Archivio del Tag ‘fisco’
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Sapir: aprite gli occhi, l’euro sta portando l’Europa in guerra
Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.«La Francia – scrive Sapir, in un post ripreso da “Vox Populi” – resta il solo paese in cui l’omertà dell’Ump e del Ps ha strozzato il dibattito», fondamentale per il futuro dell’Europa, «le cui tinte stanno diventando sempre più fosche a causa dell’esistenza dell’euro». Non è solo una questione economica o finanziaria, continua Sapir: non si sono mai viste né un’ampia unione di trasferimenti, né un’unione fiscale e men che meno un’unione sociale, «che avrebbero dovuto essere realizzate se si fosse voluto che l’euro avesse successo». Di tutto questo, «tutti i popoli dell’Unione economica e monetaria ne stanno ora pagando il prezzo». Ma quella dell’euro è anche e soprattutto una questione politica: «Avendo preteso – certamente a torto – che l’euro rappresentasse il completamento dell’Unione Europea, ora le classi dirigenti dei paesi membri sono terrorizzate dalla prospettiva di un suo fallimento, di cui perfino i più cocciuti tra loro iniziano a rendersi conto, e dalle conseguenze politiche che ne deriveranno».Credono che la fine dell’euro significherebbe la fine dell’Europa? «Non si rendono conto che è l’esistenza stessa dell’euro a sollevare un popolo contro l’altro, a far rivivere i vecchi antagonismi, ad aver fatto della guerra economica tra i paesi membri la normalità quotidiana, finché il conflitto militare, cosa che oggi è da temere, non arrivi a sostituirsi a questo conflitto economico». L’euro, continua Sapir, «distrugge i singoli paesi membri anche mettendo i lavoratori contro altri lavoratori, inventando nuove divisioni tra chi si avvantaggia dell’euro (in realtà una piccola minoranza) e chi invece vede la sua vita e il suo lavoro distrutti dall’euro, ed è questa ormai la realtà quotidiana per una maggioranza». Apriamo gli occhi, insiste Sapir: «La realtà è che l’euro ha distrutto l’Europa: non solamente le sue strutture istituzionali, che sarebbe dopotutto il male minore, ma anche le sue radici politiche e culturali. L’euro è la guerra. Ed è per questo che la dissoluzione dell’Eurozona non è solamente un obiettivo economico desiderabile, ma anche un’urgenza politica del nostro tempo».Gettare l’euro nella spazzatura della storia. Lo chiede a gran voce il partito euroscettico tedesco “Alternative für Deutschland”, che dopo le ultime elezioni è entrato nelle assemblee locali di molti länder tedeschi. In allarme per le reazioni anti-tedesche in tutta Europa, nel suo recente memorandum sulla questione della Grecia, Afd si pronuncia a favore di un’uscita di Atene dall’Eurozona e per uno smantellamento generale di quest’ultima. I problemi di competitività dei paesi membri dell’area euro? Irrisolvibili, se non si possono svalutare le monete rispetto a quelle di economie più competitive. Afd, rileva l’economista francese Jacques Sapir, sottolinea infine come le cosiddette strategie di “svalutazione interna” si siano dimostrate disastrose da un punto di vista sociale, oltre che inefficaci: hanno infatti gettato più di mezza Europa in una trappola di “euro-austerità”. Oltre a Afd, in Germania ne parla anche una parte della Linke, legata a Oskar Lafontaine, mentre in Italia si segnalano voci no-euro come quelle di Stefano Fassina, esponenti di Forza Italia e del M5S, in linea col dibattito critico in corso anche in Olanda e in Spagna.
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
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Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali
Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.«La crisi finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro», scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi».Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi, i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non raccontino quello che sta davvero succedendo.Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
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Da Moro a Renzi, la democrazia italiana chiude i battenti
Forse qualcuno non si è ancora accorto che il diritto rappresentativo democratico, affermatosi nell’Italia repubblicana dal dopoguerra, si sta polverizzando sotto i nostri occhi, frantumato dal revisionismo costituzionale «in atto da diverso tempo, ma ora arrivato tragicamente alle ultime battute d’arresto», grazie al «golpe finanziario euroatlantico». E’ appena accaduto «qualcosa di assolutamente inedito negli ultimi 70 anni di storia repubblicana», scrive Rosanna Spadini: nella notte del 13 febbraio 2015 «un governo ha modificato la Costituzione unilateralmente». Ovvero: un gruppo di parlamentari “nominati”, «pur non avendo avuto la maggioranza alle ultime elezioni, ma avendola ottenuta solo in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale», ha modificato la Costituzione «asfaltando in un solo colpo la democrazia». Il “golpe notturno” è stato eseguito «in apnea di democrazia», da un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte. La Costituzione? Ormai «obsoleta e superflua», un intralcio al profitto dei bankster. Con Renzi, va a segno il piano antidemocratico nato trent’anni fa.Il “Porcellum”, osserva la Spadini su “Come Don Chisciotte”, è una legge ancor più devastante dei diritti di rappresentanza democratica della Legge Acerbo imposta da Mussolini. «Infatti non c’è nemmeno bisogno del 25% dei voti per ottenere il premio di maggioranza: chi arriva primo fra le varie liste e coalizioni, quale che sia la percentuale, ottiene la maggioranza di 340 seggi a Montecitorio». Di qui la tendenza alla formazione di “larghe intese”, «sottoposte al ricatto». La riforma del Senato promossa dal governo Renzi, poi, «prevede la fine del bicameralismo perfetto e l’abolizione del Senato elettivo, sostituito con una Camera composta da consiglieri regionali e sindaci e ridotta da 315 a 100 membri». Il nuovo Senato non voterà più la fiducia al governo, né gli sarà consentito di legiferare (tranne che su alcuni temi: riforme costituzionali e trattati internazionali). Di fatto, l’abolizione del Senato elettivo «sospende il diritto repubblicano e si inserisce in una fase di “anomalia legislativa”», inaugurando la transizione «da un regime rappresentativo, espressione dialettica tra i vari gruppi sociali e politici, a uno autocratico, che tende ad semplificare i metodi deliberativi, per imporre la volontà esclusiva di gruppi di potere oligarchico».La logica, sintetizza Spadini, non è più quella della collaborazione e del compromesso, di conciliazione delle diverse istanze, ma espressione della richiesta di più spedita efficienza del processo deliberativo, inteso come mera applicazione di una volontà autocratica. «Le ultime riforme previste dunque prevedono una riduzione ulteriore dei poteri democratici del Parlamento attraverso la trasformazione di un ramo delle Camere, da organo legislativo a pieno titolo a mera funzione di collegamento tra Stato ed enti locali». Questo, assieme alla nuova legge elettorale (con ampio premio di maggioranza al partito più votato), «assegnerà più potere alle maggioranze e ai governi, indebolendo invece il Parlamento e le opposizioni». Un uomo solo comando, non eletto da nessuno: Renzi, il maggiordomo dei poteri forti che «sta rottamando la democrazia», in una situazione «molto vicina al colpo di Stato». Il problema? Salvare la Costituzione, prima che gli italiani diventino definitivamente sudditi senza più diritti. «Eroe del populismo postmoderno», Renzi finora è stato «un abile impresario politico della virtualità rassicurante, un valido affabulatore della narrazione neoliberista blairiana», idolatrato da elettori raggirati e destinati «a un’esistenza di precariato professionale perpetuo».Certo, ammette Spadini, il “golpe” viene da lontano, «e fu segnato da passaggi chiave nella storia economico-politica italiana». L’assassinio di Moro, nel maggio 1978, «serviva per impedire la partecipazione dei comunisti al governo, evento traumatico per gli Usa», ma «giovò anche al progetto dell’area valutaria europea». Infatti, «nel marzo del ’79 ci fu l’incriminazione del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, il quale poi, benché prosciolto da tutte le accuse, dovette dimettersi». Subito dopo, il capo del governo Giulio Andreotti ufficializzerà l’entrata dell’Italia nello Sme. «Nel 1981, con l’accordo Ciampi-Andreatta, verrà sancito il cosiddetto “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro, dando inizio così all’impennata dell’aumento degli interessi sul debito pubblico». Nel ’92 poi si aprì la stagione di Mani Pulite, una “rivoluzione mediatico-giudiziaria” che avrebbe provocato la demonizzazione della classe politica dirigente della Prima Repubblica, «ovvero quella casta che, pur tra episodi di corruzione, aveva permesso la crescita economica e l’aumento dei salari». A seguire, il primo processo di liberalizzazioni e privatizzazioni. «Infine le dimissioni di Berlusconi nel 2011, pilotate dalla Bundesbank, provocarono il succedersi dei governi Monti, Letta e Renzi, non votati da nessuno, e il via libera per la strategia Usa di destabilizzazione del Medio Oriente, in un’ottica ostile alla Russia».Ora, continua Spadini, le famigerate e sbandierate “riforme” «transiteranno la società italiana verso un assetto sociale darwininiano, dove la distanza tra le classi si farà sempre più marcata», difendendo privilegi e «demolendo quel sistema di welfare che ha salvaguardato il benessere dei cittadini fino ad ora». Privatizzazioni, abbattimento dei diritti del lavoro, tassazione spietata sulle fasce più basse, riduzione degli ammortizzatori sociali e della pubblica amministrazione, limitazione della democrazia. «Renzi – scrive il “Daily Mirror”– è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma della Costituzione, del Senato, della Rai, del lavoro (Jobs Act), della pubblica amministrazione, della giustizia, della scuola, del sistema elettorale. «Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi, su suggerimento della banca d’affari Jp Morgan, che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici», conclude Spadini. «Benvenuti nel nuovo mondo dei licantropi, che praticano quotidianamente l’equilibrio funambolesco del potere, oscillante tra virtualità rassicuranti e rovine sociali».Forse qualcuno non si è ancora accorto che il diritto rappresentativo democratico, affermatosi nell’Italia repubblicana dal dopoguerra, si sta polverizzando sotto i nostri occhi, frantumato dal revisionismo costituzionale «in atto da diverso tempo, ma ora arrivato tragicamente alle ultime battute d’arresto», grazie al «golpe finanziario euroatlantico». E’ appena accaduto «qualcosa di assolutamente inedito negli ultimi 70 anni di storia repubblicana», scrive Rosanna Spadini: nella notte del 13 febbraio 2015 «un governo ha modificato la Costituzione unilateralmente». Ovvero: un gruppo di parlamentari “nominati”, «pur non avendo avuto la maggioranza alle ultime elezioni, ma avendola ottenuta solo in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale», ha modificato la Costituzione «asfaltando in un solo colpo la democrazia». Il “golpe notturno” è stato eseguito «in apnea di democrazia», da un Parlamento eletto in base a una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte. La Costituzione? Ormai «obsoleta e superflua», un intralcio al profitto dei bankster. Con Renzi, va a segno il piano antidemocratico nato trent’anni fa.
