Archivio del Tag ‘famiglie’
-
A Strasburgo l’attentato salva-Macron, nei guai in Francia
«Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”». Massimo Mazzucco non ha dubbi: è davvero micidiale la “sincronicità” con la quale l’11 dicembre il giovane Cherif Chekatt, lasciato circolare liberamente in Francia nonostante le 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi, avrebbe aperto il fuoco sulla folla a Strasburgo uccidendo 3 persone e ferendone 16, tra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi (gravissimo, in coma forse irreversibile). «Ormai – scrive Mazzucco, su “Luogo Comune” – la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione». Motivo: «La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi proprio in quelle occasioni». Pensate solo alla coincidenza, aggiunge Mazzucco: fino alla sera prima, tutti i telegiornali e le testate giornalistiche francesi parlavano solo di Macron, di come il suo discorso non fosse riuscito a placare i Gilet Gialli, e di come ormai la fine del suo governo apparisse scontata. Ma dall’indomani «tutto questo passa in secondo piano, perché ora ci dobbiamo occupare di Cherif Chekatt, l’uomo sospettato di aver sparato a Strasburgo e prontamente dato in pasto alla stampa mondiale dall’efficientissimo “Site” di Rita Katz, l’ex consulente del Mossad divenuta il megafono dell’Isis. «Davvero dobbiamo aggiungere altro?».Sembra un copione già scritto, aggiunge “Informare per Resistere”, eppure anche questa volta viene recitato come le altre. E una volta di più – come dopo Charlie Hebdo, Bataclan e tutti gli altri attentati firmati Isis in Europa – a reti unificate «sentiamo ripetere il mantra del terrorista islamico che dopo l’attentato si dà alla fuga». Non un terrorista qualunque, peraltro, ma il “solito” giovane islamista “radicalizzatosi” e ovviamente “attenzionato” dalla polizia. «Ci uniamo al dolore delle famiglie», aggiunge “Informare per Resistere”, che però rileva come siano «davvero strane» le tempistiche e la modalità dell’attentato, «che arriva puntualmente quando in Francia i Gilet Gialli incalzano il presidente Macron». I fatti sono sotto gli occhi di tutti: «Lo schema è sempre lo stesso, come quello di molti altri attentati: un presunto estremista islamico che poi sparisce nel nulla». Sul versante anti-complottista, “Fanpage” esibisce sconcerto per lo scetticismo degli stessi Gilet Gialli: «Secondo gli esponenti del movimento che da settimane sta inscenando proteste e manifestazioni in tutta la Francia, dietro all’attentato di Strasburgo ci sarebbe la regia del governo e del presidente Macron per distogliere lo sguardo dell’opinione pubblica francese dai disordini sociali delle ultime settimane».Su Facebook e Twitter, un saggio di quelle che “Fanpage” definisce «le folli teorie dei Gilet Gialli», di cui il sito pubblica estratti esemplari. Esempio: «Ecco, un piccolo attentato per mettere fine ai Gilet Gialli; molto forte questo Macron». Oppure: «Che caso, appena qualche giorno prima del quinto atto per calmare le pecore». E ancora: «E’ strano, non si sentiva più parlare di attentati, ma solo di noi Gilet Gialli e ora c’è stato un attentato a Strasburgo». Morale: «Non ci facciamo impressionare da questo attentato costruito dai servizi segreti». “Follie” dei Gilet Gialli o esaperazione dei francesi sopravvissuti alle mattanze degli anni scorsi, compiute da terroristi inutilmente “attenzionati dalla polizia” che si premuravano di lasciare sul posto il passaporto, prima di essere regolarmente freddati dai cecchini? Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, il simbologo Gianfranco Carpeoro svela la regia supermassonica – non islamica – del “neoterrorismo” Isis in Europa, puntando il dito contro precisi settori dell’intelligence Nato. Schema classico: strategia della tensione. Tradotto: si “coltivano” potenziali kamikaze, a cui non necessariamente si racconta che fine faranno. Tecniche collaudate di terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, infarcite di “fake news” diffuse dai grandi media per depistare l’opinione pubblica.Di recente, in morte di Bush padre, Gioele Magaldi (autore del bestseller “Massoni”, che illumina il potere occulto di 36 Ur-Lodges sovranazionali) ha ricordato il ruolo nefasto della superloggia “Hathor Pentalpha”, ritenuta coinvolta nell’incubazione dell’11 Settembre. Ipotesi: terrorismo di Stato condotto da frange illegali, le stesse che avrebbero “fabbricato” prima Al-Qaeda e poi l’Isis. Alla “Hathor”, sempre secondo Magaldi, era legato l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy. Lo stesso Magaldi non ha dubbi sulla cifra supermassonica di Macron, già banchiere Rothschild e pupillo del supermassone reazionario Jacques Attali, a suo tempo braccio destro di Mitterrand e ispiratore della conversione anti-progressista dell’Eliseo. Il giorno dell’ultimo attentato – martedì 11 – suona sinistro, nella simbologia massonica (l’11 può essere interpretato come “numero della morte”, come fu per l’11 Settembre a New York, data probabilmente non casuale – l’11 settembre del 1973 il massone Pinochet, in Cile, rovesciò con un golpe il massone progressista Allende). Inquietante la scelta della località dell’attentato – Strasburgo, sede francese del Parlamento Europeo – proprio mentre Macron, nel tentativo di sedare la rivolta dei Gilet Gialli, annuncia un deficit che potrebbe sforare il mitico 3% fissato, come limite invalicabile, dall’Unione Europea.«Ci risiamo. Puntuale come un orologio svizzero arriva l’attentato che distoglie dai veri problemi politici e sposta l’attenzione sul “terrorismo internazionale”». Massimo Mazzucco non ha dubbi: è davvero micidiale la “sincronicità” con la quale l’11 dicembre il giovane Cherif Chekatt, lasciato circolare liberamente in Francia nonostante le 27 condanne già rimediate in tre diversi paesi, avrebbe aperto il fuoco sulla folla a Strasburgo uccidendo 3 persone e ferendone 16, tra cui il giornalista italiano Antonio Megalizzi (gravissimo, in coma forse irreversibile). «Ormai – scrive Mazzucco, su “Luogo Comune” – la dinamica è talmente prevedibile che bisognerebbe quasi farne una regola: se un certo governo attraversa un periodo particolarmente difficile, state alla larga dai mercatini e dai luoghi affollati di quella nazione». Motivo: «La “cellula dormiente” di turno sarà pronta a risvegliarsi proprio in quelle occasioni». Pensate solo alla coincidenza, aggiunge Mazzucco: fino alla sera prima, tutti i telegiornali e le testate giornalistiche francesi parlavano solo di Macron, di come il suo discorso non fosse riuscito a placare i Gilet Gialli, e di come ormai la fine del suo governo apparisse scontata. Ma dall’indomani «tutto questo passa in secondo piano, perché ora ci dobbiamo occupare di Cherif Chekatt, l’uomo sospettato di aver sparato a Strasburgo e prontamente dato in pasto alla stampa mondiale dall’efficientissimo “Site” di Rita Katz», l’ex consulente del Mossad divenuta il megafono dell’Isis. «Davvero dobbiamo aggiungere altro?».
