Archivio del Tag ‘Europa’
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Cardini: soldati privati e polizie agli ordini dell’élite
«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».È facile supporre che un simile marchingegno verrà impiegato in situazioni dove si verifica una forte protesta sociale contro decisioni inique dei governi, argomenta Melotto, ragionando con Cardini sulla recente ripubblicazione del volume “Quell’antica festa crudele”, un viaggio – prima edizione nei primi anni ‘80 – lungo i secoli che vanno dal medioevo alla Rivoluzione Francese. Guerra e pace: «La guerra che crea nuove classi sociali, sollecita spostamenti di popolazioni affamate in cerca di ingaggi mercenari e terrorizza plebi contadine», e la pace che, dpo l’anno mille, «diffonde il proprio messaggio esigente e chiede risposte adeguate, col formarsi di movimenti che pongono seri limiti alle guerre private». Guerre private, organizzate da élite? La certezza del diritto si incrina appena viene meno la sovranità statale: «La sovranità nazionale – dice Cardini – l’Italia non ce l’ha più da quando il sistema Usa-Nato è entrato potentemente nella penisola, innervandola con le sue basi militari senza che i nostri governi abbiano mosso un dito, anzi sulla base di un’evidente loro connivenza».Cardini, osserva Melotto, nella sua analisi storica vuole «mettere l’accento su una civiltà che possedeva una forte consapevolezza di quel che significasse l’andare in battaglia, che trovava in sé gli anticorpi che potessero salvarla da un definitivo tracollo, da un totale cedimento alla barbarie del sangue versato». Consapevolezza che, secondo Cardini, risulta assente ingiustificata ai nostri giorni. Riproporre oggi “Quell’antica festa crudele”, infatti, «è utile per marcare la distanza che separa un periodo di impegno e di scontro culturale e politico dai nostri anni inconsapevoli». Se nei secoli passati la guerra poteva essere “umanizzata”, “razionalizzata” e quindi dominata, oggi «la mancanza di una morale condivisa nell’opinione pubblica pare far da preludio al trionfo delle guerre non più legate ai voleri degli Stati-nazione. Oggi, l’istituzione di una milizia come Eurogendfor fa pensare a un fronte di guerra interno: «È la prosecuzione della costruzione di Eurolandia a favore di chi la gestisce e ne ricava i frutti».Non era meglio la leva obbligatoria? Un esercito difensivo, una forza di protezione civile? «Un esercito che nasca con i soli scopi difensivi e di aiuto alla popolazione civile non è un esercito», dice Cardini. «Quello di cui avremmo bisogno sarebbe un vero esercito europeo, non un’organizzazione di ascari al servizio della Nato. La leva obbligatoria non è più concepibile: il processo di destrutturazione della società civile italiana è andato ormai troppo oltre». Altro segnale allarmante: il movimento pacifista si è quasi dissolto. «Siamo nella fase delle operazioni di polizia internazionali, funzionali al governo delle lobbies multinazionali che sta sempre più governando il mondo intero, con alcune zone ancora poco chiare. Per esempio, dove va la Cina? Si adatterà a questo tipo di gioco, e in che modo?». Quest’anno ricorre l’anniversario dello scoppio della Grande Guerra: quanto vi era di consapevole, nei governanti dell’epoca, nella decisione di mandare al massacro i proletari d’Europa l’un contro l’altro? «Il punto – replica Cardini – non era massacrare i proletari, ma perseguire una politica di potenza: la Russia voleva raggiungere il Mediterraneo, la Francia vendicarsi dei tedeschi e recuperare le aree ferrifere e carbonifere dell’area renano-mosellana. Certo, la guerra era un diversivo rispetto all’affrontare la questione sociale».La sinistra italiana, incarnata allora nel Partito Socialista – ricorda Melotto – fu l’unica in Europa a non chinare il capo alle intimidazioni del nazionalismo, diversamente da quanto fecero i socialisti francesi, che votarono i crediti di guerra dopo l’assassinio del loro dirigente Jean Jaurés. Non fu uno dei momenti più alti della storia del movimento operaio italiano? «Sì, e anche del mondo cattolico che in genere era nemico del conflitto», concorda Cardini. «Ma c’erano ormai larghe aree d’inquinamento nazionalista, tra i socialisti e tra i cattolici. Quanto all’interventismo rivoluzionario, che nasceva su altre basi, alla prova si