Archivio del Tag ‘fallimento’
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Unione Bancaria con frode: se falliscono, paghiamo noi
Vi hanno raccontato che con l’Unione Bancaria non saranno più i contribuenti, ma gli investitori, a pagare per i disastri degli istituti di credito? «Bieche menzogne», replica Paolo Barnard. «Quello che è veramente stato messo nero su bianco dai tecnocrati neofeudali di Bruxelles, e che viene imposto all’Italia prona e schiava come legge suprema, è questo: voi banche avete fatto disastri, e siete quasi tutte fallite (specialmente la Deutsche Bank), ma non lo diciamo a nessuno. Facciamo un patto: voi adesso obbedite a noi, i vostri nuovi Signori, e in cambio noi vi salviamo il deretano con soldi pubblici mentre raccontiamo a tutti che non è vero. Diremo a tutti che i soldi li metteranno gli investitori, ma non è vero. Per spacciare questa frode facciamo l’Unione Bancaria con una serie di regole false, che tanto nessuno ci capisce un cazzo. Quindi il patto è: noi siamo i vostri Signori e vi comandiamo, voi continuate a maciullare la massa dei cittadini-cani, ma noi ora siamo i Signori assoluti”». In altre parole: «Neofeudalesimo».«I signori neofeudali di quest’ennesimo crimine contro il diritto, la democrazia e contro noi persone», scrive Barnard nel suo blog, «sono la Commissione Ue nella persona del commissario al Mercato Unico, Michel Barnier, la Bce con Mario Draghi, le maggiori lobby bancarie del mondo come l’Institute of International Finance di Washington e la European Banking Federation, e il cancelliere tedesco Angela Merkel». Le regole sovranazionali adottate dall’unione bancaria hanno nomi astrusi. Il Single Rulebook? «Un insieme di regole per le banche, uguali per tutti i paesi Ue». Il Single Supervisory Mechanism: è quello del «super-poliziotto che controlla tutte le banche, cioè la Bce». Poi il Single Resolution Mechanism: «Il metodo comune di affrontare il fallimento di una grande banca europea per non far partire il contagio e il panico nei mercati». Quindi il Single Resolution Board, cioè «i tecnocrati incaricati di compiere gli atti concreti del punto 3». A seguire: Single Resolution Fund. Ovvero «un fondo europeo pagato dalle banche aderenti all’Unione Bancaria, di 55 miliardi di euro, che dovrebbe soccorrere il fallimento dell’eventuale banca». E infine il National Resolution Fund: «Un fondo simile, sempre pagato dalle banche, ma per i paesi Ue che non sono nell’Unione Bancaria».Secondo Barnard, «il punto politico e storico di maggior importanza di questa truffa di Unione Bancaria è che i governi nazionali vengono totalmente esautorati da qualsiasi possibilità di regolamentare le proprie banche e di gestire eventuali fallimenti nell’interesse pubblico, ridotti a chiedere il permesso per qualsiasi legislazione al Consiglio Europeo e alla Commissione Ue», quella dei super-tecnocrati non eletti. Di fatto, si delinea un quadro molto preoccupante, perché «le maggiori banche europee – tra cui Deutsche, Unicredit, Intesa, Ubi, Bnp Paribas, Credit Suisse – sono tutte tecnicamente fallite». Vuol dire che se veramente i regolamentatori andassero a esaminare il loro libri contabili, «scoprirebbero buchi visibili da Giove». Punto cruciale: «Una banca deve sempre avere un rapporto minimo fra il suo capitale di sicurezza e i prestiti che fa, ma in tutte le maggiori banche europee questo rapporto è tragicamente sballato, cioè le banche hanno troppo poco capitale e hanno emesso oceani di prestiti, di cui almeno un totale di 1.500 miliardi sono prestiti ormai marci, inesigibili, quindi buchi nei bilanci».Banche fallite, assicura Barnard. «I tecnocrati neofeudali europei sanno bene che la gente, almeno in teoria (mai in pratica, purtroppo) è esasperata all’idea che sui giornali si legga di miliardi dati per salvare le banche, vedi Mps in Italia, mentre – allo sfigato della strada – Renzi dà la gran cifra di 80 euro». Di qui «questa gran mossa teatrale dell’Unione Bancaria». Obiettivi: «Da una parte, illudere i cittadini che saranno le banche a pagare i buchi, ma dall’altra fare esattamente il contrario e salvare le banche con soldi nostri, banche che da oggi saranno le “cameriere dei Neofeudali”». In collaborazione con il “Corporate Europe Observatory” di Olivier Hoedman, Barnard dimostra quello che sostiene, smontando le asserzioni di Bruxelles, che chiama «menzogne». A cominciare dal Single Rulebook, le nuove regole: il capitale di sicurezza deve ammontare almeno all’8% dei prestiti erogati. Problema: «Deutsche Bank è a un misero 2,5% reale, Unicredit e Intesa sono alla canna del gas». L’8%, poi, è un cuscinetto debole: «Quando Lehman Brothers e Dexia fallirono avevano “ottimi” rapporti capitale-prestiti, rispettivamente l’11% e il 10%. Persino un falco delle banche come l’ex governatore della Fed Alan Greenspan aveva chiesto che dall’8% si passasse almeno al 14%». Conclusione: regole di tutela inefficaci, «persino patetiche». Domanda: ma allora perché non le fanno fallire, le banche decotte? Perché sono “troppo grandi per fallire”, troppo interconnesse tra loro («impossibile districare la spaventosa rete di intrecci finanziari che hanno messo in piedi» e troppo complesse da smontare e ripulire: solo per “bonificare” la Lehman «ci sono voluti 3 anni e mezzo, dopo che fu scoperto che era composta da 3.000 entità».Quanto al Single Supervisory Mechanism, cioè il ruolo del super poliziotto (la Bce) che dovrebbe spulciare i libri contabili di ogni banca, la mistificazione appare lampante: le mega-banche «hanno il privilegio di fare delle specie di auto-certificazioni dello stato di quei libri, ed è qui che casca l’asino». Inoltre «stanno facendo un trucco sporchissimo per far quadrare i libri, cioè il solito rapporto tra capitale e prestiti emessi: per far salire la percentuale del capitale sui prestiti, semplicemente si sbarazzano di tonnellate di prestiti emessi impacchettandoli in prodotti finanziari “tossici”, “marci”, e li vendono agli speculatori, che è esattamente ciò che ha causato il collasso finanziario mondiale del 2007». Poi, subito dopo, «riducono drammaticamente i nuovi prestiti che dovrebbero concedere». Risultato: «Le aziende e le famiglie restano a secco, senza soldi, e l’economia va a puttane». Problemi? Non per Francoforte: «La Bce su questo non sembra aver nulla da dire, Draghi se ne sta zitto: altro