenziale: «Se ad esempio Ciampi non rinviò il “Porcellum” alle Camere a fine legislatura (che, quindi, sarebbe caduto immediatamente, ben prima d’essere dichiarato incostituzionale sette anni dopo) in molti casi sarebbe stato opportuno farlo. Già, ma è un potere presidenziale: che succede se non lo si applica?».Idem per il quarto “capo d’accusa”, cioè l’anomala rielezione al Quirinale: sarà una prassi poco opportuna, ma la Costituzione non la vieta. Quanto alla quinta “imputazione”, quella di improprio esercizio del potere di grazia, c’è poco da aggiungere: «Detto fuori dai denti, Sallusti era l’ultima persona da graziare, con tanta gente malata e condannata a pene lievi che ingombrano le nostre carceri», ma tant’è: il potere di grazia resta prerogativa esclusiva del capo dello Stato, e può esercitarlo senza condizioni. Infine, sulla sesta e ultima contestazione – il rapporto con la magistratura nel processo Stato-mafia – è «molto difficile estrapolare la verità». Ipotesi: «Nulla di più probabile che gli apparati dello Stato si siano “attivati” molto “generosamente” in favore del presidente». Ma, anche qui, come motivare l’accusa di “attentato alla Costituzione”? In altre parole, «Grillo sa benissimo che le possibilità di successo dell’iniziativa sono pari a zero»: troppi giuristi e costituzionalisti «al servizio di Re Giorgio», e troppo pochi parlamentari a favore della decadenza. Eppure, secondo Bertani, la mossa (tutta politica) dell’impeachment alla fine avrà successo: «Ovviamente Napolitano non decadrà dall’incarico, ma sarà travolto dalle susseguenti elezioni».Bertani mette a fuoco la nuova legge elettorale confezionata da Renzi e Berlusconi: nessuno dei due schieramenti – centrodestra e centrosinistra – sembra in grado, davvero, di raggiungere il famoso premio di maggioranza, che assomiglia sempre di più «al prosciutto in cima all’Albero della Cuccagna». Il 37% è una soglia alta – Berlusconi si sarebbe accontentato del 35 – perché entrambi i partiti ritengono che saranno loro gli attori al ballottaggio. «Nulla di più falso», sostiene Bertani. In campo ci sono «tre partiti grossomodo equivalenti (ricordiamo le “sorprese” delle scorse elezioni)», ma con una differenza sostanziale: «Grillo agiterà la clava contro il vecchio Re usurpatore», mentre i suoi parlamentari, esasperati «dall’insipienza della Boldrini e della sua “ghigliottina”», ormai «praticano una sorta di guerriglia parlamentare ai limiti del lecito». Sicché, «agli altri, non rimarrà che difendere l’asfittico esistente», cioè le loro tasse, le loro non-riforme e la devastazione socio-economica che dilaga.«C’è però un altro punto a favore del M5S: tutti i sondaggi danno un astensionismo pari a circa il 40%, la metà dei quali deciderà nell’ultima settimana cosa fare». Sono circa 8 milioni d’italiani, dice Bertani. Otto milioni di cittadini decisivi, perché «avranno in tasca la chiavi del nostro futuro». Proprio su questa enorme quota di elettorato – quella che Giulietto Chiesa chiama “la voragine dei non-rappresentati” – oggi «si sperticano gli istituti di ricerca». Ma la notizia è che «non trovano nulla», perché ogni istituto ha un “padrone” politico, e quindi «“taroccherà” le risposte in modo di “adattarle” alle richieste: nulla di utile». Dunque, attenti a quegli 8 (milioni): niente di più facile che, al momento decisivo, scelgano il più convincente “voto contro”, il più chiaro, alla larga da Renzi e dall’amico Silvio. Se l’Italia è in sofferenza da anni, torturata dall’establishment europeo incarnato da personaggi come Monti e Draghi, aprire il fuoco da oggi contro il supremo garante italiano dell’euro-regime, l’anziano Napolitano, potrebbe consentire a Grillo di conquistare addirittura la pole position.«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.
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Foa: l’Italia è già in mano agli uomini di Mario Draghi
«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Grillo a Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti».La spiegazione: «Chi ha la facoltà di velocizzare o di rallentare l’immenso apparato dello Stato: le persone che hanno questa facoltà esistono e possiedono le chiavi del potere», scrive Foa in un post sul “Giornale”, citando un articolo di “Italia Oggi” del maggio scorso, firmato da Roberto Narduzzi. Titolo: “Draghi ha già piazzato i suoi uomini in tutti i posti chiave dell’economia”. Per attivare lo scudo anti-spread, scrive Narduzzi, occorre «offrire garanzie manageriali ai prestatori che devono di fatto approvare la qualità della squadra italica chiamata a gestire il programma». Draghi lo sa bene, aggiunge “Italia Oggi”, e non ha perso tempo: «Non è affatto casuale l’arrivo di uomini di Bankitalia ai posti chiave della finanza pubblica. Fabrizio Saccomanni come ministro dell’economia e Daniele Franco alla Ragioneria dello Stato». Sono «persone di qualità e di cui Draghi si fida», ovvero «persone giuste per interagire con la Bce, il Fmi o la Commissione se