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Sechi: New Deal rooseveltiano gialloverde, ora o mai più
Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?Il punto è che non si vedono né il continuismo, né la svolta. Il primo avrebbe imposto di sacrificare punti importanti del programma di governo, la seconda di sfidare Bruxelles. Cosa vogliono fare Lega ed M5S? Qual è il disegno complessivo? Non si è capito. L’altro elemento di preoccupazione viene dalla Lega. Sta abbozzando su cose che, se si realizzano, il suo elettorato rifiuterà. La stretta sui contratti contenuta nel decreto lavoro, che ora è legge. E poi il reddito di cittadinanza non fa certo parte della base socioeconomica dei leghisti. In un modo o nell’altro si arriva sempre al M5S, perché nella testa dei 5 Stelle all’impostazione statalista si unisce una corrente molto forte di pensiero anti-industriale. Peccato che siano le imprese a produrre i posti di lavoro, e che l’agognata redistribuzione che vuole Di Maio – leggasi reddito di cittadinanza – possa venire solo dalla crescita e dal maggor gettito fiscale di lavoratori e imprese. Con la loro logica, invece, i 5 Stelle interrompono il vaso comunicante.Cosa mi aspetto a settembre? Non la crisi di governo, perché non c’è alternativa. La vera incognita sono i mercati, a cui allude Renzi. E Salvini? Potrebbe essere tentato di mollare Di Maio per Berlusconi? Tutto è possibile, non saprei però se il centrodestra vincerebbe le elezioni, ed è un calcolo che fa certamente anche Salvini. Se si andasse a votare, Salvini pescherebbe ulteriormente nel bacino di Berlusconi, mentre ai 5 Stelle, che ora sono forti, ruberebbe solo pochi voti. Se Salvini prendesse il 30% cento e Berlusconi il 10, avrebbero la maggioranza parlamentare, però al 40 bisogna arrivarci, non è affatto facile. Un nuovo governo che nascesse in Parlamento? Non ci sono i numeri per fare un accordo parlamentare. Al patto Salvini-Berlusconi servirebbero pezzi di altri gruppi parlamentari, ma c’è un particolare: Salvini è l’uomo nero con cui nessuno vuol fare alleanze. In mancanza di un accordo, si andrebbe al voto con un fallimento alle spalle. A quel punto sì che si sveglierebbero i mercati.Insomma Conte, Salvini, Di Maio e Tria devono trovare una sintesi. Ma è la strada per farlo che ancora non si vede. Il problema sostanziale è che i ceti produttivi della Lega si contrappongono alle masse in cerca di lavoro statalizzato del M5S, con i rappresentanti degli uni e degli altri che sono alleati in Parlamento. L’unico governo possibile si trova a lavorare in una situazione impossibile. Una soluzione, volendo, ci sarebbe. Un New Deal italiano, in cui Salvini e Di Maio smettono di fare campagna elettorale e mettono insieme un trust di persone pensanti con il compito di elaborare un accordo rooseveltiano coerente che unisca Nord e Sud. E’ quello che stanno facendo? Non è vero, perché non c’è un tentativo di politica corale, di sintesi, ma solo un contratto stilato dal notaio, fatto a compartimenti stagni, di cui alternativamente ognuna delle due forze punta a realizzare un pezzo, alla meglio. Non è così che si governa un paese. Salvini e di Maio sono ancora in tempo, ma devono agire subito.(Mario Sechi, dichirazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Attacco all’Italia, a settembre offensiva dei mercati: ecco chi sta con loro”, pubblicata da “Il Sussidiario” il 9 agosto 2018. Giornalista, già direttore del “Tempo”, Sechi si avvicinò a Monti per poi successivamente distaccarsene, riconoscendo la natura punitiva e “suicida” della strategia del rigore imposta all’Italia dall’oligarchia tecnocratica di Bruxelles).Il quadro politico dice che il “governo Frankenstein” è il solo possibile. E se dovesse fallire L’alternativa sarebbe il caos, che vorrebbe dire, alla fine, un altro governo tecnico. Diciamocelo, a qualcuno piacerebbe: il piccolo establishment italiano vuole il commissariamento. Chi lavora per questa prospettiva? Piccoli gruppi di potere. Anche il Quirinale? No, il Quirinale no. Anzi, il Colle è stato il potere che più ha preso atto della situazione e favorito la nascita del governo gialloverde. Mattarella è più preoccupato di altre cose, come l’emergere nei 5 Stelle di quelle pulsioni di ruralismo cerebrale per cui tutto ciò che è infrastruttura, modernizzazione, rete non virtuale, non va bene. Il vero redde rationem comunque è sulla politica economica. La realtà è che il governo M5S-Lega ha un solo vero nemico, se stesso. Tria vuole tenere insieme tutto, Flat Tax, reddito di cittadinanza, annullamento delle clausole di salvaguardia, riforma Fornero, stop all’aumento dell’Iva, alcuni benefici fiscali. Nemmeno Mandrake riuscirebbe a fare una cosa del genere. Quindi dovrà sacrificare qualcosa. A meno che non intendano fare un po’ di deficit, ma quanto?
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Francia cannibale, si mangia l’Africa: il bilancio dell’orrore
Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.Sylvanus Olympio, il primo presidente della Repubblica del Togo, un piccolo paese in Africa occidentale, trovò una soluzione a metà strada con i francesi. Non voleva che il suo paese continuasse ad essere un dominio francese, perciò rifiutò di siglare il patto di continuazione della colonizzazione proposto da de Gaulle, tuttavia si accordò per pagare un debito annuale alla Francia per i cosiddetti benefici ottenuti dal Togo grazie alla colonizzazione francese. Era l’unica condizione affinché i francesi non distruggessero tutto prima di lasciare il paese. Tuttavia, l’ammontare chiesto dalla Francia era talmente elevato che il rimborso del cosiddetto “debito coloniale” si aggirava al 40% del debito del paese nel 1963. La situazione finanziaria del neo-indipendente Togo era veramente instabile; così, per risolvere la situazione, Olympio decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa (il Franco Cfa delle colonie africane francesi), e coniò la moneta del suo paese. Il 13 gennaio 1963, tre giorni dopo aver iniziato a stampare la moneta del suo paese, uno squadrone di soldati analfabeti appoggiati dalla Francia uccise il primo presidente eletto della neo- indipendente Africa.Olympio fu ucciso da un ex sergente della Legione Straniera di nome Etienne Gnassingbe, che si suppone ricevette un compenso di 612 dollari dalla locale ambasciata francese per il lavoro di assassino. Il sogno di Olympio era quello di costruire un paese indipendente e autosufficiente. Tuttavia ai francesi non piaceva l’idea. Il 30 giugno 1962, Modiba Keita, il primo presidente della Repubblica del Mali, decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa imposta a 12 neo-indipendenti paesi africani. Per il presidente maliano, che era più incline ad un’economia socialista, era chiaro che il patto di continuazione della colonizzazione con la Francia era una trappola, un fardello per lo sviluppo del paese. Il 19 novembre 1968, proprio come Olympio, Keita fu vittima di un colpo di stato guidato da un altro ex soldato della Legione Straniera francese, il luogotenente Moussa Traoré. Infatti durante quel turbolento periodo in cui gli africani lottavano per liberarsi dalla colonizzazione europea, la Francia usò ripetutamente molti ex legionari stranieri per guidare colpi di stato contro i presidente eletti.Il 1° gennaio 1966, Jean-Bédel Bokassa, un ex soldato francese della Legione Straniera, guidò un colpo di stato contro David Dacko, il primo presidente della Repubblica Centrafricana. Il 3 gennaio 1966, Maurice Yaméogo, il primo presidente della Repubblica dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, fu vittima di un colpo di stato condotto da Aboubacar Sangoulé Lamizana, un ex legionario francese che combatté con i francesi in Indonesia e Algeria contro le indipendenze di quei paesi. Il 26 ottobre 1972, Mathieu Kérékou (che era una guardia del corpo del presidente Hubert Maga, il primo presidente della Repubblica del Benin) guidò un colpo di Stato contro il presidente, dopo aver frequentato le scuole militari francesi dal 1968 al 1970. Negli ultimi 50 anni, un totale di 67 colpi di Stato si sono susseguiti in 26 paesi africani; 16 di quest’ultimi sono ex colonie francesi, il che significa che il 61% dei colpi di Stato si sono verificati nell’Africa francofona.Cinque i golpe subiti dal Burkina Faso e dalle Comore, quattro i colpi di Stato attuati in Burundi, Repubblica Centrafricana, Niger e Mauritania. Sempre tra le ex colonie francesi, hanno vissuto almeno tre colpi di Stato il Congo e il Ciad – due, invece, l’Algeria e il Mali, la Guinea Konakry e la Repubblica Democratica del Congo. Almeno un violento “regime change” ha poi investito Togo, Tunisia, Costa d’Avorio, Magagascar e Rwanda. Altri paesi africani sottoposti a colpi di Stato sono Egitto, Libia e Guinea Equatoriale (un golpe ciascuno), Guinea Bissau e Liberia (due golpe), Nigeria ed Etiopia (tre colpi di Stato), Uganda (quattro) e Sudan (cinque). In totale 45 golpe nell’Africa ex francese, più 22 in altri paesi africani. Come dimostrano questi numeri, la Francia è abbastanza disperata ma attiva nel tenere sotto controllo le sue colonie, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Nel marzo del 2008, l’ex presidente francese Jacques Chirac disse: «Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo». Il predecessore di Chirac, François Mitterand, già nel 1957 profetizzava che «senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21° secolo».Proprio in questo momento, 14 paesi africani sono costretti dalla Francia, attraverso un patto coloniale, a depositare l’85% delle loro riserve di valute estere nella Banca Centrale Francese controllata dal ministero delle finanze di Parigi. Finora, il Togo e altri 13 paesi africani dovranno pagare un debito coloniale alla Francia. I leader africani che rifiutano vengono uccisi o restano vittime di colpi di Stato. Coloro che obbediscono sono sostenuti e ricompensati dalla Francia con stili di vita faraonici, mentre le loro popolazioni vivono in estrema povertà e disperazione. E’ un sistema malvagio, denunciato dall’Unione Europea; ma la Francia non è pronta a spostarsi da quel sistema coloniale che muove 500 miliardi di dollari dall’Africa al suo ministero del Tesoro ogni anno. Spesso accusiamo i leader africani di corruzione e di servire gli interessi delle nazioni occidentali, ma c’è una chiara spiegazione per questo comportamento. Si comportano così perché hanno paura di essere uccisi o di restare vittime di un colpo di Stato. Vogliono una nazione potente che li difenda in caso di aggressione o di tumulti. Ma, contrariamente alla protezione di una nazione amica, la protezione dell’Occidente spesso viene offerta in cambio della rinuncia, da parte di quei leader, di servire il loro stesso popolo e i suoi interessi.I leader africani lavorerebbero nell’interesse dei loro popoli se non fossero continuamente inseguiti e provocati dai paesi colonialisti. Nel 1958, spaventato dalle conseguenze di scegliere l’indipendenza dalla Francia, Leopold Sédar Senghor dichiarò: «La scelta del popolo senegalese è l’indipendenza; vogliono che ciò accada in amicizia con la Francia, non in disaccordo». Da quel momento in poi la Francia accettò soltanto un’ “indipendenza sulla carta” per le sue colonie, siglando “Accordi di Cooperazione”, specificando la natura delle loro relazioni con la Francia, in particolare i legami con la moneta coloniale francese (il franco), il sistema educativo francese, le preferenze militari e commerciali. Qui sotto ci sono le 11 principali componenti del patto di continuazione della colonizzazione dagli anni ‘50.