Archivio del Tag ‘fisco’
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Magaldi: imbecilli a reti unificate minacciano Lega e 5 Stelle
Imbecilli: lasciano credere che il debito dello Stato sia come quello della tabaccheria sotto casa, esposta con la banca. Imbecilli pericolosi: perché scrivono sui giornali e parlano ogni sera in televisione. Somari in buona fede, disastrosamente ignoranti, o vecchi marpioni in malafede? «Non so cosa sia peggio», dice Gioele Magaldi: una persona intelligente puoi sempre persuaderla, mentre di fronte a un cretino non ci sono speranze. Gli imbecilli di turno? Quelli che cercano di spaventare gli italiani, bocciando le “mirabolanti promesse” dell’ipotetico governo gialloverde di Salvini e Di Maio. Lega e 5 Stelle, in realtà, stanno terrorizzando solo l’establishment: i professori della catastrofe, i notai dell’infame declino del paese. Le loro ricette hanno devastato l’Italia, eppure insistono: bisogna tagliare redditi e consumi, senza capire che – per quella strada, se il Pil non cresce – poi a esplodere è proprio il debito, inevitabilmente. «Arriva a comprenderlo anche un mediocre studente di economia, ma non gli imbecilli che ci parlano ogni giorno sui giornali e in televisione», dice Magaldi, in una diretta web-streaming su YouTube con Marco Moiso, in cui rilancia un nome fortissimo per Palazzo Chigi: quello dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt.
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Sì, la Bce può assorbire il debito: chi lo nega è un cialtrone
Perché la Bce può benissimo cancellare 250 miliardi. E chi lo nega è ignorante o in malafede, sostiene Maurizio Blondet, ricordando che il motivo lo ha spiegato – in un articolo del giugno 2013 – Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy, nella London School of Economics, già membro del Parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le massime autorità. De Grauwe rispose al governatore Jens Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca, che s’era appellato alla Corte Costituzionale di Berlino, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico dei paesi dell’Eurozona che sta operando la Bce, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la Bce in caso di insolvenza di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. «De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi». Il motivo: «Applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata», sottolinea Blondet nel suo blog, ricordando che una banca centrale – prestatore di ultima istanza – non può mai “fallire”, potendo emettere denaro in modo illimitato.«Il livello di confusione è così alto – scrisse De Grauwe – che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale tedesca sostenendo che il programma Omt della Bce esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla Bce». Una paura «mal posta», perché mentre le società private «si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito», questi stessi “vincoli di solvibilità” «non dovrebbero essere applicati alle banche centrali», visto che queste ultime «non possono fallire», dal momento che una banca centrale «può emettere tutta la moneta che vuole e chi le serve per ripagare i suoi “creditori”». E chi sono i creditori della banca centrale? Sono «i detentori della sua moneta». Per la banca centrale, il loro “ripagamento” «consisterebbe semplicemente nel sostituire la moneta vecchia con moneta nuova». Non siamo più nel sistema del tallone aureo, quando una banca centrale prometteva di convertire la moneta che emetteva in oro. E quindi, «al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali». Quindi, «la sola promessa che una banca centrale fa al mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui».La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi. Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”, sottolinea Blondet. Ma visto che qualcuno ancora non capisce, De Grauwe spiega di nuovo: la banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire). L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che essa possa mantenere il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui ha giurisdizione. Una volta che abbia quel potere, la banca centrale è libera da ogni limite di solvibilità. Chiarito ciò, De Grauwe illustra il caso più semplice: quello di una banca centrale che emetta moneta per un solo Stato, anche comprando buoni del Tesoro. «Acquistando i titoli di debito statali, la banca centrale trasforma la natura del debito pubblico. Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito viene trasformato: il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio di default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria); che è priva di rischio default, ma soggetta a rischio di inflazione».Per capire cosa sia questa trasformazione, e come agisca nel bilancio, supponiamo che banca centrale e governo siano tutt’uno (come dopotutto sono: due rami separati del settore pubblico, ed erano prima del “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia). Attenzione, aggiunge Blondet, perché qui troviamo spiegato perché 250 miliardi di debiti possono essere “cancellati”. «Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello Stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare». E non è finita: «La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio [come fa la Bce coi nostri 250 miliardi], ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questa finzione ed eliminarla dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall’ammontare del suo debito. Esso non ha più valore – scrive De Grauwe – in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo, ma non un rischio di default». Dunque non ha senso – come voleva far credere la Bundesbank – che le banche centrali, quando il prezzo di mercato dei titoli di Stato scende, ci perdano.«Se ci fosse una perdita per la banca centrale, sarebbe compensata alla pari da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore di mercato del suo debito è sceso in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico». Chiaro, no? Sottolinea De Grauwe: «Quando una banca centrale ha acquisito titoli di Stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale», perché la perdita in un ramo (la banca centrale) è compensata dal profitto nell’altro (lo Stato). «Un altro modo di vedere questo effetto è guardare ai flussi degli interessi sottostanti ai titoli pubblici». Esempio: la banca centrale ha comprato un miliardo di euro in titoli di Stato. «Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Nella pratica della contabilità, questo viene contato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale girerà i propri profitti al governo stesso». Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. «E’, per così dire, la mano sinistra che paga la mano destra». La classica partita di giro.«La tecnicalità della tenuta dei libri contabili ha potuto far credere a qualcuno che tali interessi siano signoraggio (ossia profitto per la banca centrale), ma non lo sono», assicura De Grauwe, che spiega: «Non c’è alcun profitto, nel settore pubblico: il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo». Capito? L’economista vuol essere ancora più chiaro. «L’uno e l’altra potrebbero eliminare questa convenzione contabile perché in queste perdite e profitti non c’è alcuna sostanza economica». Detto in modo ancora più esplicito: «La Bce può distruggere i titoli di Stato, senza nessuna perdita». Ma, probabilmente temendo che questo sia al di sopra delle possibilità intellettuali del governatore Weidmann della Bundesbank (e degli eurocrati in genere) il belga insiste: «E’ letteralmente vero che la banca centrale potrebbe distruggere i titoli di Stato nel trituratore della carta: niente sarebbe perduto». Nel famoso esempio, «la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno, e non dovrebbe più girarli al governo ogni anno». E cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza? Il default causa certamente delle perdite ai detentori privati dei titoli. Ma, attenzione, «è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale: infatti essi adesso non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che paga la sinistra». In altre parole: «Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale».Nel caso dell’Eurozona le cose sono più complesse. Ma all’osso, la sostanza non cambia: le funzioni restano le stesse. Altro esempio: la Bce acquista 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono le seguenti: la Bce riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal Tesoro spagnolo e restituisce questi 40 milioni di euro non alla sola Spagna, ma a tutte le banche centrali nazionali dell’Eurozona; la distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella Bce. La banca centrale nazionale trasferisce quanto ricevuto al proprio Tesoro nazionale. Per esempio, la Bce trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro. Ecco perché, all’inizio del discorso, De Grauwe spiega che, anziché essere danneggiati, «i tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisti di debiti pubblici avviato da Draghi». L’effetto paradossale è questo: in un’unione monetaria che non è anche un’unione fiscale, un programma di acquisto di titoli di Stato «porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri», cioè dai paesi più indebitati e poveri a quelli non indebitati e ricchi. Che altro serve per dimostrare perversione del sistema euro?Perché la Bce può benissimo cancellare 250 miliardi. E chi lo nega è ignorante o in malafede, sostiene Maurizio Blondet, ricordando che il motivo lo ha spiegato – in un articolo del giugno 2013 – Paul De Grauwe, attualmente docente alla John Paulson Chair in European Political Economy, nella London School of Economics, già membro del Parlamento belga dal 1991 al 2003, autore di ricerche e libri fondamentali sulla politica monetaria, di cui è considerato fra le massime autorità. De Grauwe rispose al governatore Jens Weidmann della Bundesbank, la banca centrale tedesca, che s’era appellato alla Corte Costituzionale di Berlino, sostenendo che gli acquisti a palate di titoli di debito pubblico dei paesi dell’Eurozona che sta operando la Bce, esponevano i contribuenti tedeschi al rischio di dover pagare con le tasse le “perdite” che avrebbe subito la Bce in caso di insolvenza di Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. «De Grauwe mostra che la Bundesbank è ignorante, come quasi tutti gli economisti italiani (e non parliamo dei giornalisti) a ventilare una simile spaventosa ipotesi». Il motivo: «Applicano alle banche centrali i criteri di solvibilità e insolvenza di una banca privata, o di una qualsiasi impresa privata», sottolinea Blondet nel suo blog, ricordando che una banca centrale – prestatore di ultima istanza – non può mai “fallire”, potendo emettere denaro in modo illimitato.