l’attivazione dello scudo si fa realtà». Altre pedine strategiche: alla direzione generale del Tesoro un certo Vincenzo La Via, proveniente dalla Banca Mondiale, e all’Agenzia delle Entrate un tecnocrate come Attilio Befera, «molto stimato da Draghi». A questo punto, «soltanto il bilancio dell’Inps, oggetto di feroci critiche per Inpdap ed esodati, sfugge al controllo tecnico di un Draghi boy».Il “vero premier italiano”, quello che governa dall’Eurotower Bce di Francoforte in perfetta sintonia con Napolitano, ha messo a punto ogni casella chiave per gestire gli effetti operativi dell’attivazione italiana dello scudo anti-spread, osserva Foa, rileggendo “Italia Oggi”. «Il tono dell’articolo è compiaciuto e compiacente. Come dire: bravo Draghi!». Con questi sistemi, aggiunge Foa, si governano le istituzioni grazie a «tecniche di occupazione del potere», vanificando ogni dialettica politica fondata sul confronto democratico, grazie al super-potere di «membri altolocati delle élite che contano davvero». Lo conferma un altro servizio, firmato da Andrea Cangini sul “Quotidiano Nazionale”: “Leggi e governanti ‘ostaggio dei tecnici’. Così i grandi burocrati guidano la politica”. «Lo Stato sono loro», taglia corto l’ex ministro Altero Matteoli, «e la repubblica è appesa alle loro decisioni». Destra e sinistra non contano, di fronte al potere dei super-burocrati: ragioniere generale dello Stato, capi di gabinetto, direttori di dipartimento, capi dell’ufficio legislativo dei ministeri più importanti. «Hanno dunque in pugno il paese, e da quasi vent’anni sono sempre gli stessi», restando nel recinto di «una casta chiusa, irresponsabile ed autoreferenziale».Osserva ancora Cangini: sono 15-20 individui, sempre quelli. «Il più noto è Vincenzo Fortunato, ex Tar, più di 500.000 euro di stipendio l’anno fino a poco tempo fa». I super-tecnocrati nostrani «sono il vero e inamovibile potere italiano», sintetizza un ex ministro diessino, confortato da un suo omologo ex forzista. Entrambi sostengono che le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria ad ogni provvedimento di spesa, «vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella ‘visione’ politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte ‘politiche’ diverse». C’è un’altra cosa su cui i due ex ministri, pur di opposti schieramenti, concordano: «I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili». Un monopolio difficile da scalfire, chiosa Foa. «Capito chi governa davvero l’Italia?». Loro, gli yes-men che rispondono al signore della Bce, privatizzatore del sistema bancario italiano, uomo del Bilderberg e della Goldman Sachs nonché esponente del Gruppo dei Trenta, vera e propria cupola del super-potere finanziario mondiale attraverso cui l’élite planetaria domina il nostro destino.«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Grillo a Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti». -
Suicidio Pd: al ballottaggio solo Grillo e Berlusconi?
Renzi o non Renzi, con il Pd non ci si annoia mai. Puoi pensare che questa volta abbia superato ogni limite e invece no: la prossima volta andrà oltre. «Una delle cose per cui non finirà mai di stupirmi – dice Aldo Giannuli – è l’autolesionismo accoppiato all’assoluta incompetenza quando si parla di leggi elettorali». Nel 1993, l’allora Pds sognò di fare il “colpo grosso” e andare al governo per la liquefazione dei partiti di centro seguita a Mani Pulite. Ma, siccome sapeva di non avere i consensi necessari, fece ricorso all’ortopedia elettorale del maggioritario, così da trasformare in una maggioranza assoluta di seggi la sua maggioranza relativa di voti. Solo che non calcolò che un sistema maggioritario, all’epoca, «avrebbe cancellato i partiti ma solo per aprire la porta ad un populismo plebiscitario contro il quale non era affatto attrezzato». Dettaglio: un certo Berlusconi, proprietario della televisione commerciale, era già pronto a cavalcare l’onda populista scatenata dai suoi telegiornali.Nonostante ciò, «il Pds-Ds-Pd non ha mai cercato di capire in cosa avesse sbagliato». Al contrario, ha continuato imperterrito a «inseguire il suo sogno di centralità governativa sorretta dall’ortopedia elettorale», fino a convertirsi «al mantra berlusconiano del “partito del leader”», per cui «si è messo penosamente alla ricerca di un leader forte che lo portasse alla vittoria». Risultato: 8 segretari di seguito in 20 anni (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini, Bersani, Epifani, Renzi) e 4 presidenti del consiglio (Prodi, D’Alema, Amato, Letta) per meno di 8 anni di governo. Motivo: il Pd non è affatto un “partito del leader”, ma «la confederazione di una mezza dozzina di tribù di ceto politico (a loro volta suddivise in un certo numero di sotto-tribù), che ha mantenuto l’impronta di apparato burocratico del vecchio Pci, ma senza il rigoroso costume e le regole del vecchio partito».Il risultato è un partito «troppo burocratico per essere libertario, troppo privo di regole per essere la