#1. Debito coloniale a vantaggio della colonizzazione francese. I neo “indipendenti” paesi dovrebbero pagare per l’infrastruttura costruita dalla Francia nel paese durante la colonizzazione. #2. Confisca automatica delle riserve nazionali. I paesi africani devono depositare le loro riserve monetarie nazionali nella banca centrale francese. La Francia detiene le riserve nazionali di 14 paesi africani dal 1961: Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon. La politica monetaria che governa un gruppo di paesi così diversi non è complicato perché, di fatto, è decisa dal ministero del Tesoro francese senza rendere conto a nessuna autorità fiscale di qualsiasi paese che sia della Cedeao (la Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale) o del Cemac (Comunità degli Stati dell’Africa Centrale). In base alle clausole dell’accordo che ha fondato queste banche e il Cfa, la banca centrale di ogni paese africano è obbligata a detenere almeno il 65% delle proprie riserve valutarie estere in un “operations account” registrato presso il ministero del Tesoro francese, più un altro 20% per coprire le passività finanziarie.Le banche centrali del Cfa impongono anche un tappo sul credito esteso ad ogni paese membro equivalente al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Anche se la Beac e la Bceao hanno un fido bancario col Tesoro francese, i prelievi da quel fido sono soggetti al consenso dello stesso ministero del Tesoro. L’ultima parola spetta al Tesoro francese, che ha investito le riserve estere degli Stati africani alla Borsa di Parigi a proprio nome. In breve, più dell’ 80% delle riserve valutarie straniere di questi paesi africani sono depositate in “operations accounts” controllati dal Tesoro francese. Le due banche Cfa sono africane di nome, ma non hanno una politica monetaria propria. Gli stessi paesi non sanno, né viene detto loro, quanto del bacino delle riserve valutarie estere detenute presso il ministero del Tesoro a Parigi appartiene a loro come gruppo o individualmente. Gli introiti degli investimenti di questi fondi presso il Tesoro francese dovrebbero essere aggiunti al conteggio, ma non c’è nessuna notizia che venga fornita al riguardo né alle banche né ai paesi circa i dettagli di questi scambi. Al ristretto gruppo di alti ufficiali del ministero del Tesoro francese che conoscono le cifre detenute negli “operations accounts”, sanno dove vengono investiti questi fondi e se esiste un profitto a partire da quegli investimenti, viene impedito di parlare per comunicare queste informazioni alle banche Cfa o alle banche centrali degli stati africani, scrive il dottor Gary K. Busch (economista, docente universitario a Londra).Si stima che la Francia detenga all’incirca 500 miliardi di monete provenienti dagli Stati africani, e farebbe qualsiasi cosa per combattere chiunque voglia fare luce su questo lato oscuro del vecchio impero. Gli stati africani non hanno accesso a quel denaro. La Francia permette loro di accedere soltanto al 15% di quel denaro all’anno. Se avessero bisogno di più, dovrebbero chiedere in prestito una cifra extra dal loro stesso 65% da Tesoro francese a tariffe commerciali. Per rendere le cose ancora peggiori, la Francia impone un cappio sull’ammontare di denaro che i paesi possono chiedere in prestito da quella riserva. Il cappio è fissato al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Se i paesi volessero prestare più del 20% dei loro stessi soldi, la Francia ha diritto di veto. L’ex presidente francese Jacques Chirac ha detto recentemente qualcosa circa i soldi delle nazioni africane detenuti nelle banche francesi. In un VIDEO parla dello schema di sfruttamento francese. Parla in francese, ma questo è un piccolo sunto: «Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano».#3. Diritto di primo rifiuto su qualsiasi materia prima o risorsa naturale scoperta nel paese. La Francia ha il primo diritto di comprare qualsiasi risorsa naturale trovate nella terra delle sue ex colonie. Solo dopo un “Non sono interessata” della Francia, i paesi africani hanno il permesso di cercare altri partners. #4. Priorità agli interessi francesi e alle società negli appalti pubblici. Nei contratti governativi, le società francesi devono essere prese in considerazione per prime e, solo dopo, questi paesi possono guardare altrove. Non importa se i paesi africani possono ottenere un miglior servizio ad un prezzo migliore altrove. Di conseguenza, in molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura. Infine, come ho scritto in un precedente articolo, “gli africani ora vivono in un continente di proprietà degli europei”.#5. Diritto esclusivo a fornire equipaggiamento militare e formazione ai quadri militari del paese. Attraverso un sofisticato schema di borse di studio e “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, gli africani devono inviare i loro quadri militari per la formazione in Francia o in strutture gestite dai francesi. La situazione nel continente adesso è che la Francia ha formato centinaia, anche migliaia di traditori e li foraggia. Restano dormienti quando non c’è bisogno di loro, e vengono riattivati quando è necessario un colpo di Stato o per qualsiasi altro scopo! #6. Diritto della Francia di inviare le proprie truppe e intervenire militarmente nel paese per difendere i propri interessi. In base a qualcosa chiamato “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, la Francia ha il diritto di intervenire militarmente negli Stati africani e anche di stazionare truppe permanentemente nelle basi e nei presidi militari in quei paesi, gestiti interamente dai francesi.Poi ci sono le basi militari francesi in Africa. Quando il presidente Laurent Gbagbo della Costa d’Avorio cercò di porre fine allo sfruttamento francese del paese, la Francia organizzò un colpo di Stato. Durante il lungo processo per estromettere Gbagbo, i carri armati francesi, gli elicotteri d’attacco e le forze speciali intervennero direttamente nel conflitto sparando sui civili e uccidendone molti. Per aggiungere gli insulti alle ingiurie, la Francia stima che la “business community” francese abbia perso diversi milioni di dollari quando, nella fretta di abbandonare Abidjan nel 2006, l’esercito francese massacrò 65 civili disarmati, ferendone altri 1.200. Dopo il successo della Francia con il colpo di Stato, e il trasferimento di poteri ad Alassane Outtara, la Francia ha chiesto al governo Ouattara di pagare un compenso alla “business community” francese per le perdite durante la guerra civile. Il governo Ouattara, infatti, pagò il doppio delle perdite dichiarate mentre scappavano.#7. Obbligo di dichiarare il francese lingua ufficiale del paese e lingua del sistema educativo. “Oui, Monsieur. Vous devez parlez français, la langue de Molière!” (sì, signore. Dovete parlare francese, la lingua di Molière!). Un’organizzazione per la diffusione della lingua e della cultura francese chiamata “Francophonie” è stata creata con diverse organizzazioni satellite e affiliati supervisionati dal ministero degli esteri francese. Come dimostrato in quest’articolo, se il francese è l’unica lingua che parli, hai accesso al solo 4% dell’umanità, del sapere e delle idee. Molto limitante.#8. Obbligo di usare la moneta coloniale francese Fcfa. Questa è la vera mucca d’oro della Francia, tuttavia è un sistema talmente malefico che finanche l’Unione Europea lo ha denunciato. La Francia però non è pronta a lasciar perdere il sistema coloniale che inietta all’incirca 500 miliardi di dollari africani nelle sue casse. Durante l’introduzione dell’euro in Europa, altri paesi europei scoprirono il sistema di sfruttamento francese. Molti, soprattutto i paesi nordici, furono disgustati e suggerirono che la Francia abbandonasse quel sistema. Senza successo. #9. Obbligo di inviare in Francia il budget annuale e il report sulle riserve. Senza report, niente soldi. In ogni caso il ministero delle banche centrali delle ex colonie, e il ministero dell’incontro biennale dei ministri delle finanze delle ex colonie è controllato dalla banca centrale francese e dal ministero del Tesoro.#10. Rinuncia a siglare alleanze militari con qualsiasi paese se non autorizzati dalla Francia. I paesi africani in genere sono quelli che hanno il minor numero di alleanze militari regionali. La maggior parte dei paesi ha solo alleanze militari con gli ex colonizzatori (divertente, ma si può fare di meglio!). Nel caso delle ex colonie francesi, la Francia proibisce loro di cercare altre alleanze militari eccetto quelle che vengono offerte loro. #11. Obbligo di allearsi con la Francia in caso di guerre o crisi globali. Più di un milione di soldati africani hanno combattuto per sconfiggere il nazismo e il fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il loro contributo è spesso ignorato o minimizzato, ma se si pensa che alla Germania furono sufficienti solo 6 settimane per sconfiggere la Francia nel 1940, quest’ultima sa che gli africani potrebbero essere utili per combattere per la “Grandeur de la France” in futuro.C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa. Primo, la Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’élite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione. Infine, la Francia ha due istituzioni che sono completamente congelate nel passato, abitate da “haut fonctionnaires” paranoici e psicopatici che diffondono la paura dell’apocalisse se la Francia cambiasse, e il cui riferimento ideologico deriva dal romanticismo del 19° secolo: sono il ministero delle finanze e del bilancio e il ministero degli affari esteri. Queste due istituzioni non solo sono una minaccia per l’Africa ma anche per gli stessi francesi. Tocca a noi africani liberarci, senza chiedere permesso, perché ancora non riesco a capire, per esempio, come possano 450 soldati francesi in Costa d’Avorio controllare una popolazione di 20 milioni di persone. La prima reazione della gente, subito dopo aver saputo della tassa coloniale francese, consiste in una domanda: “Fino a quando?”. Per paragone storico, la Francia ha costretto Haiti a pagare l’equivalente odierno di 21 miliardi di dollari dal 1804 al 1947 (quasi un secolo e mezzo) per le perdite subite dai commercianti di schiavi francesi dall’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi haitiani. I paesi africani stanno pagando la tassa coloniale solo negli ultimi 50 anni, perciò penso che manchi ancora un secolo di pagamenti!(Mawuna Remarque Koutonin, “Quattordici paesi africani costretti a pagare la tassa coloniale francese”, da “Africa News” dell’8 febbraio 2014).Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.