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Mosler: il Qe di Draghi toglie altri soldi all’economia reale
Superare l’odierna situazione di crisi è possibile, basterebbe semplicemente attuare una politica di espansione del deficit pubblico al fine di ridurre le tasse o di incrementare il livello degli investimenti effettuati dallo Stato nell’ambito dei servizi pubblici, oppure di promuovere un abbinamento di questi due obiettivi insieme, in modo da riuscire a ripristinare quelle condizioni di piena occupazione e di prosperità che erano già state conosciute dall’Italia in passato. Si tratta di traguardi molto facili da raggiungere, in realtà, visto che sarebbe sufficiente che il Parlamento votasse in favore di una politica fiscale espansiva. La difficoltà, però, consiste nell’arrivare alla comprensione che il passo giusto da compiere è questo, che i suoi effetti saranno quelli promessi e che tutto funzionerà come previsto. Bisogna che i politici esaminino più da vicino la Teoria della Moneta Moderna e magari s’incontrino con gli attivisti per capire come funziona l’economia, quale sia la causa reale della disoccupazione e cosa sia possibile fare per porre termine al fenomeno della disoccupazione e ripristinare la prosperità per tutti gli esseri umani.È completamente innaturale che persone che sarebbero capaci e disponibili a lavorare siano costrette ai margini della società poiché a loro è impedito di contribuire all’economia e al benessere della società. Si tratta di una situazione creata artificiosamente, per mezzo di politiche sbagliate, quindi è importante che la gente comprenda che bisogna votare per dei legislatori che capiscano che cosa fare e, in particolar modo, qual’è il passo avanti da fare onde invertire l’attuale stato di cose il prima possibile. I politici devono capire che cosa significhi il denaro – che si tratti di euro, lire, dollari, yen – come funziona la politica monetaria, che cosa succede operativamente quando lo Stato spende e quando lo Stato tassa, e quindi cosa avviene quando la spesa pubblica è più elevata rispetto al gettito fiscale, che cosa genera i depositi bancari e da dove deriva la disoccupazione. Una volta compreso tutto questo, allora è possibile intraprendere passi semplici che invertano la situazione attuale completamente.Analizzando con attenzione il piano di studi che attualmente è insegnato in tutti i gradi d’istruzione, si scopre come esso si basi integralmente sul periodo in cui vigeva il sistema aureo, ossia quando l’obiettivo principale dell’intera economia non era di ottenere prosperità per tutti, bensì consisteva nell’accumulare oro a favore dello Stato, indipendentemente dai costi sociali che gravavano sulla popolazione a causa di tale sistema. In altre parole, tutta la politica economica, a prescindere dall’onere che questa costava ai cittadini, era elaborata e giudicata in base a quanto più oro riuscisse a venire accumulato a favore dello Stato. Sebbene il sistema aureo non esista più nei fatti da quasi un centinaio di anni, i piani di studi e le politiche pensate nell’ottica di quel periodo economico continuano a sussistere. Non è ancora avvenuto, cioè, quel cambio di forma mentis necessario per comprendere come oggi l’economia possa servire a migliorare la vita delle persone e non ad accondiscendere alle richieste che gli Stati fanno, come se dovessero accumulare sempre più oro. Richieste che oggi sono completamente prive di senso, visto che attualmente non siamo più nella necessità di dover accumulare oro.Questo tipo di organizzazione non è in grado di aiutarci a superare la crisi. Anzi, io ritengo che la peggiori. E, man mano che si va avanti, la situazione peggiorerà sempre di più. Prendiamo come esempio questa politica di “quantitative easing” che serve per assicurarsi sia che gli Stati non dichiarino default e che i tassi d’interesse si mantengano bassi, l’economia rimanga stagnante e la disoccupazione resti elevata. In altre parole siamo sull’orlo di sommosse e rivolte sociali poiché gli europei vengono sospinti sempre di più verso la disperazione. Così, se in teoria Bruxelles può mostrare di aver ottenuto dei numeri positivi su un bilancio, all’atto pratico si tratta invece di un crimine contro l’umanità. Ciò che si sta perpetrando è un disastro, una catastrofe. E non vedo cambiamenti positivi. L’annuncio del “quantitative easing” di Draghi? Si tratta di un atto sedizioso, sia nel caso in cui Draghi stia deliberatamente cercando di danneggiare l’Eurozona, sia qualora egli probabilmente non si renda di fatto conto di come davvero funzioni la politica monetaria. Gli do il beneficio del dubbio. Quando una banca centrale s’impegna nell’acquisto di titoli, che siano Btp o Cct, tale acquisto è né più né meno che un deposito in euro presso questa banca centrale. Quando si acquista un Cct, ad esempio, invece che tenersi degli euro su un conto bancario commerciale si hanno degli euro su un conto presso la banca centrale chiamato Cct. Si ricevono degli interessi ed è possibile riottenere il denaro depositato come fosse un qualsiasi altro processo bancario.Quando le banche centrali acquistano i tuoi Cct, e quindi ti pagano in euro, succede che il processo appena descritto s’inverte. Invece di avere un deposito chiamato Cct presso la banca centrale, ti viene restituito il deposito che avevi originariamente. Perciò il “quantitative easing” non fa altro che trasferire degli euro da un conto bancario, che si chiama Cct, a un altro conto bancario, che si chiama semplicemente conto bancario commerciale. Non cambia alcunché. Eccezion fatta che il tasso d’interesse sui Cct, o sui Btp, che è di una certa entità, viene perso, in quanto non si riceve più. Di conseguenza questa politica di acquisto di titoli toglie il reddito da interesse dall’economia. Non molto, ma un po’ di soldi li rimuove. In più c’è anche il problema dei pagamenti degli interessi da parte degli Stati: se questi soldi potessero essere spesi altrove, allora andrebbe tutto bene. Ma invece no! Difatti si richiede che questi soldi vengano usati per abbassare il deficit pubblico. E così i pagamenti effetttuati dal settore pubblico verso il settore privato semplicemente si riducono.Si riduce la spesa totale sui beni e i servizi nell’economia, e per questo il “quantitative easing” è un’ulteriore tassa che sottrae denaro all’economia. La maggior parte delle opportunità di ottenere dei prestiti si basa sulla possibilità: tu chiedi un prestito perché hai un fatturato in espansione, perché lavori di più, perché hai nuovi prodotti e quindi perché hai più possibilità di fare utili. Possibilità significa, dunque, la possibilità di vendere qualcosa. In altre parole, l’economia moderna si basa per l’appunto sulle vendite: se le vendite aumentano ci sono più posti di lavoro e ci sono maggiori possibilità di avere accesso a prestiti e mutui. Quando invece togli denaro dall’economia, come avviene con il “quantitative easing”, le vendite non salgono, anzi rimangono stagnanti. Sicché le prospettive di investire e di conseguire maggiori vendite di beni e servizi si riducono. Perciò, sebbene i tassi d’interesse si abbassino, i fatturati che sono necessari per poter guidare le possibilità d’investimento non ci sono più. E così gli investimenti di fatto si abbassano.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francescho Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana il 13 febbraio 2015).Superare l’odierna situazione di crisi è possibile, basterebbe semplicemente attuare una politica di espansione del deficit pubblico al fine di ridurre le tasse o di incrementare il livello degli investimenti effettuati dallo Stato nell’ambito dei servizi pubblici, oppure di promuovere un abbinamento di questi due obiettivi insieme, in modo da riuscire a ripristinare quelle condizioni di piena occupazione e di prosperità che erano già state conosciute dall’Italia in passato. Si tratta di traguardi molto facili da raggiungere, in realtà, visto che sarebbe sufficiente che il Parlamento votasse in favore di una politica fiscale espansiva. La difficoltà, però, consiste nell’arrivare alla comprensione che il passo giusto da compiere è questo, che i suoi effetti saranno quelli promessi e che tutto funzionerà come previsto. Bisogna che i politici esaminino più da vicino la Teoria della Moneta Moderna e magari s’incontrino con gli attivisti per capire come funziona l’economia, quale sia la causa reale della disoccupazione e cosa sia possibile fare per porre termine al fenomeno della disoccupazione e ripristinare la prosperità per tutti gli esseri umani.
