Archivio del Tag ‘ferocia’
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Quella serenità di trent’anni fa, quando non c’era paura
Fa un certo effetto pensare a 30 anni addietro. Perché di 30 addietro ho memoria storica personale e ricordi vividi. Quando leggo di serie storiche, di anni Cinquanta e Sessanta, posso solo studiarne i dati e immaginare. Ma il comunicato di Confcommercio della settimana scorsa non lascia scampo: «I redditi delle famiglie sono tornati indietro di 30 anni». Io quei tempi me li ricordo. Io c’ero. I redditi di mio padre e di mia madre me li ricordo eccome. E mi ricordo come vivevamo proprio dal punto di vista economico. Giornalista mio padre, impiegata mia madre, io decenne e mio fratello poco più piccolo in casa e altri due figli di una vita precedente di mio padre che però non vivevano con noi. Il reddito di allora. Il reddito dei miei. Il nostro “tenore di vita” (economico) e quello etico e morale. E me: cosa facevo? Cosa consumavo? Cosa mi mancava? Impossibile non fare confronti con oggi. Oggi che siamo quarantenni noi come allora lo erano i nostri genitori.Oggi, quasi all’indomani dell’apertura della scatola nera dei ricordi e degli oggetti svuotati dalla casa avita ormai disabitata per la morte dei miei e per la necessità ereditaria di doverla vendere. Giravano solo cari fantasmi ormai in quelle stanze e in quei corridoi, in quei disimpegni spariti dalle case moderne eppure così utili, così intimi, così indispensabili, così importanti. Fantasmi dei miei genitori e di me e mio fratello piccoli, di mia nonna, del nostro cane. E quei ricordi di come vivevamo allora di cui quasi sento ancora gli odori, i rumori, i ritmi e le consuetudini. Con il reddito dei miei di allora avevamo un appartamento a Roma, in un quartiere ancora vivibile, dove i negozianti ci conoscevano ad uno ad uno. Dove andavo “da Remo” ogni pomeriggio, tornando da scuola da solo, e prendevo un pezzo di pizza che poi mia madre passava a pagare. Dove ci portavano ancora il vino a casa con le damigiane e dove Taraddei, il pizzicarolo dietro l’angolo, un giorno mi accompagnò sin dietro la porta di casa, sul pianerottolo, per riconsegnarmi a mia madre dopo che mi ero acceso come un fiammifero strusciando sull’asfalto in seguito a una curva ardita sulla mia bicicletta rossa.Ora i palazzi di quel quartiere hanno appartamenti con dei confortevoli affacci vista traffico, smog e rumore h24. Roba da cui scappare, dunque. Ma allora era diverso. Torniamo ai consumi e imponiamoci di non divagare oltre. Una famiglia, dunque, un appartamento al quale poi si sarebbe aggiunto un piccolo villino fuori Roma, sul Lago di Bracciano per trascorrervi i mesi estivi – i mesi estivi, non i quindici giorni comandati di oggi – una Renault 4 bianca che ho detestato fino al compimento dei 18 anni e poi invece adorata per tanti motivi… Ma soprattutto una cosa: la certezza, nei miei genitori e dunque fatalmente trasferita inconsciamente anche a noi figli, di una vita serena. Limitata all’interno del possibile e dell’impossibile di quella condizione di allora, ma senza alcuna paura di precipitare. I nostri genitori allora riuscivano anche a risparmiare. Io allora e negli anni seguenti, e almeno sino ai vent’anni, non ho mai sentito la pesantezza di qualche mancanza grave. Poi il consumo della società prese a salire vertiginosamente. Per quasi tutti. E chi non si adeguava, in qualche modo, si sentiva automaticamente lasciato indietro. E dunque qualche azzardo personale, a rate. E dunque qualche preoccupazione. Qualche capitombolo. Qualche notte non proprio serena.Per tornare a quello stato di serenità provato anni prima, di consapevolezza di non aver bisogno d’altro, di non sentirne proprio l’esigenza, e dopo essere passati per le forche caudine degli orribili anni Ottanta e Novanta, quelli del consumo folle, c’è voluto almeno un altro decennio e qualche migliaio di libri letti. Una crisi economica colta e aspettata sin da prima che iniziasse sul serio e la volontà di abbracciare la decrescita fatale che ne è scaturita con la consapevolezza della maturità raggiunta, delle convinzioni acquisite. Un processo lungo, dunque. E in continuo aggiornamento. A ogni rinuncia, a ogni step di decrescita, un ulteriore passo verso la serenità. Ma che fatica, soprattutto all’inizio. Fatica del cambiamento. Malgrado aver interiorizzato il tutto, la trasformazione ha richiesto – e richiede – impegno. Una lotta senza quartiere contro le abitudini incrostateci addosso.Voglio dire: in realtà oggi abbiamo infinitamente meno di allora, di 30 anni fa. Non di oggetti, naturalmente, di cui siamo pieni. Ma di speranze per il futuro.La privazione di allora era per qualche capriccio che non potevamo permetterci – e che a casa mia ci negavamo sino al momento in cui non vi fossero effettivamente stati i denari necessari per eventualmente acquistarlo. La privazione di oggi è in quella serenità che ci è stata sottratta. Allora dovevamo combattere per convincerci a rinunciare a qualche cosa, e magari risparmiare per continuare ad avere quella certezza di riuscire a vivere senza affanni all’interno di quei limiti ben precisi. Oggi si deve lavorare su se stessi per attraversare il guado che la nostra generazione ha davanti, dal mondo come era indirizzato negli ultimi vent’anni a quello che sarà. Per sopportare queste incertezze che abbiamo davanti. Insomma: con il reddito di allora ho la netta sensazione si vivesse meglio, nel senso più ampio della parola, rispetto a come si viveva con il reddito di una decina d’anni fa, nel periodo pre-crisi, per intenderci.Certo oggi, con un reddito come quello di trenta anni addietro, si vive molto peggio, perché ciò che allora era assicurato, con quel reddito, è ora invece avvicinabile solo con affanno, visto che i servizi dello Stato sono meno e i beni primari costano molto di più. Ma è negli anni prima del 2008 che si è compiuto il dramma. Perché in quella moltiplicazione di beni e servizi in vendita in comode rate è cambiata la nostra capacità di resilienza alla vita. È cambiata la nostra capacità di capire cosa serve e cosa no, cosa è più importante e cosa lo è meno. La sfida personale di oggi – oltre alle battaglie che è necessario combattere contro i titani della finanza e della speculazione – risiede dunque nel ritrovare gli equilibri interni che ci consentano di riprendere contatto con la realtà di cosa ci serve sul serio. Di ciò di cui possiamo fare tranquillamente – tranquillamente! – a meno, e che dunque non vale un solo minuto della nostra serenità perduta onde poterlo raggiungere. E di ciò che invece, certo, ci è sul serio indispensabile.Ma per trovare quella serenità interiore di trenta anni addietro serve un lavoro mostruoso su se stessi, che è possibile iniziare, peraltro, solo dopo il momento in cui ci si convince intimamente che quel mondo non tornerà. Che è meglio sia così. E che ci si deve iniziare a inventare “come vivere” in un mondo completamente differente. Chi aspetta unicamente che le cose tornino a girare come prima non solo è un ingenuo, perché va incontro immancabilmente a una delusione feroce, ma è spacciato, perché non riuscirà mai più a trovare un vero equilibrio. La nostra generazione deve abbracciare questo cambiamento e deve imparare ad apprezzarlo, sin quasi ad amarlo, per plasmare un nuovo modo di vivere che sia degno di essere vissuto. Fare altrimenti è condannarsi alle delusioni, alle paranoie, alle ansie. È condannarsi a non voler più vivere.(Valerio Lo Monaco, “Quella serenità di 30 anni fa”, da “Il Ribelle” del 17 settembre 2014).Fa un certo effetto pensare a 30 anni addietro. Perché di 30 addietro ho memoria storica personale e ricordi vividi. Quando leggo di serie storiche, di anni Cinquanta e Sessanta, posso solo studiarne i dati e immaginare. Ma il comunicato di Confcommercio della settimana scorsa non lascia scampo: «I redditi delle famiglie sono tornati indietro di 30 anni». Io quei tempi me li ricordo. Io c’ero. I redditi di mio padre e di mia madre me li ricordo eccome. E mi ricordo come vivevamo proprio dal punto di vista economico. Giornalista mio padre, impiegata mia madre, io decenne e mio fratello poco più piccolo in casa e altri due figli di una vita precedente di mio padre che però non vivevano con noi. Il reddito di allora. Il reddito dei miei. Il nostro “tenore di vita” (economico) e quello etico e morale. E me: cosa facevo? Cosa consumavo? Cosa mi mancava? Impossibile non fare confronti con oggi. Oggi che siamo quarantenni noi come allora lo erano i nostri genitori.
