Archivio del Tag ‘finanza’
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Il potere vota Di Maio. Scalfari: è il nuovo leader, a sinistra
Per Marco Travaglio, a dare spettacolo è il noto sport nazionale: correre in soccorso dei vincitori. Sempre che i soccorritori, in questo caso, non siano i terminali italiani degli azionisti-ombra dei 5 Stelle, tranquillizzati in anticipo da Luigi Di Maio nei santuari del sommo potere, da Londra a Washington, prima ancora di presentare una lista iper-rassicurante di possibili ministri tecnici, a partire dal neoliberista Fioramonti, il cui curriculum contempla nomi come Rothschild, Rockefeller e Soros. «I poteri forti si riposizionano», titola il “Fatto Quotidiano”. O meglio: forse rendono palese ciò che prima era nascosto, e cioè che il successo firmato Di Maio fosse, fin dall’inizio, il loro Piano-B. Ovvero: non l’imbarazzante avanzata di una forza “antisistema”, ma il prevedibile boom di un’ala “populista” del sistema stesso, adatta a drenare il dissenso sociale di un’Italia in crisi. Da Marchionne a Confindustria, la convergenza su Di Maio si è fatta aperta e spettacolare, quasi quanto quella di Eugenio Scalfari, decano del “quarto potere” italico. Per il fondatore di “Repubblica”, che pochi mesi fa ai 5 Stelle avrebbe preferito persino l’odiato Berlusconi, oggi di Di Maio non è solo il legittimo capo del prossimo ipotetico governo, ma addirittura il leader del nuovo, grande partito unico della sinistra italiana, destinato a inglobare e assorbire lo stesso moribondo Pd. Questione di parole: sostituendo “sinistra” con “potere”, il cerchio si chiude.
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L’Italia è senza pilota, ai comandi ora ci sono i passeggeri
La vittoria della Lega di Salvini è la sconfitta del politicamente corretto e della casta politica e istituzionale, mediatica e intellettuale che lo propina, rigettato come gergo asfissiante del potere. La vittoria di Salvini è il superamento dell’antifascismo e del suo uso infame, come dimostra il caso di Macerata, dove la Lega è il primo partito nonostante la campagna per accusare il “fascioleghista” Salvini d’essere il mandante morale di un nuovo presunto terrorismo nero. Lo scempio del corpo di una ragazza da parte di un gruppo di migranti era passato in secondo piano rispetto alla reazione isolata di un esagitato, ed era stata imbastita un’indegna e fuorviante sceneggiata antifascista. Il voto a Salvini è la risposta a quella gazzarra e a quella speculazione assurda, fuori dal tempo. La vittoria di Salvini si spiega pure con la percezione d’invasione e d’insicurezza che c’è nel paese. C’è poi la sfiducia verso l’Europa, il disagio verso l’euro e la dominazione finanziaria e la rivendicazione della sovranità politica, popolare e nazionale. La vittoria di Salvini è la traduzione italiana del populismo nordeuropeo, ma anche americano e perfino russo. E qui le ragioni del successo leghista sconfinano nelle ragioni del trionfo grillino.C’è un fattore su tutti che rende vicini il successo della Lega al trionfo dei 5 Stelle. È il rigetto della classe dominante. L’Italia non ha più una classe dirigente, bocciata a furor di popolo. Gli italiani hanno respinto i partiti e i leader, hanno punito coloro che hanno governato finora, dalla sinistra al centro fino a Berlusconi. Hanno votato uno stato d’animo prima ancora che un movimento e hanno votato se stessi prima che i grillini o i salvini. Un voto selfie, un voto allo specchio, seppure infranto, in cui si riflette l’italiano senza guide e senza modelli. Gli elettori hanno respinto le mediazioni e i filtri, hanno votato contro il sistema, contro l’establishment, contro l’Europa. Un voto contro. Anche Grillo non c’entra più, è un simbolo araldico, non più un leader politico. Non è vero che l’Italia si sia divisa in due: a nord come a sud ha votato in maggioranza ai populisti, con la differenza che a nord il populismo è leghista, a centro-sud è 5 Stelle. Declina la sinistra, prima ancora che il renzismo; il fatto che sparisca in tutta Europa, se non in Occidente, dimostra che Renzi è solo il nome locale di una crisi mondiale. Si salva dall’ecatombe la destra meloniana, pur restando nel piccolo cabotaggio di forza laterale.La pericolosa utopia grillina è che un popolo si possa autogovernare, tramite loro. E che l’ignoranza, l’assenza di storia, esperienza e curriculum, siano indici di purezza. Da questo punto di vista i leghisti hanno saputo dare anche alcune prove di buon governo, almeno a livello locale. Il successo grillino si spiega con una protesta più radicale ma più superficiale. Il pericolo migranti agitato dai leghisti viene sostituito dai grillini dal tema disoccupati e dalla loro puerile soluzione. A 50 anni dal ’68, il grillismo appare come una rivoluzione semi-sessantottina: potere ai giovani e al collettivo che ora si chiama rete; opposizione al sistema, ignoranza in cattedra, reddito di cittadinanza come ieri il voto politico; via i privilegi, morte ai potentati. Non ha avuto più presa Berlusconi, apparso come bollito, allineato all’eurocrazia, aperto agli inciuci col renzismo ed esagerato nelle promesse, comprese quelle che già non mantenne quando ebbe numeri, forza e tempo per realizzarle.Se dovessi tradurre in un’immagine l’impressione generale della situazione dopo il voto, è quella di un aereo da cui è stato buttato fuori il pilota e il personale di bordo, ritenuti inetti e corrotti, e la guida dell’aereo e la gestione della cabina sia affidata direttamente a un gruppo di passeggeri. Di Maio è il passeggero-tipo, come Di Battista e gli altri grillini. Anche Salvini è percepito meno come un leader e più come la voce del nostro scontento. Uno di noi. L’Italia ha perso il capo, riparte dalla coda. Il primo problema sarà vedere se al potere destituente che hanno mostrato i grillini e i leghisti, sapranno ora affiancare un potere costituente. E se il loro percorso si intreccerà, resterà distinto o si perderà nell’indistinto. Non s’intravedono ancora i ponti e i mediatori, i registi e i richelieu per tentare l’ardua intesa. Nell’attesa i leghisti si tengono ancora leali alla coalizione di centro-destra.Dietro ambedue c’è la grande incognita del populismo, risposta sacrosanta al predominio incapace e corrotto delle oligarchie, sempre più lontane dal popolo; ma il populismo vale come punto di partenza, come rivolta e presa di coscienza. Se pretende d’essere un punto d’arrivo saranno dolori e rischieranno di far rimpiangere la detestata casta. Ci vorrebbe una nuova aristocrazia, dotata di un forte senso dello Stato e della comunità. Che non s’intravede. Intanto si parte coi valzer e le quadriglie, cercando l’ardua quadratura del cerchio tra l’integralismo dei puri e le alleanze ibride e necessarie per governare. Entriamo in un mese pazzo e imprevedibile. Auguri, Italia. (Ps: l’onore delle armi a un gran ministro dell’interno, Marco Minniti, battuto a Pesaro da tal Cecconi, un furbetto dei finti rimborsi, eletto a furor di popolo tra i grillini. Onore e lui e disonore al popolo sovrano).(Marcello Veneziani, “Grilloleghisti immaginari”, da “Il Tempo” del 6 marzo 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).La vittoria della Lega di Salvini è la sconfitta del politicamente corretto e della casta politica e istituzionale, mediatica e intellettuale che lo propina, rigettato come gergo asfissiante del potere. La vittoria di Salvini è il superamento dell’antifascismo e del suo uso infame, come dimostra il caso di Macerata, dove la Lega è il primo partito nonostante la campagna per accusare il “fascioleghista” Salvini d’essere il mandante morale di un nuovo presunto terrorismo nero. Lo scempio del corpo di una ragazza da parte di un gruppo di migranti era passato in secondo piano rispetto alla reazione isolata di un esagitato, ed era stata imbastita un’indegna e fuorviante sceneggiata antifascista. Il voto a Salvini è la risposta a quella gazzarra e a quella speculazione assurda, fuori dal tempo. La vittoria di Salvini si spiega pure con la percezione d’invasione e d’insicurezza che c’è nel paese. C’è poi la sfiducia verso l’Europa, il disagio verso l’euro e la dominazione finanziaria e la rivendicazione della sovranità politica, popolare e nazionale. La vittoria di Salvini è la traduzione italiana del populismo nordeuropeo, ma anche americano e perfino russo. E qui le ragioni del successo leghista sconfinano nelle ragioni del trionfo grillino.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».