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Gentiloni “gonfia” lo spread per mentire sul governo Conte
Il Partito Democratico perde la fiducia degli elettori – per l’esattezza due milioni e mezzo di voti in meno in cinque anni – ma si vanta pur sempre di avere quella dei mercati. Il concetto è semplice, quasi banale. La teoria dei dirigenti Dem è semplice, anzi semplicistica. Il programma del nuovo governo, unito al suo supposto dilettantismo, non convince e non convincerà gli investitori, che vendono e venderanno i nostri titoli di Stato. Il loro prezzo scenderà, e il rendimento – dato dal rapporto fra cedola e prezzo – salirà. Esploderà quindi il costo del debito, cui dovremo far fronte aumentando le imposte o diminuendo la spesa per i servizi. Saranno i mercati a punire gli elettori, che così impareranno a punire la forza tranquilla del Nazzareno. E’ il mercato, bellezza. Gli anni passano ma il copione resta bene o male lo stesso. Ieri la magistratura, oggi i mercati. La sinistra che perde sul campo trova sempre la sua rivincita negli spogliatoi. Un modo di ragionare molto poco democratico. Un paese dovrebbe infatti essere sempre libero di adottare le politiche economiche dei partiti scelti dagli elettori. Nel nostro caso, dalla maggioranza assoluta degli elettori; cosa che non accadeva dal 1987. Proposte che potranno pure non piacere. E al Nazzareno senz’altro non sono gradite. Ma questa è la democrazia.Saranno pur sempre gli elettori a giudicare i risultati ottenuti, confermando o meno il governo in carica alle prossime consultazioni. Ma stabilire in anticipo che una data politica economica non possa essere attuata perché non piace a qualcuno che potrebbe a sua volta punirci con lo spauracchio dello spread, se permettete, anche no! Anche perché la legge dei mercati non è fenomeno di natura, come l’eruzione di un vulcano o un terremoto contro cui nulla possiamo. Ma è la semplice e deliberata conseguenza di una stortura tipica solo dell’Eurozona. Prendiamo ad esempio il Giappone, con un rapporto debito/Pil pari al 250%. Quanto paga sui propri titoli di Stato a 10 anni? Praticamente lo 0%. Oppure il Regno Unito, reduce da un combattutissimo referendum sulla sua permanenza Ue cui sono seguiti negoziati internazionali e scontri politici interni altrettanto aspri. Quanto paga Londra sui propri Gilt a a 10 anni? La metà esatta dei nostri Btp. Il debito enorme da una parte e le tensioni politiche dall’altra – incubi persistenti agitati dal pensiero politico dominante di casa nostra – non sembrano scalfire la preoccupazione dei creditori di Tokyo e Londra. La spiegazione è elementare. Giappone e Regno Unito possiedono una “loro” banca centrale che emette e quindi controlla una “loro” moneta e che, più o meno di concerto con i rispettivi esecutivi, decide quanta parte del “loro” debito acquistare e a quale tasso.L’emissione di titoli di Stato, nei paesi monetariamente sovrani, non serve tanto a reperire le risorse necessarie a finanziare la spesa o rifinanziare il debito in scadenza, ma a determinare soprattutto il livello dei tassi di interesse cui si adatteranno gli altri segmenti del mercato dei capitali. Un’operazione di politica monetaria più che fiscale, diversamente da quanto invece accade in Eurozona dove i governi sono monetariamente castrati e quindi costretti a racimolare sui mercati ogni singolo centesimo loro necessario, al pari ed anzi in concorrenza con imprese, banche e famiglie. Sarebbe sufficiente che la Bce dichiarasse (notate bene non ho scritto “facesse” ma “dichiarasse”) che, per un efficace funzionamento dei canali di trasmissione della propria politica monetaria, non è più disposta a tollerare differenziali di rendimento superiori allo 0,5% fra i vari debiti dell’Eurozona, che immediatamente quegli investitori che oggi puniscono l’Italia correrebbero ad acquistare a mani basse anche i nostri Btp facendo salire i prezzi e abbassando il costo del nostro debito, così facendo un ottimo affare e portando il differenziale dei rendimenti a quanto prefissato da Francoforte; nella consapevolezza che una banca centrale, se solo lo volesse, avrebbe mezzi illimitati per arrivare a quel risultato, potendo essa stessa emettere tutta la moneta che desidera.E invece no, così non è; dobbiamo sorbirci l’ex premier Gentiloni che a distanza di poco più di venti giorni – dalle colonne prima de “La Stampa” e poi de “La Repubblica” – ci rampogna con la stessa identica profezia: «In due mesi lo spread è salito di oltre 100 punti. Solo questo ci costa oltre 5 miliardi». Ma sarà vero? E’ sufficiente consultare il bollettino trimestrale del ministero di Via XX Settembre per scoprire, ad esempio, che nei due mesi appena trascorsi sono stati emessi qualcosa come 34 miliardi di Btp. Un aggravio dei rendimenti pari all’1% si traduce in un costo aggiuntivo per le nostre tasche di 341 milioni. Mentre nei prossimi 12 mesi il governo emetterà circa 140 miliardi di Btp ed in caso di aumento del costo di finanziamento pari all’1% (ricordiamolo ancora, per una scelta deliberata della Bce) i maggiori interessi ammonterebbero ad 1,4 miliardi e non 5. Circa il 70% in meno della fosca previsione del nostro ex premier. Insomma se proprio volete appendervi allo spread, almeno fatelo coi numeri giusti.(Fabrio Dragoni, “La balla miliardaria di Gentiloni sullo spread”, da “Scenari Economici” del 1° agosto 2018).Il Partito Democratico perde la fiducia degli elettori – per l’esattezza due milioni e mezzo di voti in meno in cinque anni – ma si vanta pur sempre di avere quella dei mercati. Il concetto è semplice, quasi banale. La teoria dei dirigenti Dem è semplice, anzi semplicistica. Il programma del nuovo governo, unito al suo supposto dilettantismo, non convince e non convincerà gli investitori, che vendono e venderanno i nostri titoli di Stato. Il loro prezzo scenderà, e il rendimento – dato dal rapporto fra cedola e prezzo – salirà. Esploderà quindi il costo del debito, cui dovremo far fronte aumentando le imposte o diminuendo la spesa per i servizi. Saranno i mercati a punire gli elettori, che così impareranno a punire la forza tranquilla del Nazzareno. E’ il mercato, bellezza. Gli anni passano ma il copione resta bene o male lo stesso. Ieri la magistratura, oggi i mercati. La sinistra che perde sul campo trova sempre la sua rivincita negli spogliatoi. Un modo di ragionare molto poco democratico. Un paese dovrebbe infatti essere sempre libero di adottare le politiche economiche dei partiti scelti dagli elettori. Nel nostro caso, dalla maggioranza assoluta degli elettori; cosa che non accadeva dal 1987. Proposte che potranno pure non piacere. E al Nazzareno senz’altro non sono gradite. Ma questa è la democrazia.
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Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera
La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato.Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni. Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento.In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano. Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori.Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.(Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).