che supervisore». Inoltre, dato che la Bce persegue «una missione fanatica», cioè «mantenere l’euro in vita a tutti i costi», mai ammetterrebbe il collasso della Deutsche Bank. Piuttosto, «manterrà in vita un bubbone pestilenziale che continuerà a infettare banche su banche».Alla farsa vera e propria, continua Barnard, si arriva col Single Resolution Mechanism, cioè le modalità in base alle quali affrontare il fallimento di una banca. «La versione per il popolo-cane data dei Neofeudali suona grandiosa: per la prima volta, saranno gli investitori a smenarci il deretano per primi – non il pubblico, non gli Stati». Menzogne: le nuove regole stabiliscono che azionisti e creditori (quindi anche ordinari correntisti, cittadini, risparmiatori) saranno sì chiamati a perderci per primi se la banca va sott’acqua, ma solo fino all8% dei debiti della banca. Assurdo: «In qualsiasi normale procedura fallimentare, le perdite sono sempre molto superiori per gli investitori, come è giusto che sia». E non è finita: si prevede inoltre che le autorità tecnocratiche possano chiedere a una mega-banca di accollarsi il fallimento di una “sorella”, acquisendola. Come se Bnp Paribas assorbisse – ovviamente a prezzi stracciati, da asta fallimentare – una Unicredit fallita. «Ma questo non fa altro che peggiorare il problema di fondo di queste banche», che sono “too big to fail”, troppo interconnesse, troppo complesse da smontare.«E i tecnocrati incaricati di fare tutto il lavoro chi sono? Sono per caso legittimati da noi cittadini nell’interesse pubblico? No. Sono tizi incaricati dalla solita Bruxelles e di cui noi non sapremo mai nulla, anche se decideranno del nostro destino». Saranno loro, i soliti uomini-fantasma, a gestire il Single Resolution Fund e il National Resolution Fund, cioè i due fondi da cui si dovrebbe andare a pescare per salvare le mega-banche fallite, «dopo il ridicolo prelievo dagli investitori di cui sopra». Ma sono spiccioli. «Pensate che il primo fondo sarà di 55 miliardi, contro – come già detto – almeno 1.500 miliardi di buchi bancari a rischio in Ue». Il secondo fondo, continua Barnard, si otterrà tassando le banche dell’1% dei loro depositi. «Di nuovo: il resto del caffè a fronte del problema generale». E non solo: i due fondi «non saranno disponibili per almeno 10 anni». E nel frattempo se accade qualcosa chi ci mette i soldi? «Indovina indovinello? Ma gli Stati, ovviamente. E qui arriva la catastrofe finale: perché il fondo di salvezza finanziato dagli Stati che già esiste e che sarà quello in cui si andrà a pescare in questi 10 anni è il notorio Meccanismo Europeo di Stabilità, il famigerato Mes».Famigerato, perché è un fondo «creato con soldi che l’Italia (per la sua quota) deve prendere in prestito dai mercati a tassi micidiali, per cui poi Roma ci tassa a morte». E poi perché tecnocrati “neofeudali” che hanno creato il Mes «hanno scolpito sul marmo la seguente regola: chiunque attinga al Mes per qualsiasi motivo dovrà poi assoggettarsi alle austerità della chemio-tassazione e dell’economicidio che hanno già portato alla rovina nazionale». Tutto questo, naturalmente, è stato «firmato e ratificato dal Parlamento italiano». Ricapitolando: per salvare le banche che falliranno, l’Unione Bancaria «pescherà per pochi spiccioli dagli investitori, e poi per almeno 10 anni dalle tasche di cittadini e aziende per tutto il resto del colossale malloppo». Conseguenza: «Ci beccheremo altre orrende, mortali austerità». E c’è di peggio: «Neppure il Mes, coi suoi 500 miliardi di salvadanaio (nostri soldi spremuti con la chemio-tassazione) sarebbe sufficiente a salvare neppure un quarto di una banca come la Deutsche», aggiunge Barnard. Per cui, «gli Stati dovranno trovare altri soldi», e sempre «dal sangue dei nostri figli, che saranno servi della gleba nel terzo millennio».E’ l’ultimo, inevitabile “regalo” dell’euro: con moneta sovrana – spesa pubblica, deficit positivo – l’uscita dall’incubo sarebbe invece immediata. Fine della super-tassazione, del tracollo dell’economia, della devastazione sociale. «Non ci sarebbe bisogno di nessuna Unione Bancaria, né di regole astruse e truffe», perché «non esiste crisi finanziaria che una saggia spesa a deficit di un paese sovrano nella moneta non possa curare». L’Italia? «Torni alla sua sovranità monetaria, abbandoni questo mostro ributtante di Eurozona neofeudale, torni a regolamentare le sue banche», come fanno Giappone, Cina, Usa. «Torni a poter raddoppiare i bilanci della nostra Banca d’Italia dal giovedì mattina al giovedì a mezzogiorno con un colpo di tastiera di un computer, per nazionalizzare la nostre banche fallite di cui Roma diviene azionista con diritto di voto. Le salva, le ripulisce, e le rivende facendoci una grassa pluslvalenza». Non ci credete? E allora, conclude Barnard, chiedete a Washington o a Londra: «Dopo aver speso a deficit di Stato per salvare le loro banche senza nessuna Unione Bancaria truffa, il Tesoro Usa ha incassato profitti per 9 miliardi di dollari, quello inglese ha incassato 5 miliardi. La banca centrale americana ha incassato 24 miliardi di plusvalenze, la Banca d’Inghilterra 33 miliardi, tutti soldi pubblici ritornati a casa. Così dovrebbe fare Roma».Vi hanno raccontato che con l’Unione Bancaria non saranno più i contribuenti, ma gli investitori, a pagare per i disastri degli istituti di credito? «Bieche menzogne», replica Paolo Barnard. «Quello che è veramente stato messo nero su bianco dai tecnocrati neofeudali di Bruxelles, e che viene imposto all’Italia prona e schiava come legge suprema, è questo: voi banche avete fatto disastri, e siete quasi tutte fallite (specialmente la Deutsche Bank), ma non lo diciamo a nessuno. Facciamo un patto: voi adesso obbedite a noi, i vostri nuovi Signori, e in cambio noi vi salviamo il deretano con soldi pubblici mentre raccontiamo a tutti che non è vero. Diremo a tutti che i soldi li metteranno gli investitori, ma non è vero. Per spacciare questa frode facciamo l’Unione Bancaria con una serie di regole false, che tanto nessuno ci capisce un cazzo. Quindi il patto è: noi siamo i vostri Signori e vi comandiamo, voi continuate a maciullare la massa dei cittadini-cani, ma noi ora siamo i Signori assoluti”». In altre parole: «Neofeudalesimo».
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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.