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Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».
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Che succede dopo le elezioni? Niente, e riderà la solita élite
Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.La necessità di formare alleanze improbabili è stata quindi da sempre la caratteristica della politica italiana. Le cose non cambiarono neanche con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica; nonostante fosse stato riformato il sistema elettorale da proporzionale a maggioritario, la verità è che la riforma elettorale servì unicamente a rendere meno ancorati al territorio i vari candidati, e a restringere le possibilità di scelta dell’elettore. Per il resto, la composizione politica del Parlamento rimase più o meno identica alla precedente, nell’impossibilità di formare una vera maggioranza, e quindi con alleanze che costringevano poi a non portare a termine nessuna vera riforma (eclatante fu la rottura del primo governo Berlusconi, ove quest’ultimo dichiarò che mai più avrebbe voluto avere a che fare con Bossi, mentre Bossi dal canto suo dichiarò “mai più con la porcilaia fascista”; e puntualmente dopo pochi mesi si riallearono di nuovo, nell’impossibilità di formare una maggioranza di governo).Le ultime riforme elettorali, dal Porcellum o al Rosatellum, non hanno avuto altri effetti se non di impedire agli elettori di scegliere i propri candidati, e complicare il meccanismo elettorale in modo da rendere possibili brogli e impedire ai partiti di minoranza di avere una loro rappresentanza, sia pure minima (questo fenomeno però non è nuovo; la prima legge elettorale per taroccare i risultati, infatti, fu approvata dalla Dc ai tempi della prima legislatura, tanto che tale legge fu denominata, appunto “legge-truffa”). Ma la più grossa assurdità di queste elezioni è che il Parlamento attuale, sorto a seguito di una legge dichiarata incostituzionale dalla stessa Corte Costituzionale, è da considerarsi giuridicamente illegittimo. Questo Parlamento illegittimo ha modificato a sua volta la legge elettorale (che quindi, per la proprietà transitiva, è da considerarsi anch’essa illegittima, come qualsiasi legge sia stata votata da questo Parlamento) e quindi avremo un Parlamento, quale che esso sia, a sua volta illegittimo. Un Parlamento instabile è infatti ciò che è necessario a chi detiene veramente il potere (cioè le élite economico-finanziarie internazionali) per garantirsi quell’instabilità politica, necessaria per continuare a perpetuare il proprio piano internazionale di globalizzazione del mondo e di accentramento di tutti i poteri politici e finanziari in un vertice unico.(Paolo Franceschetti, “Cosa succederà dopo le prossime elezioni?”, dal blog “Petali di Loto” del 28 febbraio 2018).Mi domandano spesso in questi giorni cosa succederà secondo me dopo le elezioni. La risposta è semplice: nulla. Non succederà nulla di assolutamente diverso rispetto a ciò che è successo a partire dal 1945 ad oggi: nessun partito (con l’unica eccezione del primo governo Dc scaturito dalle elezioni del 1948) sarà mai in grado di raggiungere una maggioranza, con la conseguenza che occorrerà formare una coalizione, oppure nominare un ennesimo governo tecnico, non collegato in modo diretto ai partiti eletti (come è accaduto per tutti i recenti governi: Gentiloni, Renzi, Letta, Monti). Per questo motivo ogni gruppo politico in questa campagna elettorale sta promettendo mari e monti, dal reddito di cittadinanza, all’abbassamento delle tasse e via discorrendo. Infatti ognuno sa che, dopo il voto, sarà impossibile mantenere le promesse perché dovrà allearsi con qualche altra forza, e quindi inevitabilmente giungere a compromessi che impediranno di effettuare riforme decenti. Basti pensare, tra tutte le assurdità politiche che si sono profilate all’orizzonte in questa campagna elettorale, all’affermazione di Di Maio che “non esclude un’alleanza col Pd”.
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Dezzani: il piano è spolpare l’Italia grazie al governo Di Maio
«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.Il processo di annichilimento della Penisola, avviato nei primi anni ‘90 con Tangentopoli e la destabilizzazione della Somalia, secondo Dezzani ha accelerato a partire dal 2011: austerità, cessione delle imprese strategiche (Telecom, Edison, Unicredit, alimentare e lusso), guerra in Libia e conseguenti flussi migratori incontrollati. Arrivati nel 2018, sta per iniziare l’ultima fase del processo di “demolizione controllata” dell’Italia. «E le imminenti elezioni del 4 marzo, decretando chi dovrà gestire il pericolosissimo aumento generalizzato dei tassi ed il conseguente crollo delle piazze finanziarie, giocano un ruolo cruciale». La legge elettorale difettosa, che impedisce la governabilità? Non è un caso, sostiene Dezzani nel suo blog: «L’ingovernabilità è un valore – scrive – perché obbliga le istituzioni ad adottare, una volta chiuse le urne, soluzioni “impensabili”». Ovvero: «Costringe a sdoganare definitivamente il Movimento 5 Stelle, usandolo come perno attorno cui costruire un governo». Secondo Dezzani, l’opinione che i “poteri forti” premano per una grande coalizione “di centro”, basata su un patto tra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, è errata: «Entrambi sono indigesti a chi conta davvero», come «i circoli finanziari rappresentati dal settimanale “The Economist” che, per inciso, sono gli stessi che hanno partorito la Casaleggio srl e il Movimento 5 Stelle».Per Dezzani, la strategia dell’alta finanza non contempla una grande coalizione tra partiti “moderati”, ma «una grande coalizione incentrata sui grillini, la cui forza, si noti, nasce da quelle stesse politiche di austerità imposte dall’alta finanza». Dopo Monti e Letta, Renzi e Gentiloni, ecco il “virus” 5 Stelle, «gonfiato a dismisura dalle politiche dei precedenti esecutivi “europeisti”». Sempre secondo Dezzani, sarebbe illuminante l’atteggiamento del “Corriere della Sera”, che l’analista definisce «storico giornale della borghesia anglofila e “badogliana”». Si parte nel 2011 con l’incondizionato sostegno a Mario Monti, poi si sostiene la linea di austerità, privatizzazioni e ultra-europeismo di Letta, Renzi e Gentiloni, e adesso, quando il Pd è ormai logoro, si vira verso il Movimento 5 Stelle, «preparando così il terreno ad un governo grillino con la benedizione del primo quotidiano d’Italia», svolta incarnata dalla direzione di Luciano Fontana, con accanto un editorialista come Ernesto Galli della Loggia, «principale artefice dello “sdoganamento” del M5S: il movimento non è eversivo, è democratico e incarna la volontà di “palingenesi” del paese». Analogo percorso da La7 di Urbano Cairo, mai anti-grillina fin dall’inizio «essendo nata come tv della Telecom che ha giocato un ruolo chiave nella nascita del M5S».Domanda: «Perché il giornale della borghesia “anglofila” si prodiga per sdoganare i 5 Stelle, nonostante il clamoroso fallimento della giunta Raggi a Roma e di quella Appendino a Torino (che deve le sua nascita al decisivo avvallo degli Agnelli-Elkann)?». Ovvero: «Perché l’establishment liberal lavora per portare i grillini al potere, nonostante la loro manifesta incapacità di governare?». Perché sono deboli e fragili, quindi facilmente manovrabili da chi mira a spolpare definitivamente il paese. E’ la tesi che Dezzani formula, prendendo spunto dal caso-Roma: «Supponiamo che l’esperimento “Raggi” sia ripetuto a scala nazionale, per