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Ciao America, in 13 anni da Washington soltanto disastri
Il declino degli Stati Uniti sta ormai galoppando, anche se i media raccontano che l’America avrebbe ritrovato salute economica e fiorente mercato del lavoro. Dicono anche che gli Usa si siano dotati di un futuro energetico veramente roseo e che continuino a essere un modello per l’Europa e per il mondo. Certo, gli indici di Borsa sono alle stelle, ma questo non significa che una società e un’economia siano uscite dalla crisi: il record, si legge su “Leap 2020”, è l’effetto della politica monetaria dei “soldi facili” praticata dalla Fed, mentre gli investitori «non trovano altri investimenti che non siano quelli sui sopravvalutati titoli azionari e sull’ingannevole finanza innovativa». L’America? E’ in bilico: «La smisurata arroganza di una nazione che considera se stessa “il paese di Dio”, la “numero uno” su tutte le cose di questo mondo, l’araldo di tutti i valori dell’umanità, sta spingendo gli Stati Uniti verso un abisso». Lo conferma la geopolitica: caos totale in Medio Oriente, dopo 13 anni di impegno militare diretto. Per non parlare della folla sfida lanciata alla Russia in Ucraina.La crisi ucraina, continua “Leap 2020”, ha le sue radici nella politica americana basata sul “contenimento della Russia”, che risale a un telegramma inviato da George Kennan, ambasciatore a Mosca, il 22 febbraio 1946. Kennan esprimeva la convinzione che, sul lungo termine, la pace con la Russia sarebbe stata impossibile, perché quel paese stava ancora cercando di ampliare la sua sfera d’influenza. Ora, «sarebbe profondamente preoccupante se chi è al potere a Washington non fosse in grado di cogliere la differenza tra l’Unione Sovietica sotto Stalin e la Russia di oggi sotto Putin», sopravvissuta al crollo dell’Urss e alle amputazioni territoriali, strategiche e demografiche. Inoltre, l’economia di Mosca «fu notevolmente compromessa dal programma “riformatore” del Fmi ispirato dagli Stati Uniti, che le fece perdere gran parte della sua ricchezza nazionale, con le famigerate privatizzazioni riservate alla nascente “classe degli oligarchi”». Oggi la Russia è circondata, «sia dall’alleanza militare avversa (la Nato, che si era fortemente ampliata) che dal blocco economico europeo, presente finanche all’interno del suo stesso ex territorio, il Baltico».L’obiettivo del “contenimento” in versione 2014 è legato essenzialmente a motivazioni di tipo economico: «L’aspirazione dei funzionari americani è quella di aprire l’Ucraina ai prodotti americani, di impossessarsi del suo immenso patrimonio agricolo (la speculazione si sta gettando sul settore alimentare) e delle sue grandi società, e di aprire infine il mercato energetico europeo al gas ed al petrolio di scisto americano». Ma gli Usa, sostiene “Leap 2020”, non dispongono neppure dei mezzi militari per un confronto con Putin. E scontano ancora tutti i fallimenti a catena degli ultimi 13 anni: «L’Afghanistan continua a essere destabilizzato ed è ancora il primo produttore di oppio al mondo, in Iraq l’autorità del governo centrale è implosa, mentre in Siria la lotta contro il dittatore Assad (che è ancora al potere) ha generato un nemico ancor più feroce, l’Isis». Morale: «Tutto ciò a cui i funzionari americani hanno dato inizio, negli ultimi tredici anni, si è trasformato in un disastro». E il conto è salato: da 4 a 6 miliardi di dollari, secondo gli analisti di Harvard, solo nel 2014.«Ormai da molti anni gli Stati Uniti non sono più la superpotenza in grado di risolvere qualsiasi problema attraverso una campagna militare», sostiene “Leap 2020”. «La causa è da ricercare innanzitutto nello squilibrio tra ambizione e sforzo, e subito dopo nella mancanza di risorse: e visto che il potere globale degli Stati Uniti è stato costruito sul potere militare, questo paese è ormai solo l’ombra di quello che era stato». Non è sorprendente, quindi, che il governo americano abbia riscoperto l’utilità della Nato per muovere le sue pedine in Ucraina: «Ha messo in atto un’enorme pressione sui governi dei paesi membri, perché essi aumentino il loro budget militare, ma l’esito è stato abbastanza incerto». L’obiettivo di effettuare nuove spese militari per un importo pari al 2% del Pil di ogni singolo paese, in effetti, è stato spalmato su un periodo che arriva fino al 2024. La Germania, inoltre, ha ulteriormente ridimensionato il proprio impegno. E la decisione di creare una forza d’attacco rapido, composta da 3.000-5.000 soldati, «impallidisce davanti ad un esercito russo pari a 1,15 milioni di soldati e a 2 milioni di riservisti pronti a combattere». La forza Nato, inoltre, avrebbe solo un equipaggiamento leggero, «in ossequio all’idea, veramente geniale, che tutto ciò permetterà ai soldati di schivare più facilmente i 6.500 carri armati russi».Nel confronto con la Russia, secondo “Leap 2020” la Nato «è come un’ape davanti a un orso», prova del fatto che «i funzionari americani hanno perso qualsiasi senso della realtà». Così, «il “colpo di stato” orchestrato dall’Occidente ha fatto perdere legittimità al governo centrale ucraino nei riguardi della popolazione di lingua russa, e ha quindi aperto la strada all’acquisizione dell’Ucraina Orientale da parte della Russia, probabilmente sotto forma di un’ampia autonomia all’interno di uno Stato Federale Ucraino, sottoposto ad una forte influenza russa». Analogamente a quanto già avvenuto in Medio Oriente, la politica e il comportamento del governo degli Stati Uniti, «basati sull’infallibilità delle strategie e sull’onnipotenza dell’America», hanno gettato nel caos un’intera regione, rafforzando in fin dei conti «le forze che si opponevano agli Stati Uniti».Il declino degli Stati Uniti sta ormai galoppando, anche se i media raccontano che l’America avrebbe ritrovato salute economica e fiorente mercato del lavoro. Dicono anche che gli Usa si siano dotati di un futuro energetico veramente roseo e che continuino a essere un modello per l’Europa e per il mondo. Certo, gli indici di Borsa sono alle stelle, ma questo non significa che una società e un’economia siano uscite dalla crisi: il record, si legge su “Leap 2020”, è l’effetto della politica monetaria dei “soldi facili” praticata dalla Fed, mentre gli investitori «non trovano altri investimenti che non siano quelli sui sopravvalutati titoli azionari e sull’ingannevole finanza innovativa». L’America? E’ in bilico: «La smisurata arroganza di una nazione che considera se stessa “il paese di Dio”, la “numero uno” su tutte le cose di questo mondo, l’araldo di tutti i valori dell’umanità, sta spingendo gli Stati Uniti verso un abisso». Lo conferma la geopolitica: caos totale in Medio Oriente, dopo 13 anni di impegno militare diretto. Per non parlare della folla sfida lanciata alla Russia in Ucraina.