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Usa, la religione fattura (esentasse) più di Apple e Microsoft
Secondo stime prudenziali, negli Stati Uniti le organizzazioni religiose genererebbero ogni anno un giro d’affari pari a circa 378 miliardi di dollari: ovvero, più dei fatturati globali di Apple e Microsoft messi assieme. Includendo anche le imprese con radici religiose, la cifra aumenta fino a circa 1,2 trilioni di dollari, mentre le stime che comprendono anche i redditi delle famiglie degli americani “affiliati” portano il reddito totale delle organizzazioni religiose a circa 4,8 trilioni di dollari l’anno, circa un terzo del Pil degli Stati Uniti. Lo rivela Phillip Schnieder su “Intellihub”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” che cita uno studio realizzato nel 2016 da Melissa e Brian Grim della Georgetown University e del Newseum Institute. Obiettivo dell’indagine: calcolare il costo e il contributo delle religioni alla società americana. «Fin dalla fondazione del paese, la religione ha sempre avuto un ruolo attivo nella vita della maggioranza degli americani», scrive Schnieder. «Nonostante la fede religiosa sia su una tendenza al ribasso, al contrario della laicità che invece è in aumento, nel 2014 il 70,6% degli americani s’identificava ancora per essere “cristiano”, mentre il 5,9% professava “fedi non cristiane”, come ad esempio il giudaismo e l’Islam, secondo il Pew Research Center».Molte ricerche sono ormai state fatte sull’impatto che le religioni hanno sulla comunità. A volte, aggiunge Schnieder, vengono usate come pretesto per cose terribili come l’estremismo violento o l’abuso sui minori. Ma c’è tuttavia una gran quantità di bene che viene catalizzato dalla religione, come ad esempio il volontariato, l’impegno civico e la sanità. Melissa e Brian Grim lo riconoscono e ben comprendono che «le cattive notizie fanno rumore, ma è importante guardare entrambi i lati della questione, per poter capire con chiarezza». Su queste premesse si fonda la raccolta dei dati presentati nel loro lavoro, “The Socio-economic Contribution of Religion to American Society: An Empirical Analysis”. Gli autori ritengono che la stima più ragionevole del “fatturato” religioso in America sia quella che si attesta su 1,2 trilioni di dollari annui, «perché tiene conto sia del valore dei servizi forniti dalle organizzazioni religiose, che dell’impatto che la religione ha su un certo numero di importanti imprese americane». I Grim hanno scoperto che le entrate combinate delle cinque maggiori organizzazioni religiose di beneficenza del paese ammontino a poco meno di 38 miliardi. Queste organizzazioni sono: Lutheran Services in America, Young Men’s Christian Association (Ymca), Catholic Charities, Salvation Army e Habitat for Humanity.Tuttavia, osserva Schnieder presentando lo studio, «la religione sta anche diventando una delle più grandi industrie esentasse del paese». I Grim hanno stimato (prudenzialmente) che i “media” cristiani generavano fin dal 2003 un fatturato di circa 6,8 miliardi di dollari annui: «Le stime indicano che il mercato dell’editoria religiosa e dei prodotti collegati valesse fin dal lontano 2003 ben 6,8 miliardi, poi in crescita ad un tasso di quasi il 5% l’anno». Un mercato suddiviso in tre categorie: libri (il segmento più grande, pari a 3,5 miliardi annui e un tasso di crescita del 7%), quindi cancelleria, articoli-regalo e merchandise (1,4 miliardi, e un tasso di crescita del 4,5%) e infine audio, video e software (1,4 miliardi, andamento costante). Assemblati i dati, Melissa e Brian Grim hanno concluso che il fatturato annuale “della religione”, pari a 378 miliardi, può essere suddiviso in cinque categorie: assistenza sanitaria (161 miliardi), attività congregazionali locali (83,8 miliardi), istruzione, come ad esempio le scuole cattoliche (74 miliardi), beneficenza (44,3 miliardi), media (0,9 miliardi) e alimentazione (14,4 miliardi). Gli autori riconoscono che le congregazioni religiose locali «forniscono un significativo livello di servizi sociali alla comunità, oltre a quelli offerti dalle organizzazioni religiose istituite con lo scopo specifico di fornire servizi di assistenza sanitaria, istruzione e beneficienza». Un modello di carità, chiosa Phillip Schnieder, che rischia però di diventare anche «un modello di business esentasse».Secondo stime prudenziali, negli Stati Uniti le organizzazioni religiose genererebbero ogni anno un giro d’affari pari a circa 378 miliardi di dollari: ovvero, più dei fatturati globali di Apple e Microsoft messi assieme. Includendo anche le imprese con radici religiose, la cifra aumenta fino a circa 1,2 trilioni di dollari, mentre le stime che comprendono anche i redditi delle famiglie degli americani “affiliati” portano il reddito totale delle organizzazioni religiose a circa 4,8 trilioni di dollari l’anno, circa un terzo del Pil degli Stati Uniti. Lo rivela Phillip Schnieder su “Intellihub”, in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” che cita uno studio realizzato nel 2016 da Melissa e Brian Grim della Georgetown University e del Newseum Institute. Obiettivo dell’indagine: calcolare il costo e il contributo delle religioni alla società americana. «Fin dalla fondazione del paese, la religione ha sempre avuto un ruolo attivo nella vita della maggioranza degli americani», scrive Schnieder. «Nonostante la fede religiosa sia su una tendenza al ribasso, al contrario della laicità che invece è in aumento, nel 2014 il 70,6% degli americani s’identificava ancora per essere “cristiano”, mentre il 5,9% professava “fedi non cristiane”, come ad esempio il giudaismo e l’Islam, secondo il Pew Research Center».