rivelò un cavallo di Troia del nazionalismo». Oggi, la riflessione storica rischia di essere intorbidita: i «fanatici», decisi a «minimizzare le responsabilità dei nazisti» negando la tragedia della Shoah, finiscono col danneggiare anche «i ricercatori seri», che rivendicano il diritto di rivedere la storia, correggendo errori e mistificazioni. Cè poco da stare allegri: «Ci vorrebbe una Costituzione europea e una raggiunta maturità di coscienza appunto federale o confederale da parte dei popoli, che non c’è». C’è invece il dominio egemonico della Troika. «Chi lo ha voluto? Quali sono i suoi poteri? Chi li ha determinati? Una decisione di questo tipo non può esser presa nel totale silenzio dei governati».(Il libro: Franco Cardini, “Quell’antica festa crudele”, Il Mulino, 520 pagine, 30 euro).«Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione». Un tema che torna d’attualità oggi, nell’Europa travolta dalla crisi socio-economica e sull’orlo di rivolte. Per lo storico Franco Cardini, «siamo all’anno zero; e poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi». A Cardini, intervistato da Alberto Melotto per “Megachip”, non sfugge il ricorso sistematico a nuove forme di repressione: dalla valle di Susa militarizzata alla Sicilia «ferita dal Muos», fino alla nuova inquietante gendarmeria europea, Eurogendfor. «Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico», ricorda Melotto. «Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia: gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli Stati».
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Solo il Pd difende ancora l’euro, odiato dagli italiani
Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.Secondo tutti i sondaggi, i cittadini europei sono ancora favorevoli all’Europa unita, ma la maggioranza degli italiani (il 49%) non vuole più l’euro, e il 24% (cioè un italiano su quattro) si dice pronto a votare subito un partito schierato contro l’euro. I più contrari alla moneta della Bce sono operai, disoccupati e casalinghe, ma anche imprenditori, liberi professionisti e impiegati (favorevoli solo pensionati e dipendenti pubblici, cioè chi ha un reddito garantito). «Ma la cosa più strabiliante», scrive Grazzini su “Micromega”, è che la stragrande maggioranza del popolo di centrosinistra è schierato al 90% a favore dell’euro, mentre la grande maggioranza degli elettori di centrodestra e del M5S è a favore del ritorno alla lira. Lettura sociologica: «Sembra che molti elettori del centrosinistra appartengano al ceto medio superiore, colto e anziano, con meno problemi economici». Per questo, in nome dell’ideale europeista, «accettano la moneta unica e le conseguenti politiche monetarie e fiscali recessive, che provocano disoccupazione e desertificazione produttiva». Di conseguenza, a rappresentare i sentimenti più popolari sono Berlusconi, Grillo e la Lega.«Ormai – osserva Grazzini – quasi tutti gli economisti riconoscono che l’austerità scaraventata sulle spalle dei lavoratori, del ceto medio e delle piccole e medie aziende è generata dall’euro, che non è solo una moneta ma una politica monetaria ed economica mirata a salvare solo la finanza a scapito dei redditi da lavoro, dell’occupazione e dello stato sociale». Anche se Giorgio Napolitano riesce a fare dell’ossimoro una teoria economico-politica (no all’austerità, sì all’euro – come se non fosse l’euro a determinare il rigore), gli stessi economisti «riconoscono che sarebbe stato meglio non entrare affatto nella moneta unica», aggiunge Grazzini, dal momento che «un regime di moneta unica amplifica gli shock economici». A differenza degli Usa, l’Europa «non ha le caratteristiche necessarie per costituire un’unica area valutaria», e che inoltre «l’euro è una moneta unica incompleta, perché non ha alle spalle una banca centrale prestatrice di ultima istanza». L’euro non ha politiche solidali di bilancio: la politica monetaria dell’Ue è «sostanzialmente guidata e dominata in maniera del tutto miope, in questo momento, dalle classi dirigenti tedesche».E’ certo che la situazione europea peggiorerà, continua Grazzini. Il Fiscal Compact, sottoscritto dal governo Monti e approvato anche da Berlusconi e dal Pd di Bersani, imporrà all’Italia il rientro automatico dal deficit a ritmi forsennati, 80 miliardi all’anno. Un trattato impossibile da