-
Galloni: Gilet Gialli, l’ennesima rivolta senza guida politica
«Può darsi che il percorso del cambiamento storico – ormai evidentemente necessario – non passi per le rivolte di strada (e forse, nemmeno per elezioni democratiche), ma per un mutamento di forme e di formule dell’economia e dei rapporti umani che, pian piano all’inizio e, poi, in modo più dirompente, impongano modelli di comportamento diversi rispetto a quelli cui siamo stati abituati nei trascorsi decenni». Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in una riflessione su “Scenari Economici” innescata dalla rivolta francese dei Gilet Gialli. La buona notizia per i “marxiani”, scrive Galloni, è che la lotta di classe è riapparsa in Europa (sebbene il fantasma del comunismo non vi si aggiri più, almeno apparentemente): la “plebe” si è rivoltata a Macron e ha propugnato i propri interessi in contrapposizione all’establishment rappresentato dal presidente-oligarca e dal suo governo. «Il conflitto di interessi è dappertutto ma, si diceva, mancano consapevolezza di classe (perché le vecchie classi non esistono più) e, soprattutto, un partito “classista”». Secondo Galloni, peraltro, le piccole e piccolissime imprese «hanno abbandonato il capitalismo da tempo, rinunciando al profitto o alla valorizzazione finanziaria per, invece, controllare risorse reali e darsi un ruolo ed una funzione nella società».Tuttavia, aggiunge, le piccole imprese italiane «non hanno trovato mai un partito di riferimento», un po’ per le carenze della nostra politica, e un po’ anche «per i limiti della crescita della loro coscienza», almeno «della grande maggioranza dei piccoli imprenditori». Inoltre, la classe media (che comprende anche «gli eredi dell’antico proletariato che aveva scambiato – dopo gli anni ’60 – la spinta rivoluzionaria col consumismo»), può dividersi in due componenti o classi: da una parte «quelli che possono scaricare le tasse e i maggiori oneri su clienti e pubblico», e dall’altra «quelli che hanno visto un continuo peggioramento delle proprie condizioni di vita per la ragione opposta a fronte di un’inflazione nascosta, dovuta all’aumento vertiginoso di imposte, assicurazioni, obblighi condominiali, costi di mantenimento delle automobili». Anche qui, secondo Galloni, «le forze politiche prevalenti non hanno fatto chiarezza, a parte i proclami e la denuncia di situazioni a dir poco scandalose». La soluzione proposta dai più avveduti critici del sistema – continua Galloni – è la seguente: poiché il mondo è dominato da poche famiglie o gruppi e, comunque, il 99% della gente ha interessi opposti all’1% di ricchissimi, cosa manca ad una rivolta del 99% (ma forse del 99,9%) contro lo 0,1?E qui, purtroppo, viene la brutta notizia per i “marxiani”: «Le classi e la lotta di classe esistono, ma il contrasto di interessi è più forte all’interno di ciascuna classe rispetto a quanto ci sarebbe da aspettarsi fra le classi (per avventura pur contrapposte)». Ne deriva che «l’unica formula rivoluzionaria sarebbe quella interclassista», ma il termine interclassista era usato a proposito della Democrazia Cristiana – ad esempio – per indicare come evitare un esito radicalizzato e rivoluzionario. «Un bel pasticcio. Ecco perché rivolte come quella dei Gilet Gialli (al pari dei nostri Forconi) rischiano di non avere un seguito: la spaccatura interna a ciascun ceto fa sì che, in mancanza di una rappresentanza (guida) ben organizzata, si determini un conflitto insanabile tra l’ala moderata e quella estremista, che viene infiltrata da elementi di cui sarebbe meglio fare a meno». Se invece la guida politica fosse adeguata, «sarebbe coerente con i partiti tradizionali, e quindi destinata ad abbandonare la prospettiva rivoluzionaria». Vie d’uscita? Dal basso: Galloni spera appunto in un cambiamento di «forme e formule dell’economia e dei rapporti umani», che finiscano per imporre «modelli di comportamento diversi», rispetto alla deludente consuetudine degli ultimi decenni, perdente per tutti tranne che il famoso 1%.«Può darsi che il percorso del cambiamento storico – ormai evidentemente necessario – non passi per le rivolte di strada (e forse, nemmeno per elezioni democratiche), ma per un mutamento di forme e di formule dell’economia e dei rapporti umani che, pian piano all’inizio e, poi, in modo più dirompente, impongano modelli di comportamento diversi rispetto a quelli cui siamo stati abituati nei trascorsi decenni». Lo afferma l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, in una riflessione su “Scenari Economici” innescata dalla rivolta francese dei Gilet Gialli. La buona notizia per i “marxiani”, scrive Galloni, è che la lotta di classe è riapparsa in Europa (sebbene il fantasma del comunismo non vi si aggiri più, almeno apparentemente): la “plebe” si è rivoltata a Macron e ha propugnato i propri interessi in contrapposizione all’establishment rappresentato dal presidente-oligarca e dal suo governo. «Il conflitto di interessi è dappertutto ma, si diceva, mancano consapevolezza di classe (perché le vecchie classi non esistono più) e, soprattutto, un partito “classista”». Secondo Galloni, peraltro, le piccole e piccolissime imprese «hanno abbandonato il capitalismo da tempo, rinunciando al profitto o alla valorizzazione finanziaria per, invece, controllare risorse reali e darsi un ruolo ed una funzione nella società».
-
Ponte Morandi, petizione: fateci vedere il video del crollo
Perché insistono nel non rendere pubblico il video integrale del crollo del viadotto Morandi? Dalla catastrofe di Genova sono passati più di tre mesi, osserva Massimo Mazzucco, e ancora non c’è la possibilità di visionare quelle drammatiche immagini. Quell’assurdo black-out informativo, sostiene Mazzucco in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, non fa che alimentare le più fantasiose “teorie del complotto”, dando fiato a chi ipotizza che, alla vigilia di ferragosto, il viadotto austradale genovese possa esser stato addirittura “sabotato”, magari con l’impiego di esplosivi. L’unico grande complotto in questione, dice Mazzucco, consiste semmai nell’aver regalato le autostrade italiane al gruppo Atlantia della famiglia Benetton, che ha intascato proventi miliardari senza provvedere a un’adeguata manutenzione. Se solo gli inquirenti mostrassero finalmente quel video, insiste Mazzucco in un post su “Luogo Comune”, l’impatto emotivo suscitato da quelle immagini renderebbe più complicato coinvolgere la società Autostrade per l’Italia nella ciclopica e ricchissima operazione di ricostruzione. Per questo, Mazzucco ha lanciato una petizione su “Change.org”, con raccolta di firme: fateci vedere il video integrale del crollo.Il 31 agosto 2018, si legge nel testo della petizione, il procuratore di Genova Francesco Cozzi ha dichiarato al “Fatto Quotidiano” di essere in possesso del video integrale del crollo del Ponte Morandi, ma di non poterlo mostrare al pubblico «per non influenzare eventuali resoconti dei testimoni oculari». Ora che si presume che le deposizioni di questi testimoni siano finite, recita la petizione, «chiediamo che il video venga mostrato pubblicamente nella sua interezza, senza tagli e senza manipolazioni di alcun tipo». Gli stessi cittadini che percorrono ogni giorno le nostre strade, e pagano il pedaggio ai caselli autostradali, «hanno pieno diritto di sapere esattamente come e perchè il ponte sia crollato». Tanto più, aggiunge Mazzucco, «hanno il diritto di conoscere la verità tutti i parenti delle vittime che quel giorno hanno perso la vita nel crollo del ponte». Aggiunge Mazzucco: «Mantenere il segreto su quelle immagini serve solo ad alimentare sospetti di vario tipo, che vanno dall’idea che si voglia in qualche modo favorire la società Autostrade, ritardando il più possibile la rivelazione “plastica” delle loro responsabilità oggettive, fino a vere e proprie “teorie del complotto”, che vogliono il ponte demolito intenzionalmente con uso di esplosivi».Conclude la petizione: «Si ritiene quindi, in qualunque caso, che sia interesse stesso delle nostre istituzioni il fare chiarezza al più presto su quanto accaduto quel giorno nella valle del Polcevera». Un’idea, comunque, Mazzucco se l’è fatta: dalle immagini finora circolate, si può notare il pietoso stato di manutenzione dell’infrastruttura collassata, con gli stralli d’acciaio “marciti” all’interno delle “camicie” di calcestruzzo. E’ stata la saldedine marina a erodere i tiranti del ponte? La colpa del disastro va dunque imputata all’insufficiente manitenzione? In un video su “Luogo Comune”, Mazzucco traccia un paragone impietoso con il Tacoma Bridge, crollato nel lontano 1940 nello Stato di Washington. Fu ripreso in diretta da una telecamera dell’epoca e diffuso in televisione. Niente immagini ufficiali, invece, dal viadotto Morandi – che pure era monitorato 24 ore su 24 da decine di sofisticate webcam. Nel frattempo, nelle ultime settimane è praticamente scomparsa, dai giornali, la famiglia Benetton. Gianfraco Carpeoro, altro ospite fisso delle dirette web-streaming di “Border Nights”, ricorda che, dietro ai Benetton (vicini ai Clinton e alla superloggia “Three Eyes”), in Atlantia è rappresentato un grande gruppo del massimo potere finanziario, con società britanniche, francesi e soprattutto statunitensi, incluso il maggior fondo d’investimento al mondo, BlackRock.Perché insistono nel non rendere pubblico il video integrale del crollo del viadotto Morandi? Dalla catastrofe di Genova sono passati più di tre mesi, osserva Massimo Mazzucco, e ancora non c’è la possibilità di visionare quelle drammatiche immagini. Quell’assurdo black-out informativo, sostiene Mazzucco in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, non fa che alimentare le più fantasiose “teorie del complotto”, dando fiato a chi ipotizza che, alla vigilia di ferragosto, il viadotto austradale genovese possa esser stato addirittura “sabotato”, magari con l’impiego di esplosivi. L’unico grande complotto in questione, dice Mazzucco, consiste semmai nell’aver regalato le autostrade italiane al gruppo Atlantia della famiglia Benetton, che ha intascato proventi miliardari senza provvedere a un’adeguata manutenzione. Se solo gli inquirenti mostrassero finalmente quel video, insiste Mazzucco in un post su “Luogo Comune”, l’impatto emotivo suscitato da quelle immagini renderebbe più complicato coinvolgere la società Autostrade per l’Italia nella ciclopica e ricchissima operazione di ricostruzione. Per questo, Mazzucco ha lanciato una petizione su “Change.org”, con raccolta di firme: fateci vedere il video integrale del crollo.