vecchia falange tebana del Pci, troppo frammentato per essere efficiente e, soprattutto, troppo rissoso». Per cui, alla prima difficoltà, «la congiura dei boiardi disarciona il segretario o il presidente del Consiglio». Dunque un partito «vocato alla sconfitta» che, «anche quando è riuscito per sbaglio a vincere, ha subito rimediato mettendo in crisi il proprio governo appena possibile: di solito il primo avversario di un governo di centrosinistra è il segretario del Pds-Ds-Pd (D’Alema con Prodi, Veltroni con D’Alema, ora Renzi con Letta)». Oggi, continua Giannuli, il Pd si difende (al solito proiettando automaticamente nel futuro i numeri attuali e fidandosi troppo dei sondaggi) ricorrendo di nuovo all’ortopedia elettorale, che dovrebbe «far fuori i piccoli partiti con soglie di sbarramento stellari», ovviamente «rendere irrilevante il M5S con la solita storia del duopolio Pd-Fi (perfetto pendant del duopolio televisivo)» e inoltre «fregare Fi con il doppio turno sulla base di questo calcolo: “Il 20% circa del M5S al secondo turno che fa? Un pezzo si asterrà ed un pezzo voterà per noi, nessuno per Berlusconi, ergo vinciamo sicuro”».Peccato che i piccoli partiti «fatti fuori da clausole di sbarramento così alte» potrebbero non essere interessati a far parte di coalizioni alle quali porterebbero voti per il premio, restando però esclusi dal Parlamento, quindi potrebbero presentarsi in ordine sparso, con risultati imprevedibili. Inoltre, Berlusconi potrebbe raggiungere il 35% da solo al primo turno, mentre il Pd resta sotto anche per pochissimo e il resto va a M5S e liste minori. Senza contare che proprio il Movimento 5 Stelle potrebbe rivelarsi il secondo partito, aprendo nuovi scenari. Il primo, più clamoroso: ballottaggio tra Forza Italia e Grillo, con Pd escluso dai giochi e avviato «ad una rapida disgregazione, per effetto della stessa legge voluta». Si richia anche gli elettori di Forza Italia (come a Parma) di fronte a un derby Pd-M5S votino per i grillini, «in odio al Pd». E se le intenzioni di Renzi sono quelle di far fuori i suoi nemici interni epurando le prossime liste per la Camera, «questo porterebbe facilmente ad una scissione del Pd, per cui tutti i conti andrebbero seriamente rifatti». Ipotesi che «l’ineffabile gruppo dirigente del Pd non prende neppure in considerazione».Dopo di che, bisogna anche vedere che fine farà «questa porcheria di riforma elettorale». Se la commissione resta divisa, in aula si andrà con un testo grezzo, sottoposto alla votazione punto per punto. Risultato: «Tutti contro tutti, in un bagno di sangue generalizzato di emendamenti». Perché Renzi ha sì avuto il 70% dei voti alle primarie, ma i gruppi parlamentari sono quelli formati da Bersani, «per cui occorrerà vedere come voteranno i parlamentari Pd (della cui granitica compattezza si è detto)». Inoltre, la “riforma” disegnata da Renzi e Brlusconi ha senso se contestualmente si abroga il Senato o gli si toglie il voto di fiducia al governo. Peccato che questo lo dovrebbero decidere (a scrutinio segreto) anche i senatori, «che quindi dovrebbero abrogare se stessi».Dopodiché, se restasse in piedi il Senato, ci sarebbe da chiarire con che sistema lo si eleggerebbe: il vecchio Porcellum? Un Porcellum rivisto alla luce della sentenza della Corte Costituzionale? Un nuovo sistema – senza premio di maggioranza – fatto in fretta e furia? E cosa ne penserebbe la Corte? Peraltro, la minoranza interna «non si sente vincolata a difendere una legge per cui non è stata interpellata», e quindi «non assicura affatto di votarla». Per cui, «se alla conta dovessero mancare i voti necessari – o, peggio, dovesse esserci una defezione di massa dei parlamentari Pd – decenza vorrebbe che Renzi si dimettesse», anche perché qualsiasi interlocutore potrebbe dirgli: «Ma tu chi rappresenti e a nome di chi tratti?». Conclude Giannuli: «Cuperlo ha giustamente detto che il Pd non è una caserma. Infatti: è una casa di tolleranza con una maitresse autoritaria».Renzi o non Renzi, con il Pd non ci si annoia mai. Puoi pensare che questa volta abbia superato ogni limite e invece no: la prossima volta andrà oltre. «Una delle cose per cui non finirà mai di stupirmi – dice Aldo Giannuli – è l’autolesionismo accoppiato all’assoluta incompetenza quando si parla di leggi elettorali». Nel 1993, l’allora Pds sognò di fare il “colpo grosso” e andare al governo per la liquefazione dei partiti di centro seguita a Mani Pulite. Ma, siccome sapeva di non avere i consensi necessari, fece ricorso all’ortopedia elettorale del maggioritario, così da trasformare in una maggioranza assoluta di seggi la sua maggioranza relativa di voti. Solo che non calcolò che un sistema maggioritario, all’epoca, «avrebbe cancellato i partiti ma solo per aprire la porta ad un populismo plebiscitario contro il quale non era affatto attrezzato». Dettaglio: un certo Berlusconi, proprietario della televisione commerciale, era già pronto a cavalcare l’onda populista scatenata dai suoi telegiornali.