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Cremaschi: divorzi dal Pd, o per la Cgil è finita
In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.E già abbiamo centinaia di licenziamenti che il giudice ha riconosciuto come ingiusti, che nel passato avrebbero avuto come conseguenza il ritorno del lavoratore colpito nel suo posto di lavoro, e che invece oggi si concludono con un po’ di soldi che non compensano certo un futuro di disoccupazione. È chiaro che Renzi vuole andare oltre, abolendo sostanzialmente la “reintegra” e soprattutto, come ha più volte dichiarato, togliendo ogni ruolo ai giudici – che per lui, come per ogni reazionario, non debbono più ingerirsi nel rapporto tra impresa lavoratore: lì ci deve essere solo il mercato, non il diritto. Susanna Camusso ha colto la gravità dei propositi del segretario del Pd capo di governo, ma cerca di chiudere un portone che ha lasciato spalancare. Se la Cgil avesse lottato sul serio contro Monti e la riforma Fornero delle pensioni, e allora c’ erano tra i lavoratori consenso e forza sufficienti, oggi non subirebbe impaurita gli sberleffi di Renzi, e soprattutto sarebbero i lavoratori a reagire.L’abilità manipolatrice permette invece al presidente del Consiglio di esercitare una operazione in totale malafede, ma non per questo poco efficace. Il capo del governo mette assieme il dilagante scontento in tutto il mondo del lavoro verso la passività di Cgil, Cisl e Uil, che per me è sacrosanto, con la vandea reazionaria di chi sostiene che il sindacato ha rovinato l’Italia. Lo può fare perché la Cgil, soprattutto in questi anni di crisi, si è ritirata dal conflitto per paura di perderlo. Così Renzi accusa di essere fermi agli anni ‘70 gruppi dirigenti sindacali che per primi hanno messo in discussione le pratiche e la cultura di quel decennio e che per primi in ogni riunione premettono: non siamo più negli anni ‘70! Sergio Cofferati probabilmente ricorderà che in un congresso della Cgil di quasi venti anni fa con Claudio Sabattini fu posta la necessità della totale indipendenza della Cgil dal quadro politico. Quella scelta non fu fatta e ora il collateralismo da condizione di sopravvivenza diventa un danno.Renzi può vantarsi: noi con la Cgil non c’entriamo niente, anzi, ma Susanna Camusso non può rompere con il Pd. Se lo facesse, per i promotori del Jobs Act sarebbe un colpo ben più duro che quello di uno sciopero generale. Ma ripeto, con l’attuale intreccio tra sistema politico e sistema sindacale, che percorre tutto il paese, Camusso non potrebbe dire basta con il Pd neppure se lo volesse. Ma la questione non è solo di rapporti politici. Ancora una volta la Cgil deve verificare che il patto tra i produttori, cioè quell’accordo tra i rappresentanti delle forze produttive con il quale condizionare la politica che il gruppo dirigente sindacale persegue da anni, quell’accordo non esiste. Dalla Confindustria alle banche alle cooperative, tutto il sistema delle imprese ha mollato la Cgil e si è schierato con Renzi. Cisl e Uil, naturalmente, han fatto lo stesso. Eppure solo il 10 gennaio di quest’anno si era firmato un testo sulla rappresentanza, per me liberticida, che veniva presentato come il nuovo avvio della stagione delle regole.Anche sul merito dei provvedimenti del governo, la Cgil non riesce ad avere una posizione senza contraddizioni. Come si fa ad accreditare la positività del contratto a tutele crescenti, quando è chiaro che con esso passa il principio che si è a termine in ogni istante del rapporto lavorativo, perché in ogni momento si può essere licenziati ingiustamente e mandati casa? Anche la Fiom qui ha preso una cantonata. Non credo che si possa davvero lottare contro la svolta reazionaria di Renzi, ispirata da Draghi e Marchionne, con il peso di tutte queste contraddizioni sulle spalle. Non credo che si possa ottenere un risultato restando in continuità con un modello sindacale che ha accumulato solo sconfitte. Renzi fa il gradasso e prende in giro la Cgil perché conta di aver sempre di fronte il solito sindacato rassegnato al meno peggio. O i sindacati, la Cgil, cambiano rapidamente e nella direzione esattamente opposta a quella seguita negli ultimi trenta anni, rompendo con il Pd e con il sistema di potere che sostiene il governo, oppure sarà un’altra terribile sconfitta. Che ricadrà tutta sulle condizioni di un mondo del lavoro che già sta precipitando verso i livelli più bassi d’Europa.(Giorgio Cremaschi, “Perché questa Cgil non ce la può fare con Renzi”, da “Micromega” del 1° ottobre 2014).In una intervista a “Il Manifesto”, Sergio Cofferati sottolinea la differenza tra la mobilitazione da lui guidata, con successo, nel 2002 contro il tentativo di Berlusconi di colpire l’articolo 18 e quella promossa oggi dalla Cgil. Allora si univano opposizione sociale e opposizione politica. Oggi, dice Cofferati, bisogna mobilitare il popolo del centrosinistra contro chi lo rappresenta al governo. È vero, ma così non si sottolinea solo una difficoltà ma una contraddizione. Il collateralismo tra Cgil e Pd è un dato di fatto, e che esso sia avvenuto soprattutto tra il gruppo dirigente sindacale e l’attuale minoranza di quel partito non cambia la sostanza. Anzi la aggrava, perché dà spazio al qualunquismo di potere di Renzi e della sua banda. Quando l’attuale minoranza del Pd era maggioranza e sosteneva il governo Monti, la Cgil ha lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni d’Europa e la prima gravissima modifica dell’articolo 18. È stato infatti il governo dei tecnici, con il consenso di Cgil, Cisl e Uil, ad aprire la via alla sostituzione della “reintegra” con il risarcimento monetario nel caso di licenziamento ingiustificato.
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Strage inventata? Certo, per preparare quella vera
Il set di un film dell’orrore, per colpire l’opinione pubblica e legittimare la deposizione del tiranno. Accadde in Romania nel fatidico 1989, quando a Timisoara furono rastrellati negli obitori i corpi di persone appena decedute. Vennero martoriati e feriti per simulare le torture, in realtà mai subite. Il tutto, a beneficio delle telecamere. Per Rosanna Spadini, quel precedente dimostra un passaggio d’epoca: «La società dello spettacolo diventa schiava di se stessa», e lo spettacolo «viene trasformato in strumento di disperazione e di morte». Si rompe un patto millenario con gli spettatori, fondato sulla promozione culturale della società. Resta solo la scenografia teatrale, ed è «un teatro che rinnega se stesso, un teatro che uccide», ora anche sul palcoscenico della navigazione web, che proietta l’individuo «in un altrove extraterritoriale, slegato dallo spazio fisico del suo corpo e dal tempo della sua coscienza». Notizie sensazionali, immagini devastanti. Ma c’è il trucco: è tutto falso. La Spadini la chiama «arte dalla meraviglia multimediale dei visual network». Da allora, la messinscena servirà a dare legittimità mediatica a tutte le guerre contemporanee.