rispettare, pena la morte clinica del sistema-paese. Non solo: in base ai trattati Two Packs e Six Packs, i nostri bilanci pubblici subiscono l’esame preventivo della Commissione Ue prima ancora di essere presentati al Parlamento di Roma. «Questi vincoli non sono però ancora completamente noti al popolo italiano e sono tenuti accuratamente in ombra dal governo Letta». A guadagnarci sono soltanto la Germania e le altre nazioni creditrici (Finlandia, Austria, Olanda), ma la «folle politica di austerità» sta facendo diventare l’Europa «il malato del pianeta». Infatti, «perfino gli Usa e i cinesi sono preoccupati dell’avida e restrittiva politica tedesca della coalizione Cdu-Spd della Merkel, che guida senza molte resistenze (certamente non quella del presidente francese François Hollande) l’economia sociale di mercato europea verso la distruzione e il baratro».Per attuare questa politica, continua Grazzini, la Ue spinge verso l’estrema concentrazione di potere verso organismi non eletti: nessuno nella Troika è stato votato dai cittadini europei. «I governi, come quello italiano, sono diventati la cinghia di trasmissione delle politiche decise dalla Bundesbank e dalla Merkel, con il supporto (critico?) del socialismo tedesco, la Spd». L’Europa unita e solidale? «Era un bel sogno», come quello dell’euro che «doveva garantirci stabilità e crescita». E quindi: «Come fare oggi a uscire dall’incubo?». Certo non seguendo il centrosinistra, che – a partire da Napolitano – difende l’euro «nonostante il suo evidente fallimento, anche a costo di perdere completamente la sua tradizionale base sociale». Già, «perché il centrosinistra confonde la moneta unica – criticata dalla grande maggioranza degli economisti – con la possibilità di costruire una Europa unita e solidale?».La verità è che il centrosinistra “assolve” l’Unione Europea, «la cui adesione è stata decisa dalle élite dirigenti italiane, per assimilarsi a queste». Da più di vent’anni, ricorda Grazzini, le forze di centrosinistra «declamano acriticamente le sorti magnifiche e progressive della Ue: diventa allora per loro difficile cambiare direzione di marcia», anche se Romano Prodi ha tentato di prendere tardivamente le distanze da Bruxelles, sostenendo che questa Ue «non è più quella di prima». Di ben altro avviso le voci più critiche – come quelle di Paolo Barnard, Bruno Amoroso, Giulio Sapelli, Emiliano Brancaccio – secondo cui la stessa costruzione dell’Ue, fin dall’inizio – moneta unica non sovrana, Commissione Europea non eletta – era un disegno palesemente insostenibile, neo-feudale, funzionale all’élite finanziaria degli oligarchi, incarnato nel nuovo super-potere della tecnocrazia pilotata dalle grandi lobby planetarie.«E’ difficile affermare che gran parte del popolo italiano sbagli per ignoranza», dice oggi Grazzini. «La sinistra dovrebbe trarre più di una lezione dai risultati dei sondaggi di opinione: dovrebbe prendere atto che la maggioranza della popolazione vorrebbe una opposizione molto dura a questa Unione anti-democratica dell’austerità e dell’euro». Gli Stati Uniti d’Europa vagheggiati dal federalista Altiero Spinelli «rappresentano un’ottima prospettiva, ma solo se innanzitutto viene rispettata la sovranità nazionale». La Ue oggi non è affatto democratica, «ma autoritaria e completamente subordinata ai voleri della finanza». Primo traguardo: pretendere che il Parlamento Europeo – per il quale voteremo a maggio – ottenga un vero potere legislativo che attualmente non ha. E subito dopo: rivedere radicalmente tutti i trattati-capestro, da Maastricht al Fiscal Compact, fino a minacciare di uscire veramente dall’euro, pur di ottenere un cambio di rotta dalla Germania. L’arma di pressione che non si vuole usare, dice un economista come Brancaccio, è il mercato comune europeo: se l’Italia minacciasse di uscirne, Berlino sarebbe costretta a scendere a più miti consigli, per proteggere il suo export.Se la Ue non ribalterà la sua politica economica e sociale, immagina Grazzini, il popolo italiano deciderà autonomamente la sua politica economica: «L’Italia dovrebbe essere pronta a proporre agli altri paesi europei di uscire in maniera concordata dall’euro per riprendersi la sovranità monetaria e per avviare un cammino di sviluppo sostenibile e di piena occupazione». Anche perché «le politiche economiche non possono