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Ultimatum all’Ue: deficit all’8%, così raddoppia il lavoro
L’annuncio di Alexis Tsipras di rispettare il pareggio di bilancio non dà speranza ai greci. Che tipo di sistema vogliamo introdurre, se con questo sistema di pareggio sui conti pubblici s’impoverisce la popolazione? Che senso ha tutto questo? Ancora una volta ci ritroviamo di fronte a una tragedia e a un grave crimine umanitario perpetrato contro tutti gli europei. La Commissione Europea chiede anche all’Italia di abbassare ulteriormente il deficit pubblico, onde conseguire una situazione di “budget strutturale migliore”? La domanda che uno si deve porre è: perché? Noi sappiamo benissimo che, quando si riduce la spesa pubblica e si aumentano le tasse, allora la disoccupazione sale, l’economia peggiora, la miseria aumenta e pertanto ci si ritrova davanti a un crimine ancora più grave contro l’umanità. Perché? Perché fare una cosa di questo genere? Qui o si è erroneamente guidati, e quindi siamo di fronte a crassa ignoranza pura e semplice, oppure è sedizione: qualcuno sta deliberatamente cercando di distruggere l’Italia. Si può lasciare il beneficio del dubbio anche in questo caso, in quanto è possibile che sia enorme ignoranza, ma per quanto mi riguarda di sicuro non avrei alcunché da obiettare nei confronti di qualcuno che sostenga che si tratti di atti sediziosi.A questo punto, ciò che sta accadendo ha tutta l’aria di una sedizione, anche alla luce del fatto che oggi sono disponibili sufficienti conoscenze di come l’economia funzioni e vi è un sufficiente numero di modelli econometrici utili a dimostrare cosa tali politiche economiche provochino alle condizioni di vita di coloro che oggi risiedono in Italia. L’Italia è piena di risorse. La prima cosa davvero da fare è togliere quelle catene che la strangolano, ossia questi programmi di austerità imposti dall’Unione Europea. Una proposta da me elaborata è quella di sottoporre un ultimatum all’Unione Europea, in cui si richieda alle istituzioni comunitarie questo: avete 30 giorni per rilassare il limite sul deficit pubblico dal 3% all’8%, altrimenti l’Italia se ne andrà e cercherà di portare autonomamente avanti ciò che in questo momento le viene impedito di fare. Allora, se l’Unione Europea vuole passare da un massimo di 3% di deficit a uno dell’8%, l’Italia potrebbe espandere i servizi pubblici e ridurre le tasse – personalmente suggerisco di ridurre l’Iva, possibilmente eliminandola del tutto. In questo modo il tasso di disoccupazione passerebbe dall’attuale 13 e passa per cento al 6-7%, e avreste una società dove si potrebbe sperare in una prosperità maggiore e in cui vivere meglio.Qualora l’Unione Europea rifiutasse, l’Italia dovrebbe dunque decidere se rimanere nell’Unione Europea, e continuare a patirne le conseguenze finché siffatte politiche non vengano cambiate, oppure se magari ritornare a usare la lira – in tal caso si tratterebbe in realtà di un processo molto semplice da effettuare, visto che sarebbe sufficiente diramare un annuncio governativo nel quale si comunichi che si ritorna a pagare le tasse e a spendere in lire senza bisogno di effettuare alcuna conversione forzosa. Semplicemente, la politica fiscale verrà calcolata in lire. Così sarebbe già possibile ripristinare una certa prosperità. Il rischio di ritornare alla lira è che, se a quel punto vi ritrovaste con il medesimo tipo di leadership politica che c’è ora con l’euro, tale leadership potrebbe scelleratamente riconfermare i precedenti annunci effettuati riguardo al bilancio preventivo. E quindi, invece di passare dal 3 all’8% di deficit, vi ritrovereste a passare dal 3 allo zero per cento. In un simile caso, passereste dalla padella nella brace e la situazione economica italiana diverrebbe persino peggiore dell’attuale. Riassumendo: bisogna capire se dare questo ultimatum all’Unione Europea onde passare dal 3 all’8% di deficit, con però un caveat: ossia, per ritornare alla lira ci si deve assicurare di poter disporre di deficit quantomeno del 6-7%, altrimenti la situazione continuerebbe a peggiorare e tutto sarebbe stato fatto per nulla.(Warren Mosler, dichiarazioni rilasciate a Francescho Chini per l’intervista “Progresso sociale e prosperità per tutti”, pubblicata da “Bottega Partigiana il 13 febbraio 2015).L’annuncio di Alexis Tsipras di rispettare il pareggio di bilancio non dà speranza ai greci. Che tipo di sistema vogliamo introdurre, se con questo sistema di pareggio sui conti pubblici s’impoverisce la popolazione? Che senso ha tutto questo? Ancora una volta ci ritroviamo di fronte a una tragedia e a un grave crimine umanitario perpetrato contro tutti gli europei. La Commissione Europea chiede anche all’Italia di abbassare ulteriormente il deficit pubblico, onde conseguire una situazione di “budget strutturale migliore”? La domanda che uno si deve porre è: perché? Noi sappiamo benissimo che, quando si riduce la spesa pubblica e si aumentano le tasse, allora la disoccupazione sale, l’economia peggiora, la miseria aumenta e pertanto ci si ritrova davanti a un crimine ancora più grave contro l’umanità. Perché? Perché fare una cosa di questo genere? Qui o si è erroneamente guidati, e quindi siamo di fronte a crassa ignoranza pura e semplice, oppure è sedizione: qualcuno sta deliberatamente cercando di distruggere l’Italia. Si può lasciare il beneficio del dubbio anche in questo caso, in quanto è possibile che sia enorme ignoranza, ma per quanto mi riguarda di sicuro non avrei alcunché da obiettare nei confronti di qualcuno che sostenga che si tratti di atti sediziosi.
