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Salva-banche, risparmiatori traditi e rovinati: oltre 2 miliardi
Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.Il fulmine è caduto dalla Banca Etruria alla Banca Marche, dalla Cassa di Risparmio di Chieti alla Cassa di Risparmio di Ferrara. «Dai posti insomma in cui ci si fida», dove l’impiegato di banca «si trasforma in una specie di consulente finanziario». Per la prima volta, in Italia, spiega “Repubblica”, quattro banche (Carife, CariChieti, Banca Etruria e Banca Marche) sono state “risolte” con un meccanismo che anticipa in parte il bail-in (salvataggio interno) che entrerà in vigore dal 1° gennaio prossimo e in parte ricorre al vecchio bail-out (salvataggio esterno), già andato in scena durante la crisi finanziaria, ma questa volta senza prevedere l’iniezione diretta di soldi pubblici nel capitale delle banche in difficoltà. Il primo aspetto è quello che coinvolge direttamente i risparmiatori. Nel decreto di salvataggio si prevede che le azioni e le obbligazioni subordinate delle “vecchie” banche siano interamente svalutate: «Sono diventati pezzi di carta. E rappresentano quindi una perdita al 100% per chi le ha sottoscritte». Moody’s parla di 2 miliardi di euro di azioni azzerate, più 788 milioni di euro in “obbligazioni subordinate”. «Sono strumenti che, in caso di difficoltà dell’emittente, prevedono il rimborso del capitale solo “in subordine” rispetto ad altri titoli, cioè le obbligazioni “senior”, che hanno un grado di protezione maggiore».Il problema che emerge dalle testimonianze raccolte, scrive sempre “Repubblica”, è che ben pochi dei sottoscrittori di queste obbligazioni erano a conoscenza del rischio al quale andavano incontro. Dopo che azioni e obbligazioni hanno assorbito le perdite, i crediti in sofferenza (cioè morosi) delle vecchie banche sono stati svalutati: da 8,5 miliardi, il loro valore è stato abbattuto a 1,5 miliardi (il 17% circa del valore originario, un dato di gran lunga inferiore al valore medio di copertura delle “sofferenze” in Italia). Sono poi stati trasferiti in una bad bank, una “banca cattiva” che non ha la licenza per l’attività tradizionale: è una scatola per le “sofferenze”, per venderle a operatori specializzati, sperando di recuperare i denari in gioco. Gli altri attivi delle vecchie banche, cioè le parti “buone”, sono finiti in quattro nuove entità, dotate di un capitale necessario per operare, in vista della loro cessione. Le risorse necessarie a queste operazioni, circa 3,6 miliardi, sono arrivate dal sistema bancario attraverso un Fondo di risoluzione, al quale torneranno i proventi della vendita dei crediti in sofferenza e delle banche risanate.Per questo, continua “Repubblica”, alcuni parlano ancora di bail-out, salvataggio da fuori, ma senza soldi diretti dei contribuenti (come era invece accaduto in alcuni paesi, durante la crisi, quando gli Stati avevano messo direttamente capitali nelle banche in crisi). La Commissione Ue ha accertato comunque che ci sono aiuti di Stato, ma in una misura tale da non generare una distorsione del mercato e quindi ha dato il via libera all’operazione. Per di più, su una parte di quei fondi (1,65 miliardi di finanziamento delle maggiori banche), c’è una garanzia della Cdp che scatterà se il Fondo di risoluzione non sarà capiente per rimborsare quella linea di credito, alla scadenza tra un anno e mezzo. «La morale della vicenda è tirata da un report di Moody’s: è la prima volta che gli obbligazionisti subordinati subiscono un azzeramento del loro capitale, in queste proporzioni, per l’Italia». Visto che molti investitori erano piccoli e privati, ciò potrà accrescere la consapevolezza della rischiosità dei meccanismi di risoluzione per gli obbligazionisti, irrigidendo ulteriormente la vendita di bond attraverso la rete di filiali a vantaggio dei depositi, maggiormente garantiti.«Una lezione amara, che in molti sperimentano sulla pelle. Senza considerare, poi, che dal 2016 il meccanismo del “salvataggio interno” si dispiegherà in tutta la sua forma, colpendo potenzialmente anche altri soggetti interessati alla banca». Se domani una banca in difficoltà non avrà un piano di risanamento ritenuto consono dall’autorità, la ristrutturazione peserà fino all’8% delle passività su, nell’ordine: azionisti, obbligazionisti “junior” (meno garantiti, i subordinati già chiamati a pagare con le quattro banche in questione), obbligazionisti “senior” e correntisti oltre i 100.000 euro. Se ancora ciò non fosse sufficiente, interverrà il Fondo unico di risoluzione per un ammontare fino al 5% della banca in crisi. Cosa significa questo? Uno studio recentemente commissionato dal Parlamento Europeo ha simulato cosa sarebbe accaduto se le regole del bail-in fossero state valide durante la crisi finanziaria tra il 2007 e il 2014. «Su un campione di 72 banche salvate, che hanno totalizzato perdite per 313 miliardi, 153 miliardi sarebbero stati assorbiti con i fondi propri e il coinvolgimento dei creditori. Nei fatti, il bail-out andato in scena ha spalmato su tutti i cittadini, attraverso l’intervento dello Stato che usa i soldi dell’erario, il costo degli errori di manager e stakeholder».Il reportage di “Repubblica” è un viaggio nel dolore e nella rabbia: «Siamo le vittime di quel decreto», racconta Roberta Gaini, 50 anni, toscana, impiegata in una ditta chimica: «Non riesco più a dormire da giorni. Mi hanno preso i soldi che mi aveva lasciato mio padre, ho perso 62.000 euro in obbligazioni subordinate, 20.000 li ha persi mia madre e diecimila mia sorella. Come la chiamiamo se non una truffa?». Rabbia, sconforto e sospetti per migliaia di risparmiatori delle quattro banche “salvate” dal governo con un conto che pagano – e salato – loro. Silvia Trovò abita a Voghiera, in provincia di Ferrara, ha un’azienda agricola che produce frutta e seminativi: «Dal venerdì alla domenica del 22 novembre per noi è cambiato tutto, abbiamo perso 26.000 euro in obbligazioni subordinate e azioni della CariFerrara. Erano i soldi che mio padre, anche lui agricoltore, ci aveva lasciato: non può capire il dispiacere e la rabbia». Storie strazianti, come quella di Francesca, da Civitavecchia: «Mio padre, correntista Banca Etruria da 40 anni, invalido al 100% e cardiopatico cronico, aveva affidato i suoi risparmi di una vita da operaio (40.000 euro) all’istituto di credito succitato, in virtù di un rapporto di estrema fiducia».Nessuno, racconta Francesca, l’aveva avvisato dei rischi che correva con le obbligazioni subordinate: «Lui era tranquillo, si fidava ciecamente del dipendente che gliele aveva proposte, pur avendo un profilo di rischio basso (secondo la Mifid). In un momento lui si è visto azzerare i suoi risparmi, che gli servono per curarsi». E aggiunge: «Sono una dei tanti disperati, una vittima della macelleria socio-umana di questo governo, della gestione dissennata dei dirigenti di Banca Etruria. E non so come comunicarlo a mio padre, perché potrebbe verificarsi un serio attentato alla sua fragile salute, oltre al danno finanziario subito». E tutto grazie a quel decreto, «emanato in un pomeriggio domenicale di novembre, in sordina, artatamente pianificato», che ha ridotto sul lastrico centomila o forse duecentomila risparmiatori italiani.Il governo salva le banche, lasciando che siano rovinati i risparmiatori. Una truffa: oltre 2 miliardi di euro di risparmi azzerati, di colpo, senza preavviso. «Siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat», protestano rivolgendosi a “Repubblica”, che presenta un vasto reportage effettuato da Maurizio Bolognini e Laura Montanari. Parlano gli italiani rovinati del decreto salva-banche varato in sordina, una domenica pomeriggio, dal governo Renzi: «Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare». Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalle acrobazie azionarie. Quelli che si presentano allo sportello e dicono: «Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?». Cercavano investimenti sicuri, e sono finiti «nella roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno». Come Mario, pensionato di Empoli: «Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All’Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente». I casi come il suo rimbalzano da Chieti a Terni, da Pescara a Ferrara, da Grosseto ad Arezzo.
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Saskia Sassen: è il golpe dei predatori, ci vogliono espellere
La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.Quella di espulsioni va distinta dalla più comune nozione di “esclusione sociale”: quest’ultima avviene all’interno di un sistema e in questo senso può essere ridimensionata, migliorata, perfino eliminata. Nei sistemi complessi ci sono invece margini sistemici multipli, e le espulsioni attraversano domini e sistemi diversi, dalle prigioni ai campi profughi, dallo sfruttamento finanziario alle distruzioni ambientali. Per come le concepisco io, le espulsioni avvengono nel margine sistemico.Uso il termine “espulsioni” per descrivere una varietà di processi che producono esiti estremi da un lato, e che dall’altro potrebbero essere familiari e ordinari. Tra gli esempi dei processi di espulsione, potrei citare il crescente numero degli indigenti; degli sfollati nei paesi poveri ammassati nei campi profughi formali o informali; dei discriminati e perseguitati nei paesi ricchi depositati nelle prigioni; dei lavoratori i cui corpi sono distrutti dal lavoro e resi superflui a un’età troppo giovane; della popolazione attiva considerata in eccesso che vive nei ghetti e negli slum.Potrei aggiungere le parti della biosfera espulse dal loro spazio vitale a causa delle tecniche estrattive o dell’accaparramento di terre. E insisto sul fatto che il mite linguaggio del “cambiamento climatico” in questo ambito non riesce ad afferrare il fatto che, al livello empirico, esistono vaste distese di terra morta e di acqua morta. Di fronte all’estremo tendiamo a fermarci. È troppo, e troppo sgradevole. Ci mancano i concetti per comprenderlo. Per questo, diventa facilmente il mostruoso. O diviene invisibile, indipendentemente da quanto sia materiale. In “Espulsioni” esamino un ampio raggio di processi che a un certo punto diventano così estremi che il linguaggio familiare del “più” non serve più a spiegarli. Il momento dell’espulsione è il momento in cui una condizione familiare diviene estrema: non si è semplicemente poveri, si è senza casa, affamati, si vive in una baracca. O, per quel che riguarda la terra e l’acqua: come dicevo non è semplicemente degradata, insalubre. É morta, finita.Dovremmo preoccuparci delle “formazioni predatorie”. Sono formazioni complesse, che assemblano una varietà di elementi: élite, capacità sistemiche, mercati, innovazioni tecniche (di mercato e finanziarie) abilitate dai governi. Ci sono per esempio nuovi strumenti legali e contabili, sviluppati nel corso degli anni, che condizionano ciò che oggi ci appare come un contratto legittimo. Ci sono le banche centrali che forniscono quantitative easing: nel caso degli Stati Uniti, 7 bilioni di dollari dei cittadini sono stati messi a disposizione del sistema finanziario internazionale a tassi molto bassi, e poi usati per la speculazione, non per fornire prestiti alle piccole imprese che ne avrebbero disperato bisogno. In questo senso, abbiamo a che fare con zone complesse che assemblano una varietà di elementi, una condizione che eccede il semplice fatto di avere una elite di super-ricchi potenti. Anche se ci liberassimo di tutti i super-ricchi, continueremmo ad avere esiti simili a quelli attuali.Anche i governi sono parte delle formazioni predatorie. Dovremmo archiviare la tesi secondo la quale lo Stato-nazione nel suo complesso è una vittima dei processi di globalizzazione economica. Ed è particolarmente sbagliato quando ci si riferisce al ramo esecutivo dei governi, perché sono i Parlamenti e il ramo legislativo ad aver subito una perdita massiccia di funzioni e potere. Mentre il ramo esecutivo – dunque i presidenti o i primi ministri – hanno ottenuto un particolare, nuovo tipo di potere grazie alla globalizzazione: sono loro a istituire le politiche, ad articolare i trattati commerciali e di investimento che sostengono le corporation. E allo stesso tempo le banche centrali sostengono il sistema finanziario, non i poveri o i piccoli imprenditori.Per lei, la decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo inizia negli anni Ottanta del Novecento, benché abbia genealogie spesso più antiche. Alcuni segnali erano evidenti già negli anni Settanta, ma è negli anni Ottanta che l’economia comincia a cambiare rotta, e a restringersi: l’indebolimento dei sindacati, i minori investimenti nelle infrastrutture a beneficio di tutti, incluse quelle per i quartieri e le famiglie meno ricche, l’aumento della concentrazione di potere e ricchezza al vertice, anziché dello sviluppo della classe media. Nel mio libro ho incluso uno schema che mostra come negli anni Ottanta i nostri governi fortemente sviluppati abbiano cominciato a diventare più poveri, mentre nel mondo meno sviluppato, invece di investire nella produzione manifatturiera gli investimenti sono stati dirottati all’estrazione mineraria, al petrolio e ad altri settori primari. Ciò è accaduto per esempio nell’Africa subsahariana, che si era sviluppata negli anni Sessanta e Settanta con il successo dei processi di indipendenza. Questo processo ha prodotto ricchezza per le aziende e per le elite governative corrotte, ma povertà per la popolazione.Questo passaggio da una logica inclusiva a una logica di espulsione segna una vera e propria rottura rispetto alla fase precedente, quella del capitalismo keynesiano del secondo dopoguerra. Negli anni Ottanta c’è stata una rottura radicale, una frattura rispetto al capitalismo keynesiano, la cui logica dominante – nonostante tutti i limiti – era l’inclusione, la riduzione delle tendenze sistemiche alla disuguaglianza, perché il sistema si reggeva sulla produzione e sul consumo di massa, su una logica espansiva dunque. La manifattura di massa, il consumo di massa, la costruzione di case e strade anche per i meno abbienti: tutto ciò è stato ottenuto espandendo lo spazio dell’economia e incorporando le persone nel sistema. Oggi alcuni settori ancora beneficiano di una certa espansione, ma altri settori chiave non ne hanno bisogno, per cui abbiamo una crescita intensa dei profitti totali delle corporation, ma uno spazio economico complessivamente più circoscritto. I profitti delle corporation crescono, ma lo spazio economico si contrae, complessivamente.Il settore del consumo è stato parzialmente distrutto dalla finanziarizzazione dell’economia, che può produrre profitti molto più alti rispetto al settore del consumo. Contestualmente, avviene una ridefinizione de facto dello spazio economico, una contrazione dell’economia, dalla quale viene espulso tutto ciò che (incluse le persone) non è più considerato produttivo secondo i criteri standard. La crescita economica, misurata secondi i criteri convenzionali, è il veleno della nostra epoca. C’è bisogno di economie che rispondano a logiche distributive: più coinvolgono le persone e le realtà territoriali e locali, più le economie ne beneficiano e producono benefici. Oggi avviene il contrario. Ci si libera di tutti i lavoratori sindacalizzati, delle classe media, esclusa dai servizi statali, degli studenti che avrebbero bisogno di università gratuite. La mia tesi è che quando la Germania o il Regno Unito dicono: “la Grecia è il problema, noi siamo a posto”, sbagliano. Le tendenze sono le stesse per tutti questi paesi. La Grecia è soltanto la versione più estrema della stessa tendenza. Nel libro presento un grafico che dimostra in che misura tutte le principali economie dell’Unione Europea, inclusa la Germania, presentino un calo netto, dopo che nel 2008 la crisi è esplosa.La Germania ha un settore manifatturiero forte, che gli ha permesso di recuperare presto. La Grecia ha gli oligarchi che hanno sfruttato il paese, che non pagano le tasse e fondamentalmente non contribuiscono all’economia greca. Le Olimpiadi ne sono l’esempio più evidente. Ma la tendenza è la stessa. La maggior parte degli Stati liberali oggi è in decadenza. Le ragioni sono complesse, e le esamino in dettaglio nel mio libro precedente, “Territorio, autorità, diritti” (Bruno Mondadori, 2008). Le privatizzazioni e la deregolamentazione sono stati fattori cruciali. Un altro fattore è il numero crescente di ricchi e di corporation potenti che pagano sempre meno tasse. La finanziariazzazione dell’economia e il graduale restringimento dei settori economici distributivi come il manifatturiero, è un altro fattore ancora. L’impoverimento delle classi medie, i prezzi più elevati per le case che hanno compromesso la possibilità per i figli di vivere fuori casa, la contrazione del sistema di sostegno sociale organizzato dallo Stato. Sono gli esiti di una logica distorta che ha catturato lo Stato liberale. Agli estremi, gli esiti sono le espulsioni.(Saskia Sassen, estratti dell’intervista “Le nuove logiche del capitalismo predatorio” rilasciata a Giuliano Battiston per “L’Espresso” e ripresa da “Micromega” il 4 novembre 2015. Docente di sociologia alla Columbia University di New York, la Sassen è autrice di “Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale”, Il Mulino, 296 pagine, 25 euro).La disuguaglianza è inevitabile in sistemi complessi e altamente differenziati, e ci accompagna sin da quando i primi essere umani hanno costruito delle città. Dobbiamo quindi interrogarci sulle condizioni della disuguaglianza: per esempio, dovremmo chiederci quand’è che la disuguaglianza diventa profondamente ingiusta, e quando è accettabile. Anche le economie successive alla seconda guerra mondiale producevano disuguaglianza, ma era una forma di disuguaglianza più o meno ragionevole. Oggi la disuguaglianza, al contrario, è estrema. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà”, sull’aumento dell’incarcerazione, sulla crescita della distruzione ambientale e così via, è insufficiente a individuare il periodo attuale. Ci sono delle rotture in corso. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa. Siamo di fronte a una serie – imponente e diversificata – di espulsioni, una serie che segnala una più profonda trasformazione sistemica, che viene documentata a pezzi, in modo parziale, in studi specialistici diversi, ma che non viene narrata come una dinamica onnicomprensiva che ci sta conducendo in una nuova fase del capitalismo globale, e della distruzione globale.