-
Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: basta frottole Ue
Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici: «La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno, secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa, con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura dall’impatto sicuramente devastante.Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso. Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio “Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia – il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana di Torino.Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano – ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa, i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli circuiti industriali della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante della politica.Gilet Gialli a Torino ed77eDietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti) che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di euro.Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8 dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa: da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno sottolineato una vicinanza civile e politica con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa, intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte, sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra, che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.(Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.
-
Bush senior, il massone terrorista che ha sfigurato il mondo
E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partortito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.Lo spiega dettagliatamente Gioele Magaldi nel suo bestseller “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere: una clamorosa rilettura della storia del ‘900 illuminata da 6.000 pagine di documenti riservati. La tesi esposta: da decenni, il pianeta è condizionato dall’attività occulta di 36 Ur-Lodges, superlogge sovranazionali che dettano le loro condizioni alle strutture “paramassoniche” sottostanti – Ue e Fmi, Banca Mondiale e Wto, Commissione Trilaterale, Bilderberg, Chatam House, Coucil on Foreign Relations – le quali poi, a loro volta, con i più noti strumenti di pressione finanziaria, supportano governi “amici” e silurano politici scomodi. Lo stesso Magaldi, massone, è stato iniziato nella “Thomas Paine”, capostipite delle superlogge progressiste: un mondo che ha prodotto personaggi come Roosevelt e Allende, Martin Luther King e Nelson Mandela, Gandhi e Giovanni XXIII, Olof Palme e Yitzhak Rabin. Fino agli anni Settanta, sostiene Magaldi, l’ambiente supermassonico progressista ha gestito in Occidente lo sviluppo industriale sul modello keynesiano, basato sulla spesa pubblica strategica per diffondere benessere in modo orizzontale. Erano i decenni del boom basato sul welfare, sui diritti sindacali e sulla mobilità sociale. Poi è arrivato il grande freddo, annunciato dal manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Trilaterale. Quindi gli anni ‘80: Reagan e la Thatcher, l’ordoliberismo di Kohl e la svolta reazionaria di Mitterrand, grande padrino dell’attuale Ue.Tutto l’Occidente aveva sterzato “a destra”. Ma quella retromarcia epocale, spiega Magaldi, era stata abilmente incubata da “menti raffinatissime” come quelle della “Three Eyes” di Kissinger e Rockefeller, abili a nascondere la propria identità supermassonica oligarchica e neo-feudale. Ad aggravare il quadro, è comparsa come un tumore maligno la “Hathor Pentalpha”, fondata proprio da Bush padre dopo la bruciante sconfitta subita da Reagan alle primarie repubblicane del 1980. Era in corso una guerra inframassonica tra due superlogge neo-conservatrici, la “White Eagle” e la “Three Eyes”, divise su Reagan e Bush. Seguirono attentati: a quello contro Reagan, gli sponsor del neopresidente “risposero” con l’attentato a Wojtyla, che era stato eletto Papa con l’appoggio determinante di Zbigniew Brzezinski, lo stratega geopolitico della “Three Eyes” noto per aver reclutato Osama Bin Laden come combattente antisovietico in Afghanistan. Da quel momento, Bush padre fondò la propria Ur-Lodge, la “Hathor”, poi passata alla storia come “superloggia del sangue e del terrore”. Tra i suoi affiliati il francese Nicolas Sarkozy (la guerra in Libia), il violento autocrate turco Ergogan e l’inglese Tony Blair, che inventò le “armi di distruzione di massa” di Saddam.Se il mondo oggi è ridotto così, col Medio Oriente in fiamme e la nuova guerra fredda contro la Russia, il “merito” è di supermassoni come l’appena scomparso George Herbert Bush. «Così come altri personaggi, che aborro dal punto di vista dello stile umano e massonico, Bush senior è stato un grande contro-iniziato: non gli si può non riconoscere questa grandezza», dichiara Magaldi, in web-streaming su YouTube con Marco Moiso, vicepresidente di quel Movimento Roosevelt che lo stesso Magaldi ha fondato, con l’obiettivo di rigenerare in senso democratico la politica italiana, sottraendola all’influsso dei circuiti finanziari supermassonici oligarchici. Magaldi si dichiara «impegnato a ricostruire un tessuto planetario egemone della massoneria progressista». Ma di fronte alla morte, sottolinea, «si deve rispetto anche al peggiore degli antagonisti». Con questo spirito, aggiunge, «il mondo potrebbe evolvere in termini più rapidi verso quei valori che proprio personaggi come Bush senior hanno cercato di conculcare: occorre sempre essere migliori dei propri nemici, senza perdonarli in modo banale, ma avendo quantomeno rispetto per il dolore dei loro cari». Detto questo, George Herbert Bush resta «un grande protagonista del Novecento e anche dell’apertura del nuovo secolo», inaugurata – “grazie” a lui – con la spaventosa strage dell’11 Settembre.Sul tema, Magaldi è esplicito: Bush padre è stato «coinvolto, con altri, nella creazione della “Hathor”, che è stata la protagonista della costruzione di quella grande narrativa inaugurata dall’abbattimento delle Torri Gemelle – o “colonne gemelle”, come le colonne del tempio massonico». Era di lunga data, l’ascendenza massonica della famiglia Bush: lo stesso George senior aveva militato «nei circuiti neo-aristocratici classici», quelli delle superlogge “Three Eyes” e “Edmund Burke”. Poi, a un certo punto, s’è trovato in mezzo alla lotta che opponeva la “White Eagle” alla “Three Eyes”, attorno all’elezione di Reagan. Da qui la scelta di mettersi in proprio, con la “Hathor Pentalpha”, degradando ulteriormente il panorama supermassonico neo-conservatore: fino al mostruoso attentato dell’11 Settembre. «Con quell’evento del 2001 – afferma Magaldi – George Herbert Bush inaugurò di fatto il XXI secolo. Aveva alla Casa Bianca il figlio, ma Bush junior era sotto la tutela di Dick Cheney, amico “fraterno” del padre, che l’aveva messo lì a guidare di fatto quella presidenza». Magaldi riflette sulla “mutazione” di George H. Bush, un personaggio che fino ad allora «era stato davvero il più classico e bonario dei massoni neo-aristocratici moderati».Certo, il vecchio Bush era pur sempre «un uomo che dietro l’apparenza bonaria aveva di fatto gestito le questioni americane in Cina per alcuni anni cruciali, era stato il capo della Cia e aveva percorso tutte le tappe dell’establishment». Poi, il cambiamento: dietro un’apparenza da classico massone del New England, George senior «ha traghettato la stessa famiglia Bush (e anche gli interessi massonici della “famiglia allargata”) verso altri lidi, spianando la strada alla mutazione genetica di un certo contesto