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Folli: governo “istituzionale” con Pd e M5S o nuove elezioni
«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».Di Maio si è rivolto agli elettori del Pd, ha difeso la necessità di un “contratto di governo al rialzo”. Ha detto che serve una legge sul conflitto di interessi e ha perfino “difeso” Salvini dal possibile attacco mediatico di Berlusconi. «Il conflitto di interessi non è una novità per Di Maio, ma stavolta è stata una minaccia: Berlusconi badi a non mettersi troppo di traverso». Secondo Folli, «le blandizie a Salvini sono poca cosa, se l’obiettivo è cercare di riaprire il fronte leghista, con l’idea che Salvini possa mollare Berlusconi dopo il voto in Friuli», alle regionali. Di Maio continua a parlare da premier in pectore, ma lo sarà mai? «No, né lui né Salvini», risponde Folli. «Di Maio parla al suo elettorato, che comincia ad essere assai deluso di quanto sta accadendo». Attenzione: «Se al malumore crescente per l’ipotesi di un’alleanza con il Pd si aggiunge la rinuncia esplicita a Palazzo Chigi, non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere nei 5 Stelle». Sul fronte opposto, i “governisti” del Pd sono ancora in minoranza, ma non è detto che il 3 maggio la direzione nazionale del partito sancisca per forza il “no” all’ipotesi di un governo col Movimento 5 Stelle: «La politica è strana», ammette Folli. «Stiamo vivendo una stagione piena di imprevisti».Difficile pensare a un accordo diretto tra Pd e 5 Stelle, «però un governo di garanzia o istituzionale sarebbe certamente visto in modo diverso nel Pd, anche da parte di coloro che oggi dicono “no” e basta». Sarebbe l’unica soluzione alternativa alle elezioni anticipate, sostiene Folli. Ma che governo dovrebbe essere, per essere votato anche da Salvini e Di Maio? «Un governo senza un’impronta politica, senza rappresentanti dei partiti nella squadra di governo e senza una maggioranza politica intesa come tale a sostenerlo». In altre parole: un esecutivo che non contenga nessuna delle istanze emerse alle elezioni (“la solita merda”, per dirla con Carpeoro). Cambiare almeno la legge elettorale? Solo strada facendo, dato che «ci vuole un accordo trasversale molto ampio, una maggioranza politica», mentre oggi «si comincerebbe da una semplice convergenza parlamentare su un governo di transizione». Un governo, ricorda Ferraù, che dovrebbe innanzitutto farsi carico del Def: cioè la “lista del rigore” che l’Ue pretende, come se gli italiani non avessero votato – in larga maggioranza – per archiviare l’austerity, tagliando le tasse e finanziando il reddito di cittadinanza. Il Def che incombe sul paese, ricorda Stefano Folli, prevede invece il taglio della spesa per scongiurare l’aumento dell’Iva: «Un’eventualità micidiale per l’economia italiana. E’ davvero singolare che non se ne parli».In mancanza di un’alternativa politica, osserva Folli, questo tipo di governo sarebbe la prima opzione del Colle. «L’altro giorno Di Maio ha scartato questa soluzione, a parole; nei fatti, potrebbe andare diversamente». E se anche questa soluzione dovesse fallire? «Resterebbero solo le elezioni anticipate, insieme al problema del governo con cui arrivarci», sottolinea l’editorialista di “Repubblica”. «Sarebbe un fallimento politico tremendo: altri Stati europei hanno rivotato in breve tempo senza terremoti, ma nella situazione italiana bisognerebbe pensarci bene prima di precipitarsi di nuovo alle urne, magari solo per calcoli e ripicche». Eppure, questa è la situazione: l’unica svolta politica – l’alleanza tra Di Maio e Salvini – è bloccata da Berlusconi, con cui Salvini non romperebbe mai, dato che punta a ereditare l’elettorato del Cavaliere: «Non gli conviene fare il partner di minoranza di un governo Di Maio, nemmeno in cambio di qualche ministro di peso». E se Berlusconi teme le urne, a scommettere sulle elezioni anticipate sarebbe proprio Renzi. Un calcolo spericolato, motivato solo dalla voglia di «regolare ancora una volta i conti con i suoi nemici interni, Franceschini per primo, e ottenere il controllo assoluto di un partito che ritiene non possa scendere sotto la percentuale del 4 marzo», un umiliante 18,7%. Un tracollo inflittogli dall’elettorato leghista e grillino, che il Pd pro-Bruxelles non ancora trovato il coraggio di discutere. Sul fronte opposto, chi ha vinto le elezioni (alzando il tono contro il rigore Ue) sembra destinato, ancora una volta, a “perdere” il governo.«Avremo la solita merda, perché votiamo con odio: contro qualcuno, anziché per qualcosa». A due mesi dalla tornata elettorale del 4 marzo, sembra stia avverandosi la ruvida “profezia” di Gianfranco Carpeoro, massone e saggista, osservatore particolare della scena italiana. «Non scegliamo un progetto, una prospettiva, un’ipotesi di futuro: alle urne, ci basta punire il “cattivo” di turno», si chiami Craxi o Berlusconi, o magari Matteo Renzi. Risultato: nessun vero progetto è sul tappeto, nemmeno stavolta, dopo settimane di inutili consultazioni. Fallito l’aggancio tra Di Maio e Salvini per via del veto sul Cavaliere, non resta che l’increscioso “inciucio” tra ex acerrimi nemici, peraltro annunciato dallo stesso Carpeoro: «La massoneria, italiana e internazionale, sta facendo enormi pressioni sul Pd perché archivi Renzi e si allei coi 5 Stelle». Magari per dare vita a un “governo istituzionale”, come unica alternativa alle elezioni anticipate (quasi inutili, restando invariata la legge elettorale). Lo afferma anche Stefano Folli, editorialista di “Repubblica”, sondato da Federico Ferraù per “Il Sussidiario” dopo la chiusura del mandato esplorativo di Roberto Fico. Ora tocca al Pd pronunciarsi. Ma quella del governo “istituzionale”, secondo Folli, è l’unica soluzione sulla quale il Pd renziano potrebbe trovare un punto di incontro con i grillini. «Mattarella attende fiducioso nuovi sviluppi, ma le possibilità di formare una maggioranza politica sono pressoché esaurite».
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Ciccarelli: reddito di base, il web fa miliardi col nostro lavoro
Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».Lo stesso avviene per i motori di ricerca, Google in primis. Ciccarelli lo descrive dettagliatamente nel suo libro. «I nuovi monopoli digitali che, sfruttando la retorica idiota dell’utopia web, accumulano ricchezze su ricchezze creando nuove disuguaglianze, sfruttando ogni più piccolo aspetto delle nostre vite, producendo in modo opaco nuove strutture di potere verticistiche, più che di discussione e partecipazione paritaria». E’ evidente: «Questo gigantesco apparato in cui siamo immersi non esisterebbe senza di noi. Senza la nostra forza lavoro, la nostra intelligenza, i nostri “amici” e le relazioni che costruiamo con loro». Ciccarelli ridefinisce questa realtà materiale del funzionamento dell’economia digitale ricorrendo alla definizione di “forza lavoro” data da Karl Marx: categoria con facoltà di produrre valori d’uso. «Chi oggi ha capito meglio questa definizione sono i nuovi capitalisti della Silicon Valley che, attraverso le piattaforme del Web 2.0, hanno inventato un sistema che permette di sfruttare, senza intermediari, la potenza di questa forza lavoro senza tuttavia riconoscere un centesimo – o poco più – a chi lavora per loro, pur non avendone consapevolezza».Nel saggio di Ciccarelli, i robot non sono considerati un nemico: basta rovesciare l’algoritmo che oggi impiega la macchina a discapito dell’uomo. Il reddito di base? «In sé non basta, perché altrimenti rischierebbe di essere una “mancia” data dai capitalisti ai loro schiavi». Occorre invece «una politica coraggiosa, che associ a una misura universalistica di reddito nuova disciplina fiscale, contro le diseguaglianze, una riforma del welfare». Il reddito di base, aggiunge Ciccarelli, è anche un modo per contrastare precarietà, “working poors” e dumping salariale. Una via per riaffermare la dignità dell’individuo. «Il reddito permetterebbe di respingere ogni forma di subordinazione e afferma l’autonomia dell’essere umano. Abbiamo bisogno anche di salario, diritti sociali, tutele universalistiche e un’etica dell’autodifesa digitale». Alla rivendicazione di questi aspetti – scrive – va associata una prospettiva più ampia: non basta un rapporto di lavoro ben regolato per interrompere lo sfruttamento continuo di ogni aspetto della nostra vita, «vanno trovati strumenti per dare la libertà a ciascuno di rifiutare i ricatti». E quello strumento è il reddito incondizionato. «Non è una proposta né utopistica né da scansafatiche, ma l’unico modo per arginare disuguaglianze, lavoro povero e precarietà: una proposta al passo con la trasformazione delle nostre società».La battaglia sul reddito di cittadinanza – patrimonio culturale e politico della sinistra – è passata ad essere pilastro del Movimento 5 Stelle, che l’ha inserito tra i propri punti programmatici. Di recente, sul suo blog, Beppe Grillo ha parlato di “reddito di nascita”, sganciato dalla produttività capitalistica, anche in realtà si configura come una forma di pura assistenza per i disoccupati, condizionata alla ricerca di un impiego. Il movimento Diem25, fondato dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, fa un’altra proposta: attingere ai profitti delle grandi corporations invece che alla tassazione generale. La tesi: le grandi innovazioni tecnologiche si appoggiano quasi sempre su investimenti pubblici in ricerca di base, mentre le compagnie più innovative sfruttano una produzione collettiva di ricchezza, come quella dei Big Data. Ma gli immensi profitti che ne derivano vengono ripartiti esclusivamente fra un numero limitato di azionisti. Il “dividendo di base universale” di Diem25, invece, propone di allargare i benefici a tutta la collettività. Come? Riservando una piccola percentuale delle azioni di tutte le compagnie quotate in Borsa ad un fondo comune di proprietà pubblica, che li riverserebbe poi alla cittadinanza in forma di reddito di base.(Il libro: Roberto Ciccarelli, “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale”, DeriveApprodi, 219 pagine, 18 euro).Dovrebbero pagarci per il solo fatto di esistere: ogni giorno, infatti, produciamo un’immensa mole di “lavoro”, non riconosciuto né contrattualizzato. Il reddito di base, universale e senza condizioni, oggi andrebbe sganciato dal lavoro, essendo «una delle possibili forme di remunerazione delle attività che già svolgiamo nella società e nell’economia, anche in quella digitale». Dunque «non una forma di riparazione o di assistenza contro la povertà», ma una nuova frontiera della convivenza: è la tesi che Roberto Ciccarelli, giornalista e filosofo, esprime nel saggio “Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale” (DeriveApprodi). Sharing economy, gig economy, free lance, robot: l’ufficio e la fabbrica non sono più le uniche sorgenti del “plusvalore”. Un valore invisibile, come quello al quale attinge Facebook: più tempo passiamo a mettere “like” o a esprimere opinioni, più il social network ci profila, acquisisce dati, li rielabora ad uso dell’offerta pubblicitaria, che è il cuore del suo business. Come dimostra il caso di Cambridge Analytica, scrive Giacomo Russo Spena su “Micromega”, il nostro lavoro è usato per costruire “frame” interpretativi «sempre più decisivi nella produzione del consenso, attraverso sofisticate strategie di marketing elettorale nelle post-democrazie neoliberali della demagogia elettronica». Così si crea profitto: «Un enorme guadagno su quel valore che abbiamo prodotto attraverso il nostro intrattenimento digitale».