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Con gli Agnelli, contro gli operai: Marchionne come Valletta
Sergio Marchionne è stato un funzionario del capitale ed in particolare della famiglia Agnelli, in assoluta continuità con la storia dell’azienda e della sua proprietà. Così vanno giudicati la sua opera e gli effetti di essa, oltre il rispetto che sempre si deve di fronte alla morte dolorosa e prematura di una persona. Nel dopoguerra il gruppo Fiat e la famiglia Agnelli hanno usufruito di tre manager che hanno fatto la storia dell’azienda e segnato quella del paese. Il primo fu Vittorio Valletta, che assunse il potere assoluto in Fiat nel 1945, dopo che il proprietario dell’azienda e capostipite della famiglia, il senatore del regno Giovanni Agnelli, fu epurato per la sua smaccata identificazione e collaborazione col regime fascista. Valletta fu il primo dei manager che salvarono la Fiat e soprattutto la famiglia proprietaria. La salvò dall’esproprio per collaborazionismo coi nazisti, esproprio che invece toccò alla Renault in Francia, e poi la rilanciò facendo dell’azienda uno dei grandi motori dello sviluppo industriale del paese. Per realizzare questo obiettivo Valletta perseguì la sottomissione totale degli operai ai ritmi più feroci dello sfruttamento, usò le risorse del paese e in particolare l’immigrazione di massa al nord, ed infine fece della persecuzione contro la Fiom e i suoi militanti la propria bandiera.Con le discriminazioni, i reparti-confino, i licenziamenti ed anche con strumenti eversivi, come le schedature e lo spionaggio delle persone, usando persino apparati dello Stato deviati che poi sarebbero stati coinvolti nella strategia della tensione degli anni ‘70. Per questa sua scelta ferocemente antisindacale e autoritaria Valletta divenne un emblema della politica e dei governi degli anni ‘50. Nel 1966 Valletta fu destituito da Gianni Agnelli, il nipote di Giovanni che voleva riprendere le redini dell’azienda dopo una lunga esperienza di playboy internazionale, e solo un anno dopo morì. Le celebrazioni sui grandi giornali di allora furono uguali a quelle attuali per Marchionne. Alla fine degli anni ‘70 la Fiat era di nuovo in crisi, perché di fronte alla sfida delle grandi lotte operaie e alla conquista da parte del lavoro di diritti e dignità, non era stata in grado né di rispondere con adeguata innovazione ed investimenti, né con un vero cambiamento nella gestione aziendale e nelle relazioni con i dipendenti. I fratelli Agnelli, Gianni ed Umberto, si fecero da parte nella gestione diretta del gruppo, che fu affidata a Cesare Romiti.In una intervista a “La Repubblica” nell’estate del 1980, Umberto Agnelli preannunciò licenziamenti di massa per rendere l’azienda competitiva e ricevette il sostegno del ministro del Tesoro Andreatta. Romiti condusse l’attacco frontale al sindacato e alla fine di trentacinque giorni di lotta vinse, mettendo decine di migliaia di dipendenti in cassa integrazione. E così negli anni ‘80 l’impresa assunse nella società italiana quella centralità che prima aveva conquistato il lavoro. La sconfitta operaia di fronte alla Fiat di Romiti aveva indicato la direzione di marcia a tutto il potere politico, la svolta liberista che avrebbe conquistato tutto il paese cominciava in fabbrica. Craxi colpì il salario con il taglio e l’avvio della distruzione della scala mobile e poco dopo Prodi, da presidente Iri, donò l’Alfa Romeo alla Fiat, che così divenne il solo produttore italiano di automobili. Ma la cura Romiti, se aveva risanato i profitti della famiglia Agnelli, non aveva fatto crescere adeguatamente la forza industriale del gruppo, che già all’inizio degli anni ‘90 era di nuovo in crisi.Nel 1994 la Fiat colpiva con la cassa integrazione la massa di quegli impiegati e capi che nel 1980 avevano organizzato una decisiva manifestazione contro gli operai in lotta. La gratitudine non è mai stata una caratteristica aziendale. La Fiat aveva ancora una volta bisogno di investimenti e ricerca e ancora una volta la proprietà si mostrava assolutamente sorda a questo richiamo. Anche perché in quegli anni la famiglia Agnelli aveva tentato di creare una seconda corporation, entrando nella Telecom, in Banca Intesa e in tante altre imprese che con la produzione di auto nulla avevano a che fare. Fu un’operazione fallimentare, la seconda conglomerata Fiat crollò e la famiglia Agnelli dovette abbandonare tutte le aziende che credeva conquistate, mentre nel frattempo la prima Fiat, quella industriale, perdeva posizioni per mancanza di adeguati prodotti. Nel 1998 Cesare Romiti lasciò l’azienda, e anche per lui, per sua fortuna vivente, ci furono pubblici elogi come salvatore dell’azienda e come manager che aveva saputo indirizzare non solo la Fiat, ma tutto il paese verso la via della competitività, distruggendo i vincoli e lacciuoli dei contratti e dei diritti del lavoro.La gestione Fiat tornò alla famiglia Agnelli e a vari manager avvicendati e l’azienda precipitò verso il fallimento. Nel 2004 la Fiat era di proprietà delle banche, che si erano svenate per un piano di salvataggio senza precedenti nel paese, e al suo capezzale venne chiamato il vicepresidente dell’Unione Banche Svizzere, Sergio Marchionne. Marchionne ha salvato la Fiat come azienda industriale italiana? Sicuramente no. Seguendo la traccia dei suoi predecessori, Valletta e Romiti, Marchionne ha lavorato prima di tutto per gli interessi della famiglia Agnelli, oramai assai numerosa e fermamente interessata in tutte le sue componenti ad una quota certa di profitti. Se nel passato era stato ancora possibile far parzialmente coincidere gli interessi della proprietà familiare con quelli dello sviluppo industriale dell’azienda, ora questo non si poteva più fare. La proprietà, che addirittura aveva cercato di sbarazzarsi della produzione di automobili rifilandola a General Motors, non aveva certo intenzione di svenarsi per recuperare l’enorme gap tecnologico e di prodotti accumulato dal gruppo. Ci sarebbero voluti almeno 20 miliardi di investimenti, quelli che Sergio Marchionne avrebbe promesso successivamente, quando decise di abolire il contratto nazionale.Di quei 20 miliardi, che avrebbero dovuto rilanciare quella che Marchionne chiamò la Fabbrica Italia, si sono perse tutte le tracce in azienda e anche sui giornali di questi giorni. La Fiat è stata salvata in un altro modo, con l’intervento dello Stato – non di quello italiano, ma di quello statunitense. Fu il salvataggio pubblico della Chrysler voluto da Obama a permettere alla Fiat di evitare il fallimento, e di questo va dato merito alla intelligenza politico-finanziaria di Marchionne, che seppe vedere l’affare là dove la Mercedes era fuggita. La Fiat salvò la Chrysler e fu salvata, naturalmente al prezzo di essere assorbita nella multinazionale americana, di cui ora è la succursale povera. Non esiste più una industria automobilistica italiana, e non solo perché la sede fiscale del gruppo Fca, nel quale la Fiat è assorbita, sta a Londra e quella legale in Olanda. Dove si è localizzata anche la finanziaria della famiglia Agnelli, la Exor. Anche la famiglia Agnelli, ora guidata da John Elkann, non è più una famiglia imprenditorialmente italiana. Essa è diventata una famiglia del capitalismo globale proprio durante la gestione Marchionne, anche se il progetto probabilmente veniva da lontano. Perché tra i soci fondatori del gruppo Bilderberg, la famigerata lobby finanziaria internazionale, figurava proprio Vittorio Valletta.Oggi la produzione di auto in Italia è ridotta al lumicino, con l’occupazione dimezzata da quando Marchionne divenne amministratore delegato della Fiat. Progettazione e ricerca sono state smantellate e non vi sono nuovi modelli in arrivo, tanto è vero che in tutti gli stabilimenti residui dilaga la cassa integrazione. Certo resta la gallina delle uova d’oro Ferrari, che non a caso è stata scorporata dalla Fiat e vale più di essa. Ma anche essa oramai è stata finanziarizzata all’estero e in ogni caso non potrà mai avere una produzione industriale di massa. Il lascito industriale di Marchionne è quello della trasformazione della Fiat in una multinazionale americana con l’Italia come sede marginale, quello finanziario è l’esternalizzazione delle proprietà della famiglia Agnelli, e quello sociale e politico? Qui c’è il tratto più comune tra i tre manager che hanno fatto la storia della Fiat dal 1945 ad oggi: il rifiuto del sindacato solidale e di classe e la lotta feroce per eliminarlo dagli stabilimenti Fiat. Tutti e tre gli amministratori delegati si sono ispirati a modelli esteri, in questa loro opera. Valletta alla violenza antisindacale di Henry Ford e alla costruzione di sindacati di comodo in azienda con cui stipulare contratti al ribasso.In realtà Valletta realizzò tutti i suoi obiettivi, la messa al confino della Fiom, la costituzione di un sindacato aziendale giallo da una scissione della Cisl con il Sida oggi Fismic, la soppressione di ogni libertà dei lavoratori; tutti tranne uno: la realizzazione di un contratto solo per i lavoratori Fiat. Obiettivo che fu invece raggiunto da Marchionne, quando con il ricatto della chiusura degli stabilimenti, con la complicità di Cisl, Uil e di tutta la politica ufficiale, impose ai lavoratori la rinuncia al contratto nazionale, mentre la Fiat abbandonava la Confindustria. Romiti avrebbe invece voluto che nelle sue fabbriche si applicasse il modello giapponese di collaborazione e valorizzazione di un lavoro capace di essere fedele all’azienda. Dopo la dura repressione antisindacale degli anni ‘80, di cui elemento fondamentale fu l’uso discriminatorio della cassa integrazione, Romiti tentò di introdurre il modello di lavoro giapponese in particolare nello stabilimento di Rivalta a Torino e nella nuova fabbrica insediata a Melfi negli anni ‘90.Ora però Rivalta è chiusa, ciò che resta di essa non è più Fiat, mentre a Melfi, sotto la gestione Marchionne, è stato introdotto il sistema di tempi chiamato Ergo Uas, cioè il più brutale e faticoso metodo taylorista di lavoro. In un certo senso dunque Marchionne ha portato a compimento il modello di Valletta, con una differenza fondamentale. Nel secolo scorso quel modello autoritario e discriminatorio si realizzava in un gruppo ed in un paese in grande espansione, tanto è vero che allora i salari Fiat erano più alti rispetto alla media del paese. Oggi invece il salario di un operaio Fiat è tra i più bassi, ed il gruppo riduce progressivamente occupazione e produzioni in Italia. Sia con Valletta, che con Romiti che con Marchionne la persecuzione dei lavoratori ribelli o scomodi ha prodotto drammi e tragedie. I licenziati per discriminazione politica e sindacale degli anni ‘50 subirono sofferenze enormi. I cassaintegrati degli anni ‘80 pure, e decine di essi si suicidarono, così come accadde di nuovo recentemente. Maria Baratto si uccise pochi anni fa a Pomigliano dopo anni di cassa integrazione discriminatoria. E cinque operai che protestavano contro quel suicidio furono licenziati per offese a Marchionne.Non è una questione di essere buoni o cattivi, è che non si governa la Fiat innocentemente. Oggi Sergio Marchionne viene presentato come un innovatore a cui il paese avrebbe dovuto dare maggiore ascolto. Ma in realtà lo ha fatto: il Jobs Act, come ha affermato lo stesso Renzi, è stato ispirato dalle posizioni sindacali e contrattuali di Marchionne. Come nel passato, le vittorie contro i diritti dei lavoratori dei manager Fiat sono diventate l’esempio da seguire per tutta la società. Un esempio regressivo. Marchionne, come tutti i suoi predecessori, non ha difeso gli interessi del lavoro o del paese, ma quelli della proprietà. Una proprietà, quella della famiglia Agnelli, sempre più gaudente ed avara, della quale tutto si può dire tranne che faccia gli interessi di tutti. È questa proprietà che periodicamente i grandi manager Fiat hanno salvato, ultimo Marchionne. Era la loro missione e questa hanno realizzato.(Giorgio Cremaschi, “Marchionne, Romiti, Valletta e la famiglia Agnelli”, dalla pagina Facebook di Cremaschi del 27 luglio 2018).Sergio Marchionne è stato un funzionario del capitale ed in particolare della famiglia Agnelli, in assoluta continuità con la storia dell’azienda e della sua proprietà. Così vanno giudicati la sua opera e gli effetti di essa, oltre il rispetto che sempre si deve di fronte alla morte dolorosa e prematura di una persona. Nel dopoguerra il gruppo Fiat e la famiglia Agnelli hanno usufruito di tre manager che hanno fatto la storia dell’azienda e segnato quella del paese. Il primo fu Vittorio Valletta, che assunse il potere assoluto in Fiat nel 1945, dopo che il proprietario dell’azienda e capostipite della famiglia, il senatore del regno Giovanni Agnelli, fu epurato per la sua smaccata identificazione e collaborazione col regime fascista. Valletta fu il primo dei manager che salvarono la Fiat e soprattutto la famiglia proprietaria. La salvò dall’esproprio per collaborazionismo coi nazisti, esproprio che invece toccò alla Renault in Francia, e poi la rilanciò facendo dell’azienda uno dei grandi motori dello sviluppo industriale del paese. Per realizzare questo obiettivo Valletta perseguì la sottomissione totale degli operai ai ritmi più feroci dello sfruttamento, usò le risorse del paese e in particolare l’immigrazione di massa al nord, ed infine fece della persecuzione contro la Fiom e i suoi militanti la propria bandiera.