massonico, che diventa assolutamente spregiudicato e quasi incontrollabile». Un gruppo di potere particolarmente violento, «inviso agli stessi cenacoli neo-aristocratici classici, che si trovarono spiazzati da ciò che veniva fatto dal 2001 in avanti». Secondo Magaldi, la grande tradizione della massoneria è progressista e democratica, «quindi l’iniziazione massonica è veicolo di costruzione e diffusione di libertà, democrazia e diritti, e non certo di terrore sanguinario (per di più subdolo)». Per questo, aggiunge, «George Herbert Bush è stato un contro-iniziato, avendo pervertito la specifica cifra massonica». Beninteso, «l’hanno fatto anche altri», ma lui «forse l’ha fatto in modo ancora più forte».Ecco perché sono inaccettabili le parole burgiarde di Barack Obama, che ora ha salutato Bush padre come “un grande patriota”. Magaldi definisce «il “fratello” Barack Obama» in modo poco lusinghiero: «Sedicente massone progressista ma in realtà personaggio mediocre, insipido e ipocrita, eletto presidente Usa grazie a una tregua massonica fra gruppi progressisti e gruppi neo-aristocratici classici, moderati, avversi a quel filone inaugurato da Bush senior con la “Hathor Pentalpha”». Tant’è vero che la superloggia “Maat”, nella quale fu iniziato Obama, «fu costruita da un altro grande protagonista della massoneria neo-aristocratica come Zbigniew Brzezinski, e da Ted Kennedy della massoneria progressista». Obama? «Era visto come un presidente che doveva realizzare una soluzione di continuità rispetto agli anni, molto bui, in cui Bush senior e Bush junior imperversavano dalla Casa Bianca sul resto del mondo, costruendo una narrativa del terrore di cui l’Isis era il portavoce visibile. Quindi – aggiunge Magaldi – che proprio Obama parli di Bush senior come di un “grande patriota” e di un “civil servant” è un atto di ipocrisia: un conto è rendere l’onore delle armi a chi se ne va, e un conto è avere questo atteggiamento inconsistente, che cancella tutte le verità storiche e sparge una melassa inodore e insapore che non fa più capire nulla», stendendo una coltre di nebbia sull’accaduto.Essendo malato, il “fratello” Bush senior era ormai ininfluente, in quell’ambito: «Veniva al massimo consultato». Ora, prosegue Magaldi, c’è grande confusione, in quell’ambiente, dopo l’elezione del “Maverick” Donald Trump, il “cavallo pazzo” della Casa Bianca: «Parecchi digrignarono i denti, per il suo insediamento, e Bush senior è stato tra i più fieri avversari dell’elezione di Trump, che andava a rompere le uova nel paniere di chi voleva – con Jeb Bush, l’altro suo figlio, o con altri candidati – reimpostare, dopo la doppia presidenza Obama, una nuova stagione di terrorismo globale». E così, “Hathor Pentalpha”, “Geburah” e altre superlogge oligarchiche del filone «malignamente eretico, cioè votate ad atti clamorosi e spregiudicati, davvero di sangue e di terrore, sono in grande difficoltà». Motivo: «Non controllando la Casa Bianca, in questo momento, le loro armi sono alquanto spuntate». Nonostante tutto, sottolinea Magaldi, Donald Trump è un “tappo”, rispetto a questi ambienti: lo odiano, perché non risponde alle loro indicazioni. Certo, Trump «è parimenti odiato dai progressisti all’acqua di rose, quelli che vanno a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui e non vedono la trave che sta nella loro testa».Il neopresidente poi è detestato dagli stessi gruppi neo-aristocratici, «sia quelli classici che quelli eversivi», perché Trump resta «un massone inclassificabile, svolge un suo copione narcisistico e rappresenta un problema anche per gli assetti dell’attuale globalizzazione». Tutto sommato, conclude Magaldi, Trump si è rivelato «una buona carta, da giocarsi in una visione di eterogenesi dei fini, da parte della massoneria progressista», che l’ha appoggiato sottobanco per stoppare prima Jeb Bush e poi Hillary Clinton. «Naturalmente bisogna andare oltre Trump: anzi, la presidenza Trump dev’essere uno stimolo per costruire un tessuto narrativo e operativo progressista che sia sostanziale, non formalistico o oleografico». Detto questo, dice ancora Magaldi, dalle parti della “Htahor Pentalpha” c’è grande confusione e parecchio nervosismo, oltre che un po’ di scoramento. «Noi speriamo che quell’anomalia rientri del tutto: vorremmo che quella specifica superloggia fosse proprio sciolta», chiarisce Magaldi. Lui e i suoi preferirebbero che la “guerra” per le sorti della globalizzazione si giocasse a viso aperto, tra circuiti progressisti e ambienti classicamente neo-aristocratici, magari reazionali ma «capaci di fermarsi davanti ad azioni turpi come quelle messe in opera dal 2001 in avanti fino ad anni recenti».La posta in gioco è sotto gli occhi di tutti: una battaglia sotterranea si sta combattendo tra sostenitori della sovranità democratica e propugnatori della post-democrazia, tecnocratica e finanziaria, di cui l’Unione Europea è probabilmente il peggior esempio mondiale. «C’è modo e modo di scontrarsi su presupposti ideologici diversi», dice ancora Magaldi. «La buona novella è che quei segmenti», protagonisti del terriorismo globale, ora «sono in grande difficoltà». Naturalmente nulla è mai definitivo, quindi «bisogna tenere gli occhi ben aperti», visto che «colpi di coda non sono da escludere». Ma Magaldi vede soprattutto segnali di stanchezza. «E oggi – dice – la morte di un campione di quel mondo, di quella mutazione genetica imprevedibile ed efferata, dovrebbe insegnare qualcosa: quando un ciclo finisce, bisogna anche accettarlo». Quel che c’è sapere, comunque, è che la stagione nera inauguarata dal crollo delle Torri Gemelle – cui seguirono a cascata le guerre in Iraq e in Afghanistan, le rivoluzioni colorate e le primavere arabe fino alla guerra civile in Libia e all’orrore scatenato dall’Isis, prima in Siria e poi in Europa – non è stata una sorta di fisiologia maligna del pianeta, ma un cancro sapientemente coltivato da uomini spietati come George Herbert Bush. Lui e i suoi complici sono stati protagonisti della recente strategia della tensione internazionale che ha colpito milioni di persone con una sistematica sequenza di menzogne e di morte: prima le “fake news”, poi le stragi “false flag”.E’ passato alla storia per aver condotto la prima Guerra del Golfo contro quel Saddam Hussein che l’ambasciata Usa di Baghdad aveva appena “autorizzato” a invadere in Quwait. Fino a quel momento, però, aveva collaborato con l’Urss di Gorbaciov nel rispetto degli storici trattati sul disarmo avviati da Reagan per mettere fine alla guerra fredda. Ma dietro la maschera del conservatore tradizionalista, c’era ben altro: come ricorda Massimo Mazzucco, George Herbert Bush aveva curiosamente dormito a Dallas il fatidico 22 novembre 1963, giorno dell’attentato a John Kennedy. E poi aveva soggiornato per una notte alla Casa Bianca il 10 settembre 2001, alla vigilia della strage destinata a battezzare col sangue il neonato terzo millennio. A Washington formalmente regnava suo figlio, George junior, ma le leve di comando erano saldamente nelle mani di George senior, tramite il suo “fraterno” amico Dick Cheney, vicepresidente Usa e grande ispiratore del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano vergato due anni prima dai neocon ultra-imperialisti. Obiettivo: imprimere una svolta anche violenta alla globalizzazione, utilizzando la guerra e il terrorismo “false flag”, gestito da servizi segreti deviati. Una filiera dell’orrore che ha partorito anche l’Isis. Proprio Bush senior era stato il fondatore della cupola, una cellula massonica “impazzita” dal nome sinistro: “Hathor Pentalpha”.