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Baranes: la finanza sta sabotando l’economia dell’umanità
Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi cacciavite o cambi casa? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».Da trent’anni, scrive Baranes in una riflessione ripresa da “Micromega”, siamo immersi in un pensiero economico che si fonda sull’idea dell’efficienza dei mercati, da cui discende la necessità di rimuovere vincoli e controlli pubblici che possano ostacolarne il funzionamento. In realtà, «la finanza ha dimensioni decine di volte superiori all’economia di cui dovrebbe essere al servizio». Si sospetta che la quasi totalità delle operazioni finanziarie sia pura speculazione: «Nessun rapporto con l’economia reale, ma unicamente soldi che inseguono soldi per fare altri soldi». La seconda possibilità, ancora peggiore, è che «la finanza lavori con un’efficienza intorno al 1%». Non si tratta solo di risorse economiche, ma anche di risorse umane. I migliori studenti di economia, matematica, informatica e statistica sono attratti dagli alti stipendi verso i centri finanziari, «per creare prodotti sempre più complessi, incomprensibili e rischiosi».Avvertiva il Premio Nobel James Tobin già negli anni ‘80: «Stiamo gettando sempre più risorse, inclusa la crema della nostra gioventù, dentro attività finanziarie lontane dalla produzione di beni e servizi, attività che generano alte remunerazioni private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale». Il sistema finanziario, dice Baranes, ha «moltiplicato i rischi» in modo esplosivo, sabotando l’economia, «all’esasperata ricerca del massimo profitto nel minor tempo possibile». La finanza? «Dovrebbe essere il mercato dei soldi, per fare incontrare chi ha un risparmio da investire con chi ne ha bisogno per le proprie attività». Oggi, invece, «abbiamo da un lato una montagna di denaro alla disperata ricerca di sbocchi di investimento, e dall’altro una montagna altrettanto alta di bisogni che non sono soddisfatti». Nonostante il vortice di trilioni in costante movimento, è praticamente impossibile ottenere un mutuo: piccole imprese e artigiani sono strangolati dalla mancanza di accesso al credito. La finanza non risolve problemi, crea solo disastri. Salvo poi tentare di incolpare il sistema pubblico: scuola, sanità e acqua potabile da privatizzare, facendo vincere il profitto. Se parliamo di bisogni essenziali dell’umanità, la finanza «ha dimostrato un’assoluta incapacità di operare nell’interesse generale».Se stai facendo una riparazione domestica e ti si rompe il cacciavite che fai, cambi casa o cambi cacciavite? «Per compiacere i mercati abbiamo cambiato la nostra Costituzione, inserendovi il pareggio di bilancio. Il cacciavite non funzionava. Abbiamo cambiato casa». Secondo Andrea Baranes, la finanza «ci ha caricato sulle spalle un insostenibile fardello fatto di disoccupazione, precarietà, perdita di diritti» e «ci ha gettato nel fango di una recessione globale». E ora «lo stesso sistema finanziario ci dice che con questo fardello e in questo fango dobbiamo metterci a correre, perché altrimenti si arrabbia e ci toglie la fiducia». E’ una macchina mostruosa, che sfugge a ogni controllo: «Il totale di beni e i servizi importati ed esportati nel mondo ammonta a 20.000 miliardi di dollari all’anno. Le transazioni tra valute hanno superato i 5.000 miliardi di dollari al giorno: circola più denaro in soli 4 giorni sui mercati finanziari che in un intero anno nell’economia reale».
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Perché i russi amano Putin? Scoprirlo è molto istruttivo
Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.Democrazia? Per i russi normali, soprattutto nella periferia del paese, spesso è una parolaccia. La nuova borghesia? Sulle rive della Moscova la parola suona dispregiativa. La prepotenza del regime contro un оligarca democratico come Khodorkovskij che voleva sfidare Putin alle urne? Per moltissimi sotto le mura del Cremlino è il minimo sindacale di un atto di giustizia contro i tanti oligarchi arricchiti e non sazi di soldi e di potere. Ucraina, Crimea, prezzo del gas… una continua commedia degli equivoci che rende impossibile capirsi. E tutto comincia nei “terribili” anni Novanta. La notte del 25 dicembre 1991 i russi non riuscirono a dormire. Il giorno prima erano cittadini di un paese, l’Unione Sovietica; da quel momento, non lo erano più. Fu uno shock. Milioni di persone di nazionalità russa si ritrovarono, abbandonati dalla Madrepatria, cittadini di paesi che non li volevano e che spesso, come è accaduto nelle Repubbliche baltiche, negavano loro i diritti minimi della cittadinanza. Ma non c’era tempo, né forza per occuparsene.Presto le cose cominciarono ad andare peggio di quanto mai si sarebbe potuto immaginare. Arrivò la politica del Fondo monetario e degli Harvard Boys, introdotta dal governo di Boris Eltsin: liberalizzazione e privatizzazione. Fu chiamata “terapia shock”. Uno shock sullo shock. La promessa era che alla fine del tunnel ci sarebbe stato un paese finalmente libero, democratico e benestante. I russi si fidavano, erano pronti ai sacrifici. Pensavano che l’Occidente, essendo stato capace di offrire benessere, democrazia e giustizia a casa propria, lo avrebbe fatto anche da loro. La fiducia crollò lentamente, ma inesorabilmente, sotto i colpi della realtà. Sotto gli occhi impotenti della gente, per il bene del paese, le aziende cominciarono ad essere vendute per un prezzo vicino allo zero, tra l’1,5 e il 2 per cento del loro valore. In tutto, lo Stato realizzò dall’operazione circa il 10 per cento del valore effettivo, beni mobili e immobili inclusi.Alle persone normali fu dato un pezzo di carta, si chiamava voucher, che era l’equivalente della quota a cui avevano diritto. Valevano 10 mila rubli. Natalja Fjodorovna, l’anziana mamma di una mia cara amica, fu la prima a pronunciare quella che credevo fosse una battuta: «Muzhiki prodadut za butilku», gli uomini lo venderanno per una bottiglia. Ci volle poco a capire che non era una boutade. I voucher si vendevano agli angoli delle strade per una vodka, tremila rubli. Come scrive Naomi Klein nel suo “Shock Economy”, «nel 1998, oltre l’80% delle aziende agricole erano in bancarotta, e circa 70 mila fabbriche statali avevano chiuso i battenti, generando un’epidemia di disoccupazione». E «74 milioni di russi vivevano sotto la soglia di povertà, secondo la Banca Mondiale». Lavoro non ce n’era nel modo più assoluto. I ragazzi sognavano di fuggire e chiedevano i computer, le pensioni arrivavano in ritardo, gli stipendi non arrivavano più; medici, insegnanti, professori, chi poteva cercava un lavoretto all’estero.Le file nei negozi erano scomparse, come i soldi per comprare. Ovunque fiorivano tetri negozietti temporanei dove si pagava direttamente in dollari. Gli ospedali non davano più neanche le lenzuola. La criminalità fioriva, al punto che era diventato rischioso girare di notte anche in una città come Mosca. Nel frattempo, tutti i soldi della Russia erano passati nella tasche di pochi intraprendenti, che diventarono miliardari e potenti, i cosiddetti oligarchi. A proposito di Khodorkhovskij, quando fu arrestato, nel 2003, era il padrone della Yukos, il terzo colosso petrolifero del paese, e l’aveva acquistata partecipando ad un’asta, sebbene fosse stato proprietario della banca Menatep che quell’asta aveva gestito. In pratica, come spiegò poi il responsabile del programma di privatizzazione Alfred Kokh, aveva comprato la Yukos con i soldi della Yukos. Ottenne il 77 per cento delle azioni con 309 milioni di dollari. E poiché il valore reale si aggirava intorno ai 30 miliardi, entrò direttamente a far parte degli uomini più ricchi del mondo (“Forbes”).Così la vedono i russi. Che hanno ritrovato un po’ di fiducia il giorno in cui è arrivato Putin e ha ripreso in mano, nel bene e nel male, il paese. Questo dice Natalia Fjodorovna, che ha avuto una vita lunga e difficile, e partorì il suo primo figlio su un treno mentre fuggiva non sapeva dove coi nazisti alle calcagna. Ogni russo ha una storia incredibile da raccontare, una storia che – proprio come ha dimostrato Emmanuel Carrère con “Limonov” – vale un romanzo. Loro sì che possono spiegarci perché non si è ancora formata una vera borghesia in Russia. Ma per favore, almeno a Mosca, non chiamatela così.(Fiammetta Cucurnia, “Come si spiega il consenso russo per Putin”, da “Il Venerdì di Repubblica” dell’11 aprile 2014, ripreso da “Megachip”).Pare che i russi siano proprio innamorati di Vladimir Putin. Non tutti, certo, ma una enorme maggioranza. L’ultimo sondaggio dell’istituto Vciom-Levada, considerato il più affidabile del paese, accredita al leader del Cremlino un indice di popolarità del 76 per cento (per la precisione il 75,7). Sì dirà che il dato è falsato dai fatti della Crimea, ma nel maggio del 2012 era il 68,8 per cento a sostenere Putin, e mediamente negli ultimi 13 anni questo dato si è mantenuto sempre più o meno stabile, un po’ sopra al 60 per cento. In questi giorni, poi, come mai prima, arrivano molte telefonate di amici russi che proprio non riescono a spiegarsi l’atteggiamento dei paesi occidentali verso il loro leader e, dunque, semplificando, verso di loro. Chi pensa che sia facile dare una spiegazione convincente, sbaglia di grosso. Perché per spiegare ci vogliono le parole, e le parole hanno un significato molto diverso quando le dici a Roma o a Mosca.