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Meno Europa e più Italia dietro al feeling tra Conte e Trump
In un certo senso, con il viaggio negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, il premier italiano del governo gialloverde, Giuseppe Conte, esce da un quasi-anonimato politico. «Sinora, in prima battuta hanno giocato i Dioscuri del “contratto”, cioè i vicepresidenti Luigi Di Maio e soprattutto il leghista Matteo Salvini». E anche sui media esteri, aggiunge Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, sono i due vicepresidenti a delineare il profilo dell’unico governo dichiaratamente populista d’Europa. Tra i problemi dei migranti e i tentativi di nuove regole per i contratti di lavoro, con l’obiettivo primario del cambiamento, Salvini e Di Maio hanno tenuto inevitabilmente banco, essendo anche i leader dei due partiti di questa coalizione così “eterogenea”, «non solo per caratterizzazione politica, ma anche per obiettivi e fini a medio termine». Le stesse puntualizzazioni critiche del ministro all’economia, Giovanni Tria, nonché lo spettro del Cigno Nero evocato dal ministro Paolo Savona e la “spalla” offerta dai pentastellati a Salvini nel gestire la crisi dei migranti, con i porti chiusi alle Ong, restano sullo sfondo di un esecutivo bicolore che, se non sembra convincere l’establishment tradizionale italiano, dalla Confindustria ai sindacati fino ai grandi media, gode comunque, secondo i sondaggi, di un consenso superiore al 60% degli italiani.Ed è a questo punto, scrive Da Rold, che Giuseppe Conte, «il premier mediatore e probabilmente anche il garante delle scelte di fondo», va a presentare il nuovo “populismo italiano” davanti al vero capo del neo-sovranismo in salsa populista, il presidente degli Stati Uniti, cioè la potenza economica e militare più forte del mondo. «Non c’è dubbio che la contingenza politica nazionale e internazionale possono favorire il premier italiano in un dialogo con il presidente Usa – aggiunge l’analista del “Sussidiario” – fino a stabilire una sorta di corsia preferenziale per quanto riguarda gli affari europei e quelli mediterranei in particolare». Proprio Conte rivendica con orgoglio di essere il premier di un governo populista, ma si affretta a precisare che la permanenza dell’Italia nella Nato e nell’euro non si discutono. Il ministro Tria sarà “un Cerbero dei conti”, ma non abbandonerà il governo e quindi possono stare tutti tranquilli, anche gli alfieri della vecchia austerity e i nuovi confindustriali scalpitanti. Altro problema, il contesto internazionale: «Il croupier Jean-Claude Juncker, magari dopo una bevuta di bourbon, ha abbracciato Trump davanti alle macchine fotografiche trovando un compromesso sui dazi, per adesso. Ma di fatto Donald Trump, anche se poco lineare, non ha mai risparmiato critiche all’Europa, alla Germania in particolare. Si può mettere qualche cerotto, ma la ferita resta».In più, continua Da Rold, l’Unione Europea appare sempre più come un giocattolo rotto, «che deve essere aggiustato al più presto in qualche modo e con qualche riforma, prima che arrivi un’ondata anti-europeista degli stessi europei alle elezioni del prossimo anno». E’ un fatto: «Né Angela Merkel, né l’ammaccato Emmanuel Macron sembrano in grado di assicurare un rilancio e di tamponare le falle europee: occorre imboccare altre strade e battere altre piste». E qui, secondo Da Rold, può arrivare il paradosso: «L’attuale posizione del governo italiano, illustrata da un moderato come Giuseppe Conte, potrebbe giovare alla mediazione tra Stati Uniti e Unione Europea e potrebbe tracciare una sorta di pista privilegiata nei rapporti tra Usa e Italia, soprattutto per i problemi della stabilizzazione necessaria del Mediterraneo e del Nord Africa». In definitiva, Trump «potrebbe porsi come un mediatore tra i paesi del’Unione Europea che sono spesso in contrasto con la linea di Bruxelles e soprattutto quella di Berlino, e favorire quindi le esigenze anche dell’Italia». Potrebbe essere prezioso, l’aiuto Usa, quando l’Italia dovrà varare in autunno la legge di bilancio destinata, sulla carta, ad attuale le più impegnative promesse elettorali, Flat Tax e reddito di cittadinanza. «Gli italiani restano in attesa. Tocca ai politici del cosiddetto cambiamento giocare le carte utili e necessarie».In un certo senso, con il viaggio negli Stati Uniti e l’incontro con il presidente Donald Trump, il premier italiano del governo gialloverde, Giuseppe Conte, esce da un quasi-anonimato politico. «Sinora, in prima battuta hanno giocato i Dioscuri del “contratto”, cioè i vicepresidenti Luigi Di Maio e soprattutto il leghista Matteo Salvini». E anche sui media esteri, aggiunge Gianluigi Da Rold sul “Sussidiario”, sono i due vicepresidenti a delineare il profilo dell’unico governo dichiaratamente populista d’Europa. Tra i problemi dei migranti e i tentativi di nuove regole per i contratti di lavoro, con l’obiettivo primario del cambiamento, Salvini e Di Maio hanno tenuto inevitabilmente banco, essendo anche i leader dei due partiti di questa coalizione così “eterogenea”, «non solo per caratterizzazione politica, ma anche per obiettivi e fini a medio termine». Le stesse puntualizzazioni critiche del ministro all’economia, Giovanni Tria, nonché lo spettro del Cigno Nero evocato dal ministro Paolo Savona e la “spalla” offerta dai pentastellati a Salvini nel gestire la crisi dei migranti, con i porti chiusi alle Ong, restano sullo sfondo di un esecutivo bicolore che, se non sembra convincere l’establishment tradizionale italiano, dalla Confindustria ai sindacati fino ai grandi media, gode comunque, secondo i sondaggi, di un consenso superiore al 60% degli italiani.
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Dignità o velleità: moneta di Stato per le riforme gialloverdi
Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).E’ a tali principi che devono essere rivolte, pertanto, la pubblica attenzione, la critica scientifica, la denuncia sociale ed etica, e l’azione politica riformatrice. Primo principio: la funzione, che è politica e sovrana, quindi pubblica, di creare la moneta, cioè il capitale finanziario, è esercitata da soggetti privati, come pure quella di collocarla e di stabilire rating, tassi etc., e ciò viene fatto secondo la loro privata convenienza di profitto, senza responsabilità verso l’interesse generale. Secondo principio: i capitali, le merci e le imprese si spostano più o meno liberamente intorno al mondo, perlopiù senza barriere daziarie o di contingentamento; questo pone i lavoratori dei paesi occidentali in concorrenza con quelli di paesi che applicano condizioni di sfruttamento radicale dei lavoratori anche in fatto di previdenza e di antiinfortunistica; contemporaneamente, l’immigrazione di massa li pone altresì in concorrenza con una mano d’opera pronta a svendersi nel loro stesso paese.Terza caratteristica: i paesi dell’area del dollaro e in ogni caso l’Italia sono sottoposti a un modello economico finanziarizzato, basato a) sulla rincorsa dell’attivo primario del bilancio pubblico, che si scarica sui contribuenti, sui servizi pubblici, sugli investimenti; b) sulla rincorsa dell’attivo della bilancia commerciale (sulla competizione nelle esportazioni), e insieme sulla difesa di un alto rapporto di cambio; e le due cose si scaricano sui salari, imponendone la riduzione per mantenere la competitività in ambito internazionale, con conseguente depressione della domanda interna; inoltre, realizzare avanzi primari significa che lo Stato toglie dall’economia più denaro di quanto ne immette, ossia che abbassa il livello di liquidità, quindi di solvibilità. Con queste premesse, è ovvio che non si possano fare i provvedimenti fiscali e gli investimenti necessari e utili, nel medio termine, per la crescita, perché i vincoli di bilancio e il rating (condizioni di finanziabilità dei governi, fissate sul brevissimo termine) non lo permettono.Ovvio è altresì che il capitale finanziario e gli imprenditori validi si dirigano verso imprese e paesi in cui la loro rimunerazione è maggiore perché sono i più efficienti nella produzione, oppure perché consentono uno sfruttamento più radicale dei lavoratori e la libera esternalizzazione sulla società e sull’ambiente delle componenti nocive del processo produttivo (infortuni, inquinamento…); sicché, se per legge lo Stato, in nome della dignità e della stabilità del lavoro, introduce vincoli o tutele che rendano meno interessante per il capitale investire in quelle industrie e in quel paese, il capitale defluirà da quelle Industrie da quel paese lasciando disoccupazione. Perciò se si vuole tutelare effettivamente sia la dignità del lavoro che i livelli occupazionali, che l’ambiente, è indispensabile cambiare i tre suddetti principi, incominciando con il recupero da parte degli Stati della sovranità monetaria per assicurare loro il rifornimento di moneta (la capacità di pagare sempre il proprio debito e di finanziare il proprio bilancio facendo gli investimenti necessari alla crescita e di pagare il debito pubblico), sottraendoli al ricatto monetario dei banchieri speculatori privati internazionali e ai golpe mediante spread.Bisognerà inoltre creare barriere protezionistiche contro la concorrenza sleale in modo che i lavoratori del proprio paese non si trovano esposti alla concorrenza di lavoratori sottoposti a condizioni schiavistiche in paesi in cui il capitale riesce a scaricare completamente sulla popolazione generale e sull’ambiente le proprie esternalità. In terzo luogo, bisognerà cambiare il modello generale dell’economia sopra descritto, mirato sui surplus commerciali, anche perché la rincorsa di tale surplus è in se stessa illogica dato che la somma dei saldi delle bilance commerciali è ovviamente zero. Come primo passo per recuperare la sovranità monetaria, e ridare liquidità al sistema. Qualora non si arrivi direttamente alla fine dell’Eurosistema o a una sua radicale e benefica riforma, suggerisco al governo l’introduzione di un mezzo monetario nazionale interno, una sorta di seconda moneta – ma non denominata come moneta – emesso magari da una rete di banche appositamente costituite, che lo creano prestandolo (come avviene con le normali banche di credito) ma lo accreditano non su un conto proprio, bensì su un conto dello Stato, e poi lo prendono a prestito dallo Stato a modico interesse per prestarlo ai clienti applicando un interesse maggiore.Quella sopra da me delineata è una campagna innanzitutto culturale, di informazione e comunicazione generale – e nella capacità di comunicazione abbiamo due eccellenze: una in Salvini e un’altra, in generale, nelle Stelle. In secondo luogo, deve diventare una campagna europea e possibilmente non solo europea, e a questo fine ben si presta l’iniziativa salviniana della Lega delle Leghe. Se non si riesce a informare-comunicare all’opinione pubblica e a internazionalizzare questa campagna, i suddetti progetti economici verranno soffocati e resi velleitari dalle stesse dimensioni della dottrina economica mainstream – e Mattarella, con Tria, traghetterà l’Italia attraverso una brevissima stagione “populista” per consegnarci nelle mani di Macron-Rothschild, di Soros e della Merkel o di chi per lei.(Marco Della Luna, “Dignità e velleità, come salvare le riforme politico-fiscali del governo”, dal blog di Della Luna del 6 luglio 2018).Il Decreto Dignità, incontestabile come affermazione morale, incontra lo sfavore del mondo imprenditoriale e può avere effetti controproducenti sull’occupazione perché fa aumentare il costo del lavoro e i vincoli per gli investitori (ossia, per i capitalisti). Anche il reddito di cittadinanza, già ridotto da tempo a sussidio di disoccupazione, e assieme ad esso la Flat Tax, già spezzata in due aliquote, sembrano rinviati a quei soliti tempi migliori che non si sa quando arriveranno. Così i rivoluzionari progetti economici del nuovo governo minacciano di svaporare contro i vincoli della realtà esterna, e di tradursi in delusione e scontento. Quei progetti sono stati lanciati nella campagna elettorale senza fare i conti con l’oste, e ora possono diventare un boomerang. Vi è una via per evitare questo flop. Il primo passo è far capire alla gente che ciò impedisce la realizzazione di quei progetti, come pure di un ancora più importante piano di investimenti infrastrutturali per il rilancio della produttività e dell’occupazione, sono gli stessi principi imposti come cardini dell’attuale sistema economico-finanziario globale (prima ancora che europeardo).