-
Galloni: folle tagliare il deficit, se è in arrivo la recessione
Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.A quel punto la Commissione cambia toni (ma è costretta a farlo pure l’Italia) e chiede più Pil. Se si fosse in presenza di gente seria, l’affacciarsi della recessione avrebbe dovuto imporre un maggiore deficit per stimolare investimenti e spese capaci di contrastare la caduta del Pil: certo, con un maggior deficit, l’Italia dovrà spendere di più anche di interessi sui nuovi titoli. In realtà, obiettivo Pil e vincolo di bilancio significherà che, per mantenere un deficit del 2% di Pil, se il Pil non cresce come programmato, bisognerà tagliare la spesa della differenza tra le previsioni della manovra e l’andamento effettivo. E saremmo punto e daccapo: lacrime e sangue, vale a dire la bella ricetta che ci porta in recessione. Ci sarebbero, almeno, tre considerazioni da fare. Primo, il Pil non può aumentare se, nei comparti ad alta redditività, la domanda di lavoro decresce più rapidamente dei risultati economico-finanziari; e se, nei comparti dove l’occupazione potrebbe crescere (cura delle persone, dell’ambiente e del patrimonio esistente), il costo – in gran parte il lavoro necessario – supera, salvo una minoranza di eccezioni, il fatturato. Quindi, o si interviene sul paradigma economico sociale o il Pil non crescerà o non crescerà abbastanza.Secondo, non si dovrebbe insistere sul parametro debito pubblico/Pil che era già sfavorevole all’Italia dalla fine degli anni ’80 ed è poco peggiorato in seguito; infatti, per valutare solidità e sostenibilità del debito di un paese, bisognerebbe aggiungere – al numeratore – il debito delle famiglie e quello delle imprese non finanziarie. Così si scoprirebbe che i paesi hanno debiti complessivi che vanno da poco più del 300% a meno del 500%, considerata dalle banche e dall’esperienza il limite da non valicare: non è forse vero che si ottiene un mutuo pari fino a 5 volte il reddito annuale del mutuatario? Non guasterebbe nemmeno la istituzione di un’agenzia di rating che impedisse la trasformazione in titoli spazzatura di effetti che, invece, il mercato chiede e sa apprezzare. Terzo, in funzione delle difficoltà di una crescita responsabile ed in rapporto alla esistenza di risorse inoccupate o sotto-utilizzate, perché non esercitare un po’ di sovranità monetaria degli Stati?L’euro resterebbe come unità di conto e come moneta avente corso legale in tutta l’Eurolandia (articolo 128 del Trattato di Lisbona), mentre una moneta parallela avente corso legale solo nazionale servirebbe per affrontare le maggiori spese per l’ambiente, la cura delle persone, il fabbisogno di giovani laureati nelle pubbliche amministrazioni. Non piace la parola moneta? Draghi dice che una moneta parallela sarebbe illegale? Ma quale legge la rende illegale? Essa, tuttalpiù, non è disciplinata perché il Trattato di Lisbona si occupa di altro. Ma niente paura! Lo Stato può emettere buoni spesa che poi accetterà in pagamento delle tasse: 200 euro per ogni occupato, disoccupato e pensionato per otto mesi genererà alla fine dell’anno un aumento di Pil di 48 miliardi e non si determinerà maggior deficit.(Nino Galloni, “Involuzione nel rapporto Ue-Italia, come uscirne?”, da “Scenari Economici” del 5 dicembre 2018).Fino a qualche settimana fa il governo italiano aveva annunciato il grande cambiamento: obiettivo strategico la crescita del Pil. Ma la trappola è scattata subito: obiettivo, sì, il Pil, ma vincolo – e come non potrebbe essere così? – i conti di bilancio. La Commissione sembra accanirsi sui decimali del deficit dopo il 2… quindi si passa dalle tragedie antiche dello 0 virgola e dell’1 virgola a quelle del 2 virgola. Salvini e Di Maio annunciano che il 2,4 di rapporto deficit/Pil è la linea del Piave. Tutti alzano la voce per consumare la tempesta perfetta nel bicchiere d’acqua. Intanto, fuori dal bicchiere d’acqua avvengono altre cose evidenti: i cosiddetti mercati si rallegrano se l’Italia crescerà un pochino; ma nessuno osserva che l’Italia sta registrando avanzi primari (lo Stato incamera sistematicamente imposte superiori alla spesa senza interessi, e poi si va in deficit con questi ultimi) e, che quindi l’effetto della manovra sul Pil non potrà essere significativo. Dopo qualche settimana di braccio di ferro Ue-Italia, la doccia fredda per tutti: Germania ed altri paesi, tra cui la stessa Italia, cominciano ad intravvedere il chiaro inizio di una recessione.
-
Pelanda: il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue
Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.Non sarà facile, perché ciò implica un’inversione imbarazzante dei leader della maggioranza dai loro linguaggi che disprezzano i “numerini” e antagonizzano l’Ue. Ma il Quirinale sembra aiutarli, guidando Conte e Tria nel negoziato con la Commissione, ad arrendersi senza perdere la faccia. Bene che vada, comunque, la politica economica risultante comporterà stagnazione. Pertanto l’inversione della tendenza recessiva nel 2019 dipende dalla ripresa della domanda globale, cioè dell’export. La tregua nella guerra dei dazi concordata tra America e Cina sabato sera fa tornare un certo ottimismo che, se produttiva di un accordo pur nel confronto geopolitico duraturo tra le due potenze, stimolerà nuovamente gli investimenti. Altrettanto importante per l’industria italiana è l’accordo tra America e Germania, di cui è fornitrice, per evitare dazi sull’export europeo. Trump vuole un trattato di libero scambio simmetrico e bilaterale con l’Ue che, però, mette in grave difficoltà il modello protezionista europeo. Questo è un motivo in più di riconvergenza rapida dell’Italia con l’Ue allo scopo di contribuire a un compromesso con l’America, interesse vitale per Roma e Berlino, ma che Parigi non vuole.(Carlo Pelanda, “Così il Quirinale guida il governo verso la resa all’Ue”, da “Il Sussidiario” del 2 dicembre 2018. Politico ed economista, Pelanda è specializzato in studi strategici e scenari internazionali ed economici. Insegna scienze politiche e relazioni internazionali alla University of Georgia di Athens, ed è co-direttore di Globis (Centro per gli studi globali) presso la medesima università. In Italia è editorialista de “Il Foglio”, “Libero”, “La Verità”, “L’Arena” e “Il Sussidiario”. Fa parte della Fondazione Italia-Usa. In campo politico, si legge nel suo profilo su Wikipedia, Pelanda è portatore dell’ideologia liberista, «ma con la consapevolezza che la libertà è conseguenza di un investimento di qualificazione della società e va organizzata entro istituzioni che la difendano». In generale, propugna l’idea di “nuovo progresso” basato sulla fiducia che tecnologia e conoscenza siano i risolutori più potenti dei problemi della condizione umana. Fin dal 2007, con il saggio “La grande alleanza”, ha avvertito che è ormai in via di esaurimento il sistema di governo mondiale centrato sul predominio degli Stati Uniti, sul dollaro e sui criteri occidentali nelle istituzioni internazionali. Pelanda propone «un nuovo soggetto di governance globale che non sia il G-20, o analogo tavolo di potenze troppo diluito, ma un’alleanza tra le democrazie fondata sulla convergenza euroamericana»).Il rischio di recessione dipende da una contrazione della domanda globale che ha colpito l’export e da una crisi di fiducia sull’Italia che ha ridotto gli investimenti esterni e interni quando il governo ha esplicitato una linea de-sviluppista e assistenzialista finanziata in extradeficit, nonché una violazione aggressiva delle regole europee. Ora il governo sta cercando di evitare la procedura di infrazione da parte dell’Ue che peggiorerebbe la situazione compromettendo il sistema del credito a imprese e famiglie, causa certa di ostacolo alla crescita-ripresa. Forse è meglio dire che il Quirinale ha preso in mano, dietro le quinte, la materia, cercando un compromesso tra requisiti di ordine economico euroconvergenti e progetto politico eurodivergente della maggioranza. Tecnicamente, si tratta di ridurre dai 7 ai 10 miliardi il finanziamento in deficit del progetto di bilancio per portare il deficit proiettivo stesso sotto il 2%, dal 2,4% annunciato, e di allocare le risorse più sul lato degli investimenti e degli stimoli fiscali e meno sulla spesa assistenziale per rendere credibile almeno un minimo potenziale di crescita che non faccia peggiorare il rapporto debito/Pil nel 2019 e quindi permetta di evitare la procedura di infrazione Ue.