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No-Euro: un italiano su due boccia la moneta della Bce
«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.“Scenari economici” mostra l’inesorabile progressione dell’opposizione all’euro: ad aprile 2013, il centrodestra era schierato al 68% contro la moneta di Francoforte, mentre a ottobre la quota dei contrari è salita al 76%. Percentuali analoghe a quelle dei “grillini”, mentre il centro – Monti e Casini – resta ancorato alla valuta della Bce, anche se in modo più tiepido (dal 94 si passa all’83%), mentre il consenso verso l’euro cresce solo nel centrosinistra, che passa dall’89 al 90%. La bocciatura dell’euro diventa definitiva nella terza tornata di sondaggi, effettuata lo scorso dicembre. Un italiano su due (il 49%) si dichiara «favorevole alla reintroduzione di una valuta nazionale al posto dell’euro». Postilla: occorre ovviamente affiancare questo processo «con il ripristino della Banca d’Italia come prestatore d’ultima istanza, al fine di calmierare i tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico italiano». Era solo la fine del 2011 – due anni fa – e proprio l’alibi dello spread aveva spianato la strada a Mario Monti ed Elsa Fornero, saliti al potere per “rimettere in ordine in conti”, come se lo Stato fosse un’azienda privata.Un po’ è davvero così, da quando la repubblica italiana ha perso il suo “bancomat” istituzionale, la Banca d’Italia, come finanziatrice “illimitata” del governo, attraverso il Tesoro, grazie alla “privatizzazione” del debito a vantaggio della finanza privata. Poi, con l’euro, il definitivo ko: l’impossibilità tecnica di risalire la china, emettendo moneta come fa il resto del mondo, fino al caso-limite del Giappone il cui debito raggiunge il 250% del Pil senza timore di attacchi speculativi: gli “squali” sanno benissimo che la banca centrale di Tokyo sarebbe in grado in qualsiasi momento di sostenere il debito con emissione di valuta sovrana a costo zero. All’Italia invece è stata inferta la peggiore delle terapie: tagli su tagli, col pretesto neoliberista di dover eliminare il debito (cioè il motore economico dello Stato e quindi dell’economia privata), fino alla tagliola del Fiscal Compact e al delirio puro del pareggio di bilancio inserito in Costituzione dalle “anime morte” del Parlamento, ipnotizzate dal referendum permanente su Berlusconi. Risultato finale, meno servizi e più tasse: senza più disponibilità monetaria, lo Stato è costretto a dipendere dal denaro che riceve dai cittadini, sotto forma di imposte e bollette.Silenzio totale, sull’euro, anche da Confindustria e dagli stessi sindacati: nessuna analisi approfondita sulla crisi, nessuna soluzione alternativa, nessuna proposta. Micidiale, su questo fronte, il black-out dei media: per giornali e televisioni, l’euro è stato un sostanziale tabù, un dogma intoccabile. Ed eccezione della Lega Nord – ferma comunque ai soli slogan – il grande silenzio ha allineato tutti i partiti, a cominciare dal Pd, mentre l’ostilità verso l’euro affiora a tratti nella “pancia” del centrodestra e tra i grillini, anche se Grillo – anche nel V-Day di Genova – sulla moneta unica si è limitato a proporre un semplice referendum. La rilevazione di dicembre effettuata da “Scenari economici” parla da sola: l’euro “resiste” solo nel centrosinistra e viene travolto sia dal centrodestra (77%) che dal M5S (73%) e dall’area del non-voto (58%). Il partito virtuale No-Euro vince al nord con 8 punti di scarto e al centro-sud con 4 punti, mentre nelle “regioni rosse” si ferma al 43%, contro un 50% di “fedelissimi” pro-euro. In caso di elezioni, se ci fosse «una formazione fortemente anti-euro», Forza Italia potrebbe perdere quasi l’8% dei suoi elettori (e Grillo il 6,7%), mentre centro e centrosinistra manterrebbero quasi invariato il proprio bottino elettorale. A conti fatti, già oggi una lista anti-euro varrebbe almeno il 24% dei consensi – un italiano su quattro – ma la percentuale potrebbe più che raddoppiare: si ottiene addirittura il 56% dei consensi, sommando i contrari all’euro e la quota di italiani disponibili a “prendere in considerazione” l’ipotesi di votare un partito capace di dire no alla moneta della Bce.Le elezioni europee – maggio 2014 – potrebbero rivelarsi un vero e proprio referendum sull’attuale Unione Europea a guida tedesca e sul suo strumento principale di potere, l’Eurozona: «Sovranità monetaria, svalutazione, parametri di Maastricht, Fiscal Compact, politiche di austerity, vincoli di bilancio e rapporti con la Germania – sottolinea “Scenari economici” – saranno temi che verranno discussi ed approfonditi durante la campagna elettorale, e molti cittadini potrebbero votare in modo diverso rispetto ad una consultazione per il Parlamento italiano». Cresce il desiderio di tornare alla sovranità monetaria, individuata come toccasana per difendere il bilancio statale e quindi il benessere della comunità nazionale: il ritorno a una lira garantita dalla Banca d’Italia piace «non solo tra gli elettori del centrodestra e del “Movimento a 5 Stelle”, ma anche nell’area degli indecisi e del non-voto». A favore della “permanenza nell’euro” resta invece «granitico» l’elettorato del Pd, e a livello di categorie i favorevoli alla moneta “ammazza-Italia” «sono maggioritari unicamente tra pensionati e dipendenti pubblici».«Euro? No, grazie». Gli italiani – in maggioranza, ormai – bocciano la moneta unica europea. Lo rivela un sondaggio proposto da “Scenari economici” a un campione di 2.400 persone, che include ogni categoria sociale e produttiva, da nord a sud, e tutte le principli fasce di età. Contro l’euro soprattutto il settentrione e gli elettori del centrodestra e del “Movimento 5 Stelle”, compresi fra i 30 e 59 anni: operai, casalinghe, disoccupati, artigiani e lavoratori autonomi. Cioè l’Italia che – più di ogni altra – subisce la devastazione socio-economica della grande recessione: tagli ai salari e alle pensioni, enti locali senza più soldi per scuola, sanità e assistenza, crisi del credito e dei consumi, fatturati a picco, chiusure e licenziamenti, erosione dei risparmi, inaudito inasprimento fiscale. Risultato: a pochi mesi dalle europee, il partito “No-Euro” raccoglie già il 24% di voti “sicuri”, mentre un altro 32% ammette: «Prenderei in considerazione l’ipotesi di votarlo». Il restante 44%, quello dei “fedeli” alla moneta della Bce, corrisponde alla roccaforte storica del centrosinistra, quella delle regioni “rosse”.