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Galloni: più deficit ‘guarisce’ il debito, spiegatelo a Cottarelli
Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.Quindi, se io aumento la spesa pubblica del 2%, avrò un aumento del Pil e, a parità di pressione fiscale, del gettito, del 3% (secondo le stime pessimistiche del Fmi, del 4 o 5% secondo le altre): “quindi”, la inutile e dannosa spending review ha impedito non solo al Pil, ma anche alle entrate, di aumentare. Ecco perché il rapporto peggiora a prescindere dal livello assoluto del debito che, in condizioni di spesa pubblica espansiva, diminuisce in percentuale del Pil. Allo stesso modo, le relazioni tecniche sul “decreto dignità” (che, spero sia solo un inizio di quanto serve al paese da tempo, vale a dire la riqualificazione dell’occupazione) riescono a discernere tra gli effetti espansivi – sulla domanda di lavoro, l’andamento dell’economia internazionale, su un orizzonte temporale di dieci anni: bravi! Risultato eccezionale! Veramente! Come? Non sappiamo che fine faremo tra un anno, quando si sentiranno gli effetti del termine del Quantitative Easing, cosa succederà tra Trump e la Cina, la Merkel che strizza l’occhietto a Putin (e vorrebbe affossare l’euro senza prendersene la responsabilità) e gli esperti sanno discernere di una misura che induce un ostacolo al proseguimento dei contratti a termine oltre i due anni?Finora, le imprese italiane, prevalentemente, avevano usato contratti a termine di pochi mesi ed un elevato turn over dei collaboratori: poco pagati, poco affezionati, poco motivati e si lamentavano se la professionalizzazione non era abbastanza elevata. Così, si domanda un cameriere qualificato dal venerdì sera alla domenica mattina per pagarlo 100 euro a we: non si trovano camerieri? E’ logico. Invece, proviamo a pagarli di più e a cercarli più professionalizzati e stai sicuro che ti faranno guadagnare di più. Pagali poco, trattali male, sostituiscili continuamente, lamentati che i “nostri” rifiutano i lavori e vedrai che guadagnerai di meno. Queste sono le due sfide che abbiamo di fronte: aumentare la spesa pubblica (anche con moneta parallela non a debito, mini bonds e certificati di credito fiscale) per ridurre il rapporto debito/Pil; migliorare la qualità della domanda e dell’offerta di lavoro per far crescere occupazione, paghe e profitti.(Nino Galloni, “Dai grafici di Cottarelli ai tecnici di Di Maio”, dal blog “Scenari Economici” del 15 luglio 2018. Tra i più autorevoli economisti italiani, il professor Galloni – docente universitario e già allievo di Federico Caffè – è vicepresidente del Movimento Roosevelt nonché fautore di una rinascita dell’economia italiana su base keynesiana, fondata cioè sul recupero di sovranità finanziaria da parte di uno Stato che torni finalmente a investire sulla piena occupazione, mettendo fine alla piaga sociale dell’austerity provocata a colpi di crisi dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice).Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.
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Vitalizi e pensioni d’oro: trappole, per poi tosare gli italiani
L’attacco a vitalizi parlamentari e “pensioni d’oro” è solo la premessa della rapina del secolo in funzione schiettamente antipopolare: il vero obiettivo è ridurre tutte le pensioni. Lo sostiene Aldo Giannuli, che considera ingiusta (e finanziariamente irrilevante) la campagna scatenata da Roberto Fico contro i vitalizi, e pericolosa la battaglia – sempre dei 5 Stelle – contro le pensioni più ricche. «E’ del tutto comprensibile la tentazione di molti di approvare la norma contro i vitalizi dei parlamentari», premette il politologo, nel suo blog. «Sappiamo tutti che, sul piano economico, la manovra (con i pretesi 40 milioni di risparmio) è semplicemente ininfluente, ma il vero effetto è quello di punire la classe politica strappandole un privilegio deciso in altri tempi». Quei vitalizi, ricorda Giannuli, stabilivano un trattamento ingiustamente preferenziale verso i politici, le cui indennità non erano tassabili ma erano pensionabili. Poi le cose sono cambiate un po’ alla volta, ma molti degli attuali vitalizi nacquero sotto la stella del privilegio di casta. «Questo è vero, come è vero che la classe politica merita d’essere bastonata per il mono indecente con cui ha gestito la cosa pubblica». E questo spiega la simpatia che la misura riscuote presso il grande pubblico, così come la riscuote anche l’altra manovra in preparazione: quella sulle “pensioni d’oro”, cioè dai 5.000 euro in su. «Ma si tratta di due polpette avvelenate, che dobbiamo rimandare indietro».Sono ormai diversi anni, scrive Giannuli, che alcuni economisti – ovviamente di fede neoliberista – sostengono che, per riequilibrare i bilanci dello Stato, occorra fare tagli in particolare alla spesa pensionistica. Dicono anche che, per fare ciò, non basti ridurre la retribuzione di chi andrà in pensione, ma occorra ridurre l’importo di chi è già in pensione.«In particolare, c’è chi sostiene che si debba ricalcolare sulla base del metodo contributivo le pensioni di quelli che hanno una pensione calcolata sulla base del vecchio sistema retributivo. In soldoni: ridurre le pensioni di un buon 15% (altro che superare la Fornero!). Ma sulla strada di questo simpatico progettino – aggiunge Giannuli – c’è un fastidioso principio giuridico che si chiama “diritti acquisiti” (lo stesso contro cui andò a schiantarsi Renzi con la sentenza della Corte Costituzionale del gennaio 2015, relatrice Silvana Sciarra)». D’altro canto, prosegue l’analista, «in un paese giuridicamente civile, questo è un principio inderogabile: ve lo immaginate uno Stato che prima concede una amnistia penale o un condono fiscale tombale e poi ci ripensa?». Inoltre, aggiunge, le pensioni “d’oro” sono tali perché vengono da retribuzioni molto alte, su cui sono state operate trattenute proporzionali che oggi producono quel reddito di quiescenza.«Forse quelle retribuzioni erano ingiustamente alte, ma ora non ci si può fare nulla», conclude Giannuli: «La pensione è salario differito, che prosegue sulla base del trattamento concordato quando l’interessato era in servizio, e non è oggi rinegoziabile». Peraltro questo accanimento «sarebbe oggi perdente» anche a voler forzare questo principio fondamentale di diritto con una forte campagna d’opinione, «perché provocherebbe la rivolta di buona parte dei pensionati e metterebbe in allarme anche altre categorie». Se però «aizziamo la gente contro la classe politica (con la questione dei vitalizi)», allora «la cosa diventa molto più fattibile», dunque pericolosa: perché poi, «una volta fatto saltare per loro il principio dei diritti acquisiti, questo non esisterà più per gli altri e si passerà al secondo tempo: le “pensioni d’oro”». Stesso schema: aizzando l’opinione pubblica contri i “ricchi” (che però sarebbero risarciti abbondantemente dalla Flat Tax), si finirebbe col dire che anche una pensione da 4.000 euro, in tempi di sacrifici, è una pensione “d’oro”, e poi una di 3.000, e così via. Passo finale: «Portare tutti a regime contributivo», tosando la totalità delle pensioni italiane (e calpestando – a partire dalla guerra ai vitalizi – il principio giuridico dei diritti acquisiti).L’attacco a vitalizi parlamentari e “pensioni d’oro” è solo la premessa della rapina del secolo in funzione schiettamente antipopolare: il vero obiettivo è ridurre tutte le pensioni. Lo sostiene Aldo Giannuli, che considera ingiusta (e finanziariamente irrilevante) la campagna scatenata da Roberto Fico contro i vitalizi, e pericolosa la battaglia – sempre dei 5 Stelle – contro le pensioni più ricche. «E’ del tutto comprensibile la tentazione di molti di approvare la norma contro i vitalizi dei parlamentari», premette il politologo, nel suo blog. «Sappiamo tutti che, sul piano economico, la manovra (con i pretesi 40 milioni di risparmio) è semplicemente ininfluente, ma il vero effetto è quello di punire la classe politica strappandole un privilegio deciso in altri tempi». Quei vitalizi, ricorda Giannuli, stabilivano un trattamento ingiustamente preferenziale verso i politici, le cui indennità non erano tassabili ma erano pensionabili. Poi le cose sono cambiate un po’ alla volta, ma molti degli attuali vitalizi nacquero sotto la stella del privilegio di casta. «Questo è vero, come è vero che la classe politica merita d’essere bastonata per il mono indecente con cui ha gestito la cosa pubblica». E questo spiega la simpatia che la misura riscuote presso il grande pubblico, così come la riscuote anche l’altra manovra in preparazione: quella sulle “pensioni d’oro”, cioè dai 5.000 euro in su. «Ma si tratta di due polpette avvelenate, che dobbiamo rimandare indietro».