-
Pomicino ai gialloverdi: ma io con il deficit facevo sviluppo
I nodi stanno venendo al pettine: il bullismo di Salvini e Di Maio ha già prodotto danni all’economia delle imprese e delle famiglie. A Palazzo Chigi cominciano a capire che la corda non si può tirare all’infinito, altrimenti si spezza. Per ora siamo alla tattica. Come finirà? Ognuno dovrà cedere qualcosa, ma non troppo. Da entrambe le parti l’esigenza è quella di apparire ciò che non si è: vincitori nella trattativa con l’Ue e vincitori sul paese riottoso. Ma la verità di fondo è un’altra. Il vero confronto non è quello con la Commissione, ma con i mercati, perché questa legge di bilancio non contiene nulla che stimoli la crescita. E’ dal 1995 che l’Italia è la Cenerentola d’Europa per tasso di crescita. Da che cosa dipende? Dalla drastica diminuzione della produttività del lavoro. Significa non aver fatto innovazione, investimenti nel settore della ricerca e dello sviluppo, con il risultato di basare la competitività delle nostre imprese sulla compressone dei salari.A chi crede che la compressione dei salari sia dovuta alla gabbia nella quale ci costringe la moneta unica, rispondo che non è così, assolutamente. Tutti coloro che lo pensano, immaginano di poter compensare attraverso periodiche svalutazioni. Ma in questo modo si ottiene solo un recupero di competitività di prezzo, non di competitività vera, quella di prodotto. Le regole europee, sulla quale la Commissione ha dato prova di un irrigidimento quasi fanatico, fanno male all’economia italiana, non c’è dubbio. Ma qui tocchiamo il valore, il vantaggio e il costo complessivo dell’Unione Europea. Settant’anni di pace, tassi di interesse molto bassi e un mercato di 480 milioni di persone. Sui tassi, chi come me ha dovuto fare il ministro del bilancio con tassi di interesse del 12-14%, fino al 20%, sa cosa significa avere il vantaggio di un tasso di interesse che possiamo avere solo con l’euro, non con la moneta nazionale. Poi, è vero, c’è il costo delle rigidità che vanno riformate.Che cos’ha fatto la Bce in questi anni? Ha prodotto liquidità, non in maniera diretta, stampando moneta, ma indiretta, acquistando i debiti sovrani. Certo, è un elemento di debolezza che la Bce non possa immettere direttamente liquidità nel sistema economico, come fanno tutte le banche centrali. E’ una rigidità legata allo statuto dell’euro. Andrebbe superata in modo strutturale dando alla Bce gli stessi strumenti che hanno le altre banche centrali. Intanto l’ha risolta Draghi con il “quantitative easing”. Ma fare quello che dico io serve una vera unione politica. Questo è l’altro elemento essenziale. Molti hanno immaginato che l’unione monetaria partorisse automaticamente l’unione politica. E invece, la Ue è rimasta la somma dei singoli governi nazionali. Così tutte le rigidità sono figlie di un Consiglio dei capi di Stato e di governo che non ha un respiro europeo da almeno 15 anni.Governo e Commissione raggiungeranno un compromesso più o meno ridicolo, ma non è questo il problema vero. Ci sono i mercati, ma non solo. Avremo un anno di difficoltà economica crescente. Non cresceremo dell’1,5%, come pensa il governo, ma ancor meno delle previsioni che ci danno intorno allo 0,9 o 1%. L’unica salvezza del paese sarà data dal risparmio precauzionale delle famiglie. Il reddito di cittadinanza? Non funzionerà. Dovrebbe preparare le persone al lavoro, e invece sapete come si risolverà? In una grande assunzione di “formatori”. Finirà per aumentare il nostro grado di collisione con i mercati. E’ vero, ora si sono calmati – ma sarà così per poco, perché con l’indebitamento previsto dal governo di investimenti non se ne fanno. Io sono stato accusato di avere fatto grande indebitamento, ma è una critica ingiusta. Non solo avevamo problemi politici da affrontare, come il terrorismo e l’inflazione a due cifre, ma crescevamo del 2,5-3% e la nostra spesa in conto capitale era del 5% del Pil, mentre noi oggi siamo tra il 2,5 e il 3% del Pil. Abbiamo sottratto in termini di spesa per investimenti circa 6-700 miliardi di euro.(Paolo Cirino Pomicino, dichiarazioni rilasciate a Federico Ferraù per l’intervista “Cari Salvini e Di Maio, io con il deficit facevo sviluppo”, pubblicata su “Il Sussidiario” il 28 novembre 2018).I nodi stanno venendo al pettine: il bullismo di Salvini e Di Maio ha già prodotto danni all’economia delle imprese e delle famiglie. A Palazzo Chigi cominciano a capire che la corda non si può tirare all’infinito, altrimenti si spezza. Per ora siamo alla tattica. Come finirà? Ognuno dovrà cedere qualcosa, ma non troppo. Da entrambe le parti l’esigenza è quella di apparire ciò che non si è: vincitori nella trattativa con l’Ue e vincitori sul paese riottoso. Ma la verità di fondo è un’altra. Il vero confronto non è quello con la Commissione, ma con i mercati, perché questa legge di bilancio non contiene nulla che stimoli la crescita. E’ dal 1995 che l’Italia è la Cenerentola d’Europa per tasso di crescita. Da che cosa dipende? Dalla drastica diminuzione della produttività del lavoro. Significa non aver fatto innovazione, investimenti nel settore della ricerca e dello sviluppo, con il risultato di basare la competitività delle nostre imprese sulla compressione dei salari.