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Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo
Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.(Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
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Cosa ci farà Juncker ora (il padrone, non il clown Renzi)
La Germania? «Ha veramente vinto la terza guerra mondiale». Nella seconda, la Raf britannica riuscì a contenere Berlino. Oggi invece il premier inglese David Cameron «ha ceduto di schianto». E Angela Merkel, la cancelliera tedesca, ha stravinto: «Jean-Claude Juncker, il suo uomo designato e sadico fautore delle Austerità germaniche per l’Economicidio del resto d’Europa, è il nuovo presidente della Commissione Europea». Secondo Paolo Barnard, proprio Juncker annuncia un programma “lacrime e sangue” fondato sulla rapina dei risparmi degli europei, visto che l’élite tecno-finanziaria continua a impedire l’espansione monetaria nell’Eurozona, ridotta ormai a «una landa di miserabile agonia economica», dove «i dati farebbero paura a Dracula». Lo dicono, per primi, «tutti quelli che di denaro se ne intendono (Goldman Sachs, Allianz, Ing, Nomura). La crisi dell’euro? E’ totalmente irrisolta: «Ci guadagnano i soliti noti speculatori internazionali e i Neomercantili tedeschi», gli industriali dell’export che sfruttano gli operai precarizzati.Il programma di Juncker, scrive Barnard nel suo blog, è fondato su tre punti-chiave altamente preoccupanti. Primo: trovare i soldi per rilanciare l’Europa all’interno di un sodalizio fra “mercati dei capitali” e “mercati monetari privati”, per «aiutare le imprese a trovare denaro e ridurne la dipendenza dai prestiti bancari». Secondo: incoraggiare l’impacchettamento di crediti inesigibili (cioè “marci”) attualmente in mano «alle banche europee in agonia», quindi titoli-spazzatura da trasformare in «prodotti finanziari esplosivi» progettati per rastrellare denaro dai risparmiatori, anche attraverso le solite speculazioni dei “fondi-avvoltoio”, cioè «le SS della finanza». Terza mossa: investire nell’Eurozona «la gran somma di 300 miliardi di euro», cioè un’inezia, per di più suddivisa fra fondi pubblici e fondi privati. «Ecco cosa ha detto di serio Juncker fra le mille palle di circostanza», continua Barnard, «ed ecco che razza di catastrofe significa per noi poveracci, famiglie e aziende».La riverniciatura finanziaria dei titoli “marci” ovviamente «non ha bisogno di commenti», dato che «è la ripetizione delle origini della più devastante crisi finanziaria di sempre, quella del 2007-8. E risuccederà». Il terzo punto, quello sull’iniezione di liquidità, è risibile: è come «infondere una goccia di sangue la mattina sulla lingua di un ammalato che sta perdendo 1 litro di sangue all’ora». Spiega Barnard: «Se pensate che la sola disoccupazione italiana – dovuta al 90% alle Austerità di Merkel-Juncker – ci costa 330 miliardi di Pil perduto all’anno, solo a noi italiani, potete immaginare cosa se ne fa la Ue di quegli spiccioli». Ma l’aspetto peggiore è riassunto nel primo passo annunciato da Juncker. «Tradotto per tutti significa questo: “I soldi per salvarci come Eurozona NON non li andiamo a prendere da chi i soldi li può creare gratis per il beneficio dei privati (gli Stati sovrani), ma li andiamo a prendere dai privati, che da una parte sono miliardari che ci caricheranno di interessi assurdi facendoci sopra profitti favolosi, e dall’altra sono poveri Cristi di cittadini che andranno a pescare nei propri risparmi”».Siamo sempre al solito paradigma, continua Barnard: «L’economia va finanziata coi soldi già esistenti che girano in tondo, e che da una parte arricchiscono i soliti arpagoni, dall’altra fottono i cittadini e le aziende. MAI e poi MAI Mai e poi mai finanziare l’economia con il denaro NUOVO nuovo (deficit) degli Stati, che è debito statale che allo Stato costa zero, ma che è CREDITO credito di cittadini e aziende per i quali produce ricchezza, e che non permette a nessuno di lucrare come un maiale. MAI! Mai fare questo. Ora pensate: in un’economia continentale dove per avere denaro si deve dipendere dai Mercati dei Capitali e Mercati Monetari privati (programma Juncker), si arriva necessariamente al punto in cui tutto quel denaro va poi restituito a quei Mercati dei Capitali e Mercati Monetari privati, e restituito CON INTERESSI con interessi. E allora chiedetevi: dove li andremo a prendere quegli interessi, visto che è tutto lo stesso denaro già esistente che gira in tondo, e non ce ne piove di nuovo dal cielo? Risposta: NON non dagli Stati, cui le regole Merkel-Juncker ferocemente proibiscono di emettere denaro (farlo piovere dal cielo). E allora da chi li andremo a prendere i soldini per pagare gli interessi agli arpagoni? Dalle…? Dalle…??? BANCHEEEEE!!! Bancheeee!!!Lavoratori, imprenditori e famiglie: tutti incatenati al debito. Esattamente il contrario di quello che Juncker annuncia a parole, “ridurre la dipendenza” di cittadini e aziende “dai prestiti bancari”. Dove si pescherà il denaro che la Bce non vuole immettere nel sistema economico europeo? Evidente: «Dai risparmi dei cittadini, che quando si riducono – come dimostra la Mosler Economics Mmt – creano anche disoccupazione, oltre che impoverimento nazionale». Questa è la «stupenda prospettiva» che Juncker ci sta annunciando, conclude Barnard: «Ecco cosa vi ha detto il Padrone, ora lo sapete, e sapete che razza di orrore finanziario continuano a creare i nostri tecnocrati europei, con la piena complicità di Matteo Pagliaccetto. E come sempre nessuno di voi farà un emerito xxxx. Ma almeno io ve l’ho spiegato».La Germania? «Ha veramente vinto la terza guerra mondiale». Nella seconda, la Raf britannica riuscì a contenere Berlino. Oggi invece il premier inglese David Cameron «ha ceduto di schianto». E Angela Merkel, la cancelliera tedesca, ha stravinto: «Jean-Claude Juncker, il suo uomo designato e sadico fautore delle Austerità germaniche per l’Economicidio del resto d’Europa, è il nuovo presidente della Commissione Europea». Secondo Paolo Barnard, proprio Juncker annuncia un programma “lacrime e sangue” fondato sulla rapina dei risparmi degli europei, visto che l’élite tecno-finanziaria continua a impedire l’espansione monetaria nell’Eurozona, ridotta ormai a «una landa di miserabile agonia economica», dove «i dati farebbero paura a Dracula». Lo dicono, per primi, «tutti quelli che di denaro se ne intendono (Goldman Sachs, Allianz, Ing, Nomura). La crisi dell’euro? E’ totalmente irrisolta: «Ci guadagnano i soliti noti speculatori internazionali e i Neomercantili tedeschi», gli industriali dell’export che sfruttano gli operai precarizzati.