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
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Barnard: hanno vinto loro, non osiamo più ribellarci
Alcuni anni fa ebbi uno scontro con Noam Chomsky, fu un lungo scambio che Noam stesso alimentò, piuttosto inusuale per lui, che è uno degli intellettuali più impegnati al mondo, e che ultimamente s’impegna ancor di più freneticamente per motivi che conosco, ma che non posso divulgare. La sostanza dello scontro erano le chance di riuscita di qualsiasi movimento di protesta, di lotta, di impegno oggi, a fronte dell’immane potere e diffusione del Vero Potere. La sua tesi era questa: la Storia ha sempre portato mutamenti per il meglio, oggi stiamo incommensurabilmente meglio di secoli fa, e non vedo perché questo processo non debba continuare. Basta non demordere. E, in ogni caso, io mi attengo alla cosiddetta “scommessa di Pascal”, secondo cui far nulla significa perdere di certo, tanto vale fare qualcosa. La mia tesi era questa: se un processo (di miglioramento) è sempre esistito, non significa che continuerà ad esistere.
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Gallino: il nemico è la democrazia autoritaria dell’Ue
La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.La candidatura di Tsipras ha il merito di riportare la nostra attenzione al nesso tra crisi economica e crisi della democrazia. E di farlo ponendo dinanzi ai nostri occhi un esempio concreto come la Grecia, che meglio rappresenta il dramma del fallimento delle politiche di austerità. Dove, secondo l’ultimo rapporto della rivista di medicina “Lancet”, molte famiglie non hanno più nemmeno i soldi per curare i propri bambini. Dobbiamo esserne consapevoli, ciò che è successo ad Atene potrebbe avvenire anche in altri paesi dell’area euromediterranea. Questi sono i costi di una democrazia autoritaria affidata alle tecnocrazie. L’Europa è una grande dimensione politica, che non possiamo permetterci in alcun modo di affossare. Dobbiamo recuperarne l’originario spirito federalista e pretendere che si sviluppi su ben altre direttrici.Quella che oggi si chiama socialdemocrazia farebbe rivoltare nella tomba non pochi dei suoi illustri esponenti del passato. Se penso a quella tedesca, non dimentico che nella seconda metà del secolo scorso si è dimostrata in grado di introdurre grandi innovazioni in senso progressista. Poi però è arrivata l’Agenda 2010 e l’influenza del pensiero economico neoliberale ha preso il sopravvento. Nei primi anni duemila sono state approvate leggi che avevano come unico obiettivo quello di ridimensionare i capitoli principali della spesa sociale, così come sono state adottate politiche attive del lavoro che partivano dal presupposto secondo il quale se qualcuno era disoccupato lo era per propria responsabilità. Gli effetti sono stati quelli di una drastica segmentazione del mercato del lavoro tedesco e una forte moderazione salariale.Oggi in Germania si contano 7,3 milioni di cosiddetti mini-jobbers che lavorano 15 ore alla settimana per guadagnare 450 euro al mese e solo i più fortunati riescono a sommare più lavori. Altri 7,5 milioni di lavoratori hanno sì un contratto a tempo indeterminato ma lavorano per meno di 6 euro all’ora. Basterebbero questi dati a farci capire che negli ultimi due decenni i socialdemocratici in realtà hanno smesso di tutelare i più deboli. Martin Schulz? Ho letto che si è detto contrario alle modalità con cui si sta costruendo l’Unione bancaria e qualche giorno fa la Commissione affari economici di Strasburgo ha approvato una mozione su questo. Non solo, la stessa commissione ha approvato anche una risoluzione che chiede la costituzione di un Fondo Monetario Europeo che rimpiazzi la Troika. Mi sembra si tratti di decisioni in controtendenza rispetto agli orientamenti dell’attuale ministro dell’economia tedesco, Wolfang Schäuble, con il quale la Spd governa. Fatti non trascurabili, ma ancora insufficienti.Nel mio ultimo libro ho teorizzato un “colpo di stato” da parte di banche e governi. Ci sono molti studi che arrivano a questa conclusione. Si parla in un’involuzione autoritaria in cui decisioni di grande importanza, in questi anni, sono state prese da un numero ristretto di tecnici. Ciò che è avvenuto ricalca quello che la teoria politica definisce a tutti gli effetti un “colpo di Stato”, dove parti dello Stato che non ne avrebbero il diritto si arrogano poteri fondamentali attinenti alla sovranità costituzionale dello Stato medesimo. Il sistema finanziario ha preso il potere, in nome di una presunta eccezionalità, imponendosi ai governi nazionali e alla politica. Nuove forme di democrazia a livello locale da cui ripartire? Un terreno potrebbe essere quello della lotta alle privatizzazioni dei servizi di pubblica utilità. Molte analisi ormai lo affermano senza alcun timore di sorta: sono operazioni inefficienti dal punto di vista economico.Come sosteneva Hannah Arendt, la democrazia senza partecipazione non conta niente. Quello che conta maggiormente è il luogo democratico dove si forma l’agenda politica di una comunità, sia essa un comune, una regione, una nazione o un continente. Pensando agli enti locali di maggior prossimità, ci vorrebbero dei consigli comunali dove il primo obiettivo fosse quello di favore la discussione, il confronto aperto tra visioni diverse della società. Luoghi dove estrapolare e aggregare la conoscenza locale. La questione di fondo però è che i cittadini organizzati danno fastidio e la velocità dei processi economici considera i procedimenti democratici più un ostacolo che un’opportunità. Stiamo assistendo dunque a un’involuzione autoritaria. Non ci si può stupire allora che la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma anche Van Rompuy e Olli Rehn, auspichino una democrazia “market conform”.(Luciano Gallino, dichiariazioni rilasciate a Mattia Ciampicacigli per l’intervista “Il nostro nemico è la democrazia autoritaria” pubbicata da “Il Manifesto” e ripresa il 7 marzo 2014 dal sito “Lista Tsipras”).La democrazia teorizzata e realizzata dai neoliberali è una cattiva imitazione della democrazia. I popoli europei sono stati ingannati dai loro governi. È mancata una spiegazione intellettualmente onesta della crisi, delle sue cause profonde. Gli economisti ci hanno lasciato solo concetti paludati di formule, incomprensibili ai più. Credo si possano tuttavia pensare nuove forme di democrazia diretta, non fosse altro per il fatto che quella rappresentativa non gode davvero di buona salute. Bisognerebbe però operare su più livelli. A livello di Unione Europea, il Parlamento è l’unico organo che attualmente eleggiamo. Quest’ultimo, però, pur disponendo del potere di veto, tende a non utilizzarlo a sufficienza e conta ancora davvero poco. Serve dunque una democrazia rappresentativa più strutturata.