essere decise da riunioni a tavolino della Troika, ma dai popoli sovrani, dai loro Parlamenti e dai loro governi». L’Italia è ancora una grande nazione europea, «e dovrebbe avere il coraggio di opporsi duramente a questo euro, anche perché è proprio la Germania il paese che senza dubbio avrebbe più da perdere dalla rovina della moneta unica». Per cui, «se si ha timore di andare decisamente contro questo euro e contro questa Ue», le elezioni le vinceranno Berlusconi e Grillo (e in Francia Marine Le Pen) mentre la sinistra «si condannerà per l’ennesima volta all’irrilevanza».Cosa pensano gli italiani della moneta unica? Le elezioni europee si avvicinano, e la questione dell’euro diventerà assolutamente centrale nel dibattito politico. Anche perché «euro e mercato unico sono le uniche “conquiste” dell’Unione Europea dal momento che la Ue non ha una politica sociale, industriale, una politica estera e di difesa comune», ricorda Enrico Grazzini. Gran parte della sinistra radicale intende opporsi alla politica di suicida austerità imposta con metodi autoritari e antidemocratici dalla Troika alla Grecia e ai paesi debitori del Sud Europa. Ma, di là della solidarietà di intellettuali e movimenti a Tsipras, quali possono essere le proposte vincenti per superare lo scoglio dello sbarramento elettorale del 4%? Obiettivo minimo: due milioni di voti, per eleggere almeno tre parlamentari a Strasburgo. Impresa non facilissima, considerando che nove italiani su dieci non sanno nemmeno chi sia, Alexis Tsipras.
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Il super-ministro di Renzi: italiani, soffrire vi fa bene
Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».Capo-economista dell’Ocse nonché professore universitario alla Sapienza di Roma, Padoan ha avuto incarichi come consulente presso la Banca Mondiale, la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea. E’ stato inoltre direttore di Italiani Europei, la fondazione di Massimo D’Alema, un think-tank politico che si occupa di temi economici e sociali. Tra il 2001 e il 2005 ha ricoperto il ruolo di direttore esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale con responsabilità su Grecia, Portogallo, San Marino, Albania e Timor Est, mentre dal 1998 al 2001 è stato consigliere economico presso la presidenza del Consiglio dei ministri, collaborando con i premier Massimo D’Alema e Giuliano Amato.Lo stesso Padoan, super-tecnocrate perfettamente in linea con la Troika europea protagonista delle politiche di rigore che stanno devastando l’Europa del Sud, è stato anche responsabile per il coordinamento della posizione italiana nei negoziati dell’ Agenda 2000 per il bilancio Ue, l’Agenda di Lisbona, il Consiglio Europeo, gli incontri bilaterali e i vertici del G8. Dal 1992 al 2001 ha anche insegnato al College of Europe ed è stato visiting professor in Italia, Argentina, Giappone, Polonia e Belgio. Al “New York Times” ha confidato che, a suo parere, la crescente percezione che l’austerità sia futile è completamente sbagliata. «Il consolidamento fiscale sta producendo risultati», ha detto. Aggiungendo che i politici dell’Eurozona dovrebbero cercare di fare un lavoro migliore per comunicare i loro “successi” ad una popolazione stremata. «Rimane sempre la speranza che stesse facendo dell’ironia spinta», chiosa Debora Billi.Suvvia, un po’ di austerità fa bene: cari italiani, dovete soffrire. A parlare così è il neoministro dell’economia, Pier Carlo Padoan. Parole riportate dal premio Nobel Paul Krugman in un articolo sul “New York Times” dell’aprile scorso. «Meno di un anno – rileva Debora Billi – anche se, a leggerle, certe affermazioni sembrano ripescate dalle tenebrose teorie dei tempi bui di qualche decennio fa». L’articolo, d’altronde, si intitola “Le botte devono continuare”: non certo una prospettiva tranquillizzante. «Matteo Renzi – scrive la Billi nel suo blog, “L’estremista” – aveva promesso che avrebbe ridiscusso l’austerity in Europa (sbattendo i pugni sul famoso tavolo che in realtà non esiste), e ora ci si chiede come diamine farà se il suo ministro preposto la pensa all’opposto». Renzi? «Già si sta rimangiando le promesse, infatti. Avrebbe potuto risparmiarsele fin dall’inizio, tanto mica doveva votarlo nessuno». Che ha detto, il suo ministro? Letteralmente: «Il dolore sta producendo risultati».