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Mare Nostrum, affari loro: migranti, li vuole l’Europa
«Mare Nostrum è una costosa coreografia che sta andando in scena per gestire l’invasione controllata e pianificata che l’establishment sovranazioanale europeo ha ideato per consentire la sostenibilità economica e finanziaria di pensioni e debito pubblico», senza dimenticare «i profitti delle multinazionali dei consumi di massa». Lo sostiene Eugenio Benetazzo, secondo cui «in Europa servono 11 milioni di clandestini entro il 2020». Si tratta in fondo di «nuovi consumatori e lavoratori», naturalmente sottopagati, che «consentiranno di compensare gli effetti negativi di un progressivo invecchiamento della popolazione europea e di un crollo della natalità». Per Benetazzo, non è il caso di parlare di cospirazionismo o complottismo, ma di una vera e propria exit strategy: l’Europa, che finora ha sempre voluto «controllare e commissariare tutto quello di cui aveva paura», o che «doveva essere gestito per l’interesse di qualcuno», è sostanzialmente «rimasta alla finestra, lasciando agli italiani il compito di gestire il tutto», cioè la pressione migratoria dal Sud.Questo, aggiunge Benetazzo nel suo blog, è il principale indizio che fa capire come «quanto sta accadendo non solo va benissimo, ma anzi deve continuare», perché «lasciare il tutto nelle mani degli italiani è la soluzione ideale», secondo Bruxelles, indifferente all’onere rappresentato dalla vigilanza e dal controllo militare del Mediterraneo, di cui si fa carico l’Italia – da sola – con le costose missioni quotidiane di pattugliamento e assistenza, a cura della marina militare. Benetazzo insiste sulla teoria della pianificazione dell“invasione”: molti dei disperati alla deriva sui barconi pagano anche 5.000 euro per attraversare il Sahara e poi il Canale di Sicilia, mentre «se solo avessero un passaporto, potrebbero atterrare a Roma con un volo di prima classe spendendo meno della metà». Dettaglio: le ondate di boat-people provengono dal Nord Africa della “primavera araba” e da paesi devastati dalla guerra, come la Siria e la Somalia, o da terre come l’Eritrea dove l’Italia supporta una feroce dittatura da cui i giovani fuggono. La grande falla, in ogni caso, è proprio il Maghreb, una volta caduto il regime-gendarme di Gheddafi per mano americana e anglo-francese.«Tutti rimpiangono i vari leader/dittatori che prima governavano i rispettivi paesi», scrive Benetazzo. «Più di tutti si rimpiange Gheddafi, l’uomo che agli inizi degli anni Ottanta aveva intenzione di creare gli Stati Uniti d’Africa, coalizzando e guidando tutti le nazioni del continente, per evitare di subire lo strapotere delle economie occidentali: per questo faceva paura, non perchè era un dittatore ma perchè il suo carisma e leadership potevano portare ad un cambio di svolta epocale per l’Africa e le loro genti». Piano andato in fumo, come si sa, per il fermo ostruzionismo “imperiale” degli Usa, oltre che per «l’egocentricità» di troppi leader africani, dall’ugandese Idi Amin Dada allo stesso Colonnello libico. «Purtroppo – chiosa Benetazzo – con la sua morte sono iniziati i problemi per il Mediterraneo: il controllo che aveva sulla Libia e sulle sue coste rappresentava la miglior garanzia di stabilità sociale per tutti le popolazioni del Mediterraneo». Ora l’invasione non ha più freni, e ricade interamente sull’Italia – come previsto fin dall’inizio, secondo Benetazzo, che accusa direttamente gli strateghi dell’oligarchia europea insediata a Bruxelles.«Mare Nostrum è una costosa coreografia che sta andando in scena per gestire l’invasione controllata e pianificata che l’establishment sovranazioanale europeo ha ideato per consentire la sostenibilità economica e finanziaria di pensioni e debito pubblico», senza dimenticare «i profitti delle multinazionali dei consumi di massa». Lo sostiene Eugenio Benetazzo, secondo cui «in Europa servono 11 milioni di clandestini entro il 2020». Si tratta in fondo di «nuovi consumatori e lavoratori», naturalmente sottopagati, che «consentiranno di compensare gli effetti negativi di un progressivo invecchiamento della popolazione europea e di un crollo della natalità». Per Benetazzo, non è il caso di parlare di cospirazionismo o complottismo, ma di una vera e propria exit strategy: l’Europa, che finora ha sempre voluto «controllare e commissariare tutto quello di cui aveva paura», o che «doveva essere gestito per l’interesse di qualcuno», è sostanzialmente «rimasta alla finestra, lasciando agli italiani il compito di gestire il tutto», cioè la pressione migratoria dal Sud.
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Rwanda, in Italia i veri boia del genocidio: preti e suore
Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.Principalmente quelle della Chiesa cattolica, radicate nella storia coloniale e missionaria dell’ultimo secolo, che sono l’oggetto dell’ultima fatica di Vania Lucia Gaito, giornalista e psicologa già autrice del saggio sui preti pedofili “Viaggio nel silenzio” (Chiarelettere, 2008). Nel libro di recentissima pubblicazione “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica” (L’asino d’Oro edizioni, 2014) l’autrice ripercorre approfonditamente le trasformazioni sociali e culturali del secolo precedente al genocidio, rintracciando in esse i prodromi dei cento giorni, per «comprendere i meccanismi che avevano portato a quella cieca volontà di distruzione», individuabili nel connubio tra potere, fede e fanatismo. «Mai come in Rwanda – chiarisce l’autrice nella premessa – la Chiesa cattolica ha fatto scempio della sua stessa dottrina, dei suoi princìpi fondamentali, del suo primo comandamento: ama il prossimo tuo».Ed è forse proprio questo il nodo più difficile da comprendere per chi ha sempre sentito parlare, ieri come oggi, di un conflitto “etnico” in Rwanda: chi accese la fiamma dell’odio, sottolinea Gaito, «non era un hutu, non era un tutsi, non era ruandese. Era bianco». E, si potrebbe aggiungere, europeo, imperialista, imbevuto delle ottocentesche teorie razziste, cattolico. Quando i tedeschi arrivarono a fine Ottocento nel “paese delle mille colline”, racconta l’autrice nella prima parte del libro dedicata alla ricostruzione storica, il concetto di razza era estraneo alla popolazione ruandese. «Lo esportammo così come oggi pretendiamo di esportare il concetto di democrazia. In nome di una presunta missione civilizzatrice, i colonizzatori europei portarono in Africa i propri preconcetti e li imposero a un intero popolo».Con la fine della Prima Guerra Mondiale e la Conferenza di Parigi (Trattato di Versailles, 28 giugno 1919), la Germania lasciava il posto al Belgio sul ponte di comando del piccolo paese africano. La Chiesa locale, guidata dal vicario apostolico monsignor Léon-Paul Classe e assecondata dall’amministrazione belga, avviò un processo di “conversione” della società locale, ottenendo per il cattolicesimo lo status di religione di Stato, stringendo alleanze con la leadership aristocratica tutsi e diffondendo – grazie alle pubblicazioni dei missionari e alla fitta rete di scuole, ospedali e parrocchie con cui i missionari si garantivano il pieno controllo sociale – una nuova dottrina razziale per la quale i tutsi (alti, ricchi e più chiari), rappresentavano l’etnia “superiore” su cui Chiesa e coloni avrebbero investito per il futuro del Rwanda. Quando poi i tutsi alzarono la testa contro i coloni belgi, il corso della storia del piccolo paese africano prese una direzione opposta, proprio perché il potere acquisito dalla Chiesa cattolica, braccio “cultural-spirituale” dell’occupante, cominciò a vacillare.Per continuare a garantirsi una base strategica nel cuore dell’Africa, da fine anni Cinquanta i missionari ribaltarono strategia, presero a denunciare la discriminazione degli hutu, a rivendicarne l’emancipazione e la parità di trattamento, radicalizzando ancor più l’etnicizzazione di un conflitto sociale che nasceva su ragioni di diseguaglianza economica. Protagonista di questo voltafaccia, monsignor André Perraudin, padre bianco svizzero, consapevole, scrive Gaito, «che occorreva rovesciare la monarchia, stabilire alleanze con chi, grato dell’appoggio ricevuto, avrebbe continuato a lasciare il potere, le scuole e gli ospedali nelle mani della Chiesa». E così, nel 1959, nacque il Partito nazionale ruandese, sostenuto dalla monarchia tutsi, che rivendicava l’indipendenza del Rwanda, una riforma agraria e amministrativa e la laicizzazione dell’istruzione.Per tutta risposta fu fondato il Parmehutu (Partito per l’emancipazione degli hutu) – guidato dal segretario di Perraudin e ispirato al