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Via Napolitano, al Colle l’uomo che grazierà Berlusconi
’articolo 138)», riforma elettorale, semestre italiano Ue con Letta e, infine, elezioni entro il 2015 o al massimo il 2016. Tutto a monte, come sappiamo.«Il governo delle larghe intese è colato a picco a novembre, e con lui il comitato dei saggi che dovevano riformare la Costituzione», ricorda Giannuli nel suo blog. «La legge elettorale ha preso una strada diversa dal previsto con l’inopinato accordo Renzi-Berlusconi». Infine, «è affondato Letta e Napolitano ha dovuto ingoiare l’indigesto Renzi». Secondo Giannuli, Napolitano non ha retto «all’uno-due della richiesta di messa in stato d’accusa e del libro di Friedman». Sull’impeachment, Giannuli rileva l’importanza del comportamento di Forza Italia: pur condividendo le accuse dei grillini, il partito di Berlusconi ha scelto l’astensione. Un’uscita di scena onorevole. Come dire: fa’ con calma, ma togli il disturbo. «E la cosa – continua Giannuli – è stata tanto più pesante per la convergenza con le rivelazioni di Alan Friedman». Certo, tutti sapevamo dal 2010 che stava per partire la candidatura di Monti, che Napolitano avrebbe visto volentieri al posto di Berlusconi. Rivelazioni divenute ufficiali. Non così gravi sul piano giuridico, ma devastanti sotto l’aspetto dell’immagine.A indebolire ulteriormente Napolitano, l’evoluzione del Pd: alla guida del partito non ci sono più Bersani ed Epifani «ma uno come Renzi, con il quale c’è sempre stata ruggine e che, infatti, già non gli risparmia ruvidezze di rara tangheraggine». E’ dunque scontato: a meno di avvenimenti imprevedibili, Napolitano si farà da parte. Quindi già si pensa alla successione: «Molto dipende da come andranno le europee, dopo di che inizieranno i veri giochi». Dei 505 voti necessari, il Pd ne possiede 400: tantissimi, ma non sufficienti. «In teoria, potrebbe farcela alleandosi con alcuni minori (Sel, resti di centro, qualcuno del gruppo misto), ma sappiamo tutti che il Pd ha la compattezza di un budino». In più, Renzi pretenderà di fare da regista nella doppia veste di segretario del partito e presidente del Consiglio, «il che complica tutto perché i gruppi parlamentari Pd vedono Renzi come il peperoncino negli occhi e preferirebbero pulirsi i denti con la lima piuttosto che seguire le sue indicazioni».L’unica, per il Pd, è costruire un’allenza larga e solida: scartando ovviamente i grillini, non resta che Forza Italia. Il che, in teoria, «mette automaticamente fuori gioco candidati come Prodi, già trombato dal Pd e inviso più d’ogni altro a Berlusconi». Potrebbero saltar fuori l’eterno Giuliano Amato o D’Alema, «accettabili dal centrodestra ma assai meno popolari nel Pd». Poi «è difficile immaginare Renzi» spendersi per questi due vecchi arnesi. Era circolata l’ipotesi Draghi, ma l’interessato non pare entusiasta: non si fida del Palazzo e preferisce restare nell’alta finanza anche dopo l’incarico alla Bce, che scadrà a fine 2016. Il candidato ideale? «Deve essere “potabile” per il Pd, ma deve piacere anche a Forza Italia». E a Forza Italia, non ci vuol molto a capirlo, «interessa solo una cosa: la grazia per il suo capo e la garanzia di bloccare gli altri processi».Così, secondo Giannuli, «il pallino si fermerà sulla casella “grazia” e favorirà il candidato che garantisca di concederla». Cosa peraltro «non semplicissima per il Pd, che correrebbe il rischio di un ammutinamento generale della base», regalando «una valanga di voti al M5s». Come uscirne? «Se il piano “grazia” dovesse prendere quota, si potrebbero tentare solo due strade». La prima: un “candidato neutro”, proveniente dalle più alte magistrature dello Stato, disposto poi a introdurre il tema della grazia come “motu proprio”, senza coinvolgere direttamente nessuno schieramento politico. Oppure – seconda ipotesi – il nome in partenza più improbabile, quello di Prodi. Potrebbe essere presentato come «un gran gesto di “pacificazione nazionale”, il suggello sulla “guerra civile berlusconiana” per la difesa del paese e via colando melassa». Possibile scenari che, tra non molto, saranno verificati.Romano Prodi presto al Quirinale, al posto di Napolitano, con in tasca la “grazia” per Berlusconi? Pazza idea, che però metterebbe fine alla “guerra dei vent’anni”. Fantapolitica? Forse, ma non troppo. Così almeno la pensa Aldo Giannuli, secondo cui sono in molti a dare ormai per scontato l’addio di Napolitano, magari a giugno dopo le europee o al più tardi a dicembre, dopo la presidenza italiana del semestre europeo. L’uomo del Colle è stanco, già al momento della rielezione si era riservato il diritto di ritirarsi in anticipo data l’età avanzata. Ma a pesare, sottolinea Giannuli, è anche il fallimento bruciante della sua politica. Napolitano aveva infatti condizionato la sua permanenza al Quirinale ad un preciso progetto: larghe intese presiedute da Letta, riforma costituzionale «con metodo sprint (in spregio all’articolo 138)», riforma elettorale, semestre italiano Ue con Letta e, infine, elezioni entro il 2015 o al massimo il 2016. Tutto a monte, come sappiamo.