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Lira più euro: terza via, per evitare la morte dell’Italia
Mantenere lo scudo dell’euro come valuta internazionale di scambio, ma tornare subito alle monete sovrane nazionali: è l’unica via per salvare l’economia dei paesi rovinati dalla moneta unica europea, cioè tutti tranne la Germania. Per Enrico Grazzini, si tratta semplicemente di recuperare lo storico progetto del Bancor, avanzato da Keynes a Bretton Woods. Prima, però, le forze politiche devono capire – una volta per tutte – che l’attuale euro-sistema non è che sia “in crisi”: al contrario, è stato progettato esattamente per funzionare così, cioè premiando solo i tedeschi a danno di tutti gli altri. Obiettivo finale evidente: indebolire l’Europa sulla scenario geopolitico. «Oggi perfino Romano Prodi, l’uomo politico che ha fatto entrare l’Italia nell’euro, riconosce che l’Europa è un disastro, una minaccia». La Germania «impone all’Europa una sorta di nuovo Trattato di Versailles». Neoliberismo sfrenato, estremistico. Risultato: milioni di famiglie sul lastrico, aziende in crisi, catastrofe sociale ed economica.Innanzitutto, scrive Grazzini su “Micromega”, occorre «riconoscere che questa Ue è diventata esattamente il contrario di quella auspicata dai padri costituenti». Ovvero: «Non è più un progetto di libertà, di democrazia, di cooperazione e di pace tra i popoli, ma il preciso disegno di centralizzare rigidamente l’economia dei paesi europei sotto la guida tedesca per imporre politiche neoliberiste di smantellamento delle economie nazionali a favore del capitale del nord Europa, Germania in testa». La dimostrazione più recente del miope disegno egemonico tedesco? «E’ il progetto fasullo di “unione bancaria”», appena approvato dai ministri delle finanze dell’Unione. Grazie all’intervento del tedesco Wolfgang Schäuble, che ha rifiutato ogni meccanismo di mutualizzazione dei rischi con copertura di fondi pubblici, il progetto peggiora drasticamente la situazione: «I privati (azionisti, obbligazionisti e i correntisti con più di 100.000 euro) si faranno carico in prima persona delle difficoltà delle banche in crisi, poi interverranno i fondi nazionali creati grazie a nuove tasse da applicare alle banche stesse, e infine tra dieci anni interverrà anche in ultimissima istanza un minuscolo fondo europeo sempre di origine bancaria».In questo modo, cioè «senza alcuna copertura pubblica di livello europeo», secondo Grazzini «appena una banca sarà percepita come in difficoltà, i correntisti, gli azionisti e gli obbligazionisti fuggiranno, creando una spirale perversa di fuga. Il caso Cipro insegna». Così, in modo deliberato, «si incentiva il meccanismo di panico che condanna le banche dei paesi deboli a vantaggio delle banche dei paesi forti». Wolfgang Münchau, prestigioso editorialista del “Financial Times”, considera l’accordo per unione bancaria «un esercizio per prolungare il congelamento del credito bancario» in Europa. Con questo accordo – che secondo Münchau non avrebbe dovuto neppure essere siglato dai governi dell’Eurozona, come del resto anche quello del Fiscal Compact, perché è suicida – i governi del sud Europa «si sottomettono senza condizioni ai desiderata tedeschi». Sicché, l’unione bancaria «rischia di diventare un boomerang pericolosissimo e di fare precipitare le crisi bancarie».Anche le cosiddette “riforme strutturali” peggioreranno ulteriormente la situazione, continua Grazzini. La neoeletta premier Angela Merkel vuole imporre il suo progetto di austerità grazie ad accordi di programma per rendere “più competitiva” l’Europa – con lo smantellamento della sanità, dell’istruzione, la drastica compressione degli interventi pubblici, dei salari e delle pensioni, la diminuzione delle tasse per le corporations. «Gli accordi per le dolorose riforme strutturali, impopolari e del tutto inutili, verranno addirittura finanziati dalla Ue. Chi però non farà i “compiti a casa” andrà incontro a sanzioni automatiche imposte dalla Ue e dalla Troika – Ue, Bce, Fmi. In questa maniera si vuole imporre la sottomissione dei paesi europei». Di fronte a questo, si erge un ostacolo scoraggiante: la totale inconsistenza della politica, che in Italia non ha ancora “capito” quello che sta succedendo. «Puntare a riformare l’Unione Europea cedendo ancora quote di sovranità in campo istituzionale, finanziario ed economico, costituisce un errore madornale: significa stringere la corda alla quale gli europei si sono impiccati».Il sistema dell’euro, aggiunge Grazzini, «non è riformabile in queste condizioni politiche e in tempi compatibili con l’avanzare della crisi e della disoccupazione». Ma purtroppo – ed ecco il nostro grande problema – sembra che il ceto politico dirigente della sinistra «non sia all’altezza di comprendere la nuova realtà». Vendola «sogna ancora gli eurobond e la mutualizzazione dei debiti», e punta ad aderire (ancora senza risposta) al gruppo dei partiti socialisti europei che, a suo tempo guidati da Tony Blair e Gerhard Schröder, sono proprio quelli che più di altri «hanno promosso la deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro». A sinistra di Sel, anche in Italia si tenta coraggiosamente di creare una lista di sostegno ad Alexis Tsipras, il dirigente di Syriza candidato della sinistra radicale europea alla presidenza della Commissione Ue. «Il gruppo della sinistra europea di opposizione è molto più realistico e critico verso l’euro, la Ue e le larghe intese italiane, tedesche e greche. Tuttavia anche la sinistra europea sembra orientata a mantenere la moneta unica, ovviamente riformata».Così però l’opposizione alla politiche di austerità potrebbe diventare poco credibile agli occhi di una opinione pubblica sempre più esasperata dalla crisi, obietta Grazzini. «Beppe Grillo e il “Movimento 5 Stelle” attaccano frontalmente la Ue e l’euro ma poi non sanno ancora quale soluzione realmente proporre, a parte il referendum: in effetti il M5S sembra sicuro che prima o poi l’euro si spaccherà e che l’Italia sarà