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Sorpresa, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo
Spaghetti, chitarra, mandolino. E poi mafia, corruzione, evasione fiscale. Eppure, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, in barba alla retorica cialtrona dei denigratori dello Stivale. Davanti ci sono ovviamente l’inglese, il cinese e lo spagnolo. Poi, però, l’italiano. Perfettamente normale, dice Aldo Giannuli. E altrettanto normale è che gli unici a stupirsene siano proprio gli italiani. È lo stesso sito della Farnesina a dichiararlo: la lingua italiana, nel 2014, è la quarta lingua più studiata al mondo, con un totale di 687.000 allievi che la studiano all’estero nelle università, senza contare scuole e corsi privati. Un numero pari al totale degli iscritti al primo anno della scuola superiore in Italia. Ben 81 Istituti italiani di cultura offrono 8.165 corsi, frequentati da 69.500 persone, mentre i 406 comitati della Società Dante Alighieri dispongono di 266 centri di certificazione per 195.400 studenti. L’italiano, insomma, è vivo, richiesto e imparato in tutto il pianeta. Ovvio: l’Italia possiede il 70% dei beni culturali della Terra, è una grande patria della letteratura, è la meta d’elezione per milioni di turisti attirati dall’arte, dal paesaggio e dal cibo.Scontato, rileva Giannuli nel suo blog, che l’inglese primeggi: se si contano anche gli indiani, si tratta di una lingua parlata da un miliardo e mezzo di persone. Inoltre, è la principale lingua franca del mondo. E così la Cina, che da sola raggiunge il miliardo e mezzo di parlanti: «E’ la lingua del principale paese emergente, anzi forse ormai è meglio dire “emerso”, seconda potenzia mondiale». Quanto allo spagnolo, «è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa». E’ invece «inspiegabile» che la quarta lingua più studiata sia l’italiano, quella cioè di uno Stato che annovera «poco più di sessanta milioni di parlanti», forse settanta includendo eritrei, albanesi, somali, italiani all’estero e cittadini della Svizzera italiana. Restiamo «un paese relativamente piccolo e in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti», da Berlusconi a Renzi. Clamoroso, dunque, che l’italiano preceda «lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese». Come si spiega? «Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere».Prima di tutto, continua Giannuli, «si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa cattolica». La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, «ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano, che è parlato correntemente in Vaticano e usato prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quarant’anni». E anche in ordini religiosi importanti, come i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano. «Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che hanno avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio», con non pochi figli e nipoti che si sono mantenuti bilingui. Inoltre, purtroppo, l’italiano è spesso usato anche «fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo e altre organizzazioni criminali come i colombiani».Resta enorme l’importanza dell’italiano sul piano culturale, «e anche qui si sono dimenticate troppe cose». Per esempio, «che l’italiano è la lingua principale del melodramma». Nel mondo «ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ‘80». Un po’ di italiano, quantomeno, lo si canticchia dappertutto. «Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale», perché ha avuto uno sviluppo continuo nel tempo, dal XIII secolo in poi, «con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli». Lo stesso «non mi pare si possa dire delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia, che presentano maggiore discontinuità». Chi voglia avere un’idea del “peso” della letteratura italiana, continua Giannuli, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi. Dunque «non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia», anche per colpa della nostra pessima scuola, «il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare».Superfluo, infine, parlare del peso mondiale dell’arte italiana: Pompei e Roma, le vestigia archeologiche, le città d’arte come Firenze e Venezia, i tesori dei mille borghi storici. E poi il capolavoro del Rinascimento, rivoluzione culturale made in Italy. Oggi, poi, parlano italiano anche la moda e la gastronomia. «Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente – si risponde Giannuli – che gli italiani del tempo presente sono impari, rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato». Naturalmente, c’è chi li sempre “aiutati” a sottostimarsi: il paese ha avuto “la peggior classe dirigente d’Europa”, secondo molti critici, dominata da una nomenklatura di basso profilo, corrotta e clientelare, ai tempi in cui la sinistra italiana andava fermata – anche con le bombe nelle piazze – per impedirle di salire al potere quando al posto della Russia c’era ancora l’Urss. Italia sempre colonizzata dallo straniero, denunciano libri come “Il golpe inglese”; svenduta a trance sul ponte del Britannia, poi sull’altare di Bruxelles e dell’euro. Sul piatto della bilancia europea ha pesato l’acciaio della Germania, mentre il Belpaese non ha potuto far valere i suoi immensi giacimenti culturali, quelli che il mondo ci invidia. Dunque non lamentiamoci troppo degli italiani: non è tutta colpa loro.Spaghetti, chitarra, mandolino. E poi mafia, corruzione, evasione fiscale. Eppure, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, in barba alla retorica cialtrona dei denigratori. Davanti ci sono ovviamente l’inglese, il cinese e lo spagnolo. Poi, però, l’italiano. Perfettamente normale, dice Aldo Giannuli. E altrettanto normale è che gli unici a stupirsene siano proprio gli italiani. È lo stesso sito della Farnesina a dichiararlo: la lingua italiana, nel 2014, è la quarta lingua più studiata al mondo, con un totale di 687.000 allievi che la studiano all’estero nelle università, senza contare scuole e corsi privati. Un numero pari al totale degli iscritti al primo anno della scuola superiore in Italia. Ben 81 Istituti italiani di cultura offrono 8.165 corsi, frequentati da 69.500 persone, mentre i 406 comitati della Società Dante Alighieri dispongono di 266 centri di certificazione per 195.400 studenti. L’italiano, insomma, è vivo, richiesto e imparato in tutto il pianeta. Ovvio: l’Italia possiede il 70% dei beni culturali della Terra, è una grande patria della letteratura, è la meta d’elezione per milioni di turisti attirati dall’arte, dal paesaggio e dal cibo.
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Carpeoro: l’infame complotto degli italiani contro se stessi
L’Italia, oggi, sicuramente ha come nemico i poteri forti. Ma coloro che si dovrebbero opporre a quei poteri fanno tutt’altro. Il problema vero di questo paese non è di storia criminale, ma di storia non governata. Non è che siamo governati male: non siamo governati – il che, per certi aspetti, è peggio: forse, essere governati male è meglio che non essere governati. Certo, l’ideale sarebbe essere governati bene. Ma sapete cos’è necessario, per essere governati bene? Bisogna che, alla fine, qualcuno abbia il potere di decidere; che si sappia chi è che decide; e che il potere democratico, se le decisioni di questa persona si dimostrano sbagliate, la volta successiva lo lasci a casa. Vorremmo che la nostra vita fosse scandita da certezze, che non abbiamo: non abbiamo certezza nella giustizia e non abbiamo certezza nel nostro potere economico, perché non sappiamo chi lo governa. Non più la Banca d’Italia. La Banca Centrale Europea? Sì, ma chi la governa? Siamo sicuri che la governi quello che sembra che la governi adesso?