Manifesto degli hutu scritto praticamente sotto dettatura del monsignore – che si caratterizzò da subito come partito aggressivo e profondamente razzista. Seguirono due anni di massacri noti come “piccolo genocidio”, una riscossa sociale degli hutu (con 300.000 tutsi uccisi e molti sfollati nei paesi limitrofi, tra cui l’attuale presidente Paul Kagame) per la quale i Padri Bianchi esultavano e gli autori della strage riservavano ai missionari grande riconoscenza. Nel 1961 cadde la monarchia e l’ex segretario del vescovo, Grégoire Kayibanda, guidò la neonata Repubblica fino al 1973, quando un colpo di Stato militare portò al potere il cugino Juvénal Habyarimana, amico della famiglia reale belga, fervente cattolico, che poteva vantare il sostegno di larga parte d’Europa, anche della Francia, che cominciava ad allungare le mani sul Rwanda. Seguì un periodo di soppressione delle libertà fondamentali e il conflitto etnico divenne feroce.Nel 1987 i profughi ruandesi scappati dal “piccolo genocidio” in Uganda fondarono il Fronte patriottico ruandese, con l’obiettivo di rovesciare la dittatura e rientrare in patria, che dette vita ad anni di guerra e di violenze sulle popolazioni hutu. L’odio razziale raggiungeva in quegli anni un punto di non ritorno, e invano furono siglati gli Accordi di Arusha del 1993 con cui doveva nascere un governo di transizione a guida hutu-tutsi. Il governò importò dalla Cina un’ingente quantità di machete che distribuì tra la popolazione. Invano tentarono anche i governi occidentali e le istituzioni internazionali di opporsi alla deriva, chiedendo l’applicazione dei trattati. Poi arrivò l’esplosione dell’aereo presidenziale a sancire che ormai era troppo tardi. Dell’attentato furono incolpati i miliziani del Fronte patriottico. L’intreccio tra odio e panico nella popolazione fece il resto. Furono compilate liste di proscrizione e i cento giorni di massacro ebbero inizio, in strada, nelle scuole, negli ospedali, nelle chiese. Lasciando sulla strada quasi un milione di persone trucidate, principalmente tutsi ma anche hutu “moderati”.La seconda parte del libro traccia il profilo di alcuni protagonisti ecclesiastici di quella vicenda. Una galleria degli orrori tale da far rabbrividire anche il più fantasioso regista di film horror. Ritratti di “uomini di Dio” riemersi, anche recentemente in occasione del ventennale, nell’ambito di interpretazioni del genocidio “non allineate” alle gerarchie cattoliche, ancora colpevolmente lontane dall’ammettere le proprie implicazioni e proclamare il doveroso mea culpa (tra le italiane, quella dell’Espresso e di Adista). Si tratta di preti e suore, amministratori di ospedali e istituzioni pubbliche, che hanno partecipato attivamente e con dedizione alla grande strage e che, una volta concluso il genocidio con la presa del potere da parte del Fronte, sono fuggiti in Europa per evitare la giustizia dei tribunali e vivono ora in parrocchie, impiegati nella catechesi dei bambini e in altre attività sociali, sotto la copertura di diocesi e Vaticano.Tra gli altri, padre Athanase Seromba, a lungo ospite della diocesi di Firenze, accusato di aver accolto duemila tutsi in cerca di protezione, di averli chiusi nella parrocchia e di aver chiamato i soldati che hanno poi abbattuto la chiesa e giustiziato i sopravvissuti al crollo. E padre Emmanuel Uwayezu (protetto dalla diocesi di Firenze e da quella di Empoli), direttore di un collegio ruandese, accusato di aver abbandonato i suoi studenti nelle mani delle milizie hutu. E padre Emmanuel Rukundo, ex cappellano militare, accusato di aver consegnato ai miliziani i tutsi ospitati nel suo seminario. Oppure il padre bianco Guy Theunis, direttore di uno dei principali organi di informazione che, già prima del genocidio, avevano lanciato una campagna di incitazione all’odio etnico. E ancora, per passare al “ramo femminile”, suor Gertrude Mukangango e la consorella Julienne Kizito (soprannominata “l’animale”), complici attive dei massacri; e suor Theophister Mukakibibi, condannata, tra l’altro, per aver gettato un bambino vivo in una latrina.Quello che c’è dopo – il cammino di un popolo che tenta timidamente di fare i conti con il proprio passato e guardare con speranza verso il futuro – è narrato dall’autrice con dovizia di particolari, attraverso interviste, testimonianze, citazioni di articoli di giornale. Il quadro, sul piano dell’assunzione di responsabilità della Chiesa cattolica, a molti anni dalla fine del genocidio, è tutt’altro che incoraggiante: ad ogni livello della scala gerarchica, la Chiesa continua a respingere al mittente le accuse di complicità e a ritenere missionari e vescovi di allora “uomini santi” votati esclusivamente all’edificazione del Regno di Dio. E, nella migliore delle ipotesi, a ignorare e denigrare l’importante operato di quanti, come Vania Lucia Gaito con quest’imprescindibile volume, lavorano incessantemente e faticosamente per portare alla luce una verità scomoda, oscurata dalla Chiesa e troppo spesso glissata anche nelle narrazioni dei grandi media mainstream.(Giampaolo Petrucci, “Le origini del male”, da “Micromega” del 30 giugno 2014. Il libro: Vania Lucia Gaito, “Il genocidio del Rwanda. Il ruolo della Chiesa cattolica”, L’asino d’Oro edizioni, XIII-157 pagine, 12 euro).Diffidare dalle definizioni e dalle categorie rigide è d’obbligo, soprattutto quando si parla d’Africa e dei pluriennali conflitti sparsi un po’ su tutto il continente. Emblematico l’esempio del concetto di “guerra etnica”, utilizzato – tanto sul piano istituzionale (locale e internazionale) quanto su quello economico dei grandi colossi multinazionali – per una narrazione spesso molto distante dalla cruda realtà, fatta principalmente di spregevoli interessi economici e geostrategici. È il caso del Rwanda, piccolo fazzoletto di terra africana che nel 1994 ha consegnato all’immaginario collettivo planetario uno dei più abominevoli punti di non ritorno raggiunti dall’umanità. Un orrore inimmaginabile e inenarrabile, durato un centinaio di giorni tra aprile e luglio, di cui si è appena celebrato il ventesimo anniversario. Venti anni attraverso i quali il paese ha faticosamente ricominciato a camminare – nonostante la paura e il sospetto ancora impressi negli occhi di molti ruandesi – ma che non sono stati sufficienti a disvelare, una volta per tutte, implicazioni e responsabilità.
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Fini: io sto col Male, gli apostoli del Bene sono macellai
Nell’orgia di retorica seguita alla scomunica dei mafiosi, del tutto priva di significato nella sua genericità, è passata inosservata una frase di Papa Bergoglio: «Chi non adora Dio di conseguenza adora il Male». Frase di una gravità inaudita che non può essere «voce dal sen fuggita» perché detta da uno che sa, o dovrebbe sapere, quel che dice. Io non adoro Dio, semplicemente non credo alla sua esistenza. Ma se mai ci credessi penserei che è un sadico perché ha creato l’uomo, l’unico essere vivente ad avere una lucida consapevolezza della propria fine. Un essere tragico. «La sola scusante di Dio è di non esistere» ha scritto Baudelaire. Ed è la cosa più misericordiosa che si possa dire nei confronti di questo Soggetto. A me questi adoratori di Dio, soprattutto del Dio monoteista, sia esso ebreo, cristiano o musulmano, cominciano a stare profondamente sulle palle. Dimenticano con troppa disinvoltura le infamie di cui si sono coperti.Gli ebrei con la pretesa di essere “il popolo eletto da Dio” hanno fondato quel razzismo di cui in seguito diverranno tragicamente vittime. Ma almeno non hanno mai avuto mire espansive. In quanto agli altri due “adoratori del Dio unico” hanno distrutto, al seguito dei propri eserciti, intere popolazioni e culture, più miti, da quelle dell’America precolombiana a quelle dell’Africa centrale. Prima che, nel 1789, entrasse in campo un’altro Dio, questa volta laico, anzi una Dea, la Dea Ragione, le guerre di religione sono state le più spietate. Il Medioevo europeo era cristiano, ma essendo la grande maggioranza della popolazione contadina, oserei dire che, nella gente comune, era un cristianesimo che tendeva al pagano, all’animismo, un po’ come per le popolazioni dell’Africa nera. Le guerre le facevano i professionisti, i cavalieri. Ma furono guerre ridicole.A parte casi limite, come la battaglia di Anghiari (1440), resa famosa da un abbozzo di Leonardo, dove su undicimila combattenti si sarebbe avuto, a detta di Machiavelli, un solo morto (le stime, più attendibili, di Flavio Biondo parlano di sessanta caduti) o come quella di Bremule (1119) dove i morti furono tre o come quella guerra che, a leggere