di più in un contesto macroeconomico sempre più ostile (aumento tassi e recessione economica); quale sarebbe il destino dell’Italia? Come una nave senza comandante in mezzo alla tempesta (dopo anni, peraltro, di incuria e malgoverno), l’Italia sarebbe travolta dai marosi della crisi: caos, saccheggio e default. La lunga stagione di “destrutturazione” del paese, iniziata nel 1992-1993, culminerebbe così in un epico schianto, grazie al M5S (dopotutto, non fu grazie ad Antonio Di Pietro, l’uomo simbolo di Mani Pulite, se Gianroberto Casaleggio si affacciò alla politica?)».E come si arriverebbe, concretamente, a un governo 5 Stelle? «Attraverso il “contratto” proposto da Luigi Di Maio», scrive Dezzani, ricordando che il leader grillino «ha smentito un’alleanza con la sinistra ma, per scongiurare scenari di “caos”, ha parallelamente aperto ad un programma di legislatura con chi è disponibile, da mettere nero su bianco in un contratto. E chi potrebbe essere disponibile a quest’avventura, se non proprio la sinistra?». Conti alla mano: “Liberi e Uguali” (5%) e un Pd al 20-25% «depurato dall’ormai esausto Matteo Renzi», tutto sommato «fornirebbero un numero di parlamentari sufficienti a formare una maggioranza», sommandoli all’ipotetico 25-30% del Movimento 5 Stelle. «Così, le disastrose amministrazioni Raggi e Appendino verrebbero replicate nei dicasteri romani, con il preciso intento di portare l’Italia alla bancarotta e spalancare le porte alla speculazione più selvaggia».Qualcuno potrebbe obiettare: ma non è interesse dell’establishment atlantico preservare la calma sui mercati, spingendo verso un governo “moderato”? Non è l’Italia “too big to fail”? Dezzani ritiene di no: «Dieci anni di liquidità a costo zero hanno creato un’enorme bolla azionaria e obbligazionaria che, alzati i tassi di interesse, cerca soltanto un pretesto per scoppiare: l’Italia del 2018 potrebbe essere la Lehman Brothers del 2008». Inoltre, aggiunge l’analista, «l’oligarchia finanziaria atlantica ha spinto al default negli ultimi 20 anni la Russia, i paesi del sud-est asiatico (1997-1998) e l’Argentina (2001). Non si capisce per quale motivo dovrebbe risparmiare l’Italia che, come ricordano sinistramente molti commentatori, vale ormai soltanto il 2-3% del Pil mondiale. E se il Movimento 5 Stelle sarebbe «il cavallo di Troia per portare il paese alla bancarotta», conclude Dezzani, «le nostre istituzioni massoniche e la borghesia “badogliana”, da sempre alleate col nemico, sono suoi complici».«Un ipotetico governo Di Maio non sarebbe nient’altro che la continuazione del processo iniziato con il governo Monti, anzi, ne sarebbe l’epilogo». Secondo Federico Dezzani, i grillini sarebbero uno strumento di “autodistruzione programmata” dell’Italia. «Prima i poteri “liberal” (gruppo Bilderberg e Trilaterale) indeboliscono il paese con l’austerità di Monti, poi aumentano la dose di veleno con i governi di centrosinistra e, quando il paziente è sufficientemente indebolito, inseriscono il virus: il Movimento 5 Stelle, con il suo mix letale di incapacità e cupio dissolvi». Secondo l’analista geopolitico, tutto nasce dalla crisi del sistema euro-americano: «Più il potere atlantico si indebolisce e più aumenta la volontà di fare terra bruciata, per impedire che i vecchi sudditi, una volta liberati, convergano verso la Russia e la Cina. L’Italia, il cui valore geopolitico è enorme, non fa eccezione: se non la si controlla, è meglio distruggerla, magari spartendosi le spoglie con i vicini (Francia e Germania)». A penalizzare gli italiani, tradizionalmente “esterofili”, c’è anche «un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze straniere», ormai ferocemente in lotta tra loro ma coalizzate contro l’Italia, tra le macerie di quella che doveva essere una Unione Europea, e cui il Belpaese rischia di essere, definitivamente, la prima vittima.
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Crisi bancaria, ricatto Bce: il prossimo governo nasce morto
Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».Dato l’alto livello di sofferenze già emerse (e che emergeranno nel sistema bancario italiano, soprattutto nel Monte dei Paschi di Siena), «queste nuove regole in prospettiva scateneranno una crisi bancaria generale, perché molte banche semplicemente non hanno i soldi per coprire le perdite e salteranno». Va anche considerato che «molte banche, da tempo, stanno concedendo crediti in modo piuttosto spensierato, allo scopo di raggiungere budget elevati». Le nuove regole annunciate per la primavera «indurranno le banche a restringere il credito, e ciò strozzerà l’economia». Secondo Della Luna, «nessun governo reggerebbe a un tale disastro, quindi il prossimo governo italiano dovrà inginocchiarsi ai grandi banchieri per impetrare rinvii dell’applicazione delle nuove regole e aiuti per adeguarsi ad esse nel tempo». Ma gli “aiuti”, si sa, «sono condizionati all’obbedienza politica, cioè a che il governo faccia le riforme, le cessioni di sovranità e le privatizzazioni che richiedono i grandi banchieri. E’ già avvenuto nel 2011».Sempre secondo Della Luna, quindi, «il prossimo governo dovrà dimenticare e far dimenticare alla gente tutte le promesse elettorali di farsi sentire in Europa, di sforare il 3%, di varare la Flat Tax, di fare grandi investimenti, di sostenere i poveri». I programmi elettorali sono stati bollati come velleitari, perché non indicano concretamente le coperture? Certo: «Sono velleitari, anzi illusori, soprattutto perché non tengono conto del fatto che l’Italia, come la Grecia, è sottoposta gerarchicamente al comando e al bastone di interessi esterni ad essa, che si stanno prendendo i suoi migliori assets aziendali». Da diversi decenni, «e ancor più con l’imposizione della guerra alla Libia e con il colpo di stato del 2011», l’Italia è stata «completamente sottomessa a quegli interessi». Peggio: «I suoi vertici istituzionali collaborano con essi». In più, «la ribellione a tutela dell’interesse nazionale, anche solo parziale, non è tollerata e viene repressa attraverso la Bce, l’Ecofin, il Fmi». Volete un governo che faccia gli interessi del vostro paese, per cui pagate le tasse? «Allora cambiate paese», taglia corto Della Luna.Comunque andranno le elezioni, il vincitore è già sul trono: la Bce. L’élite finanziaria ha appena stabilito, se mai ce ne fosse bisogno, che i partiti impegnati nella tornata elettorale del 4 marzo non potranno in nessun caso tener fede alle (clamorose) promesse appena fatte agli elettori: i veri super-padroni, infatti, stringeranno i cordoni della borsa tagliando i viveri al sistema-Italia. Lo afferma l’avvocato Marco Della Luna, esaminando le ultime notizie trapelate sulle intenzioni dei supremi manovratori. «Il regime bancario europeo, quello che ordì la crisi del debito pubblico italiano nel 2011 per rovesciare il governo e imporre Monti – scrive Della Luna – ha preparato lo strumento per mettere in ginocchio e ai suoi comandi il prossimo governo italiano già dalla sua gestazione, condizionandone la formazione». Nel suo blog, Della Luna cita media specializzati come “Marketinsight”, nonché agenzie come “Reuters” e “Ansa”: «Hanno annunciato che la Bce vuole mandare in vigore da aprile (ma i termini temporali non sono chiari) una nuova normativa sull’ammortamento dei crediti in sofferenza delle banche». Risultato: «I crediti deteriorati dovranno essere interamente ammortizzati, cioè passati a perdite, in non più di 7-8 anni se assistiti da garanzie, in due soli anni se non assistiti da garanzie».