-
Il debito globale esplode. L’Italia? Meglio di quanto si creda
Nel secondo trimestre del 2018 le dimensioni globali del debito hanno raggiunto un nuovo massimo, arrivando a 260.000 miliardi di dollari. Al tempo stesso il rapporto globale debito/Pil ha superato per la prima volta la soglia del 320%. Su questo totale, il 61% (160.000 miliardi di dollari) è rappresentato dal debito privato del settore non-finanziario, mentre solo il 23% è rappresentato dal tanto vituperato debito pubblico. Gli Usa da soli hanno emesso più del 30% del nuovo debito pubblico, con una notevole accelerazione negli ultimi due anni sotto la gestione Trump. Il ministero del Tesoro statunitense è seguito, in questo, dalle agenzie di debito giapponesi e cinesi e, a grande distanza, dalle maggiori economie dell’Eurozona. I valori riportati dalle agenzie pubbliche cinesi vanno valutati con cautela alla luce dei ripetuti casi di falsificazione delle statistiche perfino da parte di funzionari pubblici. È quindi probabile che non solo il debito pubblico di Pechino, ma anche quello delle imprese cinesi, che già è il più elevato al mondo, sia in realtà più allarmante di quanto le stime ufficiali vogliano far credere.Storicamente il debito di un paese, sia pubblico che privato, tende a crescere nel tempo in rapporto costante con la dimensione dell’economia. Fanno eccezione, seppure notevole, i casi di default improvvisi, che cancellano grandi porzioni del debito. Pertanto l’enormità del debito totale non fornisce, di per sé, informazioni sulla sua sostenibilità. Non si può nemmeno dedurre, per contro, che un debito totale più basso sia segno di stabilità finanziaria. In realtà un livello molto basso, o addirittura l’assenza di debito, potrebbe rivelare solo una completa mancanza di fiducia, tale da escludere tutti gli agenti economici nazionali dai mercati internazionali del credito. Questo fu, per esempio, il caso dell’Argentina nei cinque anni successivi al drammatico default del 2002. In una prospettiva adeguata, un’equa valutazione dovrebbe tenere conto della dimensione del debito totale in rapporto al Pil. Da questo punto di vista, usando una misura opportuna, la classifica globale appare rovesciata: il Lussemburgo balza al primo posto con un debito totale pari al 434% del Pil, composto quasi esclusivamente da debiti societari.Ad una certa distanza troviamo il Giappone, con un debito totale che si aggira sul 373% del Pil, caratterizzato da una componente preponderante di debito pubblico, il 216%. L’elevata incidenza del debito sia pubblico che privato pone la Francia, la Spagna e il Regno Unito nei primi otto posti della classifica, mentre l’Italia fa la sua comparsa solo al nono posto, con un rapporto di debito totale ben bilanciato, al 265% del Pil, e con bassi livelli di debito delle famiglie e delle imprese, che compensano il più elevato livello del debito pubblico. Ma anche un basso rapporto tra debito totale e Pil non può essere considerato segno di virtù o salute economica. Al fondo della classifica stanno i casi paradossali dell’Argentina e della Turchia. Sebbene entrambi i paesi abbiano debiti totali sotto controllo (il debito privato è praticamente inesistente in Argentina, mentre il debito pubblico in Turchia è appena il 28% del Pil), entrambi i paesi corrono il rischio di perdere l’accesso ai mercati a causa delle loro crisi valutarie e della bilancia dei pagamenti.Per un apparente paradosso, i tassi di interesse a breve termine dell’Argentina, che ha ambiente finanziario a basso indebitamento, sono al 70%, mentre quelli del Giappone, che ha un debito mostruoso, sono stabilmente negativi. Preoccuparsi solo del debito pubblico quando si vuole valutare lo stato di un’economia, magari facendo riferimento a delle soglie arbitrarie, è sempre una cattiva pratica, che porta a conclusioni errate. I criteri usati dai mercati per valutare la solvibilità del debito sono molteplici: la percentuale del debito detenuto da investitori esteri rispetto a quelli interni, il fatto che il debito sia emesso sotto legge nazionale oppure legge estera, la crescita dell’economia, la ricchezza finanziaria dei cittadini, l’efficienza del gettito fiscale, la sovranità monetaria, eccetera. Nel caso del Giappone, per esempio, il 90% del debito è nelle mani della sua stessa banca centrale, dei suoi fondi pensione e delle banche giapponesi, ed è quasi perfettamente bilanciato dalla buona salute finanziaria delle istituzioni pubbliche. È quasi impossibile immaginare una crisi di fiducia che semini dubbi sulla solvibilità del governo giapponese. Allo stesso modo, il fatto che i paesi dell’Eurozona non possano gestire la propria politica monetaria in modo autonomo fa sì che tutti i debiti pubblici appaiano, di fatto, come soggetti a legge estera, e questa è una condizione che rende il problema enormemente più complesso da gestire.Inoltre, questo debito è in media detenuto per più del 70% da investitori stranieri, una categoria che per definizione è più reattiva sui mercati secondari, e alimenta facilmente il panico in caso di vendita generalizzata. E c’è di più. Le statistiche ufficiali non considerano il problema del “debito implicito”, ovvero il peso legato agli impegni finanziari che i governi si sono assunti rispetto alle pensioni e alla spesa sanitaria. In generale, questi debiti futuri non appaiono nelle cifre dei conti nazionali per fondate ragioni, legate alle difficoltà di stimare l’aumento dei costi su orizzonti temporali così lontani. Se questi debiti impliciti dovessero essere messi nel conto, il debito Usa sarebbe, per esempio, quintuplicato, raggiungendo i 100.000 miliardi di dollari. Ma la Spagna, il Lussemburgo e l’Irlanda sarebbero messi ancora peggio, dato che le loro passività aumenterebbero di oltre 10 volte, superando il 1.000% del Pil nel caso irlandese. L’Italia, invece, dal punto di vista del debito implicito, sotto la legislazione attuale, risulterebbe il paese europeo più virtuoso.A livello globale, il debito delle imprese è la variabile che i mercati temono maggiormente. Un settore privato pesantemente indebitato è vulnerabile all’aumento dei tassi di interesse, dopo anni in cui i tassi di interesse sono stati mantenuti artificialmente bassi favorendo l’espansione del credito e la riduzione del capitale societario attraverso il massiccio riacquisto di azioni proprie. L’instabilità intrinseca dell’indebitamento rispetto all’apporto di capitale proprio suggerisce che il prossimo rallentamento della crescita potrebbe portare a un congelamento insolitamente forte degli investimenti aziendali. Questo in Italia è già successo durante la Grande Recessione del 2008-2009: per ogni punto percentuale di riduzione della crescita del credito, c’è stata una contrazione di quattro punti negli investimenti nelle imprese più dipendenti dal credito bancario, e due punti di contrazione in quelle finanziariamente più indipendenti. Questo è un disastro economico che non si deve ripetere.(Marcello Minenna, “Il debito globale è al suo apice e l’Italia sta meglio di quanto si creda”, da “Social Europe” del 28 novembre 2011; analisi tradotta e ripresa da “Voci dall’Estero”).Nel secondo trimestre del 2018 le dimensioni globali del debito hanno raggiunto un nuovo massimo, arrivando a 260.000 miliardi di dollari. Al tempo stesso il rapporto globale debito/Pil ha superato per la prima volta la soglia del 320%. Su questo totale, il 61% (160.000 miliardi di dollari) è rappresentato dal debito privato del settore non-finanziario, mentre solo il 23% è rappresentato dal tanto vituperato debito pubblico. Gli Usa da soli hanno emesso più del 30% del nuovo debito pubblico, con una notevole accelerazione negli ultimi due anni sotto la gestione Trump. Il ministero del Tesoro statunitense è seguito, in questo, dalle agenzie di debito giapponesi e cinesi e, a grande distanza, dalle maggiori economie dell’Eurozona. I valori riportati dalle agenzie pubbliche cinesi vanno valutati con cautela alla luce dei ripetuti casi di falsificazione delle statistiche perfino da parte di funzionari pubblici. È quindi probabile che non solo il debito pubblico di Pechino, ma anche quello delle imprese cinesi, che già è il più elevato al mondo, sia in realtà più allarmante di quanto le stime ufficiali vogliano far credere.