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L’euro-pirla che offre alla Merkel lo scalpo degli italiani
Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.«Eppure, a fare un piccolo conto – scrive la Billi nel suo blog – scopriamo che appena 10 milioni di persone riceveranno 1.000 euro a fine anno, mentre tutti i 50 milioni di cittadini i 1.000 dovranno pagarli proprio per il Fiscal Compact». Saldo negativo: «Conto paro per alcuni, meno 1.000 euro per tutti gli altri». Ma poco importa, aggiunge la blogger: «Tutti si affannano col mantra del “meglio che niente”, ovvero quell’elemosina dei potenti che da sempre tiene buono il popolino nei momenti di magra o di scontento. Che qualcuno regali soldi sembra ai più un miracolo, mentre il fatto che ci rapinino ogni giorno è ormai dato normale e acquisito. L’eccezione, si sa, fa notizia. Che gli 80 euro “facciano girare l’economia” poi è hard fantasy». Continua la Billi: «Alzi la mano chi non ha una multa arretrata, una cartella Equitalia, un aumento di tasse comunali o regionali o Tarsu o Taris o quel che l’è da pagare. Gli 80 euro torneranno nelle tasche dello Stato più veloci della luce, e pochi saranno quelli che riusciranno a spenderli al negozietto in affanno».Il succo? Stanno cercando di comprarci il voto: «Una vecchia usanza dei politici italiani, che credono da sempre di aver a che fare con dei pezzenti che si vendono per poche lire. Grazie per la stima, ragazzi. Se ci aggiungete due paia di calze e un sacco di carbone magari vi voto anch’io, che qua fa freddo e Putin è cattivo». Nel 1999, riassume Paolo Barnard, l’Italia era la quinta potenza mondiale, una delle maggiori economie d’Europa secondo “Standard & Poor’s”: «Esportavamo più della Germania e avevamo il Pil pro capite più alto d’Europa». Vent’anni dopo, eccoci tra i Piigs: «Siamo i “maiali d’Europa”, abbiamo il 23esimo reddito dell’Ocse, la disoccupazione maggiore da 40 anni». Ogni anno, il nostro Pil perde 800 miliardi, mentre «falliscono oltre 300.000 aziende all’anno e si suicidano più imprenditori che operai per la prima volta nella storia». Inontre, dal 1992 al 2012 l’Italia ha fatto avanzo primario. «Vuol dire che se dai conti dello Stato si tolgono le sue spese per pagare gli interessi sui titoli come i Btp o i Cct, lo Stato ha sempre incassato più tasse di quanto ci desse di denaro. Ci dava 100 e ci tassava 110. Così per 20 anni».E’ la catastrofe della finanza pubblica “privatizzata”, cioè affidata agli “investitori” internazionali che acquistato i titoli del debito pubblico da quando, nel 1981, Bankitalia divorziò dal Tesoro e cessò di essere il “bancomat del governo”, emettendo denaro a costo zero per finanziare i servizi. Poi, con l’euro, il colpo da ko: impossibilità di fare retromarcia, con lo Stato costretto a rivolgersi alle banche private, uniche destinatarie della non-moneta emessa dalla Bce. E quindi, per restare a galla, più tasse. «Se lo Stato spende 100 e tassa 80, al settore di cittadini e aziende rimane al netto 20», ragiona Barnard. «Se spende 100 e tassa 100, rimane 0, se spende 100 e tassa 120 – cioè se lo Stato fa l’avanzo primario – vuol dire che il settore privato deve andare in rosso di 20 ogni volta». Così per vent’anni.Ed ecco come s’è ridotto il settore privato italiano. Oggi, «quasi la metà dei titoli di Stato italiani sono in mani straniere, per cui quasi la metà di quel reddito se n’è andato via dall’Italia. Sono cifre enormi, miliardi su miliardi». Danni limitati, «se questa emorragia di denaro fosse stata giustamente compensata da maggiore spesa pubblica nell’interesse pubblico italiano». Invece, «montagne di denaro» sono volate per pagare interessi stranieri, mentre lo Stato «ci tassava per più di quello che ci dava, privandoci di miliardi su miliardi di spesa essenziale allo sviluppo della nazione». Ora siamo all’inevitabile: economia ko, mutui che saltano, banche che non concedono credito, super-tassazione e “spending review”, privatizzazioni, servizi pubblici in agonia. E’ in arrivo anche il Fiscal Compact, la maxi-tassa europea? Niente paura, Renzi assicura che pagheremo anche quello. Per la gioia della Merkel. Felice, finalmente, del programma di “riforme strutturali” (amputazione definitiva dello Stato, morte economica del paese) che Mario Monti ed Elsa Fornero non erano riusciti a completare.Se scodinzoli di fronte al boia, c’è qualcosa che non torna. Tradotto da Matteo Salvini, Lega Nord: «A Berlino abbiamo assistito allo show di un euro-pirla. Renzi, amico della Germania e nemico dell’Italia. Solo un cretino può pensare che possiamo essere alleati». Infatti, «se la Merkel è contenta e gli fa gli auguri, vuol dire che ha capito che continua a guadagnarci: basti pensare che da quando siamo entrati nell’euro la Germania è cresciuta del 30% mentre l’Italia è calata del 20%». Cifre impietose, osservando gli indicatori-chiave, Pil e disoccupazione: l’Eurozona ha lanciato Berlino, massacrando l’Italia. Anche il neo-premier si genuflette: niente sforamento del 3%, rigorosa applicazione della mannaia del patto fiscale europeo. «Non battiamo ciglio quando ci viene detto che dovremo tirar fuori, da quest’anno, 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact, ma ci sembrano chissà quale elargizione gli 80 euro in busta paga per un quinto degli italiani», annota Debora Billi.