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Il giorno che il cielo tornerà ad essere blu, anche per l’Italia
Il pubblico italiano è frastornato da continue notizie sulla Siria, la Russia e la Turchia, ma sulle schede elettorali non troverà né la Russia né la Siria, né il Baltico o l’Ucraina. Niente a che fare con la Turchia e la Nato, nemmeno dopo che i turchi hanno messo in fuga nell’Egeo una nave italiana della Saipem, nel silenzio di Roma, di Bruxelles e di Washington. “Ma il cielo è sempre più blu”, cantava Rino Gaetano, all’epoca in cui il cielo era ancora blu: adesso è a strisce, rigato ogni giorno da scie permanenti rilasciate dagli aerei. I cosiddetti complottisti le chiamano “scie chimiche”, mentre tutti gli altri non le chiamano in nessun modo, come se non esistessero proprio: come se il cielo fosse ancora blu come ai tempi di Rino Gaetano. Sul tema, ripetute interrogazioni in Parlamento sono rimaste senza risposta, e nessun partito in lizza alle elezioni del 4 marzo 2018 si azzarda ad accennare alla “geoingegneria” teorizzata in anni lontani dallo scienziato Edward Teller, il profeta dell’aerosol atmosferico concepito per condizionare il clima. Nell’ultimo anno le famiglie italiane sono state letteralmente travolte dall’isteria collettiva sui vaccini, imposti di colpo senza che vi fosse una sola emergenza sanitaria, senza uno straccio di epidemia davvero allarmante. Ma anche i vaccini sono quasi scomparsi dalla campagna elettorale, come se gli italiani fossero chiamati a decidere su qualsiasi cosa, tranne quelle importanti per la loro vita quotidiana.Si parla e straparla di tasse, come se Roma avesse l’ultima parola, in materia. Come se tutti non sapessero, perfettamente, che qualsiasi proposta del futuro governo dovrà essere strettamente conforme ai voleri indiscutibili di un’avida e inflessibile oligarchia finanziaria privatizzatrice. Diktat trasformati in legge da oscuri burocrati non-eletti, infinitamente più potenti di qualsiasi governo regolarmente eletto. La situazione è drammatica, ma non seria: le liste-contro, che in ordine sparso gridano che le regole del gioco sono truccate, hanno ben poche possibilità di raggiungere la soglia minima del 3%, quella della pura testimonianza, mentre i tre grandi blocchi che si contendono Palazzo Chigi hanno tutti rinunciato a smascherare l’impostura capitale su cui si regge la recita dell’attuale non-democrazia europea. Per tutti loro, il cielo è sempre più blu: si apprestano a governare una sotto-libertà come quella dei governatori delle colonie, sottoposti al potere superiore dell’autorità imperiale. Con la differenza che, almeno, il viceré dell’India non si sognava di accreditarsi come autorità sovrana e democratica. Si presentava ai sudditi onestamente, per quello che era: un fedele, scrupoloso esecutore degli ordini di sua maestà.Poi, incidentalmente, esistono anche gli italiani. Lo ha ricordato di recente l’economista Nino Galloni: la notizia è che 4 milioni di aziende (su 4,5) non hanno chiuso né delocalizzato l’attività. Semplicemente, sopravvivono rinunciando al profitto e puntando alla tutela del lavoro. Questo spiega, anche, la sorprendente ripresa dell’export “made in Italy”, che ha guastato la festa a quei poteri europei che avevano scommesso sulla capitolazione industriale del Belpaese. C’è di più: nel silenzio generale, dice sempre Galloni, 2,3 milioni di giovani sono tornati all’agricoltura: e il loro lavoro vale 40 miliardi di euro, in termini di cibo che l’Italia non deve più importare. Intervistata da Claudio Messora, la saggista Enrica Perucchetti (che ha firmato libri su neo-terrorismo “false flag” e neo-propaganda formato “fake news”) fornisce un’analisi inquietante della manipolazione senza precedenti cui è sottoposta l’opinione pubblica. Ma aggiunge un ragionamento: “Se ci manipolano tanto, significa che ancora ci temono. Hanno paura che i cittadini si sveglino”. Non a caso, comunque, il “risveglio” non è ancora previsto per le elezioni del 4 marzo: nessuna vera soluzione è sul tappeto, oggi. Ma domani? Il cielo tornerà a essere più blu?(Giorgio Cattaneo, “Il giorno che il cielo tornerà ad essere blu”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 marzo 2018).Il pubblico italiano è frastornato da continue notizie sulla Siria, la Russia e la Turchia, ma sulle schede elettorali non troverà né la Russia né la Siria, né il Baltico o l’Ucraina. Niente a che fare con la Turchia e la Nato, nemmeno dopo che i turchi hanno messo in fuga nell’Egeo una nave italiana della Saipem, nel silenzio di Roma, di Bruxelles e di Washington. “Ma il cielo è sempre più blu”, cantava Rino Gaetano, all’epoca in cui il cielo era ancora blu: adesso è a strisce, rigato ogni giorno da scie permanenti rilasciate dagli aerei. I cosiddetti complottisti le chiamano “scie chimiche”, mentre tutti gli altri non le chiamano in nessun modo, come se non esistessero proprio: come se il cielo fosse ancora blu come ai tempi di Rino Gaetano. Sul tema, ripetute interrogazioni in Parlamento sono rimaste senza risposta, e nessun partito in lizza alle elezioni del 4 marzo 2018 si azzarda ad accennare alla “geoingegneria” teorizzata in anni lontani dallo scienziato Edward Teller, il profeta dell’aerosol atmosferico concepito per condizionare il clima. Nell’ultimo anno le famiglie italiane sono state letteralmente travolte dall’isteria collettiva sui vaccini, imposti di colpo senza che vi fosse una sola emergenza sanitaria, senza uno straccio di epidemia davvero allarmante. Ma anche i vaccini sono quasi scomparsi dalla campagna elettorale, come se gli italiani fossero chiamati a decidere su qualsiasi cosa, tranne quelle importanti per la loro vita quotidiana.