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L’orgia cannibale è realtà, Pasolini non doveva svelarla
Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina col romanzo “Petrolio” i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.Stefania Nicoletti collabora da anni con l’avvocato Paolo Franceschetti, già legale delle “Bestie di Satana” e indagatore dei più controversi casi di cronaca, da Cogne al Mostro di Firenze. La tesi è suffragata da osservazioni inconsuete: molti delitti di cui parlano i media sono fatti di sangue solo in apparenza inspiegabili; in realtà si tratta di veri e propri “sacrifici umani”, compiuti da esoteristi che agiscono al riparo di potentissime protezioni, anche istituzionali. Quello che viene esibito – le indagini inconcludenti, il capro espiatorio socialmente fragile – non è che un copione per depistare l’opinione pubblica. La verità, ripete Franceschetti, è che ogni anno, in Italia, spariscono centinaia di minori. «Dove finiscono? Molti loro nel gorgo del traffico di organi, e altrettanti – appunto – nella potentissima rete dei pedofili: gente che arriva a pagare cifre folli per gli “snuff movie”, i film dove la giovane vittima viene violentata e seviziata fino alla sua morte», come appunto nel film di Pasolini. Ed ecco allora l’altro movente, quello occulto, che si salda con la volontà di eliminare e “punire” una voce troppo coraggiosa, lo scrittore che in “Petrolio” (uscito postumo) accusò Eugenio Cefis per la morte di Mattei, il “padre” dell’Eni temutissimo alle Sette Sorelle in quanto filo-arabo.«Spesso il movente del delitto di un personaggio scomodo non è uno solo, ma sono più moventi insieme, che non si escludono a vicenda ma anzi sono complementari, come sono complementari gli interessi e le entità che vogliono la morte di un determinato personaggio inviso al sistema», scrive Stefania Nicoletti sul blog di Franceschetti. E’ il caso, appunto, di Pasolini, sul quale si è scritto di tutto, anche di recente. Nel 2009, ad esempio, è uscito per “Chiarelettere” il libro “Profondo nero” di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, che porta avanti la tesi Eni-Cefis-Mattei e che contiene anche un’intervista a Pino Pelosi, il “ragazzo di vita” che era con Pasolini quella tragica sera, il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia (alla pista-Eni ha dato risalto, tra gli altri, anche il blog di Beppe Grillo). Nell’agosto 2012, continua la Nicoletti, è arrivata la sentenza della Corte d’assise di Palermo sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, ucciso nel 1970 perché stava indagando sulla morte di Mattei. Una sentenza, dunque, dopo 40 anni. De Mauro? Ucciso per paura che rivelasse i mandanti del sabotaggio dell’aereo di Mattei, precipitato a Bascapè sulle colline dell’Oltrepo Pavese.«La causa scatenante della decisione di procedere senza indugio al sequestro e all’uccisione di Mauro De Mauro – scrivono i giudici – fu costituita dal pericolo incombente che egli stesse per divulgare quanto aveva scoperto sulla natura dolosa delle cause dell’incidente aereo di Bascapè, violando un segreto fino ad allora rimasto impenetrabile e così mettendo a repentaglio l’impunità degli influenti personaggi che avevano ordito il complotto ai danni di Enrico Mattei, oltre a innescare una serie di effetti a catena di devastante impatto sugli equilibri politici e sull’immagine stessa delle istituzioni». Mauro De Mauro, aggiunge la Nicoletti, stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film “Il caso Mattei” e scomparve nel nulla poco prima dell’incontro previsto con Rosi. Cinque anni più tardi, Pier Paolo Pasolini stava indagando sulla stessa pista e aveva scoperto le stesse cose, venendo in possesso di documenti riservati su Eugenio Cefis. E fece la stessa fine di De Mauro.Nel dicembre 2013, poi, escono articoli di giornale che parlano di “svolta” nell’inchiesta per il delitto Pasolini. Dopo 38 anni, scrive Nicoletti, gli inquirenti si accorgono che forse c’è qualcosa che non va nella versione ufficiale e riaprono le indagini. La notizia è che ci sono dei sospetti sui complici di Pino Pelosi: nuovi elementi confermerebbero che a partecipare all’omicidio sarebbero state più persone. «Sono stati ascoltati 120 testimoni, di cui molti non erano mai stati sentiti in precedenza». In articoli come quelli pubblicati dal quotidiano “Il Tempo”, sottolinea la Nicoletti, viene rimarcato più volte che i testimoni sono proprio 120: numero ripetuto per ben tre volte nelle prime righe. «Quando lessi l’articolo, questo particolare mi suonò strano, perché avrebbero anche potuto scrivere “un centinaio” oppure “oltre cento testimoni”. Quel 120 così preciso – scrive la Nicoletti – mi ha ricordato il titolo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”», il film “maledetto” che Pasolini aveva ultimato pochi giorni prima di essere ucciso. «È probabile che in questo articolo e nell’intera operazione sia celato qualche messaggio, dato che è proprio nel film in questione che si può trovare uno dei moventi dell’omicidio». In “Salò”, aggiunge Nicoletti, «Pasolini aveva raccontato ciò che accade all’interno delle organizzazioni che detengono il potere».Nello stesso articolo del “Tempo” si parla di «reperti esaminati in passato e ora recuperati dagli investigatori, per avviare nuove analisi utilizzando tecniche scientifiche che precedentemente non esistevano». Di quali reperti si tratta? «Risulta che all’epoca dei fatti venne cancellato o manomesso tutto ciò che poteva essere utile alle indagini: non venne recintato il luogo del delitto, le prove e le tracce vennero cancellate, l’auto di Pasolini venne lasciata incustodita, in modo che chiunque avrebbero potuto mettere o togliere indizi». Dunque, conclude l’analista, «non si capisce quali “reperti” siano ancora validi e possano essere analizzati scientificamente». Un anno dopo, nel dicembre 2014, si parla ancora di “svolta” nelle indagini: le analisi del Dna sugli abiti di Pasolini rilevano tracce di altre 5 persone. Dalle macchie di sangue è stato estratto il codice genetico di altri possibili sospettati, complici quindi di Pelosi. Ma due mesi dopo, nel febbraio 2015, arriva subito un’altra notizia: il test del Dna non risolve il caso, perché il materiale biologico “non è attribuibile”, né collocabile temporalmente.«I magistrati hanno consegnato al gip la richiesta di archiviazione. E dunque l’inchiesta sul delitto Pasolini, riaperta nel 2010, dopo tutti questi annunci di presunte “svolte”, viene di nuovo archiviata». Ma nel 2014, quando l’inchiesta è ancora aperta, Pino Pelosi continua a fare dichiarazioni e viene convocato dalla Procura di Roma per essere interrogato di nuovo. Queste sono alcune delle sue affermazioni: «Quella notte all’Idroscalo c’erano tre automobili, una motocicletta e almeno sei persone, ma non sono in grado di dire chi fossero. Oltre all’Alfa Gt di Pasolini, c’era una Fiat 1300 e un’altra Alfa identica a quella di Pier Paolo. Era buio pesto e ho visto arrivare sul posto due automobili e una motocicletta. C’erano almeno sei persone, e due individui hanno trascinato Pier Paolo fuori dall’abitacolo. In un primo momento sono riuscito ad allontanarmi, fuggendo. Da dove mi trovavo sentivo Pier Paolo gridare e chiedere aiuto, ma nulla di più. Sotto al tappetino dell’automobile di Pier Paolo, c’erano 3 o 4 milioni di lire. Denaro che non venne ritrovato insieme alla vettura». In più, «l’esame del radiale dell’Alfa di Pasolini, che avrebbe dovuto investirlo e schiacciarlo quando era già a terra, uccidendolo, non è stato mai effettuato».Il pm Francesco Minisci gli domanda di chiarire alcuni aspetti relativi al possesso – all’epoca dei fatti – di una Fiat 850 Coupé. Automobile che, a detta di un testimone, sarebbe stata rubata e poi fatta circolare con targhe “buone”. E Pelosi risponde: «Dovrebbero andare a bussare alla porta della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, che denunciò il furto della macchina del regista, poi ritrovata a Fiumicino, e a quella di Ninetto Davoli che, a distanza di anni dai tragici eventi, fece distruggere l’Alfa Gt del regista». In effetti l’auto di Pasolini è stata demolita da Davoli nel 1987, come risulta anche alla motorizzazione di Roma. «Queste di Pelosi sono dichiarazioni importanti, che andrebbero quantomeno approfondite», annota Nicoletti. «Ma l’inchiesta, come abbiamo già visto, è stata archiviata». Intanto, nel settembre 2014, esce il tanto atteso film “Pasolini” di Abel Ferrara, pubblicizzato come “film verità” sull’ultimo giorno di vita e sull’omicidio, con promesse di rivelazioni clamorose. Il regista americano dichiara alla stampa di conoscere la verità sul delitto Pasolini e di rivelare il vero autore dell’omicidio, con tanto di nome e cognome. «Promesse assolutamente disattese: infatti nel film non solo non viene fatto il nome del vero assassino, ma viene messa in atto una vera e propria azione di depistaggio».Nelle scene finali viene ricostruita la notte dell’omicidio, continua Nicoletti: «Secondo Abel Ferrara, a uccidere Pasolini non è stato Pelosi – e fin qui va bene – ma un gruppo di sbandati che lo ammazzano perché è ricco e vogliono derubarlo, e perché è omosessuale. Per tutta la sua durata, il film fa credere di voler dare un’ipotesi alternativa sulla dinamica dell’omicidio e sugli esecutori, citando anche brani del romanzo “Petrolio”. Si arriva alla fine del film con tante attese e speranze… E in effetti l’ipotesi alternativa viene data, ma essa è ancora più depistante di quella ufficiale». Esiste invece un altro film, pronto già nel 2012 ma che non è mai riuscito a trovare una distribuzione. Si intitola “Pasolini, la verità nascosta” e il regista è Federico Bruno, che ha ricostruito l’ultimo anno di vita di Pasolini: la stesura del libro “Petrolio” e i capitoli mancanti sull’Eni e sul delitto Mattei, la preparazione del film “Salò” e il furto delle bobine (i negativi), le ultime interviste alla tv francese e a Furio Colombo. «Il film smentisce la tesi ufficiale, portando nuove inedite informazioni. E lo fa davvero, non come quello di Ferrara. Per questo motivo, il film di Federico Bruno è stato boicottato e non distribuito in Italia, rifiutato da tutti, anche dai parenti di Pasolini; mentre invece il film depistante di Abel Ferrara è stato finanziato dallo Stato, appoggiato dagli eredi di Pasolini, e persino presentato in concorso al 71° Festival del Cinema di Venezia».Negli ultimi mesi, continua Stefania Nicoletti, è stato annunciato un altro film, che uscirà a febbraio 2016: “La macchinazione” di David Grieco, amico e collaboratore di Pasolini, e anche autore della memoria civile al processo Pelosi. Il film racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. «In alcune interviste, Grieco afferma che Pasolini è stato ucciso dall’organizzazione che ha compiuto tutte le stragi italiane (che lo stesso Pasolini aveva denunciato nel suo celebre “Io so” e in altri articoli) e messo in atto la strategia della tensione, servendosi di uomini dei servizi segreti e di Gladio». Lo dichiara apertamente, Grieco, intervistato dal “Piccolo” di Trieste: «Pasolini è stato ammazzato da quelli che hanno fatto tutto quello che è stato fatto dal ’69 in poi in questo paese: le stragi, la strategia della tensione, gli omicidi politici, le bombe sui treni, la stazione di Bologna, piazza della Loggia, eccetera. L’organizzazione era molto vasta e quindi non parlo materialmente delle stesse persone. È un’organizzazione che nasce all’alba della Liberazione, quando gli americani arrivano in Italia, l’esercito tedesco è in rotta e loro già stanno pensando a come fronteggiare il nemico sovietico».