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Mitchell: deficit altissimi o morte, spiegatelo a Tsipras
Syriza parla in parte di liberare la Grecia dal giogo della Troika ma ha un insieme di proposte che sono reciprocamente incoerenti. Potrebbero servire a “uscire dall’angolo” e a ridistribuire un po’ i redditi, ma ciò di cui c’è bisogno è un imponente rilancio di redditi nazionali che può venire solamente da un imponente aumento della spesa. Il settore non governativo non fornirà le ingenti risorse di spesa per modificare la situazione. Non ci può essere una situazione a favore della crescita se queste regole fiscali della Ue sono riaffermate in ogni modo. La crisi finanziaria globale ha provato che l’impatto degli effetti ciclici sugli equilibri fiscali (cioè la perdita di entrate fiscali dovute alla perdita di occupazione e produzione) erano sufficienti a far violare la soglia del 3%. Queste violazioni hanno portato all’imposizione dell’austerità fiscale. Inoltre, la maggior parte dei paesi dell’Eurozona non saranno capaci di conseguire i necessari importi dei loro deficit fiscali (per favorire la crescita) nella situazione attuale che impedisce alla Bce – il monopolista di emissione dell’euro – di attuare tali deficit.Paesi come la Grecia ne hanno già abbastanza dei mercati di titoli privati necessari, con le regole attuali, per finanziare i deficit. Quindi, perché non invocare un cambiamento delle regole che permettano alla Bce di comportarsi in pieno come un soggetto emittente di moneta? La ragione è ovvia. La Germania non lo permetterebbe mai, ed essa comanda l’Eurozona. Quel programma ha mostrato incondizionatamente che attraverso l’acquisto di titoli specifici nel mercato secondario (per aggirare le regole dei Trattati) la Bce potrebbe escludere i privati dal mercato dei titoli e controllare i rendimenti dei titoli a qualsiasi tasso essa scelga. E’ stata una lezione salutare della potenza dell’emettitore di moneta. Il problema è che la Bce ha insistito affinché l’austerità fiscale sia imposta e perseguita come condizione per l’acquisto sui mercati secondari del debito di un paese “assediato”. Quindi hanno controllato i rendimenti e gestito i mercati privati ma allo stesso tempo hanno disfatto le economie in questione.Sospetto che la “tolleranza” tedesca di questa settimana sull’annuncio del Qe di Draghi sia limitata. Sanno che finché i deficit fiscali sono obbligati a non crescere e l’austerità è mantenuta il Qe non servirà granché a stimolare la crescita. Ma se il Qe fosse stato combinato con un’espansione su larga scala dei deficit fiscali di vari paesi, mirati alla creazione di lavoro nel settore pubblico e allo sviluppo delle infrastrutture, allora la “tolleranza” tedesca (attualmente concessa a denti stretti) svanirebbe presto e si innescherebbe una crisi politica. I tedeschi vincerebbero in quanto i francesi e gli italiani non hanno “gli attributi” per affermare la loro sovranità nazionale. Non ho dubbi che questo messaggio politico è un tentativo sincero di instillare ottimismo. Sono d’accordo che un cambiamento consistente nella politica Greca è necessario e Syriza sembra intenzionato a raggiungere questo cambiamento. Ma è veramente questo il cambiamento necessario? Ne dubito – e mi dispiace dirlo, visto che ho amici nel movimento di Syriza.Primo, non credo all’idea che Syriza sia un partito radicale. I suoi discorsi pubblici e i propositi con cui guiderà il popolo greco non sono per niente radicali e lo vedranno operare in accordo alle regole mainstream (neoliberiste) che sono decise e difese da Bruxelles. Syriza non sta proponendo un ritorno alla sovranità valutaria. Piuttosto sta proponendo che Bruxelles sia morbida con la Grecia per un po’ e fissa una parte delle attività pubbliche come parte di un alleggerimento concordato delle condizioni di rimborso. Ciò non è radicale. Ciò assicura che la Grecia rimanga nell’Eurozona, le cui dinamiche sono dominate dalla Germania, che ha un’economia non confrontabile con l’economia greca e la rende un partner “impossibile” con cui stare in una unione valutaria comune. Parlano di “andare dai mercati” (mercati privati di titoli) per finanziare la spesa governativa. Questo è alquanto mainstream. Pensiamoci per un attimo. I fondi di salvataggio della Troika sono attualmente offerti a tassi più bassi di quelli che la Grecia otterrebbe nei mercati privati di titoli. E sarebbe fare l’interesse della gente esporsi a costi di finanziamento più alti?Mentre ci potrebbero essere buone ragioni per ridistribuire i correnti esborsi fiscali sui vari interessi in competizione, il fatto fondamentale è che il deficit pubblico greco deve salire in maniera consistente – multipli del limite attuale del 3% contenuto nel Patto di Stabilità e Crescita. Perseguire una politica fiscale neutra per aiutare la gente stimolerà solo parzialmente la spesa totale del paese. La realtà è che la Grecia ha bisogno di uno stimolo pubblico che è ben al di là di qualsiasi cosa sia ammessa con le regole attuali. Mantenendo una posizione di sostegno all’obiettivo del pareggio di bilancio non si fornisce una risposta a un simile tema. Ma i greci possono risolverlo in una singola decisione – lasciare l’Eurozona e ripristinare la sovranità monetaria. Le affermazioni di Dragasakis precludono questa alternativa.La sola ragionevole conclusione è che gli obiettivi espressi da Syriza non sono reciprocamente coerenti. Non possono raggiungere le originarie aspirazioni di maggior crescita e aumento dei redditi ed equità mentre permettono a Bruxelles di dominare la quantità dei loro deficit fiscali. Non possono raggiungere i loro obiettivi con un tasso di cambio fisso (o tasso di cambio non indipendente) con la Germania come partner nell’unione monetaria. Le loro promesse politiche si amplificano con la popolazione sofferente. Ma la realtà è che la popolazione non viene informata da forze progressiste sul danno auto-inflitto che comporta il mantenere l’euro come valuta. Non ritengo Syriza la soluzione, dato che tendono verso il centro (che in realtà è la destra). Ma sarei molto contento di scoprire che mi sbaglio!(Bill Mitchell, estratto di un recente intervento sulle elezioni in Grecia, ripreso dal sito “MeMmt.info” il 27 gennaio 2015. Il professor Mitchell è un economista sovranista dell’Università di Newcastle, Australia).Syriza parla in parte di liberare la Grecia dal giogo della Troika ma ha un insieme di proposte che sono reciprocamente incoerenti. Potrebbero servire a “uscire dall’angolo” e a ridistribuire un po’ i redditi, ma ciò di cui c’è bisogno è un imponente rilancio di redditi nazionali che può venire solamente da un imponente aumento della spesa. Il settore non governativo non fornirà le ingenti risorse di spesa per modificare la situazione. Non ci può essere una situazione a favore della crescita se queste regole fiscali della Ue sono riaffermate in ogni modo. La crisi finanziaria globale ha provato che l’impatto degli effetti ciclici sugli equilibri fiscali (cioè la perdita di entrate fiscali dovute alla perdita di occupazione e produzione) erano sufficienti a far violare la soglia del 3%. Queste violazioni hanno portato all’imposizione dell’austerità fiscale. Inoltre, la maggior parte dei paesi dell’Eurozona non saranno capaci di conseguire i necessari importi dei loro deficit fiscali (per favorire la crescita) nella situazione attuale che impedisce alla Bce – il monopolista di emissione dell’euro – di attuare tali deficit.