-
Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta
Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.(Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
-
Francia, male oscuro: si suicidano le Guardie Repubblicane
Il 5 novembre, nel Parco dell’Hôtel de Matignon, sede del primo ministro francese, è stato trovato morto l’ennesimo gendarme della Guardia Repubblicana, l’equivalente dei corazzieri in Italia. Si tratta di un gendarme di 45 anni, probabilmente suicida – scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici” – dato che la sua arma d’ordinanza è stata trovata di fianco a lui. Il problema non è il caso singolo, ma il fatto che, dall’inizio dell’anno, sono ben 31 i suicidi fra le guardie, secondo la rivista specializzata “L’Essor”. Ora, ragiona Landriano, le guardie repubblicane sono 2.800 (i corazzieri, meno di 800), per cui risulta un tasso di suicidi superiore al 1% nel 2018. E non siamo neanche a fine anno. Nel 2017 i suicidi furono 17, mentre nel 2016 ben 25. «Sicuramente il lavoro della Guardia Repubblicana non è facile, ma oltre 1% di suicidi in 11 mesi è una media elevatissima: lo sarebbe in qualsiasi reparto militare, perfino in tempo di guerra». Si può parlare di stress, rileva “Scenari Economici”, ma probabilmente qualcosa non va. «Secondo una ricerca, il 62% dei militari francesi vorrebbe lasciare l’esercito, ma anche questo non spiega un tal numero di suicidi».Il caso di Alexandre Benalla, il super-protetto di Macron, ha evidenziato come «vantaggi e carriere non vengano distribuite sulla base del merito o del lavoro, ma delle preferenze personali», e questo «può aver aumentato la frustrazione dei gendarmi». Oppure, insiste Guido da Landriano, «c’è un malessere più profondo, più segreto, che non si è ancora scoperto». Secondo “L’Essor”, l’ennesima morte di un militare della Guardia Repubblicana (sul posto di lavoro) non può certo passare inosservata. L’ufficio del primo ministro specifica che il gendarme deceduto era stato assegnato ai servizi di videosorveglianza del comando militare. La Procura di Parigi ha messo sotto sequestro l’Ispettorato generale della Gendarmeria Nazionale. L’inchiesta dovrebbe fornire maggiori informazioni sulle cause della morte della guardia. In viaggio in Nuova Caledonia, il primo ministro Edouard Philippe ha inviato le sue condoglianze alla famiglia del militare, esprimendo «il suo sostegno ai compagni del gendarme defunto» da parte di tutto lo staff di Palazzo Matignon.«Questo dramma – scrive “L’Essor” – arriva un mese dopo la pubblicazione, su Internet, di una lettera che denuncia le condizioni di lavoro dei gendarmi all’Hôtel de Matignon». Posta anonima, firmata semplicemente “i gendarmi della compagnia di sicurezza dell’Hôtel Matignon”. La denuncia: pessime condizioni di lavoro all’interno di questa unità. La lettera evoca in particolare un «profondo malessere» e deplora «una stanchezza generale e un superlavoro». Immediata l’indagine interna per accertare le difficoltà segnalate, ma il gendarme morto – scrive sempre la rivista francese – non era tra i commilitoni già ascoltati dalla commissione. Il malessere della guardia d’onore francese sembra riflettersi anche nelle forze armate, dove – rileva “Zone Militaire” – quasi una recluta su tre ormai getta la spugna dopo il primo anno nell’esercito, mentre secondo un sondaggio Dicod, addirittura, il 62% dei militari giovanissimi sarebbe intenzionato a restituire la divisa già dopo il periodo di prova.Voglia di fuga dalle stellette: «Quelli con un’anzianità di 11 a 20 anni, siano essi ufficiali o sottufficiali, sono i più numerosi (70%) a considerare un altro futuro nel civile. Inoltre, la marina è la più colpita, con l’81% dei suoi soldati professionisti che pensa di partire. Seguono l’aeronautica (72%), l’esercito (67%) e la gendarmeria nazionale (52%)». Diversa la situazione per i militari sotto contratto, di cui “solo” il 46% dice di considerare la possibilità di lasciare l’esercito. Ad ogni modo, aggiunge “Zone Militaire”, questa percentuale del 62% dei soldati in carriera che meditano di lasciare l’esercito è «un punteggio particolarmente alto, che riflette un fenomeno di logoramento». Per Guido da Landriano, comunque, il “male” della Francia non è solo superficiale: è profondo. L’attuale guida del paese «trovi una soluzione, o lasci spazio a chi la può trovare».Il 5 novembre, nel Parco dell’Hôtel de Matignon, sede del primo ministro francese, è stato trovato morto l’ennesimo gendarme della Guardia Repubblicana, l’equivalente dei corazzieri in Italia. Si tratta di un gendarme di 45 anni, probabilmente suicida – scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici” – dato che la sua arma d’ordinanza è stata trovata di fianco a lui. Il problema non è il caso singolo, ma il fatto che, dall’inizio dell’anno, sono ben 31 i suicidi fra le guardie, secondo la rivista specializzata “L’Essor”. Ora, ragiona Landriano, le guardie repubblicane sono 2.800 (i corazzieri, meno di 800), per cui risulta un tasso di suicidi superiore al 1% nel 2018. E non siamo neanche a fine anno. Nel 2017 i suicidi furono 17, mentre nel 2016 ben 25. «Sicuramente il lavoro della Guardia Repubblicana non è facile, ma oltre 1% di suicidi in 11 mesi è una media elevatissima: lo sarebbe in qualsiasi reparto militare, perfino in tempo di guerra». Si può parlare di stress, rileva “Scenari Economici”, ma probabilmente qualcosa non va. «Secondo una ricerca, il 62% dei militari francesi vorrebbe lasciare l’esercito, ma anche questo non spiega un tal numero di suicidi».
-
Strinati: caro Giacomelli, unico giudice ucciso in pensione
Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa Nostra – che Alberto Giacomelli aveva “pagato” per avere confiscato con un provvedimento un “bene di famiglia”, una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello “zio Totò”, il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Giacomelli, scrive ancora Bolzoni, era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani: un uomo defilato, silenzioso, sobrio. Dietro il sipario, decideva i destini economici di quei “galantuomini”. E aveva «messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone», il feroce padreterno che in Sicilia «decideva chi doveva vivere e chi doveva morire». Così è uscito di scena, in punta di piedi, «un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi». Così è morto in solitudine Alberto Giacomelli, classe 1919, in magistratura dal ‘45, congedato nell’87 e assassinato appena un anno dopo, con un proiettile in testa.Il fatale provvedimento l’aveva firmato quattro anni prima. Pentiti di mafia e collaboratori di giustizia confermarono che fu proprio quella decisione a costargli la vita. Per la prima volta, Cosa Nostra decise di colpire un magistrato giudicante. E quello di Giacomelli resta l’unico caso di omicidio, nella storia d’Italia, di un magistrato in pensione. Ancora Bolzoni inquadra l’omicidio nella luce sinistra del biennio ‘88-89, che preparò le stragi di Capaci e via d’Amelio. «Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, “menti raffinatissime”, misteri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia». Inquietante il diario dell’ex sindaco palermitano Giuseppe Insalaco, che proprio nel 1988 indicò i “buoni” (Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Cesare Terranova e Pio La Torre, tutti assassinati), additando fra i “cattivi” Salvo Lima e Andreotti, il procuratore capo Vincenzo Pajno e l’esattore mafioso Ignazio Salvo. «E in mezzo, una Palermo sprofondata nella paura», in balìa dei sicari di Riina.Il maxi-processo si era concluso un anno prima, con le prime e decisive condanne per la Cupola. «L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’Assise, ma in tanti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone». Era già arrivata la stagione del disincanto, scrive Bolzoni. Fu in quella primavera, aggiunge, che a Roma «decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone». Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici (saltato in aria nell’83), il Csm nominò «un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a colpi di penna “l’unicità” di Cosa Nostra, sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato». Per Bolzoni, era la fine di un metodo di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. «Un segnale per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato». Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia».L’estate siciliana del 1988, aggiunge Bolzoni, se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il “caso Palermo”, con il suo tribunale ormai chiamato il Palazzo dei Veleni, le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani. «Un’estate inquieta, che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga». Delle indagini, ricorda oggi la Rai, si occupò lo stesso Borsellino, poi ucciso in via d’Amelio, in collaborazione con Paolo Germanà, scampato ai killer a Mazara del Vallo quattro anni dopo. Una storia esemplare ma coperta dal silenzio, quella di Giacomelli, in un paese – scrive Ognibene – che ha il difetto di dimenticare in fretta. Anche per questo assume un particolare valore la tensione emotiva della poesia di Strinati, commosso omaggio a un uomo mite e giusto come Giacomelli.AD ALBERTO GIACOMELLIHanno contaminato il tuo addomeavvelenato il tuo dabbene sguardosottratto la tua anima alla vitausando il megafono della violenzail microfono dell’arroganza,il sotterfugio putrido vile dell’ignoranza;hanno calpestato il tuo onorepestato il tuo cognome da galantuomoscucito al mondo il tuo sorrisodelicato che sapeva come corteggiare la speranza;hanno usato la peggior vergognaper ammorbare il tuo esile corpoattraverso un colorante colmo, strapieno di sangue…e ti hanno tolto l’esistenzaperché figli di un frutto acerbodi un albero avverso nutrito dal morbofradicio della menzognala più cattiva rogna che sembra uno sciame,intinto, in un volume abnorme di peccato.(Fabio Strinati)Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).Un delitto “senza”: senza clamore e senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato. Un delitto senza niente e senza tutto, quello del giudice trapanese Alberto Giacomelli, freddato dai killer il 14 settembre 1988: il primo a morire già in pensione, dopo aver osato (di nuovo: per primo) applicare in Sicilia la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei patrimoni mafiosi. «Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta», lo ricorda Attilio Bolzoni nella sua prefazione della biografia “Un uomo per bene” (Edb, 2018) scritta da Salvo Ognibene. Giacomelli? «Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno». Proprio ad Alberto Giacomelli, su Libridee, Fabio Strinati dedica un’intensa rievocazione poetica.