comunque costretta a uscire dalla moneta unica». Il grande pericolo è che «mentre la sinistra non capisce il dramma in cui si sta ficcando l’Europa – e, anche quando è al governo, come in Francia, fa infuriare la sua base elettorale popolare imponendo tagli al welfare e al lavoro – la destra, e soprattutto la destra estrema, quella peggiore e razzista, guadagna milioni di voti protestando contro l’euro e il capitalismo finanziario». Scenario prevedibile: «Silvio Berlusconi e Matteo Salvini punteranno astutamente la loro campagna elettorale soprattutto contro l’euro. Non è difficile ipotizzare che grazie alla protesta contro l’euro e le tasse potrebbero rivincere le elezioni. E’ quindi urgente che la sinistra riconosca finalmente che questa Ue e questo euro non hanno sbocco».Per Grazzini, l’unica soluzione è il ritorno – immediato – alla sovranità monetaria. Per evitare un’uscita improvvisa dall’euro, che secondo l’analista metterebbe ulteriormente a rischio le nostre disastrate economie, basterebbe mantenere anche l’euro «come moneta comune di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro e lo yen». Un po’ come il Bancor di Keynes. Il recupero della sovranità monetaria? «E’ ovviamente un’operazione non facile, ma sarebbe meno dolorosa che continuare su questa strada senza sbocchi dell’euro attuale». La Germania ovviamente si opporrebbe. Ma poi, rinunciando all’euro come moneta unica, «non dovrebbe più temere di pagare per le altre nazioni, e l’opinione pubblica europea ne sarebbe felice». In sostanza, «si tratterebbe di convenire un sistema di cambi fissi aggiustabili tra le monete nazionali, avendo come riferimento l’euro come moneta comune (l’euro-lira, l’euro-marco, l’euro-peseta)». La Germania «potrebbe così ritornare al suo beneamato marco gestito dalla arcigna Bundesbank», ma anche gli altri paesi europei «potrebbero ritrovare la loro autonomia in campo economico».Si tratta di una soluzione decisiva e risolutiva, perché «i paesi più deboli potrebbero inizialmente svalutare la loro moneta per riequilibrare la bilancia dei pagamenti, rilanciare l’occupazione e ridurre i debiti, e i governi europei potrebbero decidere politiche espansive per uscire dalla crisi e abbassare il rapporto debito-Pil». Moneta sovrana: benzina necessaria per uscire dalla gabbia dell’euro, che produce soltanto la tragica spirale di contrazioni – consumi, redditi, credito – nella quale stiamo precipitando. Grazzini vede strategico, di fronte a un simile scenario, il ruolo della futura Bce: la banca centrale farebbe da «camera di compensazione per le transazioni europee», come la Clearing Union progettata da Keynes, e metterebbe in piedi un meccanismo per penalizzare «sia i paesi con eccessivi surplus commerciali – come la Germania – che quelli con deficit strutturali delle bilance commerciali, come l’Italia e i paesi del sud Europa». Deficit e surplus sarebbero tassati in proporzione alla loro dimensione e alla loro durata. Obiettivo: «Ridurre le posizioni creditrici e debitrici della bilancia dei pagamenti, fino ad ottenere tendenzialmente un saldo zero».Quello è ovviamente il punto contro cui la Germania «sparerebbe a zero». Ma, grazie al meccanismo di compensazione con penalità simmetriche, «il commercio nell’area euro potrebbe aumentare in maniera equilibrata per tutti». Il nuovo euro, insomma, «funzionerebbe come una unità di conto», proprio come il Bancor di Keynes, e «non come riserva di valore». Sarebbe una “moneta virtuale” e un “paniere” delle monete nazionali europee. «La valuta comune sarebbe gestita dalla Bce e utilizzata per tutte le operazioni con i paesi extraeuropei», con l’impegno a mantenere tassi finanziari stabili. Il “nuovo euro” «rappresenterebbe la barriera comune di fronte alla speculazione del mercato monetario internazionale: questo sistema garantirebbe la necessaria flessibilità interna e la stabilità monetaria verso il resto del mondo, dal momento che un “paniere di valute” è certamente più stabile di una moneta unica».Secondo analisti come Daniela Palma e Guido Iodice, questo tipo di “euro del futuro” «salva il mercato unico e la possibilità di una costruzione politica più solida dell’Unione Europea». Inoltre, la “moneta virtuale europea” «non richiede trasferimenti fiscali o unificazioni dei debiti dei singoli Stati, superando le principali obiezioni oggi poste alle soluzioni di tipo “federale”». Enrico Grazzini torna a rivolgersi direttamente alla politica, cioè all’unica leva democratica a nostra disposizione per tentare di salvare l’economia dall’euro-catastrofe: «Perché le forze della sinistra europea e il “Movimento 5 Stelle” non propongono questa soluzione?». Già, perché? Persino Prodi, massimo “padre” dell’euro, oggi si mostra “pentito” e propone un asse con Francia e Spagna per fronteggiare la Germania. Ma senza ancora riconoscere che il passaggio obbligato resta quello del ritorno alla moneta sovrana, a disposizione dello Stato (e senza limiti) per affrontare le emergenze e dare ossigeno all’economia.Mantenere lo scudo dell’euro come valuta internazionale di scambio, ma tornare subito alle monete sovrane nazionali: è l’unica via per salvare l’economia dei paesi rovinati dalla moneta unica europea, cioè tutti tranne la Germania. Per Enrico Grazzini, si tratta semplicemente di recuperare lo storico progetto del Bancor, avanzato da Keynes a Bretton Woods. Prima, però, le forze politiche devono capire – una volta per tutte – che l’attuale euro-sistema non è che sia “in crisi”: al contrario, è stato progettato esattamente per funzionare così, cioè premiando solo i tedeschi a danno di tutti gli altri. Obiettivo finale evidente: indebolire l’Europa sulla scenario geopolitico. «Oggi perfino Romano Prodi, l’uomo politico che ha fatto entrare l’Italia nell’euro, riconosce che l’Europa è un disastro, una minaccia». La Germania «impone all’Europa una sorta di nuovo Trattato di Versailles». Neoliberismo sfrenato, estremistico. Risultato: milioni di famiglie sul lastrico, aziende in crisi, catastrofe sociale ed economica.