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La scheda bianca di Silvio e il colpo di spugna che arriverà
Il “Patto Mattarella” svela il piatto forte del Patto del Nazareno: Berlusconi non ha voluto votare l’uomo del Colle per poter poi rivendicare il diritto di nomina dei due giudici costituzionali mancanti. Obiettivo: utilizzare la Consulta per neutralizzare la retroattività della legge Severino che esclude i condannati, e quindi ridiventare eleggibile e tornare in Parlamento. Lo sostiene Olinda Moro, rileggendo le tappe fondamentali della “resistenza” del Cavaliere contro la magistratura e il recente accordo sotterraneo con Renzi, fino alla scelta di «un nome secco, quello di Mattarella, votato da tutti e non concordato con nessuno, neanche con il proprio partito». Salendo al Quirinale, Mattarella lascia libera la poltrona di giudice costituzionale. Se fino a ieri alla Corte mancava un magistrato, ora i nuovi giudici da eleggere sono dunque due, entrambi di nomina parlamentare. Già così, la Consulta potrebbe non essere anti-Cavaliere, grazie ai giudici nominati da Napolitano. Se poi fosse proprio Berlusconi a proporre i due nomi mancanti, per la legge Severino i giorni potrebbero essere contati. Ecco dunque il “Patto Mattarella”?Berlusconi ha ripetutamente denunciato la “dittatura dei giudici” nel paese che governava, ricorda Olinda Moro su “Megachip”. Nel 2011 arrivò a lamentarsi con Obama di «una dittatura dei giudici di sinistra». E due anni prima aveva spiegato alla Merkel che «la sovranità in Italia è passata dal Parlamento al partito dei giudici», perché la Corte Costituzionale «ha 11 componenti su 15 che appartengono alla sinistra». Di questi, «cinque sono di sinistra in quanto di nomina del presidente della Repubblica: e noi abbiamo avuto purtroppo tre presidenti della Repubblica consecutivi tutti di sinistra». Oggi la Corte deve decidere sulla retroattività della legge Severino che, come noto, a seguito della condanna definitiva per frode fiscale, ha determinato la sua decadenza dal Senato e la sua incandidabilità per sei anni. Cinque giudici sono nominati dal presidente della Repubblica, cinque sono eletti dai magistrati di ciascuna delle tre magistrature superiori e cinque sono eletti dal Parlamento in seduta comune, cioè dalle due Camere riunite. Vale la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini e poi dei tre quinti (circa 570 parlamentari su 950) dal quarto scrutinio in poi.Ogni giudice è nominato per nove anni. La lunga durata del mandato (originariamente 12 anni) è superiore a quella di ogni altro mandato elettivo, proprio per assicurare l’indipendenza dei giudici anche dagli organi che li designano. La stessa Corte, sul proprio sito, chiarisce che «i cinque giudici nominati dal Capo dello Stato sono scelti normalmente in funzione di integrazione o di equilibrio rispetto alle scelte effettuate dal Parlamento, in modo tale che la Corte Costituzionale sia lo specchio il più possibile fedele del pluralismo politico, giuridico e culturale del paese». E’ chiaro, aggiunge Olinda Moro, che una forte inclinazione del bilanciamento e dell’equilibrio costituzionale l’ha determinata l’anomala rielezione di Napolitano, confermato peraltro da un Parlamento con un premio di maggioranza dichiarato anticostituzionale dalla Corte medesima. E Napolitano si è dimesso «solo dopo avere esercitato in fretta e furia il suo potere di nomina (novembre 2014) di ulteriori due giudici (Nicolò Zanon e Daria De Pretis)», dopo aver già nominato nel 2013 Giuliano Amato, in aggiunta agli altri due nomi indicati nel primo settennato (Paolo Grossi e Marta Cartabia).«Insomma, alla faccia dell’equilibrio costituzionale e del bilanciamento delle garanzie – scrive la Moro – oggi abbiamo una Corte Costituzionale con cinque giudici eletti da un solo uomo, ovvero dal medesimo presidente della Repubblica». Questo strapotere esercitato sulla Consulta potrebbe avere i connotati di incostituzionalità, aggiunge l’analista. «Certamente è un chiaro cortocircuito costituzionale, su cui il Parlamento non ha avuto il coraggio di indagare e risolvere: sarà solo un caso che sul sito della Presidenza della Repubblica sono riportati solo i primi tre nominati?». Inoltre, due giudici nominati da Napolitano (Zanon e Amato) hanno già espresso pubblicamente dubbi sulla costituzionalità della legge Severino e in particolare riguardo al caso di Berlusconi, il che fa sorgere perplessità anche sulle altre nomine fatte da Napolitano in seno alla Consulta: «Dopo questo “regio” capolavoro abbiamo quindi 14 giudici, di cui 5 nominati dal medesimo presidente Napolitano e di cui, almeno l’altro giorno, 4 eletti dal Parlamento: Mattarella e Sciarra (in quota centrosinistra), Napolitano e Frigo (in quota centrodestra)». La Corte decide in modo collegiale, ma se non trova un accordo delibera a maggioranza. «Oggi i giudici sono in 13, di cui 5 nominati da Napolitano e 2 di area centrodestra. Attualmente la maggioranza per accogliere una decisione è di 7».A questo punto, continua Olinda Moro, «potrebbe essere utile ma forse neanche necessaria la nomina dei 2 giudici mancanti». E laddove sia necessaria, «è evidente che la rivendicazione a scegliere i giudici mancanti da parte di chi, almeno ufficialmente, si è tirato fuori dall’elezione del presidente della Repubblica sarà la prova provata del vero Patto del Nazareno». Se cioè la Corte dovesse dichiarare l’incostituzionalità della legge Severino nella parte in cui prevede la decadenza dalla carica di parlamentare e l’incandidabilità di 6 anni per coloro che abbiano avuto condanne definitive superiori ai due anni e per fatti antecedenti all’entrata in vigore della legge, «allora Berlusconi rientrerebbe in Senato in pompa magna e potrebbe ricandidarsi liberamente». Quando fu stanata la “manina” che cercava di cancellare il reato di evasione e di frode per importi non superiori al 3% dell’imponibile, «un colpo di spugna finalizzato non solo a dare agibilità politica ma a garantire la partecipazione nella compagine societarie a Berlusconi e tanti altri», Renzi ripeteva che non avrebbe «mai modificato la legge Severino», nonostante la “manina” fosse diretta a cancellare un reato di frode e di evasione fiscale e non a modificare la legge. «Excusatio non petita, accusatio manifesta: si sentiva stanato su altre manovre?».Il “Patto Mattarella” svela il piatto forte del Patto del Nazareno: Berlusconi non ha voluto votare l’uomo del Colle per poter poi rivendicare il diritto di nomina dei due giudici costituzionali mancanti. Obiettivo: utilizzare la Consulta per neutralizzare la retroattività della legge Severino che esclude i condannati, e quindi ridiventare eleggibile e tornare in Parlamento. Lo sostiene Olinda Moro, rileggendo le tappe fondamentali della “resistenza” del Cavaliere contro la magistratura e il recente accordo sotterraneo con Renzi, fino alla scelta di «un nome secco, quello di Mattarella, votato da tutti e non concordato con nessuno, neanche con il proprio partito». Salendo al Quirinale, Mattarella lascia libera la poltrona di giudice costituzionale. Se fino a ieri alla Corte mancava un magistrato, ora i nuovi giudici da eleggere sono dunque due, entrambi di nomina parlamentare. Già così, la Consulta potrebbe non essere anti-Cavaliere, grazie ai giudici nominati da Napolitano. Se poi fosse proprio Berlusconi a proporre i due nomi mancanti, per la legge Severino i giorni potrebbero essere contati. Ecco dunque il “Patto Mattarella”?
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Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano
In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.«Mettiamola in questi termini», riassume Marcello Foa: oggi la Bce «stampa più moneta per permettere alle banche centrali nazionali di comprare titoli di Stato, ovvero debito pubblico, con lo scopo dichiarato di rilanciare l’economia (crescita del Pil) e lo scopo effettivo immediato di sgravare i bilanci delle banche private». Se il “quantitative easing” può essere considerata «un’aberrazione, in quanto viola le leggi di mercato basate sulla domanda e sull’offerta», lascia però intatta «la vera catena che imprigiona le asfittiche economie occidentali: quella del debito», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, equiparando quindi paesi occidentali con debito sovrano – Usa e Gran Bretagna – a paesi con debito non più sovrano, cioè i membri dell’Eurozona. In realtà, spiega un economista come Nino Galloni, il debito pubblico italiano è diventato «una catena» soltanto a partire dal 1981, con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia: fino ad allora, infatti, il debito pubblico era stato ciò che dovrebbe essere, e che è tuttora nei paesi sovrani: la più importante leva strategica di sviluppo, attraverso la quale un paese produce investimenti (a deficit) destinati a far crescere l’economia in modo diffuso.