«Si crea uno Stay Behind che in Italia si chiama Gladio, organizzazione clandestina ma fino a un certo punto perchè in America è pienamente nota ed è presente in tutti i rapporti della Cia al congresso americano», continua Grieco, che spiega che Gladio «serve a fare qualsiasi cosa purché il comunismo non si espanda e non prenda piede nella parte occidentale o meridionale d’Europa. Qualunque mezzo è lecito». Leggendo queste dichiarazioni, Stefania Nicoletti si domanda: «Come mai David Grieco, amico storico di Pasolini, parla pubblicamente solo adesso? Come mai non l’ha detto prima, anziché aspettare 40 anni? Forse è il segno che “qualcuno” ha deciso che certe verità devono emergere in questo momento storico». Oltre al film che sta realizzando, Grieco ha pubblicato anche un libro: “La macchinazione. Pasolini, la verità sulla morte”, uscito da poche settimane, edito da Rizzoli. Grieco fu tra i primi a raggiungere il luogo in cui fu trovato il corpo senza vita di Pasolini, insieme al medico legale Faustino Durante, anche se «risultava che sul luogo del delitto non fosse mai stato convocato un medico legale». Inoltre, Grieco è stato il compagno di Bruna Durante, figlia del medico legale.Se l’infinita odissea processuale – proprio come quelle delle stragi e dei casi di cronaca “irrisolti” – naufraga in un mare di ombre, sospetti, menzogne e depistaggi, Stefania Nicoletti si concentra sul profilo “simbolico” della vicenda, sempre trascurato. «A mio parere – scrive – nella scelta del luogo e nella modalità dell’omicidio, è stata applicata più volte la legge del contrappasso». L’Idroscalo è un aeroporto (per gli idrovolanti), e Pasolini «aveva scoperto la verità sull’omicidio di Enrico Mattei, morto in un incidente aereo». Un “contrappasso per analogia”? «Anche nella messa in scena del movente sessuale possiamo trovare un contrappasso: l’hanno ammazzato nei luoghi degradati e negli ambienti violenti che aveva sempre descritto nelle sue opere. Le borgate, i ragazzi di vita, l’omosessualità. Da un lato era un ottimo modo per avere una rapida risoluzione del caso e per poi continuare ad infangarne la memoria, dall’altro fu un omicidio per analogia: ti facciamo morire come uno dei tuoi personaggi. Stessi luoghi, stesse persone, stesse modalità».Ancora cinema: alla fine del 2013 è stata annunciata la pubblicazione di una sceneggiatura risalente al 1959 e rimasta finora inedita, “La Nebbiosa”, in cui Pasolini aveva descritto un omicidio uguale al suo. La trama: un gruppo di teppisti sequestra un omosessuale, lo conduce in uno spiazzo deserto e lo picchia a sangue fino alla morte. I giornali parlano di “visione profetica”, scrivendo che Pasolini “sapeva come sarebbe morto” e che “ha anticipato lo scenario” del suo omicidio. «In realtà, non è che sapeva come sarebbe morto, e nemmeno ha anticipato o profetizzato la sua morte», puntualizza Stefania Nicoletti. «Invece è il contrario: l’hanno ucciso come il personaggio di questa sua opera inedita ora pubblicata. E anche qui possiamo quindi trovare la legge del contrappasso». Secondo la Nicoletti, «è la stessa operazione che fecero con Rino Gaetano e la sua canzone “La ballata di Renzo”», in cui il cantante descrisse la morte di un giovane rifiutato da più ospedali e morto dissanguato nella notte, come in effetti poi accadde all’autore di “Nun te reggae più”. «Anche nel caso di Rino Gaetano si disse che aveva profetizzato la sua morte molti anni prima, quando invece fu il contrario: lo uccisero come in quella sua canzone».Sulla storia descritta ne “La Nebbiosa”, il quotidiano “Libero” scrive: «L’alba è vicina e i ragazzi caricano in macchina un omosessuale, lo portano in uno spiazzo isolato, lo spogliano e lo massacrano a sangue. Una scena che sconvolge perché ricorda molto da vicino proprio le modalità con cui Pasolini verrà ucciso nel 1975 al Lido di Ostia. Talmente da vicino che, se stessimo scrivendo un giallo e non un articolo, potremmo ipotizzare che chi ha ucciso Pasolini avesse letto il copione e avesse tutto l’interesse a farlo scomparire. Quasi che “La Nebbiosa” potesse contenere quei segreti sulla morte dello scrittore che nemmeno la magistratura è mai riuscita del tutto a chiarire». Preveggenza, appunto, o piuttosto esecuzione progettata sulla base del copione narrato dalla stessa vittima? Per questo Stefania Nicoletti si concentra su “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, l’ultimo film di Pasolini, uscito postumo due mesi dopo la sua morte. Il regista terminò il montaggio proprio il giorno prima di essere ucciso. Film legato a doppio filo all’omicidio: non solo perché si conclude con una strage, ma perché finì direttamente nelle indagini a causa di materiale cinematografico rubato e poi utilizzato per condizionare il regista, forse addirittura per tendergli l’agguato mortale.E’ noto infatti l’episodio delle bobine di “Salò” rubate alla Technicolor: unico caso nella storia del cinema di furto di “pizze” con richiesta di riscatto (due miliardi di lire). Pasolini si rifiutò di pagare: disse al produttore che avrebbe ricavato un negativo da un positivo e che avrebbe fatto a meno degli originali. Poco dopo, continua Stefania Nicoletti, un personaggio oscuro della malavita romana – si dice che fosse un esponente della Banda della Magliana – andò dal regista Sergio Citti e gli disse di essere in possesso delle pellicole e di poterle restituire anche gratis se avesse organizzato un incontro con Pasolini. Fu lo stesso Citti, amico e collaboratore del regista, a raccontare l’episodio nel 2005, dichiarando anche di non essere mai stato chiamato a testimoniare (secondo il regista Federico Bruno, invece, Citti sarebbe stato ascoltato dagli inquirenti). Pasolini dapprima rifiutò l’incontro per la restituzione delle “pizze”, non fidandosi dell’ambiente da cui proveniva la proposta. Ma in un secondo momento accettò, convinto da Pino Pelosi, che conosceva da qualche mese. «Pelosi fece quindi da esca – consapevole o meno – alla trappola tesa per portare Pasolini a Ostia e ucciderlo».Il film “Salò” è ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, ma Pasolini ne colloca l’ambientazione tra il 1944 e il 1945, nel Nord Italia occupato dai nazifascisti durante la Repubblica Sociale Italiana (da cui il titolo “Salò”). In una villa isolata, si riuniscono quattro rappresentanti del potere: il Duca, il Monsignore, l’Eccellenza (Giudice di Corte d’assise), e il Presidente (di una banca). I quattro Signori fanno rapire decine di ragazzi e ragazze, e nella villa infliggono loro ogni tipo di violenza e tortura psicologica, fisica e sessuale. Con il passare del tempo, i giovani perdono la dignità umana e si abbandonano al loro destino, consegnano il proprio corpo e la propria anima ai Signori. Giunti quasi al termine delle 120 giornate, in cerca di una violenza sempre più intensa, i Signori decidono di passare alla forma più estrema di “piacere”: quello assassino, uccidendo la maggior parte dei ragazzi. «È un film scioccante, crudele, terribile. Ma è più di un film… racconta la realtà. Una realtà che non si riferiva solo al periodo in cui è ambientato – afferma Stefania Nicoletti – ma che esisteva anche negli anni ’70 quando Pasolini ha scritto e girato il film, e che continua ad esistere anche oggi».Una realtà «fatta di abusi atroci, di torture sessuali, di delitti rituali commessi da coloro che detengono il potere, i cosiddetti “insospettabili”, professionisti e persone rispettabili, i vertici del Sistema». Ne parlò anche il blog di Franceschetti nel 2011, riportando «testimonianze di sopravvissuti a un sistema di abusi simili a quelli descritti da Pasolini». Nel film “Salò”, i quattro Signori «rappresentano i rami del potere: nobiliare, ecclesiastico, giudiziario, economico-bancario». Il vero potere. «Nel film i quattro potenti assoldano dei giovani repubblichini di leva e delle SS, e li incaricano di rapire i ragazzi e portarli alla villa. Le milizie nazifasciste rappresentano sia il potere militare (ma a livelli bassi: non sono generali o comunque ufficiali) sia quello politico, che è subordinato agli altri poteri: i quattro Signori si servono dei repubblichini per raggiungere i loro scopi». Il film è suddiviso in quattro parti, che richiamano nel titolo la geografia dantesca dell’Inferno: Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda e Girone del Sangue. Chi conosce il blog di Franceschetti sa quanto siano importanti Dante e la Divina Commedia per le società segrete, sia quelle originarie (iniziatico-libertarie) che quelle più recenti e deviate: «Pasolini, che conosceva bene il sistema in cui viviamo, in questo film ha descritto proprio le organizzazioni massoniche ed esoteriche “nere” che compiono abusi e delitti rituali; e forse, con il richiamo all’Inferno, ha voluto darci un’ulteriore indicazione sulla natura di ciò che ha raccontato».Un altro particolare che Pasolini ha preso dalla realtà, continua Stefania Nicoletti, è la modalità del rapimento: «I giovani vengono scelti in base a determinate caratteristiche, e vengono strappati dalle proprie famiglie; ma talvolta sono invece i loro stessi familiari che li vendono». Inoltre prendono parte alle sevizie anche le figlie dei quattro super-potenti, trattate come schiave. Significativo anche il fatto che, secondo il regolamento della villa, “i più piccoli atti religiosi, da parte di qualunque soggetto, verranno puniti con la morte”. Nel film come nella realtà, infatti, «all’interno di queste organizzazioni occulte viene osteggiato qualunque tipo di religiosità o di spiritualità autentica, per lasciare spazio invece a quella deviata», scrive la Nicoletti. «Chi “tradisce” il regolamento viene ucciso, come la ragazza a cui nel film viene tagliata la gola davanti a un altare religioso, e il corpo viene mostrato a tutto il gruppo come monito». Molto eloquente il discorso che il Duca pronuncia quando “accoglie” le giovani vittime nella sua villa: «Deboli creature incatenate, destinate al nostro piacere, spero non vi siate illuse di trovare qui la ridicola libertà concessa dal mondo esterno. Siete fuori dai confini di ogni legalità. Nessuno sulla terra sa che voi siete qui. Per tutto quanto riguarda il mondo, voi siete già morti».Una logica che «esprime perfettamente quello che succede davvero all’interno delle organizzazioni di potenti che commettono abusi e delitti come quelli narrati». Nella sua ultima intervista televisiva, concessa a una tv francese il 31 ottobre 1975 (due giorni prima della morte), in occasione dell’uscita del film, Pasolini affermò: «Il cannibalismo? In certi ambienti è un fatto politico reale, in certi ambienti è un fatto politico metaforico». Insomma, a una lettura attenta e profonda, secondo Stefania Nicoletti «si può capire come Pasolini abbia usato l’espediente dell’ambientazione durante l’occupazione nazifascista per raccontare una realtà molto più grande e attuale». “Salò” illuminerebbe un vero e proprio inferno, retroterra di troppe sparizioni “inspiegabili”, delitti eccellenti, fatti di sangue che restano senza colpevoli. E sparizioni di centinaia di minori, in Italia e nel mondo, ogni anno. «Una realtà fatta di violenze e di abusi rituali, di delitti e di sacrifici umani. Una realtà che coinvolge i vertici del potere, ma che viene sistematicamente occultata. Qualcosa di molto pericoloso, che Pasolini non avrebbe dovuto raccontare e che ha pagato con la vita».Tu chiamalo, se vuoi, movente esoterico. Nasce dalla chiave di lettura “simbolica” dell’evento, quella che fa caso a dettagli in apparenza insignificanti, senza valore per la verità giudiziaria. In base a questa analisi, Pasolini sarebbe stato assassinato con le modalità del sacrificio rituale, in base alla “pena del contrappasso” enunciata da Dante Alighieri, per due ragioni sostanziali. La prima: aveva denunciato la subdola ferocia del potere mettendo alla berlina, col romanzo “Petrolio”, i mandanti dell’omicidio Mattei. E soprattutto, attraverso le atroci sequenze del suo ultimo film, “Salò”, ispirato al romanzo del marchese De Sade “Le 120 giornate di Sodoma”, aveva osato mettere in scena l’abominio di perversioni sessuali violente, fino alla morte delle giovani vittime, perpetrato da una super-casta annidata tra i massimi vertici. Non un incubo o una fantasia terribile, ma l’agghiacciante rappresentazione di una realtà indicibile, sostiene Stefania Nicoletti. Per questo Pasolini è stato ucciso, e in quel modo: con “Salò”, film strettamente collegato all’omicidio (le pellicole rubate), aveva denunciato una pratica selvaggia, di spaventosa brutalità, tragicamente ordinaria in alcuni ambienti insospettabili.