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Reddito di cittadinanza: è il piano (infernale) degli oligarchi
Mark Zuckerberg non ha bisogno di presentazioni: mister Facebook vale 64 miliardi di dollari. Altro paperone-prodigio: il sudafricano Elon Musk, patron di Tesla e Space-X. Cos’hanno in comune, a parte i giacimenti aurei? La fede nel reddito di cittadinanza. La pensano così anche l’americano Richard Branson della Virgin e il canadese Stewart Butterfield, l’inventore della banca-immagini Flickr e di Slack, applicazioni per messaggerie. Uomini d’oro e potenti oligarchi, improvvisamente anche umanitari: si stanno battendo a favore del reddito di base garantito, osserva Chris Hedges, a lungo corrispondente estero del “New York Times”. «Sembra che siano dei progressisti e che esprimano queste loro proposte con parole che parlano di morale, prendendosi cura degli indigenti e dei meno fortunati». Ma dietro questa facciata, scrive Hedges, c’è una cruda consapevolezza: soprattutto la Silicon Valley «vede un mondo – quello che questi oligarchi hanno contribuito a creare – tanto iniquo che i consumatori di domani, che dovranno sopportare la precarietà del lavoro, salari sotto i minimi, l’automazione e la schiavitù di un debito che blocca tutto, non saranno in condizione di spendere abbastanza per comprare i prodotti e i servizi offerti dalle grandi corporations».
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Amoroso: Federico Caffè visse a lungo, dopo la scomparsa
«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.Chi era Federico Caffè? Un economista stimato a livello internazionale, docente alla Sapienza. Un economista umanista, critico nei confronti dei tecnocrati, degli istituzionalisti. Un alfiere dell’umanesimo di Keynes «contrapposto al darwinismo schumpeteriano», detto con parole sue. Il suo credo: l’economia dev’essere al servizio del benessere della comunità, partendo dai bisogni dei più deboli. Come economista, scrive Da Rin, era affascinato dall’approccio interdisciplinare della scuola nordica di Gunnar Myrdal e di Jan Tinbergen. Teoria e pratica del welfare universale, per demolire le diseguaglianze: «In cima ai suoi pensieri l’obiettivo del benessere mondiale e di una radicale trasformazione di sistemi che, se realizzati, avrebbero sconfitto la controrivoluzione liberista». Gli allievi ne parlano così: «Le sue lezioni esondavano dall’economia, lambivano la politica, la letteratura, la storia, la musica». La sua umanità rivestiva un aspetto centrale, «qualcosa di spiritualmente indefinibile che sprigionava dalla sua persona». Il professor Caffè «era capace di domandarti di te, chi sei, cosa fai, a cosa aspiri, da dove vieni, dove ti piacerebbe andare». Tra gli ex allievi, proprio Bruno Amoroso è stato l’erede designato del grande patrimonio culturale e umano di Caffè.Amoroso ha vissuto e insegnato in Danimarca per 40 anni, dopo essere sbarcato in Scandinavia con il proposito di approfondire gli studi sui sistemi di welfare e sulla loro esportabilità. Aveva in tasca le lettere di presentazione di Caffè, già allora apprezzato anche dagli economisti scandinavi. In un bellissimo libro, “Memorie di un intruso”, edito da Castelvecchi, Amoroso racconta tutto della sua vita, «e quasi ogni pagina parla del maestro Caffè», sottolinea Da Rin sul “Sole”. «Pur con le lettere di presentazione di Caffè, Amoroso aveva bisogno di un permesso di soggiorno per vivere in Danimarca». Laureato a pieni voti e impegnato nella ricerca, stimato e inviato all’estero dall’Istituto di politica economica della Sapienza, trovò lavoro come “assistente lavapiatti”, facendo poi anche il portiere di notte. Due anni dopo, divenne finalmente “professore associato” in una università danese. Sempre in “Memorie di un intruso”, Amoroso scrive: «Federico (Caffè) capì la situazione prima di noi e ha trascorso gli anni che ci separano da lui tornando alla sua amata musica classica e al silenzio. Una volta lo interruppi in questo ascolto con una canzone di Lucio Dalla, “Come è profondo il mare”. Ascoltò in silenzio, accennò un grazie con la mano, e riprese l’ascolto di una sinfonia di Mahler».Così l’allievo più intimo, Bruno Amoroso, ci ha consegnato un segreto: scrive di averlo visto e frequentato, il maestro, dopo la sua scomparsa. «A quasi trent’anni dalla sua uscita di scena, e a 102 dalla sua nascita, acquisiamo quindi un elemento importante del mistero di Caffè: né suicidio né rapimento», scrive Da Rin, a cui Amoroso ha rilasciato un’intervista decisiva, parlando dell’antico maestro con il sussiego e l’ammirazione di sempre: «I meriti di Caffè – ha ribadito Amoroso – sono riconducibili al piano etico, oltre che a quello scientifico». Tra gli allievi più noti del professore ci sono Mario Draghi, Ignazio Visco di Bankitalia, Marcello De Cecco a Giorgio Ruffolo, Guido Rey, Enrico Giovannini, Nino Galloni. Da “allievo prediletto”, Bruno Amoroso è stato il destinatario di centinaia di lettere confidenziali. Per Amoroso, è importante ribadire il primo assioma del Caffè-pensiero: «L’economia è uno strumento importante al servizio del benessere delle persone».È l’attualità di Caffè che lascia stupefatti, ammette il “Sole 24 Ore”. «L’allarme per le derive populiste alimentate da ingenti flussi migratori (che 40 o 50 anni fa non esistevano) è cronaca di questi mesi, di queste settimane», scrive Da Rin. Profonda capacità di analisi, una lucidità previsiva. «Perché credi che i sistemi di welfare siano in crisi?», ha domandato Amoroso al giornalista. «Certo, ci sono i costi sociali dell’impresa che sono cresciuti in modo esponenziale, così come sono aumentati i fruitori dei servizi pubblici. Ma in modo inversamente proporzionale è cambiata la disposizione delle persone per la solidarietà e i sentimenti». Una riflessione di straordinaria attualità, scrive il “Sole”, nei giorni in cui Europa e Stati Uniti erigono barriere e muri “contro” i più deboli. L’ipotesi suicidio – aggiunge Da Rin – si svuota quindi di qualsiasi valenza possibile. «E il ritiro in convento emerge in tutta evidenza», con la copertura offerta da un ordine religioso. «La Chiesa è disponibile a offrire protezioni di questo genere, purché ricorrano determinate condizioni». Così rispose il padre Jesus Torres, autorevole rappresentante della “Congregazione per gli istituti di vita consacracata e le società di vita apostolica”, incalzato da Ermanno Rea che 27 anni fa cercò di risolvere il mistero della scomparsa di Caffè e scrisse il libro “L’ultima lezione”.In un altro bel libro, “La Stanza rossa”, pubblicato nel 2004 da “Città aperta”, Bruno Amoroso racconta Caffè attraverso decine di lettere autografe e riflessioni scientifiche. «Anche qui ci sono conferme importanti del ritiro del maestro: confessioni vergate dal professore al suo allievo preferito», sggiunge Da Rin sul “Sole”. Già nei primi anni Ottanta, pochi anni prima della pensione, Caffè pare voglia abdicare alla sua vita: «Sono triste e depresso; e solo; e angosciato; e malinconico; e trepidante». Si legge in filigrana il desiderio di scomparire. Ancora una volta all’ultima pagina, si riporta una confessione premonitrice di Caffè, accolta e pubblicata da Amoroso: «Nella mia vita si sono ormai prodotte rigidezze che ponevano limiti invalicabili alla comprensione e all’esperienza: mi restava di continuare sulla via dell’isolamento delle idee, che avevo già intrapreso, e di aprire, in solitudine, la porta della meditazione esistenziale». Il convento, appunto. «Pochi anni dopo è lo sconforto che pervade la vita del professore, ormai “fuori ruolo”, lontano dai suoi collaboratori, dai suoi studenti», osserva Da Rin. Federico Caffè cita Giuseppe Ungaretti: «Mi pesano gli anni futuri».Una decisione, quella di scomparire, che sarebbe maturata con la lettura di un libro di Leonardo Sciascia, “La scomparsa di Majorana”, che Caffè leggeva prima di uscire di casa per l’ultima volta. Quella stessa copia del libro è finita a casa di Bruno Amoroso, a Copenhagen, in via Webersgade. Convincente e plausibile, il parallelo tra Majorana e Caffè. Due angosce con similitudini forti: per Sciascia la scomparsa di Majorana vale un mito, quello del «rifiuto della scienza». Per Amoroso, aggiunge il “Sole”, quella di Caffè è la solitudine di un riformista che non accetta il dissolvimento dei valori, la regressione culturale in atto. L’altro mistero – riflette Giorgio Lunghini, un economista importante con cui Caffè ha intrattenuto rapporti di lavoro e di amicizia – è questo: perché mai un liberale ha scritto così spesso su un quotidiano “comunista”, come il “Manifesto”? Lunghini ne dà una risposta ironica e persuasiva, coerente con il pensiero di Caffè. «Una spiegazione ragionevole è che Caffè vedeva nel “Manifesto” l’unico giornale il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero».«Trent’anni dopo, in Danimarca. Sono qui le ultime tessere che ricompongono il mosaico della scomparsa di Federico Caffè». E’ l’allievo più vicino al grande economista keynesiano, Bruno Amoroso, a svelare cosa c’è dietro la misteriosa sparizione dell’énfant prodige dell’economia italiana, stimato in tutta Europa. Già nel 1946 lavorava al ministero della ricostruzione, sotto il governo Parri, come giovanissimo assistente del ministro Meuccio Ruini, presidente della Commissione dei 75 per la Costituzione. Dopo una vita dedicata all’insegnamento, gli ultimi decenni alla Sapienza di Roma, Federico Caffè scomparve dalla storia uscendo dalla sua abitazione di via Cadlolo, nella capitale, dove viveva con il fratello. Era l’alba del 15 aprile 1897. Lasciò sul comodino occhiali e orologio. Di lui non si saprà più niente. Un rapimento, un suicidio, un ritiro spirituale in un convento? Sono queste le ipotesi su cui si orientarono le indagini della polizia, degli investigatori, dei suoi amici e dei suoi studenti, che setacciarono le strade di Roma. Indagini di anni. «Oggi sappiamo, come riveliamo in questo articolo, che Caffè ha vissuto a lungo, dopo la sua scomparsa. E che il suo allievo prediletto, Bruno Amoroso, custodisce il segreto dell’esilio del maestro». Lo scrive Roberto Da Rin sul “Sole 24 Ore” il 27 novembre 2016, poco prima della scomparsa dello stesso Amoroso, spentosi a Copenhagen il 20 gennaio 2017.
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Michael Hudson: soldi, lo sporco affare dietro al caso Skripal
Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.Bisognerebbe capire quale beneficio dia alla Russia uccidere un’ex spia del governo britannico, restituita all’Occidente in uno scambio di spie e che, a quanto si dice, voleva tornare in Russia. Ovviamente non ce n’è alcuno. Le sanzioni sono pertanto indipendenti da questo evento. La legge occidentale peraltro si basa sulla presunzione di innocenza e sulla certezza delle prove. Non dovrebbe essere dato alcun giudizio senza l’ausilio delle prove. Altrimenti ci si basa su dicerie. Il secondo principio della legge occidentale è che ambo le parti possano presentare la propria versione. Nell’affare Skripal la Russia non può farlo, non essendole stati dati campioni del veleno che potrebbero scagionarla. Non è stato nemmeno concesso loro di vedere Skripal, sebbene sia un cittadino russo, o sua figlia, che ora è sveglia e in via di guarigione. Gli inglesi neanche permetteranno ai suoi parenti di venire in Gran Bretagna. La reazione è così sproporzionata che è ovvio non ci sia una relazione logica. Questo è un doppio standard bello e buono. Penso dunque che invece di una rappresaglia ci sia una strategia predeterminata antirussa, ed un tentativo di isolarne l’economia.La domanda è: perché sta succedendo? E quali sono igli obiettivi ultimi? In un primo momento, pensavo fosse la vendetta per il fallito tentativo americano di usare Isis ed Al-Qaeda come legione straniera per sostituire Assad. O forse è una scusa per appropriarsi del suo petrolio? O la frustrazione per la scelta della Crimea di unirsi alla Russia? Quel che è certo è che sembra ci sia una guerra fredda economica che si sta intensificando. Il risultato è che Russia, Cina e Iran si stanno avvicinando. Quel che abbiamo è dunque una minaccia di isolare la Russia se non fa certe cose. E quindi per risolvere l’affare Skripal bisogna chiedersi: quali sono queste cose che Stati Uniti e Gran Bretagna vogliono? Beh, una è che la Russia spinga la Corea del Nord a smantellare il proprio programma nucleare, cosa che, come è normale che sia, avverrà solo se l’esercito Usa lascerà la penisola. Un altro obiettivo di Washington è che Mosca se ne vada dalla Siria. Trump ha dichiarato la settimana scorsa di volersi ritirare dalla Siria. La domanda però è: se l’America se ne va, cosa farà Mosca? Queste sanzioni sono un segnale: avete visto cosa possiamo fare per ferirvi, vi lasceremo stare se ve ne andrete dalla Siria. Un altro obiettivo è forse quello di far desistere la Russia dall’aiutare l’Ucraina orientale.Gli Stati Uniti, quando vogliono isolare un paese, di solito lo accusano di guerra chimica. Basti pensare a quando Bush disse che l’Iraq aveva armi chimiche di distruzione di massa. Sappiamo che era una bugia. Oppure ad Obama quando disse che Russia ed Assad stavano usando armi chimiche in Siria. Penso dunque che quando dicono che la Russia o Assad o l’Iraq stanno usando armi, questo sia un modo per generare paura, di modo che l’esercito possa venir dispiegato. Trump ha ripetuto ciò che ha detto quando era candidato alla presidenza. Vuole che i paesi europei paghino di più i costi militari della Nato. Lo va dicendo da più di un anno. E penso che sia questa il vero nocciolo dell’affaire Skripal. Usando una cosa abietta come le armi chimiche, si vuole creare un’isteria anti-russa che consenta ai governi Nato di raccogliere molto più budget militare di quanto non facciano ora dagli Stati Uniti. Costringerà tutti i loro paesi a pagare il 2% del proprio Pil al complesso militar-industriale americano. Quindi, in sostanza, l’affare Skripal è stato messo in piedi per spaventare le popolazioni e consentire alla Nato di aumentare le spese militari nell’industria della difesa Usa.Le popolazioni diranno: aspettate un attimo, i bilanci europei non possono monetizzare un deficit di bilancio; se raccogliamo più spese militari per la Nato allora dovremmo ridurre le nostre spese in welfare. Il caso Skripal è dunque una scusa per cercare di addolcire il popolo europeo, di spaventarlo dicendo “sì, è meglio che paghiamo per le pistole, possiamo fare a meno delle cose importanti”. È la stessa situazione in cui erano gli Stati Uniti negli anni ’60, ai tempi della guerra del Vietnam. Queste accuse credo servano anche per comminare sanzioni che interrompano il commercio occidentale con Russia e Cina, impedendo a compagnie assicurative come la Lloyd’s di assicurare spedizioni e trasporti. Le banche direbbero che non daranno più questi servizi a Russia. E la sanzione parallela sarebbe quella di bloccare le banche statunitensi. Dal ’91, anno in cui l’Unione Sovietica è stata sciolta, il deflusso di capitali verso l’Occidente è stato di circa 25 miliardi di dollari l’anno. Ciò significa un quarto di trilione di dollari in un decennio e mezzo trilione di dollari in 20 anni. Il deflusso è continuato fino a poco tempo fa al ritmo di 25 miliardi all’anno. Proprio nelle ultime due settimane avete letto sui giornali il chiasso sulle banche lettoni, “veicoli per il riciclaggio di denaro russo”… come se l’Occidente fosse veramente sorpreso. È il motivo esatto per cui le banche lettoni sono state istituite!Già prima della caduta dell’Unione Sovietica, nell’88 ed ’89, Grigory Luchansky, che lavorava per l’Università della Lettonia a Riga, fu il vettore che diede vita al Nordex come modo per il Kgb e l’esercito russo di spostare i propri soldi fuori del