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Perché le banche ci presteranno sempre meno soldi
Le banche italiane (ma anche le altre) non prestano quasi più. Dal 2007 al 2012 il motivo era ovvio: la crisi finanziaria. Cioè dagli Usa era arrivato lo tsunami che ha travolto tutto il sistema creditizio europeo. Poi arriva un altro tsunami: i 10 anni di esistenza dell’euro hanno talmente depresso le economie di Francia, Olanda, Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Grecia che le banche si sono ritrovate con milioni di prestiti inesigibili (aziende e famiglie che non possono più ripagare le rate). Cioè: i buchi nei loro bilanci già abnormi per la crisi finanziaria sono diventati crateri visibili dalla Luna. Ora, imprenditore, già a questo punto per te andare in banca a chiedere qualsiasi cosa che non sia un’indicazione stradale era diventato un dramma. Ma ecco che la politica tecnocratica americana ed europea se ne esce con l’idea di tutte le idee: siccome ’ste banche hanno fatto porcate fuori dalle grazie di Dio e hanno portato il mondo al collasso, ora noi le prendiamo per la collottola e, a sberle, le mettiamo in riga.Ti spiego cosa significa: per la prima volta forse nella storia, il paradigma che il politico è il cameriere dei banchieri s’inverte. Ora la politica comanda. In Europa la Banca Centrale Europea decide che fra un anno diventerà il super-poliziotto delle banche (Banking Union) ma, prima di questo, i regolamentatori europei faranno il check up medico alle banche. Cosa significa? Ecco. Una banca ha tre cose: 1) Il capitale, che sono le azioni investite in quella banca; 2) i prestiti emessi (mutui e aziende) che sono gli attivi della banca; 3) e l’obbligo che il capitale sia una percentuale precisa di tutti gli attivi detenuti (dall’8 al 10% di tutti i prestiti fatti). Allora: con le banche europee praticamente tutte fallite, il loro capitale si è ridotto tanto (investitori in fuga). Pensa, amico imprenditore, che se la mega Deutsche Bank fosse esaminata con un test severo chiamato Leverage Ratio, si ritroverebbe con un capitale che invece di essere 8-10% degli attivi è il 2,5%. Cioè: dovrebbe portare i libri in tribunale fra 15 minuti. Ok?Bene. Il problema del capitale obbligatorio delle banche che si è ridotto tantissimo rispetto ai prestiti fatti è già gravissimo in tutta la Ue. Poi, come se non bastasse… Si è detto sopra che le crisi economiche generate dalla crisi Usa e da quella inflitta dall’euro hanno aumentato esponenzialmente la percentuale di famiglie e aziende che non possono più ripagare i prestiti/mutui. Risultato: buchi stellari nei libri contabili della banche. E anche qui i politici tecnocrati europei hanno detto alle banche: dovete mettere da parte del capitale per coprire anche ’sti buchi. Merda, non c’è altra parola, specialmente per le piccole medie banche italiane, quelle cioè coi buchi più spettacolari in Ue. Allora le banche cosa hanno pensato? Furbi loro: siccome il problema degli esaminatori europei è che i nostri capitali sono in proporzione percentuale sempre inadeguati (cioè troppo bassi) rispetto ai prestiti (attivi) emessi o rispetto ai prestiti che non ci verranno mai più ripagati, allora cosa facciamo noi? Ha! Trovata: riduciamo gli attivi, cioè i prestiti, e svendiamo agli speculatori i prestiti inesigibili, così i rapporti percentuali fra capitale e prestiti emessi si riequilibria a favore del capitale, e… passiamo gli esami.Ma, caro imprenditore amico, che significa ridurre gli attivi delle banche? Sìììì, esatto, significa ridurre i prestiti che fanno. Ed ecco che ora a te non prestano più neppure una Bic. Capito? E allora, imprenditore che vai alla “Gabbia” a sbraitare, ora lo hai capito perché la tua azienda di Istrana in provincia di Treviso non ha più credito? Hai capito dove sta il problema? Hai capito che se continui a sbraitare da “La Gabbia” contro la casta sei scemo? Nel nome di Giove, spero che tu mi stia capendo. Ma aspetta, perché hai da capire altre due cose fondamentali, sì, tu di Istrana, o di Fusignano, o di Pozzuoli: a) Che la sberla alle banche della crisi finanziaria poteva essere risanata in sei mesi se Roma avesse avuto sovranità monetaria (si aprono i rubinetti di spesa e si nazionalizzano le banche marce); b) Che la mega sberla alle banche della crisi dell’Eurozona la si risolve curando l’Eurozona, che significa questo: uscirne, sbattere la porta e dire ciao ciao. Poi magari girarci verso il Giappone e chiedere qualche consiglio, che loro di crisi se ne intendono, visto che ci sono stati per 20 anni ma sono ancora in cima al mondo.(Paolo Barnard, “Senti imprenditore, te lo spiego semplice – ma semplice, eh?”, dal blog di Barnard del 27 febbraio 2014).Le banche italiane (ma anche le altre) non prestano quasi più. Dal 2007 al 2012 il motivo era ovvio: la crisi finanziaria. Cioè dagli Usa era arrivato lo tsunami che ha travolto tutto il sistema creditizio europeo. Poi arriva un altro tsunami: i 10 anni di esistenza dell’euro hanno talmente depresso le economie di Francia, Olanda, Italia, Spagna, Portogallo, Slovenia e Grecia che le banche si sono ritrovate con milioni di prestiti inesigibili (aziende e famiglie che non possono più ripagare le rate). Cioè: i buchi nei loro bilanci già abnormi per la crisi finanziaria sono diventati crateri visibili dalla Luna. Ora, imprenditore, già a questo punto per te andare in banca a chiedere qualsiasi cosa che non sia un’indicazione stradale era diventato un dramma. Ma ecco che la politica tecnocratica americana ed europea se ne esce con l’idea di tutte le idee: siccome ’ste banche hanno fatto porcate fuori dalle grazie di Dio e hanno portato il mondo al collasso, ora noi le prendiamo per la collottola e, a sberle, le mettiamo in riga.
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Kiev, golpe o rivoluzione? Il popolo conta più degli 007
Il mondo ribolle di rivoluzioni vere e presunte? Per favore, evitiamo di cadere nella tentazione totalizzante del complotto: che certamente esiste e ha un peso, ma non può essere determinante in assenza di reali, fortissimi motivi di scontento popolare. Lo disse, all’indomani della rivolta di Kiev, Mikhail Gorbaciov: nei rivolgimenti dell’Ucraina è stato innanzitutto determinante il “tradimento” del presidente Yanukovich, incapace di attuale la “perestrojka” democratica promessa. Con un governo più decente, difficilmente gli ucraini sarebvero scesi in piazza in quel modo. Torna sull’argomento il politologo italiano Aldo Giannuli, storico esperto di intelligence e strategia della tensione: «I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse. Possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’esasperazione popolare che non è cosa che si inventi».L’attualità è incandescente: Venezuela e Ucraina sono due scenari pericolosi, in cui è scontata la regia occulta dei servizi occidentali, che a Kiev sono accusati di aver addirittura impiegato cecchini per colpire e uccidere manifestanti, allo scopo di incolpare il regime di Yanukovich. «Può accadere che un tumulto di piazza sia più o meno stimolato da qualche servizio segreto o polizia politica e funga da innesco, ma se sotto non ci sono le polveri da sparo o le polveri non sono abbastanza asciutte, non scoppia niente», scrive Giannuli nel suo blog. «Viceversa, è altrettanto mitologica la visione di un irresistibile moto di popolo che vive solo della spontaneità delle masse, rispetto alla quale ogni tentativo di infiltrazione sarebbe votato all’inevitabile fallimento». Nelle rivoluzioni, continua Giannuli, «coesistono rabbia popolare spontanea, ruolo soggettivo delle organizzazioni rivoluzionarie, infiltrazioni poliziesche, condizioni ambientali». Il problema è «capire di volta in volta quale sia il peso e il ruolo di ciascuno di questi fattori».La “purezza rivoluzionaria” che molti esigono? E’ un sogno impossibile, nelle condizioni storicamente date. Ma quelle che Giannuli chiama «le lenti del passato», cioè «campo imperialista contro campo antimperialista, già abbondantemente fuorvianti a loro tempo», oggi rischiano di essere «solo dei formidabili diversivi, buoni a confondere le idee». C’è chi considera “rivoluzioni” «solo quelle che ci piacciono e che possono iscriversi a pieno titolo nel solco delle rivoluzioni socialiste e democratiche del novecento, mentre tutte le altre sono solo congiure di servizi segreti». Le rivoluzioni, continua Giannuli, «possono anche avere un segno che non ci piace o anche, semplicemente, avere aspetti molto criticabili, ma non per questo cessano di avere una loro spontaneità per essere ridotte a puro complotto». Per Giannuli, si tratta di «due atteggiamenti opposti ed ugualmente sbagliati: quello di chi pensa che le rivoluzioni siano sempre e solo movimenti sociali spontanei, nei quali i servizi segreti non c’entrano o comunque sono impotenti, e quello di chi pensa che i servizi segreti siano pressochè onnipotenti, in grado di suscitare eruzioni sociali che poi guidano a bacchetta. Mitologie: entrambe mitologie».Il mondo ribolle di rivoluzioni vere e presunte? Per favore, evitiamo di cadere nella tentazione totalizzante del complotto: che certamente esiste e ha un peso, ma non può essere decisivo in assenza di reali, fortissimi motivi di scontento popolare. Lo disse, all’indomani della rivolta di Kiev, Mikhail Gorbaciov: nei rivolgimenti dell’Ucraina è stato innanzitutto determinante il “tradimento” del presidente Yanukovich, incapace di attuale la “perestrojka” democratica promessa. Con un governo più decente, difficilmente gli ucraini sarebbero scesi in piazza in quel modo. Torna sull’argomento il politologo italiano Aldo Giannuli, storico esperto di intelligence e strategia della tensione: «I servizi segreti non sono in grado di suscitare molto di più che occasionali sommosse. Possono finanziare gruppi, supportare eventuali leader, ma un movimento sociale vero e proprio nasce solo se ci sono condizioni precise che lo consentano, a cominciare dall’esasperazione popolare che non è cosa che si inventi».