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Elezioni da medioevo, vince la religione del debito pubblico
“Il debito pubblico è un peso che grava sulle spalle delle future generazioni: stiamo rubando il futuro ai nostri figli”. Da questa singola frase ci si può rendere conto di come, in Italia, i programmi politici di molti partiti siano sostanzialmente simili (fatte salve alcune eccezioni), con nuance “de sinistra” o “de destra”, volte a (far finta di) “differenziare” gli uni dagli altri. Chi sostiene questa idea, sostiene tutto quel coacervo di teorie economiche che fanno riferimento a un paradigma unico, anzi, a una teologia dogmatica. Già, perché la cosa ha da tempo assunto una dimensione religiosa, tale da non poter essere contraddetta in alcun modo nel dibattito pubblico (la scienza economica, invece, l’ha già fatto), pertanto assistiamo alla demonizzazione continua degli “eretici”. Un vero e proprio oscurantismo, in salsa “Medioevo 2.0”, periodo storico in cui stiamo sprofondando. Un’operazione in stile “1984”, allorché il grande Eric Arthur Blair (in arte, George Orwell) mise tutti in guardia dal fatto che chi detiene il potere nel presente, non solo è in grado di cambiare il futuro, bensì anche il passato, riadattandolo a proprio piacimento e creando una memoria collettiva differente, per mezzo della rimozione di tutti quegli aspetti non approvati dal “pensiero unico”.I pricipi sono chiari e anche semplici da comprendere, hanno una loro logica, ma sono fondati su presupposti mistificanti della realtà: “Lo Stato è come una famiglia/azienda, non può spendere più di quello che guadagna”, oppure (soprattutto in Italia): “Avete vissuto al di sopra dei vostri mezzi”, la celebre metafora della cicala e della formica, oppure ancora, la frase che apre questo articolo, riportata urbi et orbi da politicanti, pennivendoli, intellettualoidi vari ed eventuali. Una questione, dunque, religiosa, come precedentemente anticipato: abbiamo il Dio Mercato, la dottrina (che ha assunto una dimensione sacrale) e i suoi sacerdoti, che professano la fede e offrono sull’altare della divinità le (tante) vittime sacrificali, al fine di alimentare il sistema. Questa dinamica, in atto da più di 40 anni, è andata avanti lentamente ed inesorabilmente, con un’accelerazione improvvisa e preoccupante nel corso dell’ultimo decennio (dalla “crisi dei mutui subprime” in poi). Inoltre, il sistema di “Inquisizione 2.0” condanna tutti coloro che si azzardano a proporre politiche economiche “anti-cicliche” di stampo keynesiano, poiché la spesa a deficit “graverà sulle spalle dei nostri figli”.Il tutto ignorando le grandi lezioni della Storia. Ignorando, anzi, cancellando totalmente, la memoria collettiva relativa alla Grande Depressione (o crisi del ‘29) e tutto il periodo post-bellico – definito Liberal Consensus – in cui partiti di destra, moderati e di sinistra condividevano sostanzialmente le ricette ispiratrici del New Deal di rooseveltiana memoria (e del boom economico successivo), cancellando le teorie di politica economica di Keynes, anzi rendendole addirittura anti-costituzionali in Italia (con la recente approvazione dell’articolo 81 della Costituzione, sul pareggio di bilancio), e cancellando anche il concetto di Welfare State teorizzato da William Beveridge. Cancellando, in ultima analisi, la dimensione umana, in favore di una visione economicistica della società, che ignora volutamente il diritto degli individui a vivere una vita dignitosa e li costringe a fare sacrifici per espiare colpe che non hanno. Ci troviamo, dunque, nell’epoca del Neoliberal Consensus, in cui partiti di destra, moderati e di sinistra (con la condivisione, da parte di questi ultimi, della “Third Way” di Anthony Giddens) condividono lo stesso paradigma.Per “Liberal” si intende quell’ideologia democratica, social-liberale, progressista, attenta alle istanze di giustizia sociale e ai diritti civili e politici di tutti: parola usata per la prima volta, in questi termini, da Franklin Delano Roosevelt, in contrapposizione a “Conservative”. Per “Neoliberal”, invece, si intende “neoliberismo” (non “neoliberalismo”, che non significa nulla ed è frutto di un’errata traduzione dall’inglese), ovvero il “lassez-faire” portato alla sua radicalizzazione: in altre parole, il fondamentalismo del mercato, sotto forma di teologia dogmatica. Il Neoliberal Consensus prevede un consenso comune in merito a una serie di ricette, che possiamo riassumere così: privatizzazioni, austerity, deregulation finanziaria, riduzione della spesa pubblica, Stato minimo, concezione dello Stato paragonato a un’azienda, vera e propria isteria sui conti pubblici e sul debito pubblico e conseguente “feticismo” delle coperture economiche. Dunque, in conclusione, mentre un “contatore del debito pubblico” lampeggia sui maxi-led delle stazioni di Milano Centrale, Roma Termini e Roma Tiburtina, iniziativa di terrorismo psico-economico intrapresa dall’Istituto Bruno Leoni – il quale simpaticamente ci informa anche del fatto che abbiamo 40 mila euro di debito a testa – l’invito è quello di riflettere criticamente sui programmi economici presentati dai vari partiti e di riflettere sulle pressioni mediatiche e internazionali su determinati temi. Riflettere e sforzarsi di capire perché siamo in presenza di questa condivisione paradossale, che assottiglia le differenze tra “destra” e “sinistra” e le implicazioni nei rapporti con l’Unione Europea. Qualsiasi partito decidiate di votare.(Rosario Picolla, “Verso il 4 marzo: Orwell, il Neoliberal Consensus e le scemenze elettorali”, dal blog del Movimento Roosevelt del 1° marzo 2018).“Il debito pubblico è un peso che grava sulle spalle delle future generazioni: stiamo rubando il futuro ai nostri figli”. Da questa singola frase ci si può rendere conto di come, in Italia, i programmi politici di molti partiti siano sostanzialmente simili (fatte salve alcune eccezioni), con nuance “de sinistra” o “de destra”, volte a (far finta di) “differenziare” gli uni dagli altri. Chi sostiene questa idea, sostiene tutto quel coacervo di teorie economiche che fanno riferimento a un paradigma unico, anzi, a una teologia dogmatica. Già, perché la cosa ha da tempo assunto una dimensione religiosa, tale da non poter essere contraddetta in alcun modo nel dibattito pubblico (la scienza economica, invece, l’ha già fatto), pertanto assistiamo alla demonizzazione continua degli “eretici”. Un vero e proprio oscurantismo, in salsa “Medioevo 2.0”, periodo storico in cui stiamo sprofondando. Un’operazione in stile “1984”, allorché il grande Eric Arthur Blair (in arte, George Orwell) mise tutti in guardia dal fatto che chi detiene il potere nel presente, non solo è in grado di cambiare il futuro, bensì anche il passato, riadattandolo a proprio piacimento e creando una memoria collettiva differente, per mezzo della rimozione di tutti quegli aspetti non approvati dal “pensiero unico”.
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“Non fidatevi delle elezioni, comanda il Pontifex Maximus”