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Volevano suicidare la Russia, odiano Putin che l’ha salvata
Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.Milioni di ragazze scoprivano che i loro corpi avevano un mercato, per le strade di Mosca invase dai turisti o nelle città d’Europa finalmente accessibili per una schiavitù diversa dalla solita, e più brutale. Gli orfanotrofi traboccavano di creature malnutrite rifiutate da famiglie scomparse e abbandonate da uno Stato in bancarotta. La droga, il collasso dei servizi pubblici e l’anomia sociale mietevano un numero incalcolabile di giovani vittime ai quattro angoli di un impero arrugginito, venduto pezzo per pezzo come metallo di scarto sui mercati mondiali della corruzione e del malaffare. Mosca e San Pietroburgo, di notte, facevano paura. Crimine fuori controllo, omicidi spiccioli ed esecuzioni mafiose in grande stile terrorizzavano città senza più legge, dove la polizia sopravviveva grazie alle mazzette e all’estorsione e i malviventi regnavano come mai i Corleone e i Riina avrebbero potuto sognare nella loro terra. La Russia di Yeltsin non era più orso. Era semmai un elefante mutilato e sanguinante, cui bracconieri indigeni e stranieri somministravano stupefacenti per tenerlo in vita, mentre gli rubavano avorio, organi, e anima.E poi c’era l’esercito. L’istituzione che aveva, sin dalla rivoluzione d’ottobre, rappresentato la gloria e la potenza, il vanto e l’orgoglio, il blasone e il sigillo della leadership mondiale della Russia dei Soviet. Non più Armata Rossa ma Russa, l’esercito era allora sotto la guida di Grachev. Una figura dimenticata ma preziosa, per capire la storia. Non la storia dei summit e delle dichiarazioni diplomatiche, no. La storia di uomini e donne, di carne e di sangue, di vita e di morte. La storia dei russi, contro la storia dei think tank e delle accademie e dei fondi monetari. Era il dicembre 1994 e Grachev aveva dichiarato con boria mediatica che l’esercito russo avrebbe potuto conquistare Grozny in 24 ore con un solo reggimento di paracadutisti. Perché oltre che dissanguata, derelitta e derubata, la Russia di Yeltsin era anche a un passo dalla disintegrazione. Regioni ribelli guidate da delinquenti e corrotti premevano per la secessione da un potere centrale che non aveva più potere, né centralità. E se il corpo rischiava la metastasi, il cancro da cui questo minacciava di diffondersi era la Cecenia.Dicono i pettegolezzi, che sono un po’ anche cronaca, che Grachev avesse dato l’ordine di invadere Grozny di notte, ubriaco. E così la mattina di capodanno del 1995 la capitale caucasica fu svegliata dalle bombe e dai carri armati. Era la prima volta che l’Armata Russa combatteva. E fu un disastro che nemmeno gli analisti più cinici avrebbero previsto. Lungi dall’impiegare un solo battaglione di paracadutisti, Grachev riversò su Grozny tutto quello che aveva. Tank, artiglieria, aviazione. E lungi dall’ottenere la rapida vittoria che aveva promesso, si risvegliò dalla supposta sbronza con le notizie di una catastrofe nazionale. L’Armata Rossa non solo aveva cambiato nome. Non esisteva neanche più. C’era, al suo posto, l’esercito di Yeltsin. Della nuova Russia occidentale, prediletta discepola degli amici d’America. Un’armata brancaleone di ragazzini adolescenti strappati alle famiglie e scaraventati al fronte. Mezzi antiquati e colonne sbandate. Strategie militari da prima guerra mondiale. Se un simbolo della rovina materiale, morale e umana in cui la transizione benedetta dall’America aveva gettato la Russia esiste, questo e’ senz’altro la campagna cecena di Pavel Grachev. D’altronde, l’Armata Russa era la stessa di cui filtravano notizie di soldati ridotti alla fame nelle basi dell’estremo Oriente, o venduti a San Pietroburgo come prostituti a ora per clienti facoltosi, o massacrati nei riti d’iniziazione sfuggiti a qualunque regola e disciplina, o suicidi in massa per sfuggire a violenze e soprusi impuniti.E così in Cecenia, dopo un bilancio di migliaia di soldati uccisi e fatti prigionieri, di una città rasa al suolo e di civili sterminati, il cancro non era stato nemmeno estirpato. E un anno dopo, i ribelli l’avrebbero riconquistata. Grachev perse la faccia. E la Russia con lui. Mentre le madri dei piccoli soldati usati come carne da cannone iniziarono le loro coraggiose manifestazioni pubbliche davanti ai lugubri ministeri moscoviti, che tanto le facevano assomigliare alle danze solitarie delle madri dei desaparecidos sudamericani. E sarebbe stata una ricerca disperata, straziante e inutile, perché dei figli soldati della Russia non v’erano notizie, né sepoltura, né nomi. Scomparsi nel nulla, saltati in aria nei carri sgangherati di Grachev, torturati nelle prigioni improvvisate dei mujaheddin ceceni. Inghiottiti dal drago di un paese allo sfacelo. Che però, allora, era il darling della Casa Bianca. Per questo, oggi, non capiamo Putin. Perché ci rifiutiamo di vedere la storia degli uomini e ci soffermiamo invece sui paper delle accademie. Quelli che ci dicono che Putin è un fascista che sta distruggendo la Russia. Quelli che ci parlano di un paese prigioniero di una nuova tirannia. Quelli che dipingono la Crimea come una nuova Cecoslovacchia e l’Ucraina come la Polonia di Hitler. Quelli che sono, oggi, la copia speculare di ciò che condannano: propaganda.Perché la Russia non è più stracciona, e Putin lentamente l’ha cambiata. Ha ricostruito lo Stato. Non è un modello di democrazia di Westminster, no di certo. Ma esiste, e fa qualcosa. Ha recuperato, legalmente e illegalmente, parte di quell’eredità che l’oligarchia mafiosa aveva comprato alla fiera dell’est, per due soldi. Ha curato i focolai tumorali che minacciavano la sopravvivenza della Federazione. Ha riparato i carri armati, e li ha svuotati degli adolescenti di leva, riempiendoli di soldati professionisti. Ha licenziato la leadership alcolista, e investito in ricerca e sviluppo. Ha riaperto le fabbriche del complesso militare industriale che non è certo la chiave del futuro, ma che è tutto ciò che la Russia aveva e da cui poteva ripartire. E quando il paese ha smesso di presentarsi ai summit internazionali scalzo e rattoppato per supplicare l’America e le sue istituzioni finanziarie di elargire un altro prestito ipotecando in cambio l’interesse nazionale, la Russia di Putin ne ha ripreso in mano il dossier. E ne ha rilette, una dopo l’altra, le pagine dimenticate.La sorpresa della Crimea, per questo motivo, è tale solo per gli ipocriti, gli smemorati, e gli ingenui. La Crimea fu uno degli scogli più insidiosi su cui la transizione post sovietica rischio’ di naufragare, già negli anni ‘90, quando per poco non scatenò una guerra. In Crimea c’erano Sebastopoli e la flotta del Mar Nero. L’intera geopolitica zarista e poi sovietica aveva da sempre cercato lo sbocco verso il Mediterraneo, lo sanno anche i bambini delle medie. Non è certo un’invenzione di Putin. La Crimea è stata sempre la colonna portante dell’interesse nazionale russo. Non è Putin che ha stravolto la storia rivendicandola e riconquistandola. Era stata la debolezza e la disperazione degli anni di Yeltsin a far accettare obtorto collo a Mosca la rinuncia a una penisola che è insieme strategia e letteratura e icona e identità. La perdita della Crimea fu per i russi una dolorosa circostanza storica, mai una scelta coraggiosa.L’aspro confronto tra Obama e Putin è tutto qui. L’elefante tramortito è ritornato orso. E rifiuta le sbarre della gabbia che la Nato nell’ultimo decennio gli ha costruito addosso, a dispetto delle dichiarazioni di amicizia e di rispetto. Il livore di Obama ha così dipinto la Crimea come la prova della cattiveria di Putin, e l’Europa sbadata gli ha creduto. E ora che la Russia interviene su uno scacchiere mediorientale da cui mancava da vent’anni, la Casa Bianca si agita scomposta. Ma vent’anni di egemonia statunitense in Medio Oriente e Nord Africa cosa hanno prodotto? La farsa dell’Iraq e la sua tragedia umana. Lo Stato Islamico e il suo regno di barbarie. Il collasso della Siria e i milioni di profughi e la sua guerra senza sbocco. La fine della Libia. Ed è solo l’inizio di un terremoto che l’America stessa ha scatenato, ma che le è ormai sfuggito di mano. Persino i paesi della regione lo sanno. E oggi iniziano a guardare a Putin più che a Obama, cui rimane la retorica da guerra fredda, l’uso spregiudicato delle sanzioni con la scusa dei diritti umani, e la scelta sconsiderata di perdere la Russia.Putin è un personaggio complesso, ma non è il diavolo. Ha il merito di avere mantenuto la Russia nella storia, in un momento in cui era tutt’altro che scontato. Il giovane ignoto che si insediò sullo scranno degli Zar quando Yeltsin barcollò via con un ultimo brindisi, non verrà giudicato dalla storia per i pettegolezzi su come abbia passato il compleanno e sul costo dell’orologio che porta al polso, temi oggi prediletti da riviste un tempo autorevoli come “Foreign Policy”. Il verdetto è già scritto. E’ nelle immagini che lo mostrano assieme al ministro della difesa Shoigu nelle stanze dei bottoni del suo esercito, da cui la campagna siriana viene coordinata. Sono passati solo due decenni, ma sembrano anni luce dalle gaffe di Yeltsin, e dalla disfatta cecena di Grachev. Se Obama non gradisce, non è per i diritti umani dei russi. Washington ha approfittato della penosa transizione russa per arraffare quanto più spazio geopolitico ha potuto, in Europa, in Medio Oriente, nel Pacifico. E adesso che al Cremlino non siede più un ubriacone cardiopatico, e l’esercito non è più il soldatino di latta di Grachev, l’America, di colpo, ha deposto le lusinghe. E ha perso il sorriso. E minaccia di trascinarci, tutti, in uno scontro frontale con la Russia. Per i suoi interessi, e contro i nostri. Che sono quelli di un’Europa che non si fermi di colpo alla frontiera bielorussa.(Mario Rimini, “Perché l’Occidente non capisce più la Russia. Una lettura critica”, da “Il Foglio” del 9 ottobre 2015).Quando la Russia era amica degli Stati Uniti, Pavel Grachev era ministro della difesa, dal 1992 al 1996. Erano gli anni della transizione post sovietica. Il presidente Yeltsin e i suoi giovani riformatori traghettavano un paese lacero e miserabile verso un futuro di libertà stracciona, di occidentalismo predatorio, di privatizzazione da Far West. Una Russia società aperta, che danzava ubriaca sulla fune sopra il baratro. E senza rete di salvataggio. Era, quella, la Russia degli americani. In nessun periodo storico fu Mosca più vezzeggiata, lusingata e accarezzata dall’affabile alleato transatlantico. Nel momento in cui rinunciò a qualunque politica estera, a qualunque sfera di influenza, all’interesse nazionale e alla geopolitica, i sorrisi della politica americana si sprecarono per anni, promettendo ai russi integrazione, sviluppo, benessere. E consegnando invece, tutt’al più, una copia vintage e involgarita delle luci di New York sulle cupole zariste e i condomini khruscioviani lungo la Moscova. Pochi russi ammassavano fortune d’altri tempi sulle ceneri di una superpotenza in saldo. Una generazione di giovani vedeva scomparire l’istruzione, la sanità, la sicurezza di uno stipendio povero ma in grado di assicurare la spesa quotidiana e un tetto.
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Quando eravamo ricchi, con la lira e l’inflazione a mille
«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».«Più lo Stato spende, più la popolazione si arricchisce», riassume Bellisario. Questo può provocare il “rischio” inflazione, cioè troppi soldi, a fronte di pochi prodotti? L’inflazione può essere facilmente contenuta, in tre modi: lo Stato spende di meno nel comparto pubblico, oppure spende di più per aumentare la produttività nel settore privato (l’inflazione non è mai un problema finché la produzione non si riduce in maniera troppo corposa), o ancora, lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso. «L’inflazione in realtà è un falso problema», insiste Bellisario. Idem il debito pubblico, agitato come spauracchio: come se lo Stato fosse una normale famiglia, nei guai con la banca (il che, nell’Eurozona, è esattamente la realtà: il governo può solo finanziarsi tassando a morte i cittadini e prendendo a prestito gli euro, a caro prezzo, mettendo all’asta i titoli di Stato). Come se ne esce? In un solo modo: recuperando la sovranità monetaria, come sottolinea l’economista Nino Galloni, altro esponente del Movimento Roosevelt.Sulla mistificazione che vela la vera natura del debito pubblico, Bellisario lancia una provocazione: chiamiamolo “ricchezza nazionale”, così almeno la gente capisce di cosa di tratta veramente. «Invito tutti voi alla massima attenzione su questa precisa e personale proposta di modifica del termine “debito pubblico” in “ricchezza pubblica” o, molto più semplicemente, in “ricchezza dei cittadini”», scrive Bellisario sul blog del movimento. «Detto questo, immaginate che da domani tutti i vari Tg, le varie rubriche di approfondimento, giornali, Internet e quant’altro annunciassero che la “ricchezza dei cittadini” (quindi non più il “debito pubblico”, parola che spaventa la gente) è aumentata nell’ultimo anno di 100 miliardi di euro. Ecco, provate ad immaginare questo». Sarebbe una rivoluzione, ovviamente. Ma non partirà mai, almeno fino a quando l’oligarchia finanziaria centralizzata a Bruxelles continuerà a colonizzare partiti e fabbricare leader obbedienti.Sotto il regime dell’euro, è praticamente impossibile raggiungere la piena occupazione, che in teoria sarebbe la ragione sociale dello Stato democratico. Serve un “futuro Nuovo Stato”, come lo chiama Bellisario: uno Stato «sovrano, con moneta sovrana e banca al 100% pubblica e direttamente sotto il controllo politico». Primo passo: «Inserire in Costituzione il principio della “piena occupazione”. E abrogare, nell’immediato, il “pareggio di bilancio”», che non è solo un obbrobrio, ma anche un delitto: «Se c’è crisi, se c’è disoccupazione – dice Galloni – puntare al pareggio di bilancio è un crimine». Uno Stato sovrano, dotato cioè di pieno potere di spesa, non avrebbe alcun problema ad «assumere immediatamente (senza se e senza ma) tutte le persone che attualmente collaborano precariamente per conto dello Stato in ogni settore della pubblica amministrazione». E inoltre «istituirebbe bandi di concorso in ogni settore per il numero che ritiene giusto, per far sì che ogni comparto possa operare a pieno organico e nella maniera più efficiente e rapida possibile». Nulla di tutto ciò è all’orizzonte, naturalmente. «Stiamo morendo di fisco», disse a Torino già nel 2012 il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Gli imprenditori sono disposti a rinunciare a tutti gli incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale a carico di imprese e famiglie».L’eventuale futuro “Nuovo Stato” italiano, auspicato dal Movimento Roosevelt, baserebbe le sue entrate fiscali su due sole aliquote, il 20% per i redditi fino ai 100.000 euro e il 23% per i redditi superiori. Altre eventuali tasse solo per «tutti coloro che investono nei beni di lusso, che creano principalmente benessere personale e non collettivo». Motivo: «Tassandola, si incoraggia la persona benestante a spendere e investire di più nei cosiddetti beni quotidiani, in modo da far girare meglio l’economia reale. Questo inciderebbe positivamente sulla costruzione di nuovi posti di lavoro». A questo punto, aggiunge Bellisario, è giusto ricordare cosa rappresentano le tasse in un paese libero, cioè sovrano, «concetto spiegato in maniera impeccabile dalla Mosler Economic, o Modern Money Theory, portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard grazie al suo lavoro, che ho sempre senza mezzi termini definito “ai limiti dell’umano”».Se uno Stato è libero di emettere moneta in quantità teoricamente illimitata per il benessere della comunità nazionale, non rinuncia in ogni caso al prelievo fiscale. Perché le tasse, all’interno di un “contesto sovrano”, vengono utilizzate per quattro precisi scopi. Primo: tenere a freno la ricchezza dei privati e quindi il loro strapotere. Secondo: evitare l’eccesso di inflazione. Terzo: scoraggiare o incoraggiare comportamenti (si tassa l’alcool, il fumo o l’inquinamento, mentre ad esempio si detassano le beneficenze, le ristrutturazioni). Quarto: imporre ai cittadini l’uso della moneta sovrana dello Stato dove si vive. Tutrto questo, ovviamente, in un paese libero. Non nell’Eurozona, dove lo Stato è ridotto a super-tassare per sovravvivere. Scavandosi la fossa, come diceva – in tempi non sospetti – un certo Winston Churchill: «Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico».«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».