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Stiglitz: ma all’Italia conviene lasciare l’euro, ecco come
Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.Le divisioni risultanti hanno inoltre reso più difficile la risoluzione di altri problemi, in particolare la crisi migratoria, per la quale le norme europee impongono un onere ingiusto ai paesi in prima linea, come Grecia e Italia. Questi sono anche i paesi debitori, già afflitti da difficoltà economiche. Non c’è da stupirsi si ribellino. Cosa bisogna fare è ben noto. Il problema è che la Germania non vuole farlo. L’Eurozona ha da tempo riconosciuto la necessità di un’unione bancaria. Berlino insiste però nel rinviare la riforma chiave – una comune assicurazione sui depositi – che ridurrebbe la fuga di capitali dai paesi deboli: quest’ultima è uno dei fattori chiave che spiega la profondità del declino dei paesi in crisi. Le politiche economiche interne della Germania aggravano i problemi della zona euro. La principale sfida economica affrontata dai paesi in un’unione monetaria è l’incapacità di adeguare i tassi di cambio disallineati. Nell’Eurozona, l’onere dell’adeguamento è attualmente imposto ai paesi debitori, che già soffrono di bassi crescita e redditi. Se la Germania avesse una politica fiscale e salariale più espansiva, parte della pressione verrebbe tolta da questi paesi.Se la Germania non è disposta ad intraprendere i passi necessari per migliorare l’unione monetaria, dovrebbe fare la cosa migliore: lasciare l’Eurozona. Come detto da Soros, dovrebbe o guidare l’area o andarsene. Con la Germania (e forse altri paesi dell’Europa settentrionale) fuori dall’unione monetaria, il valore dell’euro si ridurrebbe e le esportazioni dell’Italia e di altri paesi dell’Europa meridionale aumenterebbero. La principale fonte di disallineamento sparirebbe. Allo stesso tempo, l’aumento del tasso di cambio tedesco farebbe molto per curare uno degli aspetti più destabilizzanti dell’economia globale: lo squilibrio commerciale a favore di Berlino. Il guaio, naturalmente, è che la Germania non vuole intraprendere nessuna delle due strade. Ciò lascia i cittadini di paesi come Grecia ed Italia con una scelta che non dovrebbero esser costretti a fare: tra l’appartenenza all’Eurozona e la prosperità economica. Un timido e inesperto governo greco ha scelto di rimanere nell’unione monetaria. Il risultato è stato stagnazione. Nel 2015 il Pil del paese era crollato del 25% rispetto al livello pre-crisi. Da allora, si è appena mosso.L’Italia ha l’opportunità di fare una scelta diversa. In assenza di riforme significative, i benefici di lasciare l’euro sono chiari e considerevoli. Un cambio più basso le consentirebbe maggiori esportazioni. I turisti troverebbero il paese una destinazione ancor più attraente. Tutto ciò stimolerebbe la domanda e aumenterebbe le entrate del governo. La crescita aumenterebbe e l’alto tasso di disoccupazione (11,2%, con il 33,1% di disoccupazione giovanile) diminuirebbe. Ci sono, naturalmente, molte altre ragioni per il malessere italico, e queste saranno tutt’al più parzialmente risolte lasciando l’euro. Governi come quelli di Trump o di Berlusconi – dominato da corrotti cercatori di rendite, senza comprensione delle vere basi della crescita sostenibile a lungo termine – non forniscono la leadership politica necessaria per una crescita forte e sostenibile. Allo stesso tempo, tuttavia, la crescita lenta ed iniqua che l’Italia ha vissuto come risultato dell’euro fornisce terreno fertile a partiti populisti. Ci sarebbero anche ulteriori vantaggi politici. Un’Italia più prospera avrebbe maggiori probabilità di cooperare in altri settori chiave in cui l’Europa ha bisogno di lavorare insieme: migrazione, una forza di difesa europea, sanzioni contro la Russia, politica commerciale.Le politiche commerciali o migratorie producono benefici per l’intero paese, ma ci sarebbero anche dei perdenti – e i vincoli fiscali imposti dalla zona euro hanno reso quasi impossibile fornire una tutela adeguata a chi perde. Un’Italia al di fuori dell’Eurozona sarebbe in una posizione migliore per condividere i benefici delle proprie politiche internazionali, mitigando al contempo il dolore ad esse associato. La sfida, ovviamente, sarà trovare un modo per lasciare la zona euro in modo da minimizzare i costi economici e politici. Una massiccia ristrutturazione del debito, fatta con particolare attenzione alle conseguenze per le istituzioni finanziarie nazionali, è essenziale. Senza di essa, l’onere del debito denominato in euro salirebbe, controbilanciando forse gran parte dei potenziali guadagni. Tali ristrutturazioni sono una parte fisiologica di grandi svalutazioni. A volte viene fatto di nascosto – come quando gli Usa abbandonarono il gold standard. A volte apertamente, come in Islanda ed Argentina. Tali ristrutturazioni del debito dovrebbero però essere viste come un rischio intrinseco dell’investimento transnazionale, una delle ragioni per le quali le obbligazioni “straniere” spesso danno un premio per il rischio.Da un punto di vista economico, la cosa più semplice da fare sarebbe che le entità italiane (governi, aziende e privati) semplicemente ridenominino i debiti dall’euro alla nuova lira. A causa però di complessità giuridiche all’interno dell’Ue, e degli obblighi internazionali del paese, potrebbe essere preferibile adottare una super-legge sul fallimento, sul modello del Chapter 11 americano. Questa permette un rapido ricorso alla ristrutturazione del debito a qualsiasi entità per la quale la nuova valuta presenta gravi problemi economici. Le leggi sulla bancarotta restano un’area di competenza di ciascuno degli Stati nazionali dell’Ue. L’Italia potrebbe persino scegliere di non annunciare che sta per lasciare l’euro. Potrebbe semplicemente emettere, ad esempio, titoli di Stato, che dovrebbero essere accettati come pagamento per qualsiasi obbligo di debito in euro. Una diminuzione del valore di queste obbligazioni equivarrebbe a una svalutazione. Ciò allo stesso tempo ripristinerebbe l’efficacia della politica monetaria italiana: cambiamenti nella politica della banca centrale inciderebbero sul valore delle obbligazioni.Si leverebbe naturalmente un polverone da parte degli altri membri. Introdurre una moneta parallela, ancorché in modo informale, violerebbe quasi certamente le regole della zona euro e sarebbe certamente contro il suo spirito. In questo modo però l’Italia lascerebbe decidere gli altri membri se espellerla. Roma potrebbe scommettere sul fatto che i membri più irritabili dell’Unione non compieranno mai un’azione così forte, che confermerebbe la sfilacciamento della zona euro. L’Italia avrebbe allora ottenuto due risultati con una sola mossa: rimarrebbe parte dell’Eurozona ma avrebbe compiuto una svalutazione. E se dovesse perdere la scommessa, l’onere politico dell’aver lasciato la zona euro cadrebbe ancor più chiaramente sui suoi “partner”. Sarebbero loro ad aver fatto la scelta finale. La Grecia si è arresa ad esser strangolata dalla Bce. Ma non doveva. Atene era infatti già ben avviata nella creazione di un sistema (un meccanismo di pagamento elettronico sotto la nuova dracma) che avrebbe facilitato una transizione dall’Eurozona. I progressi tecnologici degli ultimi tre anni rendono la creazione di sistemi di moneta elettronica sempre più semplice ed efficace. Se l’Italia decidesse di usarne uno, non dovrebbe nemmeno affrontare le difficoltà di stampare nuova valuta. Potrebbe anche alleviare il dolore della propria dipartita coordinando l’uscita con altri paesi in posizione simile.Il variegato gruppo di paesi che ora forma l’Eurozona è ben lungi da quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale. Ci sono troppe diversità, per farlo funzionare occorrono migliori assetti istituzionali, di quelli del tipo su cui la Germania ha posto il veto. Una zona meridionale sarebbe molto più vicina ad un’area valutaria ottimale. Ed anche se è difficile organizzare un’uscita coordinata in un breve periodo di tempo, se l’Italia dovesse avere successo, altri paesi quasi sicuramente seguiranno. Non bisogna ovviamente sottovalutare i costi di una grande svalutazione. Qualsiasi grande cambiamento in un prezzo-chiave in un’economia è una perturbazione significativa. Il prezzo del cambio estero è, ovviamente, fondamentale in qualsiasi economia aperta. Ha un effetto-domino sui prezzi di tutti i beni e servizi. Alcune – forse molte – aziende falliranno. Alcuni – forse molti – privati vedranno i propri redditi reali abbassarsi. È però altrettanto importante non sottovalutare i costi dell’attuale malessere italiano. Se la sua economia, nei 20 anni dalla creazione dell’euro, fosse cresciuta al tasso della zona euro nel suo insieme, il suo Pil sarebbe stato più alto del 18%.Il costo della disoccupazione persistente, specialmente tra i giovani, è enorme. I giovani tra i 20 e i 30 anni dovrebbero affinare le proprie abilità nella formazione sul posto di lavoro. Invece sono a casa oziosi, molti di loro a sviluppare un risentimento verso le élite e le istituzioni che incolpano per la propria situazione. La conseguente mancanza di formazione del capitale umano ridurrà la produttività anche per gli anni a venire. In un mondo ideale, l’Italia non dovrebbe essere costretta a lasciare l’Eurozona. L’Europa potrebbe riformare l’unione valutaria e fornire una migliore protezione a chi è danneggiato dal commercio e dalla migrazione. In assenza però di un cambio di direzione da parte dell’Ue nel suo insieme, l’Italia deve ricordare che ha un’alternativa alla stagnazione economica e che ci sono modi per lasciare la zona euro in cui i benefici probabilmente supererebbero i costi. Se il nuovo governo dovesse pilotare con successo tale uscita, l’Italia starebbe meglio. E così il resto d’Europa.(Joseph Stiglitz, “L’Italia ha ragione a voler lasciare l’euro”, da “Politico.Eu” del 25 giugno 2018, post tradotto fa Hmg per “Come Don Chisciotte”).Qual è il modo migliore per lasciare l’euro? Questa domanda è riaffiorata dopo che in Italia è salito al potere un governo euroscettico. Sì, i ministri chiave si sono formalmente impegnati a mantenere la valuta comune, ma quegli impegni non sono immutabili. Devono essere considerati nel contesto del più ampio potere di contrattazione italiano: il nuovo governo vuole chiarire che non si tratta solo di un parvenu. Preferirebbe rimanere all’interno dell’Eurozona, ma pretende dei cambiamenti. I nuovi leader italiani hanno ragione a dire che l’Eurozona ha un forte bisogno di riforme. L’euro è viziato sin dal suo concepimento. Per paesi come l’Italia, ha eliminato due meccanismi chiave di regolazione: il controllo dei tassi di interesse e di cambio. E invece di mettere qualcosa al loro posto, ha introdotto strette restrizioni su debiti e deficit – ulteriori ostacoli alla ripresa economica. Il risultato per la zona euro è stato una crescita più lenta, soprattutto per i paesi più deboli al proprio interno. L’euro avrebbe dovuto inaugurare una maggiore prosperità, che a propria volta avrebbe portato ad un rinnovato impegno per una maggior integrazione europea. Ha fatto esattamente il contrario – aumentare le divisioni all’interno dell’Ue, in particolare tra paesi creditori e debitori.