Fascismo e antifascismo: il ritorno della violenza politica in campagna elettorale? Diciamo che puzza un po’ di strategia della tensione. Io all’epoca vivevo negli ambienti che si occupavano di queste cose: conoscevo le persone che si occupavano di organizzarla, la strategia della tensione. Quindi sento puzza di bruciato (diciamo “di bruciaticcio”: certo non siamo a quelli livelli là). Però è come se qualcuno volesse dire: guardate che razza di disordini vengono fuori, teniamoci la tranquillità e non andiamo verso il nuovo, se no si scatenano delle forze strane. Io però non le vedo, le sorprese in arrivo. Come si fa a capire qual è il gioco dei grandi poteri? Lo si capisce dopo che l’hanno fatto, il gioco. Quali possono essere, le sorprese, in questo momento? La più grossa sorpresa sarebbe se il Pd rimanesse al potere – da solo, quantomeno. Un’ipotesi molto probabile è che facciano un bell’inciucione mascherato, mantenendo un personaggio come Gentiloni a capo di un “governo di responsabilità” per rispondere all’emergenza (altrimenti ecco “i mercati, lo spread”). E chi più dell’apparentemente mite Gentiloni potrebbe assicurarlo? Ma non è detto che sarà così, e secondo me non dipende tanto dal risultato elettorale. Io non mi fido, del risultato elettorale. Non mi sono mai fidato: brogli, broglietti…Impicci e imbrogli si facevano talmente bene al tempo del pentapartito, quando al ministero degli interni si lavorava con la penna, e figuriamoci adesso che si lavora coi computer. Quindi mi aspetto di tutto. Che invece di un inciucione, o del successo della destra, venga fuori il cosiddetto risultato a sorpresa dei 5 Stelle, potrebbe non essere per niente una sorpresa, dal punto di vista di certi poteri. Quali? Quelli che hanno costruito il 5 Stelle, ovviamente. E chi sono, questi poteri? Gli stessi che stanno dietro a Renzi, dietro alla Bonino. Gli stessi gruppi che, per dominare gli elettori, gli creano contenitori apparentemente diversi (ma che in realtà sono gli stessi). Il problema è un altro, e mi dà un po’ di sospetto: per quale motivo è stato fatto questo enorme sforzo, negli ultimi mesi, per accreditare un Di Maio? E’ un democristiano, non è un 5 Stelle originario. E lo si è fatto diventare sempre più democristiano, con tinte massonico-reazionarie molto vicine alla finanza, alla Trilateral. Ho visto la nomina di Fioramonti come possibile ministro dello sviluppo economico: un uomo che ha lavorato per Rockefeller, per i Rothschild, che scrive su un sito vicino a Soros. C’è un avvicinamento forte alla Chiesa, all’Europa, alla Nato. Che sorpresa sarebbe, un successo di Di Maio? Ci ritroveremmo – travestiti da grillini – sempre gli stessi poteri. Nell’inconsapevolezza di tutti.Il paese è stato diviso in guelfi e ghibellini, la gente si illude che ci sia qualcosa di nuovo, e invece siamo ai tempi di Garibaldi e del Gattopardo. Le manovre dei grandi poteri, uno se le può immaginare, ma il risultato lo vede dopo. Noi non sappiamo se ci sono già delle “truppe” disposte ad allearsi coi 5 Stelle, per esempio, però certi poteri le possono muovere. Oppure: che ne sappiamo se non è già pronto un inciucio? O se invece la manovra sarà di tipo “trumpiano”, cioè: “Rimettiamo Berlusconi in sella”? Questo lo sapremo solo dopo. Una cosa è certa: è tutta la stessa banda, divisa in un paio di “piramidi”, ma sono sempre quelli. Berlusconi “ridicolo”? Però è funzionale. Una parte degli elettori, è vero, è colpita dalla sua goffaggine. Ma non faceva ridere anche Mussolini, se non fosse stato una maschera tragica? Com’è possibile che gli italiani dessero credito a uno che si presentava così, che parlava in quel modo? Eppure è successo. Una parte degli italiani dorme di brutto e si fa prendere da strane passioni, ma queste sono le condizioni della psiche dai popoli: da una parte quelli che usano una psiche più arretrata ed egoica, come quella della destra, ma ancora peggio – secondo me – sono quelli che adoperano i buoni sentimenti delle persone, inventandosi sempre nuovi contenitori per prenderle in giro.La sovragestione internazionale che si accanisce sull’Italia? Sfatiamo l’idea che noi saremmo pizza e mandolino. E’ quasi un understatement voluto, questo “non contare” dell’Italia, questo essere un paesetto poverello. Non è così. Il buon Steiner, che se ne intendeva, diceva: l’Italia, dal punto di vista della storia umana, traccia le strade. Come a dire: le cose cominciano in Italia. Basta guardare il Rinascimento, e prima ancora l’Impero Romano. Ed è ancora così. Noi sottostimiamo dei poteri, per esempio quelli all’interno della Chiesa cattolica. Sottostimiamo il potere di certi gruppi italiani. Tra i gruppi oscuri che dominano il mondo tutti pensano agli americani, agli inglesi, ai francesi… Se dovessi salire, direi che la direzione strategica transnazionale di tanti elementi di strategie oscure è in buona parte ancora a Roma – certo non nelle facce che noi conosciamo, che sono ridicole o miserande. So che è strano parlarne, sembrano fantasie quasi ufologiche, ma ci sono gruppi molto particolari, che in qualche modo derivano direttamente dall’Impero Romano.Una cosa ho imparato, in tanti anni: “Se lo conosci, non conta niente”. Se sai il nome di qualcuno, che è sui giornali, è una persona che non conta praticamente nulla: è solo un burattino messo lì dal potere per fare da specchietto per le allodole. Il livello di cui si parla di più, anche nella letteratura complottistica, è quello del Bilderberg, delle massonerie. Al massimo ci si spinge fino agli Illuminati: si vedono queste strane piramidi, di cui però mancano sempre i pezzi principali. Già a livello di massonerie e ordini religiosi ci sono gruppi che li infiltrano, e non sono noti. Ogni tanto emerge qualcuno, ma noi non sappiamo che fa parte di questi gruppi. Sono gruppi transnazionali, legati a ritualità di un certo tipo: hanno bisogno anche di supporti oscuri, non necessariamente “umani”, che però traspaiono anche da certi delitti rituali, che servono a tenere in piedi dei gruppi che non sono noti, eppure lavorano per creare forme-pensiero. Gli stessi gruppi, con le medesime caratteristiche di anonimato, erano presenti anche all’interno dell’Impero Romano. Nella storia romana c’è l’evidente traccia di fortissime ritualità: tutto era innanzitutto spirituale – e solo dopo materiale (economico, guerresco, politico, giudiziario). Tutto era dominato dal Campidoglio: la testa dell’impero era tutta templi, dominata dalla figura del Pontifex Maximus, che già allora aveva le scarpe rosse e, come simbolo, due chiavi incrociate. Ancora oggi, quel potere – non per forza incarnato dal Papa di turno – pretende di essere superiore ai poteri politici e finanziari.(Fausto Carotenuto, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti nella diretta web-radio “Border Nights” del 27 febbraio 2018. Già analista politico dei servizi segreti italiani e dell’intelligence Nato, Carotenuto è animatore del network “Coscienze in Rete” dedicato allo sviluppo spirituale. In chiave spiritualistica è anche il saggio “Il mistero della situazione internazionale”, pubblicato nel 2005 da Uno Editori).Fascismo e antifascismo: il ritorno della violenza politica in campagna elettorale? Diciamo che puzza un po’ di strategia della tensione. Io all’epoca vivevo negli ambienti che si occupavano di queste cose: conoscevo le persone che si occupavano di organizzarla, la strategia della tensione. Quindi sento puzza di bruciato (diciamo “di bruciaticcio”: certo non siamo a quelli livelli là). Però è come se qualcuno volesse dire: guardate che razza di disordini vengono fuori, teniamoci la tranquillità e non andiamo verso il nuovo, se no si scatenano delle forze strane. Io però non le vedo, le sorprese in arrivo. Come si fa a capire qual è il gioco dei grandi poteri? Lo si capisce dopo che l’hanno fatto, il gioco. Quali possono essere, le sorprese, in questo momento? La più grossa sorpresa sarebbe se il Pd rimanesse al potere – da solo, quantomeno. Un’ipotesi molto probabile è che facciano un bell’inciucione mascherato, mantenendo un personaggio come Gentiloni a capo di un “governo di responsabilità” per rispondere all’emergenza (altrimenti ecco “i mercati, lo spread”). E chi più dell’apparentemente mite Gentiloni potrebbe assicurarlo? Ma non è detto che sarà così, e secondo me non dipende tanto dal risultato elettorale. Io non mi fido, del risultato elettorale. Non mi sono mai fidato: brogli, broglietti…
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Magaldi: potessimo “votare” per Olof Palme, cioè per l’Italia
Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».Non lasciatevi ingannare dalle apparenze: quello che ci aspetta è solo «una grande palude», sostiene Magaldi, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio”. «Nel mondo che Berlusconi auspicherebbe, cioè con una centralità di Forza Italia dopo il voto del 4 marzo», il presidente del Parlamento Europeo «sarebbe la carta perfetta, perché gli consentirebbe di avere un suo uomo gradito ai salotti e agli organi istituzionali europei». In fondo, Antonio Tajani «è il Gentiloni del centrodestra: non dà troppo disturbo e sarebbe perfetto per non suscitare particolari avversioni da parte di nessuno. E’ percepito come un moderato, senza infamia né lode. Ma per vederlo a Palazzo Chigi dovrebbe vincere il centrodestra, con Forza Italia in vantaggio sulla Lega: condizioni non facilissime da realizzarsi». Di fatto, «Tajani è un candidato ecumenico che può piacere a tanti, come si fa finta che possa piacere Gentiloni». Ma in realtà, dichiara Magaldi, «sono personalità diafane, prive di un reale spessore, non in grado di imprimere una qualche direzione: sono terminali di chi sta loro dietro: lo è stato Gentiloni in rapporto a Renzi, anche se adesso Gentiloni sembra vivere di vita propria».In più, Tajani è ritenuto un valido “maggiordomo”, adatto a difendere il Cavaliere da eventuali colpi provenienti da Bruxelles: «Berlusconi è traumatizzato da quello che accadde nel 2011, cioè dall’intervento di poteri massonici molto forti, che a suo tempo lo hanno defenestrato con le buone e con le cattive». E’ ancora traumatizzato, l’uomo di Arcore, «dalla delegittimazione che poteri forti e fortissimi gli hanno imposto». Secondo Magaldi, autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere) che svela il ruolo della supermassoneria sovranazionale nel massimo potere mondiale, «oligarchie massoniche internazionali stanno valutando la possibilità di completare questa rilegittimazione di Berlusconi nel quadro di un governo di neo-solidarietà nazionale. A questo – aggiunge – sono funzionali anche le vicende di violenza politica, gli accenni di scontri tra neofascisti e antifascisti squadristici, che ci ricordano gli anni di piombo». C’è un clima strano, avverte Magaldi: da un lato si sostiene che bisogna «accompagnare la presunta crescita che sarebbe iniziata (ma che non c’è)», e dall’altro, sotto sotto, Pd e Forza Italia si strizzano l’occhio accampando «ragioni di argine rispetto al populismo, che – dicono – potrebbe diventare feroce, sfociando in violenza aperta».Anche per questo, da tempo, lo stesso Berlusconi «cerca di riconquistare una qualche forma di credibilità, o di addirittura di avallare l’idea che sia meglio lui, in fondo, di quei “guastafeste teppistoidi” del Movimento 5 Stelle, che sono i nuovi “barbari” nella neo-narrazione berlusconiana». In realtà non ci sono barbari, sottolinea Magaldi, e Tajani «sta solo facendo il suo compitino». Purtroppo i politici italiani sono talmente ininfluenti che non sono stati capaci nemmeno di assicurare a Milano la briciola dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco: «E’ un’Italia che pesa pochissimo, eppure ha in Tajani un alto rappresentante in sede europea: se non è in grado di fare granché per l’Italia lì, figuriamoci da primo ministro». Ma niente paura: «Non credo che ci saranno le condizioni per cui Tajani possa ricevere l’incarico da Mattarella, né credo che l’incarico sarà offerto a Di Maio». Delusione 5 Stelle: «E’ indice di trasparenza la decisione di presentare in anticipo la lista di ministri in pectore, ma perché reclutare solo tecnici? Professori, magistrati e militari dovrebbero fare il loro mestiere, non i ministri. Non c’era personale politico adeguato? Che la società civile sia meglio della società politica è un’idea antidemocratica, sdoganata da Berlusconi».Per Magaldi, il destino che ci attende è ancora una volta quello delle larghe intese: «Una prospettiva esiziale, per il popolo italiano. Non abbiamo bisogno di ulteriori governicchi come quelli di Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, che hanno semplicemente accompagnato la decadenza dell’Italia in nome di presunti obiettivi superiori, guidati dalla mano autorevole degli “illuminati” reggitori di quest’Europa matrigna». Liste elettorali alla mano, «tutto dovrebbe continuare come prima». Cioè malissimo, per l’Italia. «Da qualche decennio c’è chi lavora in modo verminoso, proprio come vermi che rosicchino dall’interno, per rendere le istituzioni democratiche imbelli e anche poco gradite ai cittadini», ribadisce Magaldi. «Tutti capiscono che queste istituzioni ripiegate su se stesse sono in realtà un’élite reazionaria, che ci ha proiettato in un incubo post-democratico. Il modello Palme? Serve anche per arginare questo tumore». Il Movimento Roosevelt ha dato il suo “endorsement” a pochi, selezionati candidati: come Pino Cabras a Paolo Margari (5 Stelle), Simone Orlandini (Lega), Felice Besostri e Chiara Mariotti (“Liberi e Uguali”). «Poi ci sono altri candidati a noi vicini: una volta in Parlamento – dice Magaldi – vigileranno per impedire manovre antidemocratiche». Indicazioni generali di voto, tranne che per i candidati “amici”? «Scheda bianca o nulla, oppure astensionismo». Sperando di poter, domani, “votare” per Olof Palme.Votare per Olof Palme, il 4 marzo? Un sogno impossibile: il leader svedese è stato assassinato 32 anni fa, mentre era primo ministro, alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu come segretario generale. Se fosse ancora qui, probabilmente, gli italiani avrebbero ben altri candidati da scegliere, alle elezioni. E tra Bruxelles, Berlino e Francoforte siederebbe tutt’altro genere di politici e tecnocrati. Per questo, idealmente, Gioele Magaldi “vota” per Palme, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno in primavera, a Milano: «Il leader socialdemocratico svedese era probabilmente il più grande ostacolo alla costruzione di questa Europa matrigna, tecnocratica, economicistica e antidemocratica, che ha condannato l’Italia a 25 anni di declino». Lo conferma il triste spettacolo dell’offerta elettorale, con programmi-burla e nomi più che grigi, da Tajani a Gentiloni, già pronti per il probabilissimo inciucio che ci attende. Di Maio? Idem: «Invece di avanzare un’alternativa politica rispetto all’andazzo degli ultimi anni, la squadra di ministri tecnici che ha presentato sembra davvero il governo Monti senza Monti: la montagna ha partorito il topolino, per usare un’espressione di “Dagospia”».
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Credito ai poveri, e nacque il banchiere più grande al mondo
C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.Io per finanziare un uomo – era solito dire – voglio guardarlo negli occhi e vedere i calli sulle mani. A proposito del fatto che oggi tanto si parla di riforma delle banche popolari, ricordo che quell’uomo volle per la sua banca un azionariato diffuso, un azionariato popolare. Si occupò personalmente di andare a proporre le azioni a gente che non era mai stata in una banca: fornai, lattai, droghieri, ristoratori, idraulici, barbieri. Oggi si parla di austerity, di termini inglesi come “leverage” (il rapporto tra capitale e prestito), di rigore. Ricordo che anche allora si dicevano le stesse cose: in due mesi aveva raccolto 70.000 dollari, ma ne aveva impiegati 90.000 e i suoi soci erano preoccupati. Come faremo? – strillavano. Bisogna avere fiducia nella gente – rispondeva lui agli altri. La gente la ripagò, la sua fiducia. Cominciò ad andare nella banca che permetteva loro di finanziare una bottega, di avere un reddito dignitoso, di comprare una casa, di metter su famiglia, di mandare i figli a scuola. In un anno, quei 70.000 dollari divennero 700.000, e la banca continuava a crescere e a dare fiducia.Nel 1906 a San Francisco avvenne un fatto terribile. Il terremoto distrusse la città e la gente si aggirava disperata per le strade, avendo perso tutto, casa e lavoro. Quell’uomo, mentre gli strozzini si aggiravano per le strade, andò sul molo della città, mise un tavolaccio di legno appoggiato su due barili, in mezzo alla folla dei disperati, ci salì sopra ed espose un cartello, con il titolo “Banca di (X), aperto ai clienti” (il nome della “X” ve lo dirò alla fine di questa storia). Resta il fatto che quell’uomo mise un sottotitolo che aveva lui stesso dipinto sul cartello quella notte: “Prestiti come prima, più di prima”. Quell’uomo si chiamava Peter, e stava realizzando il suo sogno di aprire una banca per i piccoli imprenditori, i diseredati, gli emigranti. La “banca” venne assalita da persone che avevano idee per ricostruire la città e lui prestava soldi con il suo metodo, guardando le persone negli occhi e osservando i calli sulle mani. Segnava i crediti su un quadernetto, annotando nomi e cifre. Girava con un carretto ed elargiva prestiti sulla fiducia, senza garanzia, a