paese. Miliardi di dollari all’anno hanno attraversato le varie banche lettoni negli ultimi 25 anni. La loro attività principale è stata quella di ricevere i depositi russi, per poi trasferirli in Occidente nelle banche britanniche o nelle corporations del Delaware. Sono stato per un certo periodo direttore di ricerca e professore di economia per la facoltà di legge di Riga – circa sei o sette anni fa – per cui ho avuto regolarmente a che fare col governo lettone, col primo ministro e coi regolatori delle banche. Tutti mi hanno spiegato che il precipuo scopo delle banche lettoni era quello di incoraggiare i deflussi di capitali della Russia verso l’Occidente. Dal punto di vista americano, questo era un modo per prosciugare il nemico. L’idea era quella di spingere la privatizzazione neoliberista su servizi pubblici, risorse naturali e proprietà immobiliari russi. Si diceva: «Prima di tutto, privatizzate beni pubblici come Norilsk Nickel e compagnie petrolifere come Khodorkovsky. Ora che le avete in mano, l’unico modo per guadagnare denaro, dato che non ci sono soldi rimasti in Russia, è venderli all’Occidente».E così, in pratica, hanno svenduto queste aziende accumulando enormi capitali, tramite falsa fatturazione delle esportazioni, spostando il denaro principalmente nelle banche britanniche. È per questo che si vedono i cleptocrati russi acquistare proprietà molto cospicue a Londra e rilanciare sul prezzo del patrimonio immobiliare londinese. Ora tutto questo ha tremendamente prosciugato la Russia, che ora minaccia di confiscare i beni dei cleptocrati. Questi ultimi adesso sono spaventati e stanno riportando i propri soldi in patria, lontano dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, dalle corporation del Delaware, dalle Isole Cayman o da dovunque li abbiano messi. Questo mentre ci sono sanzioni contro quelle banche americane che prestano soldi alla Russia. Si assiste dunque a questo immenso afflusso di dollari e sterline verso Mosca, che ora li sta usando per costruire le proprie riserve di oro. Nel tentativo di far male alla Russia, minacciandone gli oligarchi, in realtà si sta fermando l’esodo di capitali, e ciò sta avvenendo come conseguenza delle privatizzazioni.(Michael Hudson, dichiarazioni rilasciate a Michael Palmieri per l’intervista “Il retroscena economico dietro all’avvelenamento di Skripal”, pubblicata da “Counterpunch” il 6 aprile 2018 e tradotta da Hmg per “Come Don Chisciotte”. Eminente economista, professore emerito all’università del Missouri-Kansas City, il professor Hudson è stato analista finanziario e consulente finanziario a Wall Street. Tuttora presidente dell’Istituto per lo Studio delle Tendenze Economiche di Lungo Termine, nel 2012 ha partecipato al primo summit italiano sulla Mmt, Modern Money Theory, promosso a Rimini da Paolo Barnard).Chiunque abbia visto i film di James Bond sa che 007 può uccidere i propri nemici. E gli Stati Uniti ammazzano gente da anni, vedasi Allende e le decine di migliaia di leader sindacali e professori universitari. L’amministrazione Obama ha preso di mira paesi stranieri persino per i propri attacchi di droni, sminuendo le vittime civili come danno collaterale. Nessun paese straniero ha interrotto le proprie relazioni con Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele o qualsiasi altro paese che usa l’assassinio mirato come scelta politica. Questa pretesa, senza alcuna prova, che la Russia abbia ucciso qualcuno è dunque irricevibile. La domanda quindi è: perché stanno facendo questo? Perché stanno imponendo sanzioni e montando una gran campagna pubblicitaria? Per avere la risposta, facciamo un passo indietro ed analizziamo meglio questa reazione, che sembra così fuori dell’ordinario per britannici, americani e Nato. Per i neofiti, le sanzioni fanno parte di un gioco diplomatico progettato per contrastare i guadagni russi. Quando Stati Uniti e Gran Bretagna hanno imposto le proprie sanzioni bancarie, hanno giustificato la cosa dicendo che quella era un atto dimostrativo: se voi russi pensate di poter fare dei profitti, vi faremo perdere ancor più di quanto potreste guadagnare.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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Dopo Tillerson, Pompeo: il super-lobbista dei fratelli Koch
La sostituzione del segretario di Stato americano Rex Tillerson con il direttore della Cia, Mike Pompeo, era prevedibile: secondo gli analisti geopolitici russi di “Fondsk”, dietro ai dissidi delle ultime settimane – caso Skripal, nucleare iraniano, Corea del Nord, Gerlusalemme capitale “unilaterale” di Israele – si celano in realtà «profonde contraddizioni tra le realtà imprenditoriali rappresentate da Tillerson e quelle che fanno riferimento a Trump». Come ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Tillerson «ha difeso gli interessi di quella parte di business americano che ha già messo radici in Medio Oriente e che non è interessata ad un peggioramento ulteriore delle relazioni con il mondo islamico». Allo stesso tempo, la scelta di promuovere Pompeo a capo della politica estera Usa «mostra chiaramente chi brama alla nuova spartizione delle sfere di influenza economica nella zona e al rafforzamento dell’infrastruttura militare statunitense in essa». Pompeo, ricorda “Fondsk” in un’analisi tradotta da “Come Don Chisciotte”, ha dato ampiamente prova di essere «una creatura dei fratelli David e Charles Koch, comproprietari della più grande società privata d’America, la Koch Industries (i guadagni per il 2017 ammontavano a 100 miliardi di dollari, il numero di dipendenti superiore a 120 mila persone)».I fratelli Koch sono noti per i loro punti di vista ultra-conservatori, per il sostegno a movimenti corrispondenti (come il “Tea Party”) e per un livello eccezionalmente alto di “sponsorizzazione politica”. «Le loro elargizioni annuali per “attività sociali” ammontano a decine di milioni di dollari. Per questa famiglia, il concetto di “oligarchi” è pienamente applicabile». Il loro campo di attività riguarda principalmente la raffinazione del petrolio, nonché la costruzione e l’esercizio delle condutture, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Avendo una vasta rete di filiali e vasti investimenti all’estero, i fratelli Koch fino a poco tempo fa avevano scarsa presenza in Medio Oriente, regione chiave per le loro attività». E ora, con Mike Pompeo, hanno finalmente la possibilità di rimescolare le carte, estromettendo la concorrenza. «Pompeo è strettamente associato ai fratelli sin dalla fondazione di una grande azienda per la produzione e la manutenzione delle attrezzature per la produzione di petrolio, la Sentry International, che ha sede nella per loro fondamentale città di Wichita, nel Kansas». L’ex capo della Cia era membro del consiglio di amministrazione del Kansas Policy Institute, centro informativo-analitico dello schieramento dei conservatori, fondato dai fratelli.