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Record, giovani senza lavoro: accetteranno salari da schiavi
Mai così alto il tasso di disoccupazione giovanile: nell’ultima rilevazione Istat di giugno è al 44,2%, in aumento dell’1,9% rispetto al mese precedente. E’ il livello più alto dal primo anno di stima, il 1977, e la rilevazione esclude i giovani “inattivi”, che non cercano lavoro. «L’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo governo», scrive Guglielmo Forges Davanzati. «La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti». Inoltre, la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. Scaduto il periodo di decontribuzione, molti contratti verranno ri-trasformati a tempo determinato.L’aumento della disoccupazione giovanile, scrive Davanzati su “Keynes Blog”, è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010 la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di “labour hoarding”, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare. La relativa tenuta dell’occupazione di lavoratori adulti? Dipende anche «da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare». In più, l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità.«Le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle», scrive Davanzati. «Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori, che sono alla base dell’azione sindacale». Così, ha buon gioco il governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: «La proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia». Un recente studio del Fmi mostra che la riduzione della “union density” nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai paesi industrializzati negli ultimi decenni. «La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza: riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile».Le imprese italiane, nella gran parte dei casi sono poco propense a innovare, continua Davanzati, anche perché, essendo di piccole dimensioni, non possono sfruttare economie di scala e in più sono fortemente dipendenti dal settore bancario: in una fase come questa, di restrizione del credito, gli investimenti si riducono, abbattendo il tasso di crescita. Poi c’è l’invecchiamento della popolazione, che frena la crescita della produttività. «In generale, economie nelle quali il bacino degli occupati è formato prevalentemente da individui giovani sono economie con elevato tasso di crescita: ciò a ragione dell’obsolescenza intellettuale che riguarda lavoratori con età più elevata, della maggiore propensione al consumo dei giovani (e dunque della più alta domanda interna), della maggiore “creatività” (e dunque, della maggiore propensione a innovare)». Gli annunciati tagli alla sanità? «Non potranno che esercitare ulteriori effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, dal momento che incideranno negativamente sul potenziale produttivo della forza-lavoro».Quindi i salari: quelli percepiti dai lavoratori italiani sono al di sotto della media europea, nonostante il numero di ore lavorate superiore alla media Ue. «Laddove i salari sono maggiori, è maggiore la produttività del lavoro». L’aumento dei salari, combinato con minore flessibilità in uscita, «incentiva le imprese a introdurre innovazioni per non perdere quote di mercato». E l’aumento dei salari «incentiva l’aumento degli investimenti netti, con un duplice effetto di segno positivo, dal lato della domanda (essendo gli investimenti una componente della domanda) e dal lato dell’offerta, dal momento che l’ammodernamento degli impianti è una fondamentale pre-condizione per l’aumento della produttività del lavoro». La precarizzazione del lavoro è un freno alla crescita della produttività, sia perché incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (e dunque non innovando), sia perché, «accrescendo la concorrenza fra lavoratori, rende necessario un maggior impegno del management in attività di controllo e sorveglianza, per loro natura improduttive, disincentivando l’impegno per la produzione di innovazioni».I governi che si sono succeduti negli ultimi anni, continua Davanzati, hanno provato a contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile con misure inadeguate, come l’alternanza scuola-lavoro, che «risponde all’esigenza di dequalificare la forza-lavoro, assecondando la domanda di lavoro poco qualificato espressa dalla gran parte delle nostre imprese», specie nei settori “maturi”, agroalimentare e “made in Italy”. Poi, le incentivazioni offerte alle imprese che assumono giovani: «Non è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione giovanile», annota Davanzati, dal momento che «le imprese assumono se le loro aspettative in ordine alla realizzazione di profitti sono ottimistiche», ovvero «quando ci si aspetta un aumento della domanda», e non certo in piena crisi. Altra leva, la promozione dell’auto-imprenditorialità: «In questo caso, è possibile riscontrare un duplice problema: la difficoltà di accesso a finanziamenti per l’avvio dell’impresa (pure a fronte di incentivi pubblici nella fase iniziale) e verosimilmente i bassi profitti che una nuova impresa può aspettarsi di ottenere in una fase di intensa e prolungata recessione».Per l’analista, si tratta di provvedimenti «la cui ratio risiede, in ultima analisi, nel dequalificare la forza-lavoro e renderla disponibile a bassi salari». Affinché ciò si renda pienamente possibile, «è necessario ridurre ulteriormente il potere contrattuale del sindacato». La riduzione del potere contrattuale del sindacato si è tradotta, nei paesi Ocse, in un significativo aumento dei redditi percepiti dal 10% delle famiglie con più alto reddito. «L’Italia è ovviamente all’interno di questa dinamica, ma con una propria specificità, ovvero il fatto che, rispetto alla media europea, il numero di iscritti al sindacato è ancora relativamente elevato. Letto in questa chiave, il fondamentale compito del governo Renzi consiste nell’impedire qualunque forma di conflittualità sociale e di resistenza organizzata, incentivando i giovani disoccupati all’autoimprenditorialità», escludendo il sindacato. Tutto questo serve a redistribuire del reddito a vantaggio dei più ricchi, percettori di rendite finanziarie e di redditi da capitale (fenomeno già intensamente in atto in altri paesi). «Un processo di redistribuzione della ricchezza che sembra prioritario rispetto all’obiettivo della crescita e che si rende possibile per l’accresciuto potere politico delle nuove classi agiate».Mai così alto il tasso di disoccupazione giovanile: nell’ultima rilevazione Istat di giugno è al 44,2%, in aumento dell’1,9% rispetto al mese precedente. E’ il livello più alto dal primo anno di stima, il 1977, e la rilevazione esclude i giovani “inattivi”, che non cercano lavoro. «L’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo governo», scrive Guglielmo Forges Davanzati. «La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti». Inoltre, la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. Scaduto il periodo di decontribuzione, molti contratti verranno ri-trasformati a tempo determinato.
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Gender: facile da controllare, l’uomo senza identità sessuale
Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».Nel concreto, da un lato le multinazionali finanziano le campagne elettorali chiedendo in cambio di promuovere quelle politiche, e dall’altro c’è l’industria culturale: «Sempre più spesso, film e serie tv fanno passare l’idea di una sessualità fluida». Nel libro, la Perucchietti cita un serial di Mtv, “Faking it”, dove le protagoniste e i loro amici cambiano più volte orientamento sessuale nel corso della stagione. «C’è anche la musica: basta pensare a Miley Cyrus o Lady Gaga, che pur non essendo gay si fanno portavoce delle cause omosessuali, strumentalizzando il messaggio come strategia di marketing costruita a tavolino». Questo progetto avrebbe un duplice scopo: «I padri dell’ideologia gender sognavano una “democrazia sessuale” globale dove tutti gli orientamenti fossero leciti e legali, compresa la pedofilia. La seconda finalità è il controllo sociale: individui sempre più spersonalizzati e disorientati, senza un’identità definita, sono più facili da manipolare».Dietro l’intenzione di distruggere la famiglia tradizionale sostituendola con altri modelli c’è anche una questione economica: «Nel momento in cui vengono sdoganate le famiglie omogenitoriali, che per forza di cose non possono avere figli, si favorisce il business delle maternità surrogate e degli uteri in affitto». Tuttavia, spiega la Perucchietti, la questione non riguarda l’omosessualità in sé. «Nel libro contestiamo il fatto che si sta spingendo verso un’idea di sessualità culturale: non si nasce maschio o femmina per natura, ma lo si diventa per cultura. Un’idea contestata anche da Vladimir Luxuria durante una diretta radiofonica a cui ho partecipato. Eppure è questo ciò che insegnavano i fondatori dell’ideologia di genere. Il rischio è di sfociare nel trans-umanesimo, nel post-umano, e quello che preoccupa è che tale manipolazione avviene in maniera sempre più capillare e perfino violenta».Per contro, osserva Allione, si potrebbe controbattere che la difesa dei “valori tradizionali” è a sua volta propaganda dei poteri forti più conservatori, ad esempio la Chiesa. «Qualsiasi tesi portata avanti con il vessillo di un dogma rischia di diventare fanatismo o di essere strumentalizzata», taglia corto l’autrice. «Le difese a oltranza sono sbagliate, si finisce sempre in fazioni pro o contro, ma così non si dialoga. Non si può combattere un’ideologia con un’altra ideologia. Noi abbiamo cercato di curare un’inchiesta giornalistica storico-sociologica nel modo più obbiettivo possibile». Venendo all’attualità e al polverone alzato dal disegno di legge Fedeli sull’educazione di genere a scuola, «si è fatta molta disinformazione, però il ministro Giannini che dichiara che l’ideologia di genere è una bufala minacciando le vie legali, ricorda molto la “psico-polizia” di Orwell». Per quanto riguarda invece i libri per l’infanzia censurati a Venezia, per la giornalista torinese «l’idea dell’insegnamento gender all’asilo o alle elementari è assolutamente folle».A scuola, aggiunge la Perucchietti, non bisognerebbe parlare di certe tematiche a bambini così piccoli: «Non conosco tutti i libri, ma ne ho letti alcuni, come quello sulla maternità surrogata (“Perché hai due mamme?”, edito da “Lo Stampatello”), che mi è sembrato pazzesco. Perché bisogna spiegare queste cose a un bambino di quattro anni? Non si capisce, a me pare una strumentalizzazione per sdoganare la fecondazione eterologa». Per contrastare questa “mutazione antropologica” messa in atto dall’ideologia gender, l’unica strada passa dall’informazione. «Sia chi è contro il gender, sia i sostenitori, si sono formati un’idea sulla base di chiacchiere, per sentito dire. Molte delle critiche al nostro libro sono state fatte prima della sua pubblicazione. Come si fa a stroncare un libro non ancora uscito, sulla base della copertina? Ci vuole senso critico, dopodiché uno si forma un’idea, ma non sulla base di posizioni acritiche e fanatiche».(Il libro: Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta, “Unisex – Cancellare l’identità sessuale, la nuova arma della manipolazione globale”, Arianna Editrice, 224 pagine, euro 11,80).Verso il cosiddetto “nuovo ordine mondiale”, le élites starebbero tentando di “rielaborare” l’umanità a proprio piacimento, anche grazie la creazione dell’“uomo senza identità” che sarebbe fabbricato dall’ideologia gender, le cui strategie (e obiettivi) vengono messi a fuoco dal libro “Unisex” di Enrica Perucchietti, scritto a quattro mani con Gianluca Marletta. «Un libro che ancor prima di essere pubblicato ha scatenato forti polemiche da parte dei movimenti femministi e Lgbt, secondo i quali la cosiddetta “teoria gender” nemmeno esiste», scrive Riccardo Allione su “Vvox”. L’autrice però non ci sta: «L’ideologia di genere esiste e ha la sua storia: l’espressione è stata coniata da John Money, padre degli studi di genere insieme ad Alfred Kinsey. Dopo gli anni ’80 si arenò in seguito ai fallimenti degli esperimenti di Money e oggi è stata riesumata. È vero che esistono gli studi di genere, ma d’altra parte c’è il tentativo politico-mediatico di recuperare velleità dei padri del gender». Niente complottismi, dice la Perucchietti. Ma è evidente il «processo di globalizzazione spinto dalle lobby mondialiste che mira a spersonalizzare l’individuo, e questo processo si sta focalizzando sulla questione dell’identità sessuale, per rendere le nuove generazioni più facilmente manipolabili e omologate».