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Cremaschi: sono 10 milioni (non 5) i nuovi poveri in Italia
Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.Ma i vertici europei – in guerra tra loro sull’emergenza-migranti, innescata da feroci ingiustizie contro l’Africa e il Medio Oriente – non fanno nulla per le decine di milioni che nella Ue già ci stanno. «I poveri si contano e poi vengono cancellati dall’agenda politica», sottolinea Cremaschi: sono lavoratori, pensionati, precari e disoccupati, donne e giovani. «Sono la parte più sfruttata e oppressa del mondo del lavoro, sono le prime vittime della lotta di classe dall’alto dei ricchi, che più i poveri aumentano, più vedono accrescere i propri patrimoni». I 14 italiani più ricchi – Ferrero, Del Vecchio, Berlusconi, Armani e gli altri – possiedono beni per un ammontare di 107 miliardi di dollari, come ciò che riescono a mettere assieme milioni di poveri. «Il 5% più ricco del paese detiene il 40% della ricchezza nazionale, cioè 4.000 miliardi». I poveri aumentano, aggiunge Cremaschi, «perché i ricchi sono sempre più ricchi, perché la ricchezza si concentra sempre di più in alto e viene espropriata e rapinata in basso». E così, «la diseguaglianza sociale che dilaga senza freni nel nome del libero mercato è la causa dell’enorme incremento della povertà in Italia e in tutta Europa».Il quadro macroeconomico dell’Eurozona è tristemente noto: «Le misure di austerità e di rigore di bilancio, le privatizzazioni, la flessibilità e la precarietà del lavoro, le politiche fiscali di agevolazioni alle imprese e di riduzione delle tasse ai ricchi, i Jobs Act e le Flat Tax che dilagano in tutta Europa, impoveriscono sempre più persone ed arricchiscono sempre di più una piccola minoranza». Se non si combatte la concentrazione della ricchezza non si può ridurre la povertà, conclude Cremaschi, «ma tutti i governi europei, tecnocratici o populisti che siano, di fronte alla sola ipotesi di contrastare la diseguaglianza redistribuendo ricchezza si fermano atterriti». Cremaschi, sostenitore di “Potere al Popolo”, accusa «anche chi ha preso i voti nel nome della lotta contro le élites», in primis lo stesso Salvini. Alla fine, sostiene Cremaschi, il neo-sovranismo «fa proprio l’imbroglio liberista secondo il quale, per redistribuire ricchezza, prima bisogna produrla». E’ la teoria neoliberista dello “sgocciolamento”, in base alla quale «per dare soldi ai poveri, prima bisogna darne ai ricchi». Per questo, insiste l’ex sindacalista Fiom, «vertici europei per la lotta alla povertà non se ne sono mai fatti». In altre parole: «Contro i ricchi nulla si può, nulla si deve fare: e questo è il primo articolo della “Costituzione reale” della Ue».Sulla crescita della povertà tutto ciò che che oggi prevale è mistificazione. Innanzitutto i numeri: sono inferiori alla realtà o sono costruiti in modo da far apparire meno grave la situazione, scrive Giorgio Cremaschi su “Micromega”. Dal 2005 l’Istat suddivide i poveri in assoluti e relativi con due diverse classificazioni di reddito. Così oggi ci sarebbero 5 milioni di poveri assoluti e tanti altri milioni di “poveri relativi”. Ma è una distinzione che, secondo Cremaschi, serve solo ad attenuare l’impatto della catastrofe sociale che ha colpito il nostro paese (dopo l’adozione dell’euro). Tra l’altro, aggiunge, i mass media hanno tutti diffuso la notizia che i 5 milioni di poveri assoluti sarebbero il numero più alto dal 2005, come se prima fossero stati di più. No, naturalmente: il 2005 è solo l’anno di avvio della classificazione, e allora i più poveri dei poveri erano solo 1,5 milioni. In tredici anni sono triplicati. Eurostat, l’istituto europeo di statistica, usa piuttosto dei criteri sociali per contare i poveri, partendo da ciò di essenziale a cui essi debbono rinunciare. Sono considerati poveri i cittadini che, tra l’altro, hanno difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, a sostenere spese impreviste, a riscaldare a sufficienza la casa, a pagare in tempo l’affitto e a comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Sulla base di questi e altri criteri nel 2017 l’Italia risulta il paese europeo con più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni. Un numero enorme, quasi pari agli abitanti di tutta la Germania.
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Della Luna: delegittimare Francia e Germania, ladri d’Europa
Ci sono alcune cose che bisogna che il governo metta in luce davanti all’opinione pubblica italiana ed europea, se vuole vincere in Europa. In un precedente articolo ho amichevolmente raccomandato al governo di affrettarsi a smascherare e screditare l’Unione Europea e i suoi corifei spiegando alla gente quali interessi servono, prima che siano questi a screditare e delegittimare il governo. Successivamente ho consigliato di puntare non a uscire dall’euro e dall’Ue (perché troppo costoso e incerto), ma a farli saltare ambedue sulle loro caratteristiche inique e arbitrarie, collaborando a ciò con altri governi affini. E mi sembra che parte del governo sia su questa rotta. Oggi mi sento di aggiungere un ulteriore consiglio strategico: occorre spiegare chiaramente e ad alta voce che l’Italia (come Belgio, Jugoslavia, Cipro, Libano, Iraq) è un paese progettato e assemblato, a suo tempo, dall’Impero britannico, mettendo insieme popoli e territori disomogenei allo scopo di avere uno Stato incapace di una politica di interesse nazionale, manipolabile dalle potenze egemoni: un paese concepito per essere servo.Spiegare ad alta voce anche che storicamente diversi leader italiani hanno cercato di portare il paese fuori da questa condizione servile per porlo a pari dignità con le altre potenze europee, ma sono tutti stati sconfitti con vari metodi, non esclusi quello giudiziario e la diffamazione mediatica. Spiegare ancora, con molti esempi concreti, che l’europeismo, l’Unione Europea a guida tedesco-francese, e anche l’euro naturalmente, e le politiche fiscali e sull’immigrazione, sono stati concepiti e vengono difesi per sfruttare questa condizione servile dell’Italia. Spiegare infine che la battaglia adesso è una battaglia di dignità, eguaglianza e riscatto, la battaglia contro i paesi egemoni e interessati a mantenere questa condizione di inferiorità e sfruttamento dell’Italia per il proprio tornaconto, Germania e Francia innanzitutto, con la Commissione Europea e l’Eurogruppo al loro servizio.Spiegare che quando ci si scontra sull’immigrazione, sulla moneta, sui vincoli di bilancio, si tratta di lotta per liberarsi da una condizione di inferiorità contro un padrone abituato ad essere tale e a comperarsi complici e collaborazionisti a Roma. Infine, nel dialogo pubblico con Merkel, Macron e soci, a muso duro (e Salvini è perfetto per farlo), bisogna accusarli entrambi pubblicamente, delegittimandolì così moralmente, di voler mantenere l’Italia in una condizione di sottomissione e sfruttamento. E direi loro ad alta voce, davanti a tutte le tv: “Forse riuscirete anche questa volta a ricacciarci in basso, ma per la prima volta l’ipocrisia e l’immoralità di ciò che fate sono state rese di dominio pubblico, a rodere per sempre la vostra credibilità e legittimazione”. Gli avversari da combattere sono potenti, ma è facile indebolirli e delegittimarli politicamente proprio perché è facile sputtanarli sul piano morale divulgando ciò che fanno in ambito economico.(Marco Della Luna, “Chiarezza, per vincere in Europa”, dal blog di Della Luna del 22 giugno 2018).Ci sono alcune cose che bisogna che il governo metta in luce davanti all’opinione pubblica italiana ed europea, se vuole vincere in Europa. In un precedente articolo ho amichevolmente raccomandato al governo di affrettarsi a smascherare e screditare l’Unione Europea e i suoi corifei spiegando alla gente quali interessi servono, prima che siano questi a screditare e delegittimare il governo. Successivamente ho consigliato di puntare non a uscire dall’euro e dall’Ue (perché troppo costoso e incerto), ma a farli saltare ambedue sulle loro caratteristiche inique e arbitrarie, collaborando a ciò con altri governi affini. E mi sembra che parte del governo sia su questa rotta. Oggi mi sento di aggiungere un ulteriore consiglio strategico: occorre spiegare chiaramente e ad alta voce che l’Italia (come Belgio, Jugoslavia, Cipro, Libano, Iraq) è un paese progettato e assemblato, a suo tempo, dall’Impero britannico, mettendo insieme popoli e territori disomogenei allo scopo di avere uno Stato incapace di una politica di interesse nazionale, manipolabile dalle potenze egemoni: un paese concepito per essere servo.