«Con il sostegno finanziario della famiglia Koch – continua “Fondsk” – nel 2010, Pompeo ha condotto la campagna per la sua elezione alla Camera dei rappresentanti del Congresso, dove ha sufficientemente salvaguardato le loro opinioni e interessi: prima nel comitato dell’energia e del commercio, e poi nel comitato speciale per l’intelligence». Tra i colleghi, ha ricevuto il soprannome “Congressman dei fratelli Koch”. Durante la sua permanenza al Congresso, «Pompeo ha ricevuto legalmente, dalla famiglia Koch, 375.500 dollari». A favore dei suoi sostenitori, il futuro segretario di Stato «ha fatto pressione per le leggi di diminuzione dei provvedimenti normativi nei confronti delle compagnie petrolifere e del gas, nonché per il blocco delle agevolazioni fiscali per lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili. Basti dire che il capo dello staff di Pompeo nel Congresso era l’avvocato corporativo della Koch Industries, Mark Chenoweth. E nel 2012, Pompeo ha persino scritto per “Politico” un articolo dal titolo dal carattere forte, “Stop Harassing the Koch Brothers”» (finitela di tormentare i fratelli Koch).Per questa famiglia, Pompeo è un affermato promotore degli interessi che la coinvolgono: dati i forti legami con le forze di sicurezza, è una figura ideale per il nuovo incarico. «Il successore di Rex Tillerson è adeguato sia per le forze armate che per il complesso militare-industriale», assicura “Fondsk”. Formatosi all’accademia militare di West Point e cresciuto nell’esercito durante la guerra fredda in Est Europa, nel 1991 – crollata l’Urss – Pompeo (nel frattempo laureatosi in legge a Harvard) è passato ai fratelli Koch gestendo la società aerospaziale Thayer Aerospace, legata al complesso militare-industriale del Pentagono. «Gli esperti collocano univocamente Mike Pompeo nel novero dei falchi», sottolinea l’analisi pubblicata da “Come Don Chisciotte”. «La sua posizione si distingue per particolare intransigenza nei confronti dell’Iran, contro il quale ha invocato l’uso della forza militare già nel 2014». Come direttore della Cia, alla fine del 2017 ha messo l’Iran e lo Stato Islamico (Isis) sullo stesso piano. «È facile presumere che Pompeo sosterrà l’uscita promessa da Trump dall’accordo nucleare con l’Iran, al quale Tillerson, in tutta franchezza, si è opposto».Ugualmente rigide sono le opinioni di Pompeo su ciò che sta accadendo in Siria: «Ha ripetutamente affermato che non può immaginare una Siria “stabile”, con Bashar Assad al potere». Ha definito il processo di riconciliazione nazionale e la cessazione delle ostilità «uno stratagemma degli ayatollah e di Vladimir Putin». Si è anche convinto che scambiare con la Russia informazioni di intelligence sulla Siria è «un’idea dannosa», dato che Mosca può usare queste informazioni per colpire i jihastisti siriani fedeli a Washington. Non proprio all’unisono con il capo della Casa Bianca, Pompeo ha dichiarato addirittura che «l’ingerenza della Russia» nella vita politica degli Stati Uniti non era cosa sporadica, che era una “costante minaccia” esistente già «da molti anni». In generale, quello dei falchi di Washington (ex e attuali) è mix pericoloso: pensano ancora di dominare in esclusiva il Medio Oriente, cioè l’area più esplosiva della Terra. «Rimane la speranza che il caratteristico pragmatismo che si configura come professionale e militare li costringa a essere guidati ancora prima di tutto dal buon senso, piuttosto che dalle chimere della geopolitica e dell’ideologia», chiosa “Fondsk”. Sempre che i piani dei fratelli Koch non prevedano proprio la guerra, per incrementare il loro business.La sostituzione del segretario di Stato americano Rex Tillerson con il direttore della Cia, Mike Pompeo, era prevedibile: secondo gli analisti geopolitici russi di “Fondsk”, dietro ai dissidi delle ultime settimane – caso Skripal, nucleare iraniano, Corea del Nord, Gerlusalemme capitale “unilaterale” di Israele – si celano in realtà «profonde contraddizioni tra le realtà imprenditoriali rappresentate da Tillerson e quelle che fanno riferimento a Trump». Come ex direttore esecutivo di Exxon Mobil, Tillerson «ha difeso gli interessi di quella parte di business americano che ha già messo radici in Medio Oriente e che non è interessata ad un peggioramento ulteriore delle relazioni con il mondo islamico». Allo stesso tempo, la scelta di promuovere Pompeo a capo della politica estera Usa «mostra chiaramente chi brama alla nuova spartizione delle sfere di influenza economica nella zona e al rafforzamento dell’infrastruttura militare statunitense in essa». Pompeo, ricorda “Fondsk” in un’analisi tradotta da “Come Don Chisciotte”, ha dato ampiamente prova di essere «una creatura dei fratelli David e Charles Koch, comproprietari della più grande società privata d’America, la Koch Industries (i guadagni per il 2017 ammontavano a 100 miliardi di dollari, il numero di dipendenti superiore a 120 mila persone)».
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Attacco alla medicina naturale, criminalizzata come devianza
In questi ultimi tempi stiamo assistendo ad una vera e propria guerra tra la medicina naturale, o naturopatia, e la medicina tradizionale. Una guerra senza esclusione di colpi, che vede da una parte indagati o radiati medici non in linea con le linee del sistema (pensiamo al recente caso di Stefano Montanari, o a quello di Paolo Rege Gianas), dall’altra comportamenti e dichiarazione assurde (come quella di Nadia Toffa, che ha dichiarato di essere guarita in pochi mesi da un tumore grazie alla chemioterapia, e che – improvvisatasi esperta di medicina – ha fatto un invito pubblico a curarsi solo con radio e chemio affermando siano le sole cure possibili). E’ di queste ore la notizia dell’arresto di Mario Pianesi, considerato il guru della macrobiotica in Italia (fondatore di un vero e proprio impero macrobiotico, con circa 100 ristoranti che dipendono dalla sua associazione), accusato di associazione a delinquere finalizzato alla riduzione in schiavitù e evasione fiscale. Non scenderò nei contenuti dell’inchiesta, perché non conosco i particolari della vicenda (anche se, per la notorietà internazionale dell’indagato, che era ricevuto in privato dal Papa, era invitato a eventi del Rotary locale, e aveva riconoscimenti internazionali un po’ ovunque – aveva anche ricevuto una laurea honoris causa dall’università della Mongolia – propenderei per uno scontro tra poteri a livelli piuttosto alti).Mi limiterò a vagliare le dichiarazioni dei quotidiani, per far vedere come, dietro a questa vicenda, si cela comunque anche – perlomeno da parte della stampa – un attacco alla medicina naturale. Iniziando all’Ansa, che ha dato la notizia stamattina: “Smantellata la setta macrobiotica”. Come foto compariva una riunione di persone col cappuccio, dandosi ad intendere che macrobiotica e sette esoteriche o sataniche siano un fenomeno assimilabile. Nell’articolo si citavano le diete ristrettissime denominate Mapi 1, 2, 3, 4 e 5 che venivano imposte forzatamente agli affiliati. Altri quotidiani hanno citato queste terribili diete come una tortura inflitta alle “vittime”. In realtà tali diete restrittive partono da una normalissima dieta depurativa monoalimento, per finire con una dieta (la Mapi 5) composta da cereali, legumi, frutta, verdura, carne, pesce e dolci, con eliminazione di zuccheri semplici e alcuni alimenti. In sostanza, poco di diverso da quanto proposto da qualsiasi linea guida nutrizionale corretta. Tanto è vero che la bontà di queste linee guida alimentari è stata certificata da riviste internazionali del settore medico e da nutrizionisti esperti.Poche ore dopo la foto della setta sull’Ansa è scomparsa, ed è stata rimpiazzata dalla foto di una ragazza anoressica, e i contenuti dell’articolo sono diventati più razionali (l’articolo infatti si incentra sui contenuti dell’inchiesta e sono sparite le assurdità dietetiche). Questa dieta, affermano praticamente tutti i quotidiani, prometteva miracoli per curare malattie. Scrive ad esempio “Il Messaggero”: «Le indagini della polizia hanno accertato che il rigido stile di vita imposto dal maestro, attraverso le diete Ma.Pi, (dal nome del maestro) in numero di 5 (gradualmente sempre più ristrette e severe) e le lunghe “conferenze” da lui tenute, durante le quali si parlava per ore della forza salvifica della sua dottrina alimentare, erano volte a plasmare un asservimento totale delle vittime». Questa frase, delle diete sempre più ristrette e severe, è stata ripresa un po’ da tutti i quotidiani. A parte il fatto che le diete, come abbiamo detto, non sono “sempre più restrittive e severe”, ma sono via via sempre più permissive, avremmo insomma una setta che asservisce le vittime a base di dolci, carne, pesce, legumi cereali e frutta. Cioè a base di una dieta completa. Questo è quello che si evince leggendo