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Franceschetti: perché il potere ha paura della spiritualità
Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.Avvocato e docente universitario, Franceschetti ha di recente abbandonato l’avvocatura per sfiducia nella giustizia: clamorosa la sua denuncia dei misfatti del potere occulto, contenuta nel suo seguitissimo blog e in libri come “Sistema massonico e Ordine della Rosa Rossa” (Uno Editori). La tesi: al vertice del potere si nasconde un clan oscuro, di formazione esoterica, dedito anche ad omicidi rituali come quelli del “Mostro di Firenze”, fino ai casi di cronaca più recenti, da Cogne a Yara Gambirasio, di cui i media omettono regolarmente i dettagli fondamentali che illuminerebbero il vero movente, quello dei sacrifici umani. Tutto cominciò quando Franceschetti venne chiamato, in carcere, da due giovani condannati all’ergastolo per il caso delle “Bestie di Satana”: «Avvocato, non pretendiamo di uscire di qui», gli dissero. «Vorremmo solo sapere perché siamo detenuti a vita, dal momento che non abbiamo mai ucciso nessuno». Dice Franceschetti: «Ho scoperto che le indagini erano state molto superficiali, e le condanne scaturite solo dall’ambigua confessione di uno dei presunti complici, in un contesto di fatti che non potevano reggere a una ricostruzione accurata».Frugando nelle cronache italiane, il legale ha intravisto un abisso: depistaggi, falsificazioni sistematiche, omissioni, capri espiatori, manovre coperte dal silenzio o dal chiasso mediatico. Domanda inevitabile: «Chi e perché agisce così? Cosa c’è nella mente di chi compie omicidi rituali, puntualmente spacciati per delitti ordinari, ancorché inspiegabili perché privi di un movente credibile?». I suoi molti lettori conoscono il coraggio e la generosità di Franceschetti, onnipresente sul web e in decine di conferenze lungo la penisola. Dopo la tragica perdita della compagna, si è impegnato persino sul difficile fronte della medicina democratica, con un blog – il primo in Italia – che presenta l’offerta esistente di cure alternative, tutte rivelatesi valide, per guarire dai tumori (il suo “testimonial” è stato un medico di Brescia, malato terminale, salvato in extremis dallo stesso Franceschetti che l’ha convinto a sottoporsi al Protocollo D’Abramo, basato sull’assunzione di vitamine e semplici biofarmaci naturali).Franceschetti pratica il buddhismo da molti anni, frequenta corsi di meditazione Yoga, è in intimità con religiosi cattolici. «La mia esperienza di avvocato poteva stroncarmi, sono stato minacciato, ho vissuto grandi pericoli. Ho rischiato la morte, e ho capito che – una volta rimossa quella paura – si diventa molto più forti». Proprio interrogandosi sul mistero dell’orrore quotidiano delle cronache, indagato con straordinaria tenacia per molti anni, Franceschetti è pervenuto a una conclusione spiazzante: «Chi uccide innocenti, in apparenza senza motivo, in realtà un suo movente ce l’ha: però è occulto e inconfessabile, di matrice esoterica. E il passo successivo è scoprire che quasi tutti i potenti della terra praticano la magia, la stessa magia che – in pubblico – sono sempre pronti a deridere. La loro è una spiritualità deviata, ma sono ben consci del potere della spiritualità vera: quella che ci nascondono con ogni mezzo, facendola sparire dai giornali, dalla televisione, persino dai telefilm: gli eroi della fiction lottano tra loro, scherzano, fanno sesso, ma nessuno mai che preghi, che esprima convinzioni religiose o almeno politiche. Non è un caso: gli egemoni vogliono che non ce ne occupiamo, dobbiamo restare completamente soli di fronte a Equitalia, al lavoro perduto, alle bollette che non sappiano come pagare. Il loro piano è semplice: ci vogliono sottomessi e prigionieri delle nostre paure, privi di soluzioni per raggiungere indipendenza, libertà, serenità e felicità».Una risposta illuminante, Franceschetti l’ha trovata nell’ispirazione originaria delle principali religioni del pianeta: ad esse è dedicato il suo ultimo libro, “Le Religioni”, che passa in rassegna le maggiori espressioni del pensiero religioso mondiale. Dal politeismo solo apparente dell’Induismo, dove la folla allegorica di divinità è in realtà sottoposta all’immanenza suprema del Brahman, fino alla più rarefatta manifestazione del perfetto monoteismo, l’Islam di Maometto, che – come anche l’Ebraismo – non ammette venerazioni intermedie come quelle dei santi cattolici, e dimostra un’insospettabile apertura universalistica: se Allah avesse voluto una sola religione, recita il Corano, solo quella ci sarebbe sulla Terra. Attraverso un approccio metodico, ricco di fonti e citazioni anche intensamente poetiche, come quelle dei grandi mistici di ogni provenienza, l’autore presenta in modo sistematico ciascun impianto religioso, le sue origini, il credo e le ritualità, ma si concentra sempre sul nocciolo essenziale di ogni espressione religiosa: cerca e trova il suo cuore mistico, spirituale. «E la sorpresa è questa: tutte le religioni, allo stato puro, esprimono la stessa verità».Inoltre, continua l’ex avvocato, ogni religione fornisce istruzioni precise per coltivare in modo concreto la pratica spirituale quotidiana, «capace di rafforzarci fino a risolvere ogni problema, grazie a un nuovo approccio non più succube della paura: proprio quel genere di strumento che la Chiesa cattolica, erede diretta dell’Impero Romano, ha accuratamente rimosso». Molto netta, nel libro, la denuncia della “manipolazione storica” operata dalla Chiesa di Roma, quella di Pietro e Paolo («non a caso: il primo rinnegò Cristo, il secondo non lo conobbe mai»), contro cui si batté per secoli il network segreto, “giovannita”, che in nome del “vero messaggio di Cristo” schierò i migliori intellettuali della cristianità – da Gioacchino da Fiore a Giordano Bruno, passando per Dante Alighieri e Leonardo da Vinci – in una sotterranea battaglia bimillenaria: San Bernardo e i Templari, San Francesco d’Assisi, San Benedetto da Norcia e gli amanuensi (accesso diretto alle fonti), i “Fidelis in Amore” e i Giordaniti, i Rosacroce, fino ai massoni. «L’amore che cita Dante, quello che “move il Sole e l’altre stelle”, è lo stesso a cui fa cenno Battiato, quando canta: “Tutto l’universo obbedisce all’amore”». Per Franceschetti, non è altro che «la legge universale dell’attrazione: siamo tutti parte di un unico organismo, il divino è in noi. Era il vero messaggio di Cristo, svelato nel Vangelo di Giovanni: siamo dèi dormienti, dobbiamo solo svegliarci». Già, ma come?Se ne occupa l’ultimo capitolo della vasta ricerca di Franceschetti, resa con agile taglio divulgativo: proprio la “spiritualità contemporanea” offre infiniti spunti e testimonianze su come migliorare il proprio stato vitale mettendo a frutto gli insegnamenti delle maggiori tradizioni religiose, rilette e reinterpretate da grandi maestri come il “messia riuttante” Jiddu Krishnamurti, e poi Mikhael Aivanhov, Georges Gurdjieff, Massimo Scaligero, Sri Aurobindo, oppure leader carismatici e scomodi, temutissimi e per questo assassinati mediante avvelenamento, come Osho e Rudolf Steiner, nonché il rosacrociano Paramahansa Yogananda (“Autobiografia di uno Yogi”). Franceschetti non disdegna neppure la vituperata “new age”, rivalutando bestseller come “The Secret”, di Rhonda Byrne, i libri di Joe Vitale e quelli di Esther e Jerry Hicks: «E’ vero, sono anche fenomeni commerciali, ma contribuiscono anch’essi a infondere coraggio e fiducia nel “risveglio”». Tutto è dunque nelle nostre mani? Non lo sostiene solo il “pensiero positivo” di Louise Hay, ma anche la “Profezia di Celestino” di James Redfield, senza contare le opere di ispirazione cristiana come le “Conversazioni con Dio” di Neal Donald Walsh e i volumi di Daniel Meurois-Givaudan, anch’essi ampiamente citati.Il libro di Franceschetti offre una panoramica trasversale e inedita dell’esperienza religiosa mondiale, da un punto di osservazione privilegiato: quello della spiritualità pura, al netto delle narrazioni culturali storiche e territoriali. Una lettura utile, per individuare sorprendenti punti di contatto tra mondi in apparenza lontanissimi o addirittura inconciliabili, come vorrebbe la vulgata attuale. In realtà, tutti raccontano la stessa storia: «Lo dimostra una volta di più l’assoluta coincidenza delle convinzioni su cui si incontrano, al vertice, l’ala mistica dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam, cioè i cabalisti Chassidim, i Rosacroce e i Sufi». Chi conosce Franceschetti e la sua onestà intellettuale non potrà che apprezzare il valore di questo libro: testimonia la passione dell’autore e l’evoluzione di una ricerca sincera, nata dal confronto con la più dura delle realtà – gli orrori della cronaca nera, il mestiere dell’avvocato – per trasformarsi in indagine non più solo sulle cause, ma sui principi che le innescano.Un lavoro editoriale dietro al quale si intravede il costante, proficuo scambio con personalità eclettiche e sorprendenti: da Gianfranco Carpeoro, studioso di simbologia e già “sovrano gran maestro” della massoneria di rito scozzese, a Fausto Carotenuto, già funzionario dei servizi segreti italiani, approdato alla via spirituale del network “Coscienze in Rete”. Il libro è un valido manuale per documentarsi su come i grandi maestri di ogni tempo hanno insegnato a pensare in modo libero, molto spesso a costo della propria vita. «Quello che ancora il potere ci nasconde – conclude Franceschetti – è l’immenso potenziale della nostra mente, se allenata e nutrita di spiritualità. E’ questo, in fondo, il grande segreto: dobbiamo smettere di avere paura. Ma non è certo un mistero: è una grande verità, declinata in infiniti modi, in ogni epoca. Oggi, grazie anche al web e alla propagazione universale della conoscenza, questa consapevolezza sta crescendo: siamo tutti dotati di un potere che, se esercitato, ci permette di liberarci dalla sofferenza, di guardare alla vita con più fiducia. E di sottrarci alla soggezione del potere, che si basa proprio sulla diffusione sistematica della paura». Dov’è l’inganno? «Ci fanno credere che con questa vita finisca tutto, mentre gli egemoni sono i primi a sapere che non è così».(Il libro: Paolo Franceschetti, “Le Religioni – Un percorso spirituale attraverso Induismo, Buddismo, Cristianesimo, Ebraismo, Islamismo e i maestri spirituali moderni”, 584 pagine, 33 euro. Il volume è acquistabile online su “Lulu”).Oppio dei popoli? Sì, quando la religione “perde l’anima” e si trasforma in struttura di potere basata su oscuri dogmi. Ma se si indaga su Buddha, Cristo e Maometto, sull’Ebraismo e sull’Induismo, si scopre che il messaggio fondamentale – la potenza assoluta della dimensione spirituale – è stato regolarmente neutralizzato e rimosso, specie in Occidente, perché mette in crisi il nostro sistema basato sul dominio: «Un individuo che vive la sua spiritualità è più libero dalle paure, quindi meno controllabile: ecco perché la spiritualità è stata così accanitamente combattuta, anche attraverso le stesse burocrazie religiose». Il giurista e saggista Paolo Franceschetti sostiene di averne avuto conferma studiando le grandi religioni. Dall’India al Medio Oriente, tutti i leader religiosi originari hanno trasmesso il medesimo credo, assolutamente positivo e destabilizzante: la divinità è già presente in noi, bisogna solo imparare ad “attivarla”. La rivelazione: è possibile trasformare radicalmente la propria vita, aprire gli occhi e superare ogni problema “trovando Dio” innanzitutto con la meditazione. Una verità che l’élite mondiale conosce da sempre e che ha cercato di tenere nascosta, sostiene Franceschetti. Ma ormai “i tempi stanno cambiando”, come cantava il giovane Dylan. E il “grande risveglio” è già cominciato.
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Barnard: il futuro è l’agri-business, e la mafia salverà l’Italia