«Se la Ue e la Bce volessero davvero rilanciare l’economia – aggiunge Foa nel suo post – dovrebbero avere il coraggio di andare fino in fondo, ovvero non di stampare moneta per comprare debito ma di stampare moneta per cancellare il debito, accompagnando questo passo da misure altrettanto rivoluzionarie e benefiche come la simultanea riduzione delle imposte sia sulle imprese che sulle persone fisiche e magari varando investimenti infrastrutturali». Qui, ancora, Foa non spiega di che debito parla: se il debito è sovrano non può costituire un problema, come dimostra il debito del Giappone al 250% del Pil. Sarebbero certo “rivoluzionario” cancellare il debito non-sovrano, quello cioè accumulato da quando in paesi dell’Eurozona hanno cessato di indebitarsi in proprio, cioè “anticipando” denaro alle rispettive comunità nazionali, e preferendo acquistare denaro – ad alti tassi di interesse – presso il mercato finanziario privato internazionale. Quindi il problema non è il debito in sé, ma la fonte del debito: se lo Stato si è indebitato coi suoi cittadini (ha speso denaro per loro, in anticipo) il problema non esiste. Se invece i soldi li ha acquistati sui “mercati”, gli interessi sono da ripagare. Se poi lo Stato non ha più la possibilità di intervenire con emissione di valuta propria, allora il collasso è garantito. Di qui la stretta fiscale, per spremere denaro ai cittadini anziché anticiparglielo come avveniva un tempo.«Oggi – riconosce Foa – l’Italia è già in avanzo primario, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, ma il debito pubblico continua a salire perché la spesa pubblica è gravata dagli interessi sul debito». Interessi, appunto, contratti coi mercati finanziari internazionali: quelli verso cui, grazie a Ciampi e Andreatta, l’Italia si orientò improvvisamente nel 1981, disponendo che la banca centrale cessasse di finanziare il governo a costo zero, come aveva sempre fatto. Da allora, il debito pubblico è diventato un dramma, aggravato negli ultimi anni dalla catastrofe dell’euro, su cui la nazione non ha alcuna possibilità di governo. «L’Italia – conclude Foa – è in una spirale da cui difficilmente uscirà, per quanti sforzi faccia. Ma questo né la Ue, né la Bce, né il Fmi lo ammetteranno mai; anzi, continuano ad alimentare la retorica delle riforme, ovviamente strutturali». Foa sogna un “giubileo del debito”, col taglio lineare di un terzo dell’attuale euro-debito di ogni paese e simultanea riduzione delle imposte per un periodo di almeno 5 anni.«Basterebbe una semplice operazione contabile creando denaro dal nulla (ovvero con un semplice click, come peraltro si apprestano già a fare), per togliere definitivamente dal mercato una parte del debito pubblico», scrive Foa, secondo cui il risultato sarebbe «un boom economico paragonabile agli effetti di un nuovo Piano Marshall». Starebbero meglio tutti, dice Foa: «I consumatori che si troverebbero con più liquidità in tasca, le aziende che sarebbero fortemente incentivate a investire nella zona Ue, lo Stato che troverebbe le risorse sia per le grandi opere che per altre riforme. Le stesse banche private che non sarebbero più costrette a comprare titoli di Stato pubblici e vedrebbero diminuire drasticamente le sofferenze bancarie nel giro di pochi mesi proprio grazie alla ripresa dell’economia reale». La macchina, insomma, si rimetterebbe in moto. «A “rimetterci” sarebbero solo la Bce, la Commissione Europea e analoghe istituzioni transnazionali, il cui potere implicito di condizionamento si ridurrebbe drasticamente».Questo è appunto il motivo per cui tutto ciò non avverrà: quel “potere di condizionamento” è esattamente la ragione sociale dell’euro, piano strategico concepito per togliere allo Stato la facoltà sovrana di spesa pubblica, cioè di produrre debito pubblico strategico (deficit positivo) senza il quale, dall’avvento della moneta moderna, nessun paese al mondo può garantire benessere diffuso. La demonizzazione del debito è tipica del neoliberismo, che vuole spogliare lo Stato della sua sovranità e ridurlo in bolletta, come una qualsiasi azienda o famiglia, dipendente dal sistema finanziario privato. Il liberismo teme lo Stato, in quanto pericoloso concorrente economico: il debito pubblico “deve” quindi diventare un problema, in modo che lo Stato ceda i suoi asset strategici e si rassegni alla loro privatizzazione. La via d’uscita non è dunque la cancellazione del debito – gli investimenti di cui parla Foa si possono realizzare solo mediante deficit – ma l’eliminazione del debito non sovrano. Missione impossibile, se si resta nel lager monetario chiamato euro, appositamente progettato dall’élite finanziaria perché gli Stati permanessero all’infinito sotto il ricatto di un debito insostenibile, in quanto non garantibile con valuta propria.In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.
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Uomini e topi, le cavie greche e la sinistra che tifa Draghi
Attenti a Tsipras: anche se finora ha tenuto un profilo molto basso, fingendo di rispettare i mostruosi vincoli europei contro il suo popolo, con la sola vittoria di Syriza potrà ora sottrarre il “laboratorio greco” al completo dominio dell’élite che s’è divertita a trasformare gli uomini in topi, per vedere fino a che punto sarebbero stati capaci di resistere per sopravvivere. «Se consideriamo la Grecia come un laboratorio», osserva Pino Cabras, «in occasione della vittoria di Tsipras abbiamo assistito all’incendio di molti alambicchi». Test pericoloso: se funziona sarà applicato a nuove vittime, se invece fa cilecca si aumenterà il livello di sofferenze sulle solite cavie. «La Grecia è stata già altre volte un’officina per gli sperimentatori delle élite occidentali», ricorda Cabras: «Negli stessi anni in cui in Italia gli ambienti atlantisti influenzavano la vita politica con la strategia della tensione e vari tentativi di colpo di Stato, ad Atene i militari andavano davvero al potere con un golpe, instaurando la Dittatura dei Colonnelli (1967-1974). Nella culla della civiltà europea si poté così sperimentare per qualche anno la soppressione delle normali libertà civili, lo scioglimento dei partiti politici, l’istituzione di tribunali militari speciali, il ricorso alla tortura e al confino per migliaia di oppositori».L’esperimento non funzionò: il golpe classico suscitava troppa opposizione interna e internazionale, i più intraprendenti fuggivano e l’economia diventava insostenibile. «Negli anni successivi, in Italia, appresa la lezione greca, si dimostrò che funzionava meglio un condizionamento di tipo piduista, che faceva sentire la minaccia della violenza, ma usava un approccio più graduale e tentacolare», scrive Cabras su “Megachip”. Il prezzo del test militare? Lo avevano già pagato i greci. Poi, nel nuovo secolo, «dall’instancabile cantiere oligarchico è partito un ulteriore “esperimento greco”, proprio negli anni in cui si è via via instaurato un nuovo tipo di regime europeo: cioè un regime che ha portato alle estreme conseguenze i difetti sempre più odiosi e antidemocratici della costruzione comunitaria e ha imposto le disfunzioni permanenti dell’euro, una moneta “che non dovrebbe esistere”, (come ha scritto finanche il servizio studi del colosso bancario svizzero Ubs), e che impone anche notevoli costi per un’eventuale uscita». La Grecia «sarebbe stata sufficientemente piccola da poter disinnescare il suo debito sovrano senza spargimenti di sangue, senza imporre fiscalità assassine, senza deprimere l’economia». E invece «le sono state imposte regole rigidissime», partorite da «un mondo intellettualmente fallito di pseudo-economisti traditori e ben pasciuti».Morale: «Si è abusato impunemente di un intero popolo, quello greco, che aveva la colpa di non essere numeroso e di avere un Pil che incideva sull’Europa quanto quello della provincia di Treviso sul Pil italiano». La spirale del debito non è stata interrotta, ma sovralimentata. Persino il Trattato di Maastricht citava la “solidarietà fra gli Stati membri”? I padroni del laboratorio, aggiunge Cabras, hanno invece deciso che quell’ingrediente doveva restare lettera morta: sulla pelle dei greci, hanno così potuto misurare in scala ridotta «quanto può crescere la disoccupazione in un paese e fino a che punto si deprezzano i beni, quand’è che un sistema sanitario crolla, qual è il punto di ebollizione da cui partono le rivolte violente e gli assalti ai fornai, come si dosa il monopolio della violenza affidato alla polizia, in che proporzione crescono i voti ai nazisti e quanto questi siano utilizzabili per dividere il popolo, quale livello di passività politica può raggiungere chi non ha più tempo per un proprio ruolo sociale e deve pensare solo a sopravvivere mentre evaporano stipendi e pensioni». E ancora: «Fino a che punto i partiti che reggono il sacco alle banche straniere resistono ancora all’erosione dei voti perché offrono ancora in cambio briciole residue per tenersi in vita? Qual è la chimica di una nazione disperata? Esplode, si evolve o implode?».La Troika Ue ha proseguito impassibile, recitando le sue orazioni neoliberiste. «Naturalmente il messaggio mafioso arrivava agli altri Piigs, maledetti maiali-cicala: avete vissuto troppo al disopra dei vostri