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Renzi, il Pieraccioni della politica che rottamerà l’Italia
Non è semplice capire come nasca Matteo Renzi, ora alla guida del Pd: di certo è «il punto terminale di un tragitto costellato di vicende delle quali sono stati protagonisti, comprimari o comparse vari personaggi, figure e figuri, ora semplicemente inetti, ora più o meno squallidi, talvolta peggio». Per Angelo d’Orsi, quella dell’8 dicembre 2013 resterà una data storica, destinata ad avere riflessi decisivi sulla scena nazionale. Con Renzi si sarebbe infatti ultimata «la mutazione genetica del “partito della classe operaia”», quello che ha guidato l’opposizione al fascismo prima e la Resistenza al nazifascismo dopo, il partito «che più di ogni altro ha contribuito alla identità della Repubblica a cominciare dalla stesura della sua Carta costituzionale». Il Pci, difensore dei ceti subalterni e grande argine contro le derive autoritarie, da quelle della Dc all’autismo terrorista delle Br. A finire per sempre, con Renzi, sono i resti di un partito che ha saputo forgiare «una onesta classe dirigente democratica».Ora la “mutazione antropologica” è arrivata alla meta. Nel 2000, Vetroni proclamava: «Non siamo più a metà del guado, la nostra traversata è compiuta. Gramsci non ci appartiene più: siamo arrivati a Rosselli». Ride amaro, d’Orsi, su “Micromega”: «Al di là dell’ignoranza del poveretto (nel ‘37, quando morirono entrambi, variamente uccisi dal fascismo, Rosselli era, in certo senso, persino più a sinistra di Gramsci!), non c’è dubbio che Gramsci non appartenga più ai suoi pretesi eredi: e per fortuna! Del partito di Gramsci (e di Bordiga, non dimentichiamolo!), di Togliatti, di Berlinguer, nel Pd che oggi viene consegnato, a furor di popolo, all’oscuro Matteo Renzi, non rimane alcunché. La “trasformazione” è compiuta». Ora, ovviamente, si provvederà alla “rottamazione”, «in nome di inquietanti e ambigue parole d’ordine che richiamano il giovanilismo fascistoide, ma anche il “novitismo” dei forzitalioti, e di tutti i loro sodali politici, e dei loro tristi ideologi che per decenni hanno cantato le lodi del cambiamento: oggi, ricordiamolo, la destra è per il cambiamento».È una destra all’attacco, sottolinea d’Orsi. «Con vesti diverse, ma la sostanza è la stessa: cancellare il Welfare State, rimovendo ogni ostacolo sul cammino che conduce a tanto nobile obiettivo: e la Costituzione è l’ostacolo n. 1». Dopo la svolta «nefasta» della Bolognina guidata «dall’improvvido nocchiero Achille Occhetto» con il «grottesco abbraccio con i resti della Dc e le frattaglie residue del Psi», per d’Orsi la creazione del Pd è stata «l’esito di un processo di metamorfosi il cui risultato estremo, dopo gli ulteriori guasti compiuti da D’Alema, Fassino, Veltroni (soprattutto), Bersani e l’imbarazzante, ultima gestione di Epifani, è il Pieraccioni della politica, il berluschino Renzi». Il rottamatore: «Che vincesse era scontato, che stravincesse no». Nel suo trionfo hanno giocato «le miserie della classe politica, specie quella nuova del Pd» e i tumultuosi cambiamenti della politica, sempre all’insegna della “modernizzazione”.Quelli di Renzi è «populismo di tipo modernizzatore, a differenza di quello volgare di un Grillo (ma la sostanza non cambia)». Il sindaco di Firenze è il megafono della Confindustria su tutte le questioni chiave: economia, scuola, diritti del lavoro, welfare, immigrazione, sistema elettorale (maggioritario). «In realtà Renzi di programmi non ne ha: parla molto per non dire nulla, ma quel nulla lo dice bene, in modo che piaccia al suo popolo, ma non dispiaccia ai ceti dominanti e alle loro agenzie di comunicazione», continua d’Orsi. «Il suo è “lo smalto sul nulla”, per citare un verso di Gottfried Benn». Alla sinistra che non l’ha votato, resta una misera consolazione: la consapevolezza che solo dalla catastrofe si può sperare di risorgere.Non è semplice capire come nasca Matteo Renzi, ora alla guida del Pd: di certo è «il punto terminale di un tragitto costellato di vicende delle quali sono stati protagonisti, comprimari o comparse vari personaggi, figure e figuri, ora semplicemente inetti, ora più o meno squallidi, talvolta peggio». Per Angelo d’Orsi, quella dell’8 dicembre 2013 resterà una data storica, destinata ad avere riflessi decisivi sulla scena nazionale. Con Renzi si sarebbe infatti ultimata «la mutazione genetica del “partito della classe operaia”», quello che ha guidato l’opposizione al fascismo prima e la Resistenza al nazifascismo dopo, il partito «che più di ogni altro ha contribuito alla identità della Repubblica a cominciare dalla stesura della sua Carta costituzionale». Il Pci, difensore dei ceti subalterni e grande argine contro le derive autoritarie, da quelle della Dc all’autismo terrorista delle Br. A finire per sempre, con Renzi, sono i resti di un partito che ha saputo forgiare «una onesta classe dirigente democratica».