Il celeberrimo economista del ‘700 Adam Smith (che tutti hanno travisato oggi) si trovò di fronte a una scelta di realismo: doveva scegliere fra un male abominevole, e cioè il dominio assoluto di Re e nobili parassiti, autoritari, succhiasangue di tutti senza far nulla, e un male assai minore, cioè il Libero Mercato nascente all’epoca della nuova borghesia commerciale. Fu REALISTA realista. Non era certo una “bella anima” deficiente come quelle che qui oggi predicano peace&love fuori dal capitalismo senza capire un cazzo della realtà. Adam Smith sapeva che la scelta era quella, e realisticamente scelse il Libero Mercato solo perché gli altri erano troppo orribili da contemplare. Oggi siamo allo stesso punto. Piacerebbe avere il mondo della giustizia e delle violette, ma non ci è concesso. La scelta oggi è di nuovo fra il Neofeudalesimo orripilante della politica tecnocratica europea, fra le Mafie pressoché medievali che abbiamo, e la più moderabile realtà del Mercato. Qui per ora dobbiamo scegliere. Per ora. Chi mi conosce sa il curriculum che ho. Gli altri pazienza.A questo punto dell’apocalisse in Eurozona, quando siamo alla fase forse più terribile del progetto di Friedrich Von Hayek (1899-1992) di distruzione di 250 anni di costruzioni democratiche, progetto pienamente avviato dalle tecnocrazie europee (fra cui quelle italiane di Andreatta, Padoa Schioppa, D’Alema, Bersani, De Benedetti, Prodi, Renzi ecc.), ho in mente quella che è l’unica via d’uscita. Ho in mente qualcosa un secolo avanti. Siamo quindi rimasti fra noi, le persone. Io, con mia madre cieca e 91enne che ha un badante che le succhia (meritevolmente) più di mezza pensione, e sempre io che devo vivere con mia madre con l’altra mezza pensione. Tu che lavori per una miseria, tu che sei un ‘flessibile’, tu che dopo la laurea hai nulla, tu che hai avuto il tuo primo contratto indeterminato a 50 anni, tu che sei cassintegrato, tu che bestemmi come regola ogni giorno, tu pensionato esodato indebitato, voi gente vera. Stiamo con l’Italia della disoccupazione fuori controllo che passa scoreggiando davanti al Job Act di Renzi (meno di 130.000 posti di lavoro creati dal fiorentino, con 285.000 posti persi solo per il sì del fiorentino alle sanzioni alla Russia, poi il resto della débacle).Stiamo con le Piccole Medie Imprese i cui marchi se li stanno comprando per spiccioli i cinesi e russi e tedeschi, a causa del deprezzamento indotto dall’Eurozona sui paesi del Sud Europa, a un ritmo di 350 marchi di prestigio che perdiamo all’anno. Stiamo col fatto che oggi un laureato in giurisprudenza o medicina se non emigra va a lavorare nei pub, anche con famiglia che appoggia. Ok. Sono anni che listo i disastri italiani. Soluzione via d’uscita di Realismo N.1, prima di arrivare alle Mafie: A) Tornare alla Lira, cioè alla moneta sovrana, e applicare le politiche economiche chiamate Mosler Economics. Le potete leggere QUI APPIENO qui appieno. Cosa significano in soldoni? Significano una cosa importantissima fra le tante benefiche per l’Italia, e leggete: “Che l’Italia torna ad avere la sovranità di emettere la propria moneta senza limiti, come fanno Usa e Giappone e Inghilterra. Quindi i mercati sapranno che qualsiasi cosa investano sullo Stato italiano, questo Stato in possesso di moneta sovrana emessa senza limiti sarà sempre in grado di ripagarla in pieno e puntuale. La famosa “ability to pay”, cioè capacità di pagare sempre, che è l’unica cosa che interessa i mercati”.“Oggi non l’abbiamo perché usiamo l’euro, che è moneta non italiana e che dobbiamo prensdere in prestito dalla Bce per pagare i mercati, che per questo motivo diffidano di noi. Ripresa la moneta sovrana in Italia, i mercati tornerano a investire a man bassa sull’Italia ricca (perché lo siamo), sull’Italia sicura nei ripagamenti, e sull’Italia con la piccola media impresa migliore del mondo”. I Mercati sono amorali, sono liberi, vanno dove si sentono sicuri, e se saranno sicuri della ABILITY TO PAY ability to pay dell’Italia con moneta sovrana illimitata, noi li avremo in massa a investire su questo paese geniale che ha saputo passare dalle rovine a livello kosovaro della II Guerra Mondiale alla 5a potenza del mondo in soli 35 anni. I Mercati questo lo sanno, sanno di che fibra siamo fatti, sanno che un tintore di pelli di Reggio Emilia sa battere la concorrenza di tutto il pianeta e diventare un mostro multimiliardario per Ferré, Dolce & Gabbana, Gucci e Krizia. Lo sanno i Mercati di che pasta siamo fatti sul lavoro, e da noi verranno in massa. Sui nostri titoli di Stato investiranno tranquilli (facendoci crollare i tassi d’interesse che Roma paga su di essi), ma, ripeto, solo se avremo quella “ability to pay” che viene dall’essere sovrani nella moneta come Usa, Gb e Giappone.E qui siamo alle Mafie. Salveranno il Sud Italia. Ora, voi, fermi. Quanto guadagnano in stime approssimative le 3 maggiori Mafie italiane all’anno, assommate? Le stime ci dicono circa 100 miliardi di dollari lordi (il riciclaggio gliene mangia enormi fette, quindi il netto è molto meno). Ora attenzione: quanto guadagna una singola megabanca d’investimento, UNA SINGOLA una singola, all’anno lordi? Prendiamo Jp Morgan di Ny: sono 101 miliardi di dollari nel 2014. E questa è una singola banca d’investimento, UNA SOLA una sola, che guadagna poco più delle tre maggiori Mafie del mondo. Quante megabanche esistono nel mondo e quanto guadagnano, quindi? Mafie, fatevi una pippa. Quando le Mafie si sbarazzeranno, e ACCADRA’ e accadrà, dei pecorari cervelli di culo di cane che ancora le dominano, capiranno che il loro futuro di ricchezza sta nel mega-banking in Sud Italia. Le Mafie lasceranno perdere gli investimenti puzzoni in puttane, armi, droga, racket, pizzi, omicidi, ed edificheranno le Istituzioni Finanziarie più avanzate del Sud Mediterraneo. Perché?Perché siamo in attesa del BOOOOM boooom, e lo scrivo appositamente così, della più grande industria planetaria del futuro: l’AGRIBUSINESS agribusiness per il cibo, in sviluppo nell’Africa sub-sahariana. E chi si trova in Occidente ma vicino a quell’Africa? Questo dovete CAPIRLO, CAPIRLO capirlo, capirlo!! Cristo: il Sud Italia è posizionato come nessuna terra al mondo all’incrocio dei traffici più lucrosi dei prossimi 500 anni, quelli del…. CIBO cibo! No, non è il petrolio che manca. Non è il cobalto. Non sono cotone e computer. E’… IL CIBO il cibo. In Africa, la Cina, i Sauditi, la Korea e altri stanno comprando appezzamenti da dedicare all’Agribusiness con altissime tecnologie che sono grandi come mezza Francia o come l’intero Belgio. E mica sono scemi. E’ il cibo che scarseggia al mondo, e questa scarsità diverrà insostenibile quando 1 miliardo e 400 milioni di cinesi, quasi 1 miliardo d’indiani, poi i brasiliani e indonesiani ecc. arriveranno alla classe media. Sarà allora che l’Agribusiness per cibo spazzerà via qualsiasi concorrente in affari.E chi, ditemi chi, avrebbe la capacità di smistare gli affari richiesti da Cina, India, Brasile, Indonesia, come super-banche a pochi chilometri dal Sudan, dalla Tunisia, dall’Egitto? IL SUD ITALIA! Il Sud Italia! Le Mafie abbandoneranno la criminalità miserabile, apriranno super-banche e ci porteranno miliardi in parcelle, investimenti e intermediazioni sull’Agribusiness africano, e molto altro in finanza. Fine famiglie di puzzoni psicopatici di Napoli, Sorrento, Catania, Palermo, Reggio, trogloditi taglieggiatori & puttanieri, fine riciclaggio di rifiuti tossici o armi, fine di un’epoca. Ora, realismo. Adam Smith vienici in aiuto. Non è il mondo peace&love di John Lennon. Ma è di certo un mondo assai migliore di quello di oggi. Cosa avremo?Di fatto avremo due cose: LA SOVRANITA’ POLITICA ED ECONOMICA DEL LEGISLATORE ITALIANO. E LE EX-MAFIE DIVENUTE COLLETTI BIANCHI NEI GRATTACIELI DI POZZUOLI O MESSINA A FAR AFFARI SOTTO I REGOLATORI PARLAMENTARI, COME A WALL STREET. La sovranità politica ed economica del legislatore italiano. E le ex-Mafie divenute colletti bianchi nei grattacieli di Pozzuoli o Messina a far affari sotto i regolatori parlamentari, come a Wall Street. Non c’è paragone con lo sfacelo italiano di oggi. Non esiste paragone. Poi da lì i nostri figli ripartiranno con un’altra battaglia, quella che oggi si combatte in Usa: come portare i secondi pienamente sotto il controllo dei primi per l’Interesse Pubblico. Ma questa è un’altra storia. Realismo: inutile sognare. Già oggi ci leccheremmo i baffi se avessimo uno Stato pienamente sovrano e benestante, e non più le 3 maggiori Mafie di assassini pecorari ricatta-vedove spacciatori trafficanti in droga e armi e puttanieri internazionali. Ecco tutto. Ecco come potrebbe accadere. Realisticamente.(Paolo Barnard, “Ci salveranno i Mercati e le Mafie, per ora. Grazie, Adam Smith”, dal blog di Barnard del 13 settembre 2015).Il celeberrimo economista del ‘700 Adam Smith (che tutti hanno travisato oggi) si trovò di fronte a una scelta di realismo: doveva scegliere fra un male abominevole, e cioè il dominio assoluto di Re e nobili parassiti, autoritari, succhiasangue di tutti senza far nulla, e un male assai minore, cioè il Libero Mercato nascente all’epoca della nuova borghesia commerciale. Fu realista. Non era certo una “bella anima” deficiente come quelle che qui oggi predicano peace&love fuori dal capitalismo senza capire un cazzo della realtà. Adam Smith sapeva che la scelta era quella, e realisticamente scelse il Libero Mercato solo perché gli altri erano troppo orribili da contemplare. Oggi siamo allo stesso punto. Piacerebbe avere il mondo della giustizia e delle violette, ma non ci è concesso. La scelta oggi è di nuovo fra il Neofeudalesimo orripilante della politica tecnocratica europea, fra le Mafie pressoché medievali che abbiamo, e la più moderabile realtà del Mercato. Qui per ora dobbiamo scegliere. Per ora. Chi mi conosce sa il curriculum che ho. Gli altri pazienza.
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L’Islanda: boicottiamo Israele, per l’Olocausto palestinese
Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.Immediata (e scontata) la protesta di Tel Aviv, affidata al portavoce del ministero degli esteri, Emanuel Nachson: «Non c’è alcuna ragione o giustificazione per questo provvedimento a parte l’odio in se stesso, che si fa sentire sotto forma di appelli al boicottaggio contro Israele, lo Stato ebraico. Speriamo che qualcuno in Islanda si svegli e fermi questa cieca unilateralità rivolta contro l’unica democrazia del Medio Oriente». E mentre il Congresso ebraico valuta azioni legali contro l’Islanda, la Ong filo-israeliana “Standwithus” ha già lanciato il contro-boicottaggio dei prodotti islandesi. Dal canto suo, il ministro degli esteri islandese, Össur Skarphéinsson, ha annunciato di voler valutare con la massima attenzione la fine dei rapporti commerciali con Gerusalemme: se alla fine deciderà di non procedere, ha dichiarato, sarà soltanto perché l’Islanda intrattiene relazioni anche cone paesi non esattamente democratici, come il Sudan e la Corea del Nord.«Strano paese, l’Islanda», scrive Meotti sul “Foglio”. «Sembra un girone dantesco abitato da rari mufloni. Fatta da sterminati ghiacciai (il Vatnajokull è il più vasto d’Europa), vulcani e geyser, sorgenti minerali fredde e calde, laghi e cascate, deserti e verdi pianori». Un paese dove il termometro non scende mai oltre i cinque gradi sotto zero. «L’Islanda si pregia di essere “il popolo più pacifico d’Europa”. Sull’elenco del telefono, i nomi precedono i cognomi: e i primi sono più importanti, anche legalmente, dei secondi. Una società descritta come “giusta e felice”. Il tenore di vita è alto, senza ricchi né poveri, senza disoccupati, ed è accresciuto dal manto protettivo dello Stato assistenziale scandinavo». Durante la guerra fredda, aggiunge Meotti, si disse che dall’Islanda soffiava il “vento della pace”: era l’epoca degli incontri a Reykjavik fra Reagan e Gorbaciov sui missili. La proposta di boicottaggio contro Tel Aviv equipara dunque Israele a uno Stato-canaglia? «Oggi dall’isola nordeuropea spira un freddo vento antisemita», scrive il giornalista, che – come spesso accade del mainstream – definisce “antisemitismo”, cioè razzismo, l’anti-sionismo di chi non critica gli ebrei, ma la feroce politica del governo israeliano.Contro l’apartheid genocida di Israele, in realtà, si vanno schierando personalità influenti: la decisione di Reykjavik sembra rispondere al clamoroso appello per il boicottaggio lanciato dal leader dei Pink Floyd, Roger Waters. Nell’agosto 2014, dopo l’ultima strage di bambini a Gaza, l’eroe olandese Henk Zanoli, 91enne, è arrivato a restituire il massimo riconoscimento israeliano, quello di “Giusto tra le nazioni”, ottenuto per aver salvato un bambino ebreo durante la Shoah. In quei giorni, il giovane militare di leva Udi Segal preferì finire in carcere piuttosto che sparare sui civili di Gaza. E il più autorevole storico israeliano, Zeev Sternhell, insignito nel 2008 dal Premio Israele per le Scienze Politiche, massima onorihicenza culturale del paese, si è espresso senza mezzi termini: «L’apartheid contro i palestinesi deve finire, il mondo libero isoli Israele». Preso in parola, si direbbe, dall’attuale decisione delle autorità islandesi.Ma il potentissimo pregiudizio filo-sionista è duro a morire: «Si potrebbe suggerire ai pallidi e socialdemocratici islandesi di apporre anche una stella di Davide sulla merce», chiosa Meotti sul “Foglio”, evocando lo spettro più classico, quello del nazismo. Osservazione totalmente fuori luogo, come si evince dall’opera del caposcuola della storiografia israeliana contemporanea, il professor Ilan Pappe, che ha dovuto lasciare il paese dopo i suoi libri in cui spiega che proprio la spietata pulizia etnica, pianificata da Ben Gurion molto prima dell’orrore hitleriano, è il “peccato originale” di Israele, nascosto alla coscienza degli stessi israeliani: molti territori furono infatti strappati ai palestinesi attraverso lo sterminio sistematico della popolazione di interi villaggi, inclusi donne e bambini. Un bilancio di sangue, un abominio regolarmente rimosso. A lungo, in Israele, non è stato neppure diffuso nelle scuole “Se questo è un uomo”, il capolavoro di Primo Levi: com’è noto, lo scrittore non era tenero col regime sionista e denunciò con fermezza i crimini di Tel Aviv contro i profughi palestinesi, a partire dal massacro di Sabra e Chatila in Libano. A lungo, è rimasta isolata la voce dei “refuseniks”, i militari israeliani obiettori di coscienza. Oggi, la decisione di Reykyavik sembra premiare il loro coraggio.Boicottare Israele, colpevole di genocidio contro i palestinesi. Per la prima volta in Europa, o meglio in tutto l’Occidente, la proposta è sul tavolo di un governo. Ed è appena stata approvata dalla capitale, Reykjavik, su iniziativa della consigliera comunale Björk Vilhelmsdóttir: bloccare l’importazione di tutti i prodotti israeliani (non soltanto i prodotti dei Territori Occupati, ma tutto ciò che proviene dallo Stato ebraico). «Cosa può spingere quest’isola remota, battuta dalle tempeste atlantiche e fisicamente lontana da tutto e tutti, a bandire i prodotti “made in Israel”?», si domanda Giulio Meotti sul “Foglio”. La risoluzione anti-israeliana, scrive, è stata proposta dall’Alleanza socialdemocratica, mentre il leader del Partito dell’Indipendenza, Halldór Halldórsson, ha votato contro, dicendo che «il libero scambio è il modo migliore per ottenere la pace». Durante la guerra a Gaza del 2011, il ministro dell’interno islandese, Ögmundur Jónasson, guidò una protesta di mille persone di fronte all’ambasciata americana a Reykjavik. I manifestanti si erano cosparsi di rosso sangue e il ministro accusò lo Stato ebraico di “olocausto del popolo palestinese”.