i giornali.In altre parole: abbiamo una persona indagata per una serie di fatti che non sappiamo se abbia commesso o no; ma i giornali puntano i titoli, e anche i contenuti dei vari articoli, sui pericoli della macrobiotica. Un po’ come se, indagati Berlusoni e Dell’Utri di associazione mafiosa, all’epoca proprietario del Milan, della Standa, i giornali avessero deciso di incentrare la notizia sui pericoli dei supermercati e sulla inutilità del gioco del calcio, scrivendo “indagati Dell’Utri e Berlusconi, guru dei supermercati e del gioco del calcio, fenomeno demenziale in cui 22 giovanotti in mutande si disputano una palla, e vengono pagati miliardi per questa assurdità. I due guru cercavano di abbindolare la gente facendoli entrare nei loro supermercati, praticando sconti sui prodotti, e facevano un pacco di soldi con questo gioco inutile, che non serve a nulla e anzi, provoca pure danni (basti vedere le vittime fatte dagli ultrà delle varie squadre italiane)”.Per un contrappasso curioso, nello stesso giorno, sempre l’Ansa declamava le meravigliose proprietà di una nuovissima dieta (ovviamente proveniente dall’America), tra i cui principi fondanti troviamo: 1) mangiare solo gli alimenti che ci piacciono; 2) mangiare al massimo tre volte al giorno; 3) saltare un pasto se si va a cena fuori. Insomma, una marea di banalità che se applicate alla lettera, potrebbero fare innumerevoli danni perché potrebbero portare una persona a mangiare solo carne qualora fosse l’unico alimento che gli piace, e non fornisce alcune indicazione sui vari componenti della dieta. In conclusione: il problema non è se le accuse siano vere o false, perchè di quello si occuperà la magistratura. Il problema è che una persona viene indagata per un reato preciso, ma il problema diventano non i reati in sé, ma la dieta macrobiotica. E l’impressione generale è che – dal punto di vista giornalistico – la vicenda sia strumentalizzata per attaccare tutto il sistema della medicina naturale, e che la vicenda debba essere inquadrata nel più generale contesto della guerra tra medicina naturale preventiva e medicina classica allopatica.(Paolo Franceschetti, “Attacco alla medicina naturale”, dal blog “Petali di Loto” del 14 marzo 2018).In questi ultimi tempi stiamo assistendo ad una vera e propria guerra tra la medicina naturale, o naturopatia, e la medicina tradizionale. Una guerra senza esclusione di colpi, che vede da una parte indagati o radiati medici non in linea con le linee del sistema (pensiamo al recente caso di Stefano Montanari, o a quello di Paolo Rege Gianas), dall’altra comportamenti e dichiarazione assurde (come quella di Nadia Toffa, che ha dichiarato di essere guarita in pochi mesi da un tumore grazie alla chemioterapia, e che – improvvisatasi esperta di medicina – ha fatto un invito pubblico a curarsi solo con radio e chemio affermando siano le sole cure possibili). E’ di queste ore la notizia dell’arresto di Mario Pianesi, considerato il guru della macrobiotica in Italia (fondatore di un vero e proprio impero macrobiotico, con circa 100 ristoranti che dipendono dalla sua associazione), accusato di associazione a delinquere finalizzato alla riduzione in schiavitù e evasione fiscale. Non scenderò nei contenuti dell’inchiesta, perché non conosco i particolari della vicenda (anche se, per la notorietà internazionale dell’indagato, che era ricevuto in privato dal Papa, era invitato a eventi del Rotary locale, e aveva riconoscimenti internazionali un po’ ovunque – aveva anche ricevuto una laurea honoris causa dall’università della Mongolia – propenderei per uno scontro tra poteri a livelli piuttosto alti).
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Accordi segreti: paghiamo tasse evase dalle multinazionali
Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».A nulla è servita la maxi-multa comminata all’Irlanda per aver favorito Apple. L’Unione Europea interviene solo a cose fatte, «quando le intese fiscali segrete si rivelano aiuti di Stato tali da condizionare la libera concorrenza». Contro gli abusi si agita il Parlamento Europeo, che però non ha potere. «Anche perché le grandi multinazionali hanno schierato l’artiglieria pesante: con il trucco degli accordi fiscali riescono a strappare condizioni da paradisi fiscali nel cuore del vecchio continente». Con i “tax ruling”, aggiunge “Business Insider”, le multinazionali possono concordare il trattamento fiscale che potrebbe essere loro riservato per un periodo di tempo predeterminato; ma in realtà il “tax ruling” è lo strumento che permette alle corporations di ridurre drasticamente il proprio carico fiscale globale. «Dal punto di vista formale, lo schema è sempre lo stesso: le grandi multinazionali promettono investimenti e occupazione in cambio di tassazioni agevolate, poi una volta stabilitesi spostano i profitti da una controllata all’altra per ridurre al minimo le imposte. Un meccanismo utilizzato già da Apple, Fiat, Amazon, Google, Starbucks e anche McDonald’s». In Italia gli accordi segreti sono 78, e l’“Espresso” ha rivelato che tre di questi riguardano Michelin, Microsoft e Philip Morris.Sono proprio questi accordi, spiega “Business Insider”, ad aver fatto del Lussemburgo lo snodo centrale della finanza europea: «Molte imprese versano al Granducato un’aliquota effettiva inferiore all’1% degli utili dichiarati». L’Ue è intervenuta in modo tardivo e sporadico. «I cittadini-contribuenti e altri attori economici, come le piccole e medie imprese, avrebbero tutto il diritto di conoscere e giudicare i trattamenti fiscali che le autorità nazionali riservano alle grandi corporation», sostiene Mikhail Maslennikov, “policy advisor” di Oxfam Italia per la giustizia fiscale. «Sempre più spesso – aggiunge – i “ruling” segreti dei paesi Ue si rivelano come un tassello fondamentale per la pianificazione fiscale aggressiva delle multinazionali, facilitandone il “profit-shifting” verso giurisdizioni dal fisco amico e garantendo un trattamento fiscale ad hoc ai grandi colossi, che vedono ridursi considerevolmente le proprie aliquote effettive». I “ruling” segreti pongono seri interrogativi sul fairplay fiscale anche per Tove Maria Ryding, coordinatore del team di giustizia fiscale del network europeo “Eurodad”: «Le decisioni confidenziali assunte da un paese hanno impatti sulla contribuzione fiscale in tanti altri paesi», dice Ryding. «E spesso si tratta dei paesi più poveri e dei contesti più vulnerabili al mondo». O magari paesi come l’Italia, stritolati da una tassazione record.Mille miliardi di euro, tra evasione fiscale ed elusione: le multinazionali pagano molto meno degli altri, e così agli Stati tocca tirare la cinghia e metter mano a dolorosi tagli. Secondo “Business Insider”, sono addirittura 2.053 gli accordi segreti tra governi Ue e multinazionali per non pagare le tasse: un giochetto che all’Italia costa 10 miliardi all’anno. «Alla fine del 2016, tra le note del Def – scrive il newsmagazine – il ministero dell’economia aveva calcolato che solo all’Italia mancano almeno 31 miliardi di base imponibile. Tradotto, con un tassazione media per le imprese del 30% mancano 10 miliardi di gettito fiscale: lo 0,6% del Pil. Una cifra sufficiente a finanziare buona parte del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle o a evitare l’aumento dell’Iva l’anno prossimo». Nel 2013, aggiunge “Business Insider”, l’economista britannico di “Tax Research”, Richard Murphy, aveva calcolato che l’evasione fiscale all’interno del vecchio continente ammonta a circa 850 miliardi, mentre l’elusione vale altri 150 miliardi di euro. E il trend è in ascesa: «Tre anni dopo lo scandalo LuxLeaks che mise a nudo i rapporti fiscali segreti tra governi e colossi industriali, il numero di accordi in essere continua ad aumentare: secondo l’ultimo rapporto della Commissione Europea sono cresciuti dai 1.252 del 2015 ai 2.053 del 2016».