le cronache, «imperversò un anno in Fiandra» dopo l’assassinio di Carlo il Buono (1127), ma in cui caddero sette cavalieri dei quali uno solo in combattimento, è assodato che il bilancio di quasi tutti i conflitti medioevali si riduce a poche centinaia di morti. C’è però un’eccezione, il 1500, il “secolo di ferro” caratterizzato dalle guerre di religione. Nella sola “notte di San Bartolomeo” (1572) furono uccisi 20 mila ugonotti. E ce ne vuole di ferocia per fare un tale massacro all’arma bianca. Ma è solo un esempio, fra i tanti.Adesso ci sono guerre, mezzo di religione e mezzo di potere, fra sunniti e sciiti in Iraq, causate dall’intervento militare del 2003 dei pii protestanti americani («Dio protegga l’America», e perché non il Burkina Faso?) e guerre di religione in Nigeria fra gli estremisti islamici di Boko Aram e altri islamici il cui obbiettivo finale è però l’Occidente (Boko Aram significa letteralmente «L’educazione occidentale è peccato»). In queste guerre ci vanno spesso di mezzo anche i cristiani. La cosa non mi commuove. Non dovevano andare, loro o i loro predecessori, animati da spirito missionario, dallo spirito del Bene, in luoghi che non li riguardavano affatto. Io temo il Bene perché, rovesciando la famosa frase di Ghoete, «operando eternamente per il Bene realizza eternamente il Male». Preferisco il Male che si presenta come tale. Io sto col Male.(Massimo Fini, “Io sto col Male”, da “Il Fatto Quotidiano” del 26 giugno 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Nell’orgia di retorica seguita alla scomunica dei mafiosi, del tutto priva di significato nella sua genericità, è passata inosservata una frase di Papa Bergoglio: «Chi non adora Dio di conseguenza adora il Male». Frase di una gravità inaudita che non può essere «voce dal sen fuggita» perché detta da uno che sa, o dovrebbe sapere, quel che dice. Io non adoro Dio, semplicemente non credo alla sua esistenza. Ma se mai ci credessi penserei che è un sadico perché ha creato l’uomo, l’unico essere vivente ad avere una lucida consapevolezza della propria fine. Un essere tragico. «La sola scusante di Dio è di non esistere» ha scritto Baudelaire. Ed è la cosa più misericordiosa che si possa dire nei confronti di questo Soggetto. A me questi adoratori di Dio, soprattutto del Dio monoteista, sia esso ebreo, cristiano o musulmano, cominciano a stare profondamente sulle palle. Dimenticano con troppa disinvoltura le infamie di cui si sono coperti.
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Renzi, atroce imbroglio: la faccia allegra della catastrofe
Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?E non si venga a dire che gli 80 euro sono una rottura di questa politica. Chi fa credere questo è in totale malafede. Quell’assegno è stato concordato tra Renzi e Merkel per indorare la pillola del rigore alla vigilia delle elezioni, e verrà restituito con gli interessi, con le tasse i ticket e i tagli ulteriori alla spesa sociale. Però bisogna ammettere che l’operazione gattopardesca per il momento è riuscita. Durante i governi Monti e Letta si parlava sempre più di vincoli europei e di austerità. Ora non se ne parla più, le questioni economiche e sociali vengono dopo il calcio. Si parla di legge elettorale e di abolizione del Senato elettivo, di riforme di tutti i tipi, ma di austerità non si parla più, la si attua e basta. Gli scandali delle grandi opere non provocano più nessuna pubblica discussione sulla loro necessità, ma solo uno stanco ritorno delle campagne di moralizzazione ipocrita e inconcludente, con Renzi naturalmente alla loro testa. Anche Grillo pare esserci cascato in pieno… la crisi economica si risolve con le riforme… Ma va, son venti anni che i liberisti fanno questa propaganda e attuano questa politica e la crisi si aggrava sempre di più.Comunque con ben maggiore efficacia rispetto al suo ammiratore invidioso e frustrato, Berlusconi, Renzi può compiere un’opera di distrazione di massa. Naturalmente non c’è la fa da solo, con lui stanno tutti i poteri forti nazionali e internazionali e un sistema informativo vergognoso, che è saltato sul suo carro come quei giornalisti “embedded” che stavano in Iraq sui carri armati di Bush e raccontavano quelle menzogne che han fatto danno sino ad oggi. Qualcuno parla ancora di Fiscal Compact? Nel nuovo Pd di Renzi che vuol battere i pugni in Europa, qualcuno propone forse di abolire quella mostruosità unica che è il pareggio di bilancio costituzionale? Cameron, quando quella riforma fu approvata, disse che Keynes, cioè lo stato sociale, erano stati messi fuori legge. Nelle elezioni locali qualche candidato del Pd si è forse impegnato a mettere in discussione il patto di stabilità? No di certo, perché Renzi spinge a fare i primi della classe in Europa. Forse anche per questo il vertice europeo torinese è stato rinviato: vuoi mai che per colpa delle parole di qualche sconsiderato burocrate i temi dell’austerità potessero tornare di pubblico confronto?Bisogna depistare e nascondere, noi siamo la seconda cavia di Europa dopo la Grecia. Si mette in atto la stessa politica, ma con un metodo diverso, quello di Renzi. Che si paragona a Obama ma in realtà è un epigono di Blair, che ha distrutto in Gran Bretagna tutto ciò che aveva resistito alla signora Thatcher. Compreso il suo partito. Attenti, sostenitori esultanti e anestetizzati del Pd: alla fine sarà proprio il vostro partito a pagare la politica del suo leader. Intanto però si festeggia e le fragili e tremebonde opposizioni ufficiali di destra e sinistra si inchinano al regime. Berlusconi e la Lega son sempre più parte del gioco. La Cgil ha adottato come massima forma di protesta il borbottio, anche se riceve uno schiaffone al giorno. Grillo dialoga sulle riforme e la lista Tsipras ha già le prime scissioni verso il Pd. Il presidente del consiglio sta sbancando.Eppure, nonostante i clamorosi successi attuali, il progetto di Renzi è destinato a fallire per due ragioni di fondo. La prima è che la crisi economica si trasforma in stagnazione e continuerà così, senza nessuna luce in fondo al tunnel. D’altra parte la politica di Renzi non serve ad uscire dalla crisi, ma solo ad abituarci a convivere con essa. Dobbiamo accettare la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, e imparare a sopravvivere arrangiandoci. Ci dobbiamo rassegnare alla ingiustizia e alla diseguaglianza, questo insegnano il Jobs Act o il feroce articolo 5 del decreto Lupi, che colpisce con crudeltà da Ottocento vittoriano i senza casa. Il punto non è la soluzione della crisi, impossibile con l’austerità, ma la passività sociale. È su questa che contano Renzi e la signora Merkel per andare avanti. Ed è su questo che falliranno.Certo ora sfiducia e rassegnazione sono massimi, mai in Italia si è fatto così tanto danno alle persone con così poche reazioni. Ma questa situazione finirà, il conflitto ripartirà e Renzi rischierà allora di apparire per come lo dipinge il suo unico oppositore televisivo, il comico Maurizio Crozza. La seconda ragione è che l’Europa della signora Merkel che ha benedetto Renzi ha rivelato tutta la sua subalternità e fragilità mondiale. Il governo ucraino con i suoi ministri nazifascisti ha rotto il disegno della Germania di portare l’Europa da essa dominata alla intesa cordiale con Putin e ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. La nuova guerra, anzi la guerra mai finita in Iraq, rafforza la stessa spinta di fondo. Gli Usa hanno ripreso il controllo del blocco occidentale con la vecchia Nato e ancor di più lo faranno con il Ttip, il patto liberista tra le due sponde dell’Atlantico che vuole trasformare la Ue in appendice di Usa e Canada, mentre di fronte si delinea la nuova alleanza globale di Russia e Cina.Forse non ce ne siamo accorti nel teatrino della nostra politica, ma la globalizzazione è morta, si torna ai grandi schieramenti di potenze e un’Europa indebolita da anni di austerità viene assorbita nel vecchio impero americano. Povero Renzi, che c’entra la sua politica con tutto questo? Nulla, e ancora una volta il conto di un potere politico gattopardesco, che sta indietro rispetto alla realtà del mondo, lo pagheremo tutti noi. Bisogna augurarsi allora che il regime di Renzi non ci metta i venti anni di quello berlusconiano per farci scoprire tutti i suoi danni. Bisogna augurarselo e bisogna agire perché questo regime fallisca il prima possibile. Solo con la sconfitta di Renzi e del renzismo si ridà un futuro a questo paese.(Giorgio Cremaschi, estratto dall’intervento “Facciamo fallire il regime renziano”, da “Micromega” del 20 giugno 2014).Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?