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Il laburista Corbyn: diamo soldi alla gente, non alle banche
Se non diamo soldi direttamente alla gente, non usciremo dalla crisi: per questo lo Stato deve tornare “padrone” della sua moneta. Jeremy Corbyn, attualmente in testa nei sondaggi per la leadership del partito laburista britannico, vuole «un Quantitave Easing per le persone, anziché per le banche», ovvero: un nuovo mandato alla Banca d’Inghilterra, per «migliorare la nostra economia investendo massicciamente in nuove abitazioni, nell’energia, nei trasporti e nei progetti digitali». Si tratterebbe di un processo, spiega il suo consigliere economico Richard Murphy, tramite il quale «viene riacquistato il debito che era stato deliberatamente creato da una banca d’investimenti “verde”, o da un ente locale, o da un’azienda sanitaria o da altre agenzie, con lo scopo specifico di finanziare nuovi investimenti nell’economia – visto che i grandi mercati commerciali e finanziari non sono in grado di effettuarli nella quantità necessaria». Secondo il “Telegraph”, una vittoria di Corbyn alle prossime elezioni «metterebbe la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles».Tra gli scettici si schiera l’economista Tony Yates, già in forza alla Bank of England, secondo cui «questa strada conduce alla rovina della politica monetaria: è esattamente quello che ha fatto lo Zimbabwe, che ha smesso di pagare i suoi debiti stampando nuova moneta». Anche il governatore della banca centrale inglese, Mark Carney, ha paura di Corbyn: dice che la sua proposta, se attuata, «porterebbe alla rimozione di qualsiasi disciplina in materia di politica fiscale». In altre parole, l’establihsment finanziario teme che il leader laburista minacci seriamente il monopolio della finanza privata, con una svolta radicalmente sovranista e popolare a beneficio della finanza pubblica. Una prospettiva, scrive Ellen Brown in un post su “Counterpunch” ripreso da “Come Don Chisciotte”, che allarma da sempre l’élite bancaria di Wall Street e della City, pronta ad agitare puntualmente lo spauracchio dell’iper-inflazione ogni volta che una banca centrale – dalla Fed alla Bce – annuncia un forte sconto sul costo del denaro. Guerre valutarie, svalutazioni competitive ai danni degli Stati vicini e inflazione galoppante? I Qe sono in corso fin dalla fine degli anni ‘90, eppure «questa presunta iperinflazione non si è mai verificata».La Federal Reserve ha appena smesso di stampare nuova moneta per comprare titoli di Stato, la Banca del Giappone ha stampato soldi per anni «per cercare di risollevare la sua economia da decenni di perma-recessione» e la Bce ha tagliato il suo “tasso di deposito” a meno dello 0,2% per cercare di forzare i risparmiatori ad investire. Questo però «significa che i risparmiatori devono pagare le banche perché queste pensino ai loro soldi». La Cina, continua Ellen Brown, ha iniettato 310 miliardi di dollari per puntellare un mercato azionario che ha ceduto quasi il 43% rispetto al suo picco. Ha spinto in basso lo yuan cinese e ha speso altri 200 miliardi di dollari per impedire ulteriori cadute, allentando anche le regole per il credito bancario. Tuttavia, non c’è alcun segno della minacciata iperinflazione: «Il taglio dei tassi e la stampa di denaro hanno reso attraente l’acquisto di azioni, immobili e obbligazioni che producono un reddito regolare superiore ai tassi d’interesse, che sono prossimi allo zero». Eppure, l’economia reale non si riprende. Perché?«Secondo la teoria economica convenzionale, conseguentemente all’aumento della massa monetaria, una maggior quantità di denaro dovrebbe essere a caccia di un minor numero di beni, il che farebbe salire i prezzi. Perché allora non è successo, nonostante vari Qe di dimensioni mondiali?». La teoria monetarista convenzionale era unanimemente accettata fino all’arrivo della Grande Depressione, quando John Maynard Keynes e altri economisti notarono che i massicci fallimenti bancari avevano portato ad una sostanziale riduzione dell’offerta di moneta. Contraddicendo la teoria classica, la carenza di denaro stava incidendo sempre di più sui prezzi. Questo fatto, ricorda Ellen Brown, sembrava fosse direttamente collegato con la massiccia ondata di disoccupazione e con il fatto che le risorse restavano inutilizzate. «I prodotti marcivano a terra, mentre la gente moriva di fame, perché non c’erano i soldi per pagare i lavoratori che li avrebbero dovuto raccogliere, o per i consumatori che li avrebbero potuto acquistare».La teoria convenzionale ha poi ceduto il passo alla teoria keynesiana, che – ricorda Asad Zaman sul “New York Times” – si basa su un’idea molto semplice, ovvero che la conduzione delle attività ordinarie di un’economia richiede una certa quantità di denaro: «Se la quantità di denaro è inferiore a quella necessaria, allora le imprese non possono funzionare – non possono fare acquisti [prodotti da rivendere, materie prime da lavorare etc.], pagare i lavoratori o affittare i negozi. E’ stata questa la causa fondamentale della Grande Depressione». La soluzione era piuttosto semplice: aumentare l’offerta di moneta. «Keynes suggerì che avremmo potuto stampare denaro e seppellirlo nelle miniere di carbone perché i lavoratori disoccupati potessero essere occupati a scavare». Se il denaro fosse stato disponibile in quantità sufficiente, le imprese avrebbero ripreso a vivere e gli operai disoccupati avrebbero trovato un lavoro.C’è un consenso quasi universale, ormai, su questa idea. Persino il neoliberista Milton Friedman, leader dei “Chicago Boys” e avversario delle idee keynesiane, ha ammesso che la riduzione dell’offerta di moneta è stata la causa della Grande Depressione. «Invece di seppellire i soldi nelle miniere, suggerì che il denaro avrebbe dovuto essere lanciato dagli elicotteri, per risolvere il problema della disoccupazione». E questo, sottolinea Ellen Brown, è esattamente il punto in cui siamo ora: «Nonostante i ripetuti cicli di Qe, c’è ancora troppo poco denaro a caccia di troppi beni». Infatti, «i ricchi diventano sempre più ricchi, conseguentemente ai salvataggi bancari e ai tassi d’interesse molto bassi, ma non ci sono soldi nell’economia reale, che resta priva dei fondi necessari per creare la domanda, che a sua volta creerebbe posti di lavoro». Per essere efficace, aggiunge la Brown, il denaro “lanciato dall’elicottero” dovrebbe cadere direttamente nel portafoglio dei consumatori: «Iniettare un certa quantità di denaro nell’economia reale è fondamentale per poterla mettere di nuovo in movimento».Secondo la teoria del credito sociale, persino la creazione di nuovi posti di lavoro non risolve del tutto il problema del troppo poco denaro nelle tasche dei lavoratori, perché possano essere svuotati gli scaffali dei supermercati. I venditori fissano i prezzi per coprire i loro costi, molto più alti del semplice salario dei lavoratori. Il primo, per importanza, fra i costi non salariali, è l’interesse sul denaro preso in prestito per poter pagare la manodopera e i materiali, prima ancora che ci sia un prodotto da vendere. La stragrande maggioranza della massa monetaria entra in circolazione sotto forma di prestiti bancari, come ha recentemente riconosciuto la stessa Banca d’Inghilterra. Le banche creano il capitale, ma non l’interesse necessario per rimborsare i prestiti che hanno concesso, lasciando un “eccesso di debito” che richiede a sua volta la creazione di sempre più debito, nel tentativo di colmare il divario. L’unico antidoto si chiama: sovranità monetaria per l’interesse pubblico, cioè «emissione di “soldi senza debiti”, ovvero di “soldi senza interessi”, da far scendere direttamente nel portafoglio dei consumatori». In altre parole, «un dividendo nazionale, pagato direttamente dal Tesoro».Come Keynes insegna, l’inflazione dei prezzi si verifica solo quando l’economia raggiunge la sua piena capacità produttiva; prima di allora, l’aumento della domanda richiede un aumento dell’offerta: se un numero maggiore di lavoratori viene assunto per produrre quantità maggiori di beni e servizi, allora la domanda e l’offerta si alzeranno insieme. «Nei mercati globali di oggi, le pressioni inflazionistiche hanno uno sbocco nella capacità produttiva in eccesso della Cina e nel maggior uso di robot, computer e macchine», scrive la Brown. «Le economie globali hanno decisamente molta strada da fare prima di raggiungere la piena capacità produttiva». Secondo Paolo Barnard, autore dell’esplosivo saggio “Il più grande crimine”, che denuncia il “golpe” europeo della privatizzazione della moneta con l’introduzione dell’euro, la disoccupazione di massa è esattamente l’obiettivo numero uno dell’élite finanziaria, mentre il recupero della sovranità monetaria permetterebbe di raggiungere il risultato storico della piena occupazione, quella che il “vero potere” teme più di ogni altra cosa, perché riuscirebbe a riscattare milioni di persone dalla condizione di precarietà e bisogno.Secondo Peter Spence, del “Telegraph”, l’ostacolo più impegnativo per la rivoluzionaria proposta di Corbyn è l’Unione Europea. In particolare, l’articolo 123 del “mostruoso” Trattato di Lisbona (quello che lo stesso Giuliano Amato ha definito “scritto in modo tale da essere deliberatamente incomprensibile”), vieta alle banche centrali di stampare moneta per finanziare la spesa pubblica, confermando la tesi di Barnard: Ue ed Eurozona rappresentano un sofisticato sistema tecnocratico di sottomissione, creato dall’élite finanziaria per confiscare democrazia partendo dalla demolizione dello Stato come soggetto garante del benessere dei cittadini, grazie ai micidiali tagli imposti al welfare e alla demonizzazione del debito pubblico, che da strumento fisiologico dell’economia statale (investimenti, a deficit, per creare servizi, infrastrutture e posti di lavoro) si trasforma in “colpa”, declassando lo Stato a soggetto privato, in balia delle banche (in questo caso la Bce).In realtà, di fronte al collasso dell’economia europea provocato proprio dal rigore imposto dall’Eurozona, la stessa Bce alla fine è stata costretta a ricorrere al “quantitative easing”, sia pure solo per gli istituti di credito. Perché allora – chiede Corbyn – non andare oltre, piegando ulteriormente questa norma, in modo che possa avvantaggiare direttamente l’economia reale, le famiglie, le aziende, le infrastrutture nazionali? Nell’Europa devastata dall’austerity, la proposta del leader laburista è il primo segnale di una svolta epocale: la fine del monopolio privato della finanza, imposto come dogma attraverso una “guerra” sanguinosa, durata decenni, di cui il devastante declassamento dell’Italia e l’atroce sacrificio della Grecia non sono che gli ultimi capitoli.Se non diamo soldi direttamente alla gente, non usciremo dalla crisi: per questo lo Stato deve tornare “padrone” della sua moneta. Jeremy Corbyn, nuovo leader del partito laburista britannico, vuole «un Quantitave Easing per le persone, anziché per le banche», ovvero: un nuovo mandato alla Banca d’Inghilterra, per «migliorare la nostra economia investendo massicciamente in nuove abitazioni, nell’energia, nei trasporti e nei progetti digitali». Si tratterebbe di un processo, spiega il suo consigliere economico Richard Murphy, tramite il quale «viene riacquistato il debito che era stato deliberatamente creato da una banca d’investimenti “verde”, o da un ente locale, o da un’azienda sanitaria o da altre agenzie, con lo scopo specifico di finanziare nuovi investimenti nell’economia – visto che i grandi mercati commerciali e finanziari non sono in grado di effettuarli nella quantità necessaria». Secondo il “Telegraph”, una vittoria di Corbyn alle prossime elezioni «metterebbe la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles».
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Craig Roberts: macché Cina, il disastro è tutto americano
Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.La svalutazione borsistica non è dovuta a una economia debole in cui una decade di presunta ripresa economica il mercato immobiliare, sia per il patrimonio esistente che per nuove costruzioni, è in diminuzione rispettivamente del 63% e del 23%, riferito ai livelli del picco di luglio 2005. La svalutazione di borsa non è dovuta al collasso della mediana dei salari reali per famiglia, e di conseguenza, al crollo della domanda interna, risultato di due decenni di rilocalizzazione offshore degli impieghi della classe media e al loro parziale rimpiazzo con impieghi “Walmart” del tipo part-time a salario minimo e senza benefit e ammortizzatori sociali i quali non danno reddito sufficiente a formare nuove famiglie. No, figuriamoci, nessuno di questi fatti è responsabile. Il colpevole del crollo delle borse Usa è la Cina.Che ha fatto la Cina? E’accusata di avere leggermente svalutato la sua moneta. E perchè mai un lieve aggiustamento nel valore di scambio dello yuan col dollaro dovrebbe causare il declino delle borse Usa ed europee? Infatti non è possibile. Ma cosa gliene importa ai media prostituiti, loro mentono per vivere. Inoltre, non è stata nemmeno una svalutazione. Quando la Cina avviò la transizione dal comunismo al capitalismo, decise di agganciare il cambio della sua valuta al dollaro americano allo scopo di dimostrare che la sua valuta era buona quanto la valuta di riserva mondiale. Nel tempo ha consentito che la sua valuta si apprezzasse rispetto al dollaro. Ad esempio, nel 2006 1 dollaro valeva 8,1 yuan cinesi. Di recente, prima della presunta svalutazione, un dollaro oscillava tra 6,1 e 6,2 yuan. Dopo l’aggiustamento del suo tasso di cambio variabile adesso uno yuan sia cambia per 6,4 dollari. Mi pare chiaro che un cambiamento del valore dello yuan da 6,1/6,2 a 6,4 per dollaro non è abbastanza a determinare un crollo nei mercati borsistici Usa ed europei.Inoltre il cambiamento del tasso in rapporto al dollaro non rappresenta un cambiamento del tasso in rapporto alle valute degli altri partner commerciali non-Usa. Ciò che è accaduto, è che la Cina ha corretto, è che come risultato delle politiche di emissione monetaria tipo quantitative easing attualmente praticate dalle banche centrali europea e giapponese il dollaro si è apprezzato rispetto ad altre valute. Dal momento che lo yuan cinese è agganciato al dollaro, la valuta cinese si è di conseguenza apprezzata rispetto a quelle dei suoi partner commerciali europei ed asiatici. L’apprezzamento della valuta cinese (dovuta all’aggancio col dollaro) non è una buona cosa per l’export cinese, specie in un periodo di difficoltà economiche diffuse. La Cina ha appena alterato il suo aggancio al dollaro per rimuovere gli effetti negativi dell’apprezzamento della sua valuta in riferimento a quelle di molti partner commerciali.Come mai la stampa finanziaria non spiega tutto ciò? La stampa finanziaria occidentale sarebbe così incompetente da non sapere questo? Sì. O piuttosto è che l’America non può mai e poi mai essere responsabile se qualcosa va storto. Chi noi? Noi siamo innocenti, sono sempre quei maledetti cinesi! Pensiamo ad esempio alle orde di rifugiati dalle invasioni americane, dai bombardamenti su sette paesi esteri diversi, che stanno invadendo l’Europa. Il massiccio spostamento di gente mosso dalle stragi di popolazioni perpetrate dall’America in sette paesi, consentite dagli stessi europei, sta causando sgomento in Europa e un revival dei partiti d’estrema destra. Oggi, per esempio, i neonazi hanno zittito la cancelliere tedesca Merkel, che cercava di fare un discorso di compassione verso i rifugiati. Ovviamente la stessa Merkel è tra i responsabili del problema rifugiati che sta destabilizzando l’Europa. Senza la Germania come Stato fantoccio degli Stati Uniti, una non-entità senza sovranità reale, un non-paese, solo un vassallo, un avamposto dell’Impero, agli ordini diretti di Washington, senza simili appoggi l’America non potrebbe condurre le guerre illegali che stanno producendo le orde di rifugiati che stanno portando al limite la capacità dell’Europa di accettare rifugiati e favorendo partiti “neo-nazi”.La stampa corrotta Usa o europea presenta il problema dei rifugiati come totalmente avulso dai crimini di guerra americani contro sette paesi. Seriamente, ma perchè mai la gente dovrebbe scappare da paesi dove l’America gli sta portando “libertà e democrazia”? Da nessuna parte nei media occidentali, eccetto qualche sito di informazione alternativa resta un grammo di integrità. I media occidentali sono un “Ministero della verità” (Orwell) che opera a tempo pieno in supporto dell’esistenza artificiale che gli occidentali vivono dentro il Matrix dove gli occidentali sussistono privi di pensiero. Considerando la loro inettitudine ed inazione, sarebbe lo stesso se la gente occidentale non esistesse affatto. Ben più che solo qualche indice di borsa colllasserà sui polli occidentali e sui loro cervelli lavati.(Paul Craig Roberts, “Wall Street e Matrix, dov’è Neo quando abbiamo bisogno di lui?”, dal sito di Craig Roberts del 26 agosto 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nel Matrix dove vivono gli americani, niente è mai colpa loro. Ad esempio, l’attuale svalutazione di borsa Usa non è dovuta ad anni di eccessive iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve che hanno generato una bolla così gonfiata che il valore di appena sei stock, alcuni dei quali valutati a prezzi completamente sproporzionati rispetto ai loro utili reali, contava per più di tutti i guadagni in capitalizzazione di mercato quotati nel S&P500 prima dell’ondata di svalutazione attuale. Nella nostra esistenza-Matrix la svalutazione delle borse non è dovuta alle multinazionali che reinvestono profitti, o persino ricomprano a debito, i loro stessi titoli, allo scopo di creare una domanda artificiale per le loro quote azionarie (equity share). Il declino non si deve all’ultimo rapporto mensile sugli ordini di beni durevoli su base annua che sono in caduta almeno da 6 mesi consecutivi.