mezzi, siete nati per soffrire e per “fare le riforme strutturali”, con una svalutazione del lavoro in favore del capitale finanziario». Nel “Laboratorio Grecia” si esagerava, fino a volerlo trasformare in una Zona Economica Speciale alla cinese, con salari da poche centinaia di euro, non senza aver distrutto quasi un milione di posti di lavoro. «Questo calvario è richiesto ai greci ancora una volta dalla comare secca che guida il Fmi, Christine Lagarde, che ha rilasciato una tempestiva intervista su “Le Monde” e “La Repubblica”, il 27 gennaio 2015». Aggiunge Cabras: «Sarebbe stato interessante chiedere alla Lagarde se è vero quel che dice su di lei il Gran Maestro Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni”, cioè se appartenga a ben due logge massoniche ultraoligarchiche transnazionali, la “Pan Europa” e la “Three Eyes”, alla quale ultima – sostiene Magaldi – sarà possibile rivelare l’affiliazione anche di Giorgio Napolitano e Mario Draghi».E’ evidente che i padroni d’Europa la pensano allo stesso modo. A caldo, Draghi ha persino fatto notare che la pressione fiscale in Grecia resterebbe «ben inferiore sia alla media dell’area euro, sia a quella di tutta l’Unione europea a 28» Ossia: «C’è ancora un po’ di carne da staccare dall’osso». Fabio Scacciavillani twitta: «Un popolo di parassiti elegge una banda di ferrivecchi falliti». Scacciavillani, per chi non lo sapesse, è “chief economist” del Fondo d’investimenti dell’Oman, spiega Cabras: «Per la sua ideologia, un insegnante greco è dunque un parassita, laddove il Sultano dell’Oman è un adorabile filantropo e i grandi fondi speculativi sono immacolati agenti del Bene, purché ogni tanto li si foraggi con pubblico denaro: insomma, il solito neoliberista con il mercato degli altri, con proiezioni freudiane sul parassitismo». L’ascesa di Syriza è nata dunque in reazione a questo esperimento «crudele e interminabile, perpetuato da tanti reggicoda e ideologi in seno all’establishment». Tsipras ha dovuto «individuare il nemico sin da subito». Non come Vendola, che nel 2011 – intervistato da “L’Espresso” – credette di riconoscere «l’impegno di due grandi cattedre: quella di Papa Ratzinger e quella del papa laico, Mario Draghi».«Vendola – continua Cabras – associava uno dei più venerabili maestri della prassi oligarchica, Draghi il “papa laico”, nientemeno che a un nuovo “formidabile processo di critica verso le oligarchie” fra i giovani e i movimenti». Ecco perché la sinistra italiana non capirà mai la “lingua” della sinistra greca. Il vicepresidente del Parlamento Europeo, Gianni Pittella (Pd), ha invitato Tsipras ad avviare negoziati «con le forze progressiste ed europeiste greche». Ma le “forze progressiste europeiste”, dice Cabras, sono «i complici più ipocriti dell’austerity». Tsipras si è guardato bene dal dargli retta, e un minuto dopo ha invece concluso un accordo di governo con un altro partito: «Un partito di destra, ma con la faccia al posto della faccia, a differenza di Pittella. Il quale continua il comunicato invitando il buon Alexis ad affrontare insieme le “sfide enormi come la lotta alla corruzione, all’evasione fiscale e alla disoccupazione”, cioè gli effetti secondari delle cause che Pittella e sodali hanno favorito, ad esempio promuovendo i Mario Monti e i Papademos, i Jobs Act e le iniquità strutturali dell’attuale moneta».Un economista anti-euro come Alberto Bagnai si è affrettato a dire che Tsipras è solo uno specchietto per le allodole che serve ad anestetizzare il dissenso? Giuseppe Masala riconosce che le armi in mano al nuovo primo ministro greco sono poche e spuntate, mentre tante armi potenti sono in mano straniera: Tsipras potrà fare politica e trovarsi alleati in Europa, ma l’esperimento (e anche l’incendio del laboratorio) è ancora in corso. «In troppi dimenticano che il primo partito greco, Syriza, ha ottenuto solo il 36,3% dei voti validi, i quali a loro volta sono da calcolare su appena il 64% del corpo elettorale». Attualissimo il monito di Enrico Berlinguer: sarebbe illusorio sperare in una svolta politica radicale, quand’anche si ottenesse il 51% dei voti. «La frase è del 1973: in Cile è appena andato al potere il generale golpista Pinochet che ha rovesciato Allende, mentre i colonnelli governano ancora Atene. Il dollaro da due anni non è più convertibile in oro, e la domanda di dollari esplode con il boom del prezzo del petrolio. In Italia settori rilevanti delle classi dirigenti atlantiste fanno sentire “tintinnio di sciabole”, in piena strategia della tensione». Finché in Italia ci furono partiti forti e di massa, continua Cabras, questi esercitarono una semi-sovranità in grado di correggere e contenere l’esercizio di poteri sovrani esterni che limitavano la sovranità italiana. Ma c’era evidentemente un limite invalicabile, oltre il quale la semi-sovranità soccombeva ai rapporti di forza opachi del sistema atlantico.Similmente, Tsipras ha massimizzato la forza politica ottenibile con il voto degli elettori in presenza di una proposta di governo riformatrice, consapevole di muoversi all’interno di vincoli letteralmente incontrollabili. Come quella di Berlinguer, «anche la scommessa di Alexis Tsipras è estremamente difficile, perché è condizionata da un campo internazionale molto maldisposto verso spinte contrarie al vento neoliberista, nel momento in cui sul piano militare si moltiplicano i focolai di guerra lungo i confini sempre più larghi della Nato, e sul piano economico si va a grandi passi verso una “Nato economica” da regolare con i nuovi trattati atlantici sul commercio e la finanza, con l’obiettivo di abbattere il ruolo della Russia e consolidare un’Europa più debole». In quel contesto «avremmo una Germania gendarme, circondata da un immenso Mezzogiorno europeo impoverito: la versione upgraded del “Laboratorio Greco”. Un incubo reale». Eppure, forse le strade non sono state tutte percorse, e il futuro può riservare «quote di imprevedibilità in grado di scottare gli scienziati pazzi». Cabras cita il nuovo ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, «un comunista determinato e molto preparato» che «parla l’inglese meglio dei maggiordomi europei che biascicano un misero anglofinanziese». E’ amico di James Galbraith, figlio del grande economista John Kenneth, a sua volta primo consigliere economico di Jfk e indimenticato autore di “L’economia della truffa”, «un libro che faceva già anni fa il ritratto dei nemici della Grecia, i nemici di tutti noi».Oggi è cresciuto il caos sistemico: c’è sempre chi scommette «sulla controllabilità di questo caos per ottenere nuovi vantaggi», ma non è detto che ci riesca. Troppe variabili in corso: dall’Ucraina, dove è in corso un nuovo laboratorio diretto da «plenipotenziari neocoloniali dell’élite oligarchica e finanziaria», con il Donbass «percorso da milizie nazistoidi e da mercenari», alla Spagna, dove un fenomeno elettorale nuovo, “Podemos”, con il vento in poppa come Syriza, individua già un tema chiave: uscire dalla Nato. «È perciò significativo che uno dei primissimi pronunciamenti del governo Tsipras sia stato quello di sconfessare il comunicato dei leader europei che prefigurava nuove sanzioni contro la Russia, con tanto di telefonata di Tsipras all’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini per esprimerle solennemente “il suo malcontento”». La Grecia diventerà un soggetto combattivo, avverte Cabras: «L’Europa che ha affossato il gasdotto South Stream ma non vuole rinunciare al gas dovrà passare proprio dalla Grecia, visto che le pipelines convergeranno in Turchia». Certo, l’Italia resta lontana dai germi di intelligenza che stanno sbocciando in Europa: non se esce né con i tirapiedi di Vendola, né con «le tristi derive del M5S».Non sparate su Tsipras: anche se finora ha tenuto un profilo molto basso, fingendo di rispettare i mostruosi vincoli europei contro il suo popolo, con la sola vittoria di Syriza potrà ora sottrarre il “laboratorio greco” al completo dominio dell’élite che s’è divertita a trasformare gli uomini in topi, per vedere fino a che punto sarebbero stati capaci di resistere per sopravvivere. «Se consideriamo la Grecia come un laboratorio», osserva Pino Cabras, «in occasione della vittoria di Tsipras abbiamo assistito all’incendio di molti alambicchi». Test pericoloso: se funziona sarà applicato a nuove vittime, se invece fa cilecca si aumenterà il livello di sofferenze sulle solite cavie. «La Grecia è stata già altre volte un’officina per gli sperimentatori delle élite occidentali», ricorda Cabras: «Negli stessi anni in cui in Italia gli ambienti atlantisti influenzavano la vita politica con la strategia della tensione e vari tentativi di colpo di Stato, ad Atene i militari andavano davvero al potere con un golpe, instaurando la Dittatura dei Colonnelli (1967-1974). Nella culla della civiltà europea si poté così sperimentare per qualche anno la soppressione delle normali libertà civili, lo scioglimento dei partiti politici, l’istituzione di tribunali militari speciali, il ricorso alla tortura e al confino per migliaia di oppositori».