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Macché Renzi, la carta di Napolitano si chiama Draghi
Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».Quindi, prima ancora di vedersela con gli elettori italiani e con «il prossimo burattino di Berlusconi, si tratti di un figlio o di un altro figlioccio», il nuovo segretario del Pd «si troverà davanti uno scenario prefabbricato, puntellato da soluzioni imprescindibili ed impegni ineludibili e già sottoscritti, rispetto ai quali non avrà nessun potere decisionale», scrive Petrosillo in un post su “Conflitti e Strategie”, ripreso da “Come Don Chisciotte”. In altre parole, il futuro segretario Pd «non potrà mettere becco in niente e dovrà limitarsi ad amministrare l’esistente, cioè la devastazione e la desolazione totale». Perché «l’uomo del miracolo», al contrario, cioè «il profeta che sta per approdare sulle nostre coste, ha il nome di un mostro mitologico che sputa fuoco e prescrizioni dell’Ue». A lui, l’uomo che cena a casa di Eugenio Scalfari in compagnia di Letta e dell’uomo del Colle, «toccherà il compito di ingabbiare la nazione secondo i diktat di Bruxelles e di svendere il patrimonio pubblico secondo dettami che provengono da molto più lontano».Il super-curriculum del presidente della Bce «è garanzia di servilismo e sottomissione ai nostri tradizionali padroni, continentali e soprattutto extracontinentali», sostiene Petrosillo, alludendo evidentemente al ruolo-chiave di Draghi all’epoca delle grandi privatizzazioni degli anni ’90 pianificate con la lobby britannica degli “Invisibili” e poi il ruolo di stratega della Goldman Sachs e privatizzatore del sistema bancario italiano. «Tra qualche giorno si aprirà ufficialmente la crisi e i draghi invaderanno i nostri cieli per toglierci tutto quello che abbiamo», continua Petrosillo. «Questa non è una profezia, questa è la soluzione pro-zio-Sam trovata dal nostro sovrano Napolitano». Fantapolitica? «Può essere, ma è sempre meglio farsi trovare preparati dopo quanto successo in questi ultimi miserabili vent’anni». Questa volta «potrebbe trattarsi dell’assalto finale alla nostra sovranità nazionale», ovvero «pene nuove, che si assommano a dolori atavici».Non fatevi incantare dal talent show per la scalata del Pd: nessuno dei partecipanti ha il cosiddetto x factor. Uno dei tre moschettieri, quasi certamente Renzi, riuscirà a conquistare il partito. Ma per andare al governo dovrà attendere il 2015. Non perché Letta reggerà fino a quel momento. Ma proprio perché Letta, «come il latte, è già scaduto». Mentre alle sue spalle «s’avanza un altro bidone di latta e di governo, con la convocazione del Quirinale in tasca». Secondo Gianni Petrosillo, «sta per rientrare dall’estero il miglior fusto made in Italy che c’è in circolazione», ovvero Mario Draghi. Napolitano? «Tirerà presto fuori questo coniglio dal cilindro, per saldare definitivamente i pezzi del suo piano», che dopo la decadenza di Berlusconi ha di fronte una vistosa accelerazione. Infatti, la maggioranza in Parlamento è cambiata: i numeri più risicati «richiedono l’investitura di un condottiero di maggior spessore e prestigio». Meglio: «Un portatore di grandi interessi internazionali (tanto di cerchie finanziarie che di potenze globali) ai quali deputati e senatori non possono opporsi». Letta? «Non è adatto alla nuova “impresa”».
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Potere massonico: Silvio e Giorgio, affinità e fratellanza?
«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».Se di Berlusconi si ricorda l’iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli nel 1978, da cui poi proseguì «il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990», con accanto Marcello Dell’Utri – sempre secondo Magaldi – per tessere la rete di relazioni alla base di Forza Italia, per Pinotti e Santachiara è «molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano», come affermano nel loro libro, di cui “Affari Italiani” pubblica un’anticipazione. «È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un “fratello”». Dichiarazioni certamente insufficienti, ammettono i due giornalisti, intenzionati ad “approfondire” il tema con «un’autorevole fonte», che però «ha chiesto di rimanere anonima». Si tratta di «un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti». L’avvocato sarebbe «figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Secondo il legale, già il padre di Napolitano è stato «una delle figure più in vista della massoneria partenopea».Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la “fratellanza”? «A rafforzare la connotazione “muratoria” dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica», scrivono Pinotti e Santachiara. «Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste». Certo, il legame massonico «rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce». Modalità che «è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale». Per molti aspetti, sostiene la “fonte” dei due reporter, «Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone», ed è stato il politico più decisivo nell’imporre in Europa sia il regime dell’euro che l’asfissia del rigore come “virtù” neoliberista, oggi simboleggiata dal tetto del 3% deficit-Pil per la spesa pubblica. Un vincolo fatale, che sta mettendo in croce le democrazie europee e demolendo il nostro tessuto socio-economico.Sempre secondo l’anonimo avvocato napoletano citato da Pinotti e Santachiara, la visione di Napolitano è identica a quella della “république” incarnata da Mitterrand, «un monarchico travestito da socialista» secondo un ex consulente dell’Eliseo come l’economista Alain Parguez, nemico giurato dell’euro-regime di Bruxelles. «L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi», continua “l’avvocato”. «Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto». La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso l’attuale presidente della Repubblica, sostengono i due autori del libro. «Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza». Il 10 maggio 2006, dopo la prima elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese», ed esprimeva felicitazioni «a nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia».Stesso entusiasmo nel marzo del 2010, per la rielezione di Napolitano al Quirinale, di fronte all’agonia del Parlamento tramortito dall’exploit di Grillo dopo la micidiale “cura dimagrante” affidata a Monti e Fornero. E il 13 giugno 2010, lo stesso Raffi si è spinto «sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata», nella trasmissione Rai “In mezz’ora”. Domanda: «Napolitano potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?». Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aggiungono Pinotti e Santachiara, si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».