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Senza moneta siamo in agonia? Toseranno i risparmi
Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».Non a caso, aggiunge Bottarelli su “Il Sussidiario”, il comunicato con cui Palazzo Chigi ha tentato di tamponare l’incidente diplomatico alla vigilia del voto di fiducia è la classica toppa peggio del buco: si dice infatti sì che l’intenzione non è quella di imporre nuove tasse bensì di abbassare quelle attuali, ma si parla anche di rimodulazione delle aliquote per finanziare l’abbattimento del cuneo fiscale. Quindi, non si esclude affatto che quel 12,5% possa diventare 15%. O magari 20%. Tanto, come ha detto Delrio, la vecchietta con i suoi Bot non starà male per questo. Tanto più che servirà a qualcosa di importante, ovvero l’abbattimento del costo del lavoro per aiutare i giovani a essere assunti e gli imprenditori ad assumere. «Un bel ricatto morale, fatto alla perfezione. Ce lo chiede l’Europa, mancava nel comunicato. Ma non tarderà a saltare fuori questa formula».Questo, insiste Bottarelli, è il governo dei curatori fallimentari, in missione per conto della Commissione Europea. Lo si capisce benissimo fin dalle prime battute, «al netto del nulla cosmico in cui si è sostanziato il discorso di Matteo Renzi al Senato, tra bambini che meritano scuole sicure e investimenti esteri mischiati insieme come in un frullato zuccheroso di buone intenzioni senza nemmeno una cifra o un provvedimento concreto». Per capire l’aria che tira, continua l’analista del “Sussidiario”, basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo all’estero. Nel silenzio più assoluto, il governo austriaco ha appena reso noto che i detentori di bond di Hypo-Alde-Adria-Bank, nazionalizzata nel 2009, potrebbero non vedersi ripagato il capitale: questo avviene in Austria, non a Cipro o in Grecia.La decisione del governo toccherà solo i bond con garanzia della provincia della Carinzia, mentre quelli con garanzia federale pagheranno secondo le regole. Ma un nuovo modello, dopo quello cipriota del bail-in, sembra giunto in Europa a mostrare la via. «Ora, se il governo di un paese sano come l’Austria arriva a questo nei riguardi di un istituto nazionalizzato, a cosa potrà arrivare quello italiano, paese dove le banche hanno oltre il 12% di sofferenze sul totale dei prestiti e Monte dei Paschi dovrà essere nazionalizzata entro la fine dell’anno?». D’altronde, il governo Renzi «ha una genealogia lunga e tutta compresa nel documento segreto redatto dalla Commissione Europea, che la Reueters ha intercettato e letto». Eccone il punto fondamentale: «I risparmi dei 500 milioni di cittadini dell’Unione Europea saranno usati per finanziare investimenti a lungo termine per stimolare l’economia e contribuire a riempire il vuoto lasciato dalle banche dall’inizio della crisi finanziaria».Ufficialmente, la Commissione vuole “svezzare” le economie dei 28 paesi sudditi «dalla loro pesante dipendenza dai prestiti bancari, e trovare altri mezzi di finanziare le piccole imprese, i progetti infrastrutturali e altri investimenti». Tutto questo, in una situazione in cui – in previsione dell’unione bancaria – le banche temono gli stress test «che, se venissero condotti in maniera seria, vedrebbero una serie di bocciature capace gli spedire gli spread reali sulla luna». C’è poi la ricetta di Davide Serra, il guru finanziario di Renzi. Secondo Serra, «il primo problema è il debito sbilanciato: troppo debito pubblico, poco privato e poco delle aziende. Questo blocca la crescita». Serra, inoltre, propone anche l’abolizione del contante e il ricalcolo di tutte le pensioni, oggi modulate col sistema retributivo, per rimetterle al magrissimo sistema contributivo: «Il tutto – conclude Bottarelli – per dare i soldi in surplus ricavati alle imprese, sgravando le banche dal loro compito. In qualche modo, una redistribuzione forzosa dai vecchi ai giovani: tu chiamala, se vuoi, rottamazione».Da quando hanno preso i soldi dalla aste Ltro della Bce, le banche «stanno comprando debito pubblico come se non ci fosse un domani». Chiedere agli istituti di credito di finanziarie anche le imprese? «E’ troppo. Ci pensino i cittadini-contribuenti: attraverso le pensioni, la tassazione sui Bot, i tagli sulle detenzioni obbligazionarie e magari domani un bel prelievo forzoso sui conti correnti, come suggerito poco tempo fa dal Fmi». Certo, aggiunge l’analista, l’aver tenuto in piedi l’euro come moneta, agendo sul debito sovrano, ha comportato un prezzo alto da pagare, e non solo per la banche: si è fatto grippare del tutto il motore di creazione di credito in Europa. Il quale oggi è creato dalle banche, che lo fanno indebitandoci: così, la massa monetaria s’è ridotta all’1,5% annuo, ben sotto al target del 4,5% a cui fa riferimento la stessa Bce per mantenere l’inflazione al 2%, come detta il suo mandato.C’è però un problemino, reso noto da Eurostat: inflazione stabile a gennaio per l’Eurozona. Ovvero: la deflazione è dietro l’angolo. «Se non aumenta la massa monetaria, non sale l’inflazione: e Draghi non solo non è stato in grado di mantenere il suo target del 4,5% ma lo ha dimezzato, facendo scendere il tasso inflattivo sotto la metà dell’obiettivo prefissato del 2%». Avverte Bottarelli: «In queste condizioni, l’Italia muore. E i soldi vanno presi dove ci sono, ovvero nel risparmio dei cittadini, visto che le banche non prestano ad aziende non finanziarie, come mostra questo grafico. Preparatevi alla grande tosatura, cari lettori, il governo dei curatori fallimentari è qui per questo. E Delrio non è affatto lo sprovveduto che vogliono dipingere: ha tastato il polso, su mandato. Ora basterà uno scossone, un’emergenza a livello europeo, uno spavento sullo spread e tutto sarà possibile. Perché ce lo chiede l’Europa e lo farà con la faccia giovane, fresca e rassicurante di Matteo».Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».