persone che non avevano potuto andare a scuola e che per lo più firmavano con una croce. Li valutava fidandosi della loro parola e del loro onore. Lui dava fiducia a quelli che avevano delle idee, dei progetti, non a quelli che avevano dei soldi o proprietà da dare in garanzia.I suoi consiglieri gli dicevano che era un pazzo, che sarebbe finito in rovina. Invece, successe una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Quei piccoli imprenditori tornarono da lui, portando tanti altri amici, gente che toglieva i propri pochi depositi dalle altre banche e li andava a investire da Peter, l’uomo col carrettino. Pochi depositi, ma erano milioni di persone. Tutti gli immigrati della California, i nuovi piccoli imprenditori, vennero presto a conoscere la storia dell’uomo col carrettino e il nome di Peter divenne in breve mito, e da mito leggenda. Successe che l’uomo che dava fiducia al prossimo ricevette fiducia dal prossimo e i suoi conti crebbero, perché tutti volevano portare i propri risparmi alla banca di Peter. La sua politica era diversa da quella di tutte le banche dell’epoca ed era volta a dare soldi ai piccoli, agli artigiani, ai commercianti, agli agricoltori, ai piccoli imprenditori. La banca di Peter negli anni crebbe in tutta la California, aprendo filiali a San Francisco, a Los Angeles, fino ad attraversare l’immensa giovane nazione ed arrivare, nel 1919, a New York. Otto anni dopo, quella banca cambiò nome, e divenne la Bank of America.All’epoca, i consiglieri della banca proposero un premio al suo fondatore, di addirittura 50.000 dollari. L’uomo, che aveva già guadagnato nella sua carriera quasi mezzo milione di dollari, restando fedele al suo detto di quando, da giovane, aveva deciso di creare una banca, per evitare di “essere posseduto dalla ricchezza” rifiutò il premio, dicendo che chiunque desiderasse avere più di 500.000 dollari doveva farsi vedere da un dottore. La smania di denaro è una brutta cosa – disse una volta – io non ho mai avuto quel problema. Detto da uno che a sette anni aveva visto il padre ucciso dopo un litigio per un dollaro, c’era da credergli. Infatti, fece devolvere più volte vari premi alla ricerca scientifica. Oggi le banche aborrono progetti innovativi e la finanza moderna pretenderebbe che non si investa in progetti originali e non consolidati, senza patrimoni dell’imprenditore e adeguate garanzie. Pensate allora a cosa doveva voler dire, all’epoca, finanziare una cosa sconosciuta e incredibile che si chiamava cinematografo: follia, per i suoi colleghi. Peter, a differenza di tutti gli altri banchieri, prestò i suoi soldi a un geniale innovatore, consentendo nel 1921 a tutto il mondo di conoscere “Il Monello”, il meraviglioso film di Charlie Chaplin.Anni più tardi, finanziò Walt Disney, che gli parlava di finanziare un’altra incredibile rivoluzione tecnologica e cioè i cartoni animati. Il mondo conobbe così la favola di “Biancaneve e i sette nani.” Ancora, finanziò un visionario siciliano, Francesco Rosario Capra, rimasto senza lavoro per la crisi del ’29, rivelando così al mondo il genio del celeberrimo regista Frank Russel Capra. Così, mentre gli esperti di finanza insegnavano l’importanza di adottare regole restrittive, Peter finanziava i piccoli imprenditori guardandoli negli occhi e alla fine, tirando i conti, si scoprì che il 96% dei prestiti della banca erano stati rimborsati, senza alcuna garanzia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la banchetta nata in un bar, proseguita su un carrettino, che ora si chiamava Bank of America, superò per depositi la First National Bank e la Chase Manhattan Bank, le due più grandi banche di New York, diventando così la più importante banca del mondo. Dopo la fine della guerra, Peter volle che la Bank of America si impegnasse in prima persona nel piano Marshall, cioè nel gigantesco piano di ricostruzione che ha consentito anche al nostro paese di ripartire, finanziando così, indirettamente, milioni di nostri piccoli imprenditori.Quando, nell’ottobre del 1945, lasciò la presidenza della banca, lasciò i cassetti aperti, affermando che “né lui, né la sua banca, avevano nulla da nascondere”. Quando morì, quattro anni più tardi, dall’inventario dei suoi beni si scoprì che aveva mantenuto la sua parola, e pur essendo stato il banchiere della banca più grande del mondo, il suo patrimonio ammontava esattamente a soli 489.278 dollari, meno del mezzo milione per cui, secondo lui, uno sarebbe dovuto farsi vedere da uno psichiatra. Può sembrare una favola, ma è storia vera. L’ho raccontata perché oggi, se mi guardo intorno, io non vedo una situazione abissalmente diversa dal disastro di San Francisco del 1906 o dalla crisi del ’29. Mentre i politici parlano di riforma della legge elettorale, le imprese chiudono ogni giorno, la gente è a spasso, molti restano senza lavoro e senza speranza. Allora, esistevano uomini di banca come Peter. Oggi i piccoli imprenditori sono disperati. Le banche ripetono il mantra appreso da docenti, banchieri e politici che parlano in lingua inglese, chiedono garanzie, e si sente a ogni angolo la parola “austerity”. Gli anglosassoni ci vengono a insegnare come si fa il mestiere di banchiere e i tedeschi ci insegnano il rigore. Ora, io avrei un sogno. Vorrei che in una nostra città, una qualunque, tra le macerie della nostra economia, un banchiere italiano, un politico italiano, uno statista, prendesse un tavolaccio, lo mettesse in mezzo a una strada e poi ci salisse sopra.Vorrei che ci posasse sopra un cartello con una scritta a mano in cui si leggesse: “Da oggi, prestiti all’economia, come prima, più di prima”. Sottotitolo: “Colleghi, l’austerity ve la potete mettere in quel posto”. E poi, vorrei che quest’uomo cominciasse a ridisegnare le regole del gioco della finanza mondiale, per insegnare a tutti che noi italiani non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno, sul come si fa a fare il mestiere del banchiere. Il vero banchiere non chiede le garanzie, ma guarda i calli sulle mani. Questo, sarebbe il mio sogno. Perché sul cartello che quell’uomo aveva scritto di suo pugno, su quel tavolo in mezzo alla strada, c’era il nome della sua banca: Bank of Italy. Questo era il nome originario di quella che sarebbe divenuta, molti anni dopo, la più grande banca del mondo: la Bank of America. Il suo fondatore, l’uomo che guardava gli altri negli occhi e finanziava guardando i calli delle mani, l’uomo che si alzò in piedi insegnando al mondo a rialzarsi in piedi, l’uomo che insegnò a tutti che fare banca non significa chiedere regole, ma dare fiducia, non era un anglosassone. Peter era il secondo nome di Amedeo Giannini, in cerca di fortuna nell’America di fine ottocento, figlio di poveri migranti dell’entroterra ligure. C’era una volta un banchiere. Era un uomo vero. Era un italiano.(Valerio Malvezzi, “L’incredibile storia del banchiere più grande del mondo”, dal sito “Win The Bank”, 2018).C’era una volta un uomo. Era un uomo vero, di quelli d’un tempo, e sarebbe divenuto il banchiere più grande del mondo. Uno di quegli uomini che dicevano “non voglio diventare troppo ricco, perché nessun ricco possiede la ricchezza, ma ne è posseduto”. All’epoca – si era in California, nell’America dei primi del Novecento – le banche davano soldi solo alle imprese già affermate. Nessuno dava credito alle piccole imprese. Quell’uomo decise di aprire la sua banca, ma non aveva una sede. Rilevò allora da una signora che voleva ritirarsi in pensione il contratto di affitto di un bar, in un incrocio, per 1.250 dollari. Non aveva clienti, e così iniziò un modo di fare banca diversa da tutte le altre dell’epoca. Si mise a girare per le strade, offrendo piccoli prestiti a chi voleva aprire un capannone, un piccolo ristorante, un esercizio commerciale. Nei primi del Novecento, era impossibile in America avere credito dalle banche, se eri una micro-impresa: vi era una regola per la quale non si davano prestiti inferiori ai 200 dollari. In pratica, per le somme minori ci si doveva rivolgere agli usurai. Quell’uomo iniziò a finanziare piccole cose, dando prestiti a partire da 25 dollari. Divenne famoso per la sua nuova cultura di banca.