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Educati e repressi, come il mostro della porta accanto
Si può cercare di analizzare l’apparentemente incomprensibile, l’inconcepibile? E’ il copione che con crescente insistenza ripropone la cronaca, anche da aree teoricamente evolute come l’hinterland milanese, «civilizzato se non civile». Il caso di Yara Gambirasio a Brembate quello della donna uccisa a Motta Visconti coi due figli piccoli. Giusto evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dice Massimo Fini, perché l’anonima folla inferocita e pronta al linciaggio «fa più paura e orrore dello stesso assassino». A Motta Visconti il killer è stato Carlo Lissi, marito e padre delle vittime, reo confesso. «Fino all’altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello». Un delitto che sgomenta, scrive Fini sul “Gazzettino”, perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità, senza un movente plausibile. «Si tratta di uno di quei “delitti delle villette a schiera”, come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti», quelli che i criminologi chiamano «“crimini espressivi”, omicidi senza un perché». In netto aumento, in Italia. Motivo? Se cacci la violenza dalla porta, quella rientra dalla finestra – travestita da mostro.Massimo Fini denuncia «la pretesa della società contemporanea di abolire nel modo più assoluto ogni forma di aggressività, sia fisica che verbale», dimenticando che l’aggressività, «che è una componente fondamentale e vitale dell’essere umano», se viene «compressa come una molla», alla fine «risalta poi fuori nelle forme più mostruose». Un esempio: Lisi, l’assassino di Motta Visconti. «Io credo che se non fosse stato costretto dal contesto sociale a condurre una vita così perfettina, se avesse potuto dare un paio di ceffoni a una moglie che evidentemente non sopportava più senza rischiare la galera per maltrattamenti, se avesse potuto insultare il capoufficio o dare un cazzotto a un collega senza essere immediatamente licenziato, se avesse potuto andare allo stadio senza recitare la parte del tifoso perbene ma quella di “Genny ‘a carogna”, forse, sfogatosi in altro modo, non avrebbe ucciso».Fini cita lo psicologo e psichiatra austriaco Bruno Bettelheim, che ricorda come nel suo villaggio natale l’uccisione collettiva del maiale – cerimonia molto cruenta, cui partecipavano anche i bambini come lui – fosse uno sfogo naturale dell’aggressività dei componenti della comunità, che in quel modo evitava guai peggiori. «Tutte le culture che hanno preceduto la nostra conoscevano queste verità psicologiche elementari», conclude Fini. Gli antenati «non cercavano di abolire del tutto l’aggressività», ma si limitavano a canalizzarla «in modo che fosse controllabile e restasse entro limiti accettabili». Esempi in tutto il mondo: dai neri africani col rituale della “guerra finta” agli antichi greci con la figura del “capro espiatorio”, «non a caso chiamato “pharmakos”, medicina». In altre parole: «Se si vuole evitare il Grande Male bisogna accettare i piccoli mali e, sul lato opposto, bisogna accontentarsi dei piccoli beni invece di pretendere il Bene Assoluto. Perché Bene e Male sono due facce della stessa medaglia e concrescono insieme. E quanto più si vorrà grande il Bene, tanto più si creerà, inevitabilmente, un Male equivalente. Come dimostrano anche alcune recenti esperienze internazionali».Si può cercare di analizzare l’apparentemente incomprensibile, l’inconcepibile? E’ il copione che con crescente insistenza ripropone la cronaca, anche da aree teoricamente evolute come l’hinterland milanese, «civilizzato se non civile». Il caso di Yara Gambirasio a Brembate quello della donna uccisa a Motta Visconti coi due figli piccoli. Giusto evitare di sbattere il mostro in prima pagina, dice Massimo Fini, perché l’anonima folla inferocita e pronta al linciaggio «fa più paura e orrore dello stesso assassino». A Motta Visconti il killer è stato Carlo Lissi, marito e padre delle vittime, reo confesso. «Fino all’altro ieri sposo modello, genitore modello, impiegato modello, cittadino modello». Un delitto che sgomenta, scrive Fini sul “Gazzettino”, perché avviene in un clima e in un ambiente di assoluta normalità, senza un movente plausibile. «Si tratta di uno di quei “delitti delle villette a schiera”, come li ha felicemente definiti Guido Ceronetti», quelli che i criminologi chiamano «“crimini espressivi”, omicidi senza un perché». In netto aumento, in Italia. Motivo? Se cacci la violenza dalla porta, quella rientra dalla finestra – travestita da mostro.
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Patrimonio dell’umanità le Langhe di Pavese e Fenoglio
Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».Senza la gente vuol dire senza il loro racconto. La loro memoria, che non parla di un mondo arcadico, ma di vite agre, di una storia aspra come la terra dura della vigna, di solitudini e silenzi, da sfidare cavando di bocca le parole con le pinze, come sapeva bene Cesare Pavese, che in una delle sue prime poesie, in “Lavorare stanca”, scrisse che “qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio”. Pavese, che conosceva bene il calore umido che sale dal tufo sotto la vite, e quale odore abbia quel caldo («ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie»). E sapeva quanto di natura e di fatica ci sia dietro una vigna: «Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore».Come lo sapeva Beppe Fenoglio, quello della “Malora”, ma soprattutto quello del “Partigiano Johnny”, dove la natura si fonde inestricabilmente alla vita, e l’epopea partigiana si intreccia di fatica, e sudore – esattamente come il lavoro – e di paura e ferocia e, ancora, silenzio, nel paesaggio ora aspro, ora cupo, ora ridente, quasi sempre freddo, che accompagna come un involucro mimetico le vicende del protagonista. È impossibile pensare le Langhe – e il Roero, e il Monferrato: quello che oggi va sotto il nome un po’ commerciale di “distretto enogastronomico” – senza l’immaginario elaborato dalla loro letteratura, da Pavese, e Fenoglio, e Lajolo, e Arpino, che li hanno resi, appunto, patrimonio dell’umanità nel senso più proprio: di “linguaggio universale”. Paesaggio parlante e comunicante.Non stupisce che di qui sia incominciata l’avventura di Carlin Petrini e della sua banda, con la rievocazione di “Cantè j’euv”, sagra tradizionale sopravvissuta sotto la superficie della modernizzazione, giunta fino al trionfo di Slow Food e di Terra Madre. E non stupisce che qui trovi la propria sede naturale la cultura del vino come prodotto vivente. Non dimentichiamo le battaglie di Bartolo Mascarello contro la pratica del “barrique”, considerata una forma di sconsacrazione, e contro il dilagare dei capannoni ai piedi delle colline. Non dimentichiamolo nel momento in cui a quella terra viene attribuito l’ambìto riconoscimento. Certo la tentazione di considerarlo un brand utile per operazioni di marketing territoriale è forte, e lascia immaginare flussi impetuosi di turisti. Ma è bene ricordare che la dizione letterale dell’Unesco è “bene protetto”, non “esposto”. E che quel riconoscimento implica una responsabilità alla tutela, più che un incentivo al consumo dei luoghi.(Marco Revelli, “L’epopea delle vigne patrimonio dell’umanità”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2014, all’indomani del riconoscimento Unesco conferito a Langhe e Monferrato).Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».