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Distruggere l’Ucraina: un piano da 5 miliardi di dollari
L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.Nessuno ne contestò l’elezione quando sconfisse Viktor Yushenko, anche se fu un boccone amaro per chi di Yushenko aveva finanziato l’ascesa. E gli aveva perfino procurato la moglie. Pochi sanno che la seconda moglie di Yushenko si chiama Katerina Chumacenko, che veniva direttamente dal Dipartimento di Stato Usa (incaricata dei “diritti umani”). Ancora meno sanno che Katerina, prima di fare carriera a Washington, era stata uno dei membri più attivi e influenti dell’organizzazione neo-nazista Oun-B della sua città natale, Chicago. Oun-B sta per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, di Stepan Bandera. L’Oun-B, tutt’altro che defunta, ha dato vita al Partito Svoboda, il cui slogan di battaglia è “l’Ucraina agli ucraini”, lo stesso che Bandera innalzava collaborando con Hitler durante la seconda guerra mondiale.Del resto Katerina era stata leader del Comitato del Congresso ucraino, il cui ispiratore era Jaroslav Stetsko, braccio destro di Stepan Bandera. Che è come dire che il governo americano si era sposato con i nazisti ucraini emigrati negli Usa, prima di mettere Katerina nel letto di Yushenko. Anche di questo il mainstream non parla. Ma ho fatto questa digressione per dire che, certo, gli ucraini hanno tutto il diritto di essere scontenti, molto scontenti di Yanukovic. E di avere cambiato idea. Anche noi abbiamo tutto il diritto di essere scontenti di Napolitano o del governo, ma questo non significa che pensiamo sia giusto assaltare il Quirinale a colpi di bombe molotov prima e poi di fucili mitragliatori. Essenziale sarebbe stato tenere conto di questi dati di fatto. Ma il piano, di lunga data, degli Stati Uniti era quello di assorbire l’Ucraina nell’Occidente. Se possibile tutta intera.Sentite cosa scriveva nel 1997 Zbignew Brzezinski, polacco: «Se Mosca ricupera il controllo sull’Ucraina, con i suoi 52 milioni di persone e le grandi risorse, riprendendo il controllo sul Mar Nero, la Russia tornerà automaticamente in possesso dei mezzi necessari per ridiventare uno Stato imperiale». Ecco dunque il perché dei 5 miliardi di cui parla la Nuland. Caduto Yushenko, in questi anni decine di Ong, fondazioni, istituti di ricerca, università europee e americane, e canadesi, hanno invaso la vita politica dell’Ucraina. Qualche nome? Freedom House, National Democratic Institute, International Foundation for Electoral Systems, International Research and Exchanges Board. E, mentre si «faceva cultura», e si compravano tutte le più importanti catene televisive e radio del paese, una parte dei fondi servivano per finanziare le squadre paramilitari che vediamo in azione in piazza Maidan. Che, grazie a questi aiuti, si sono moltiplicate.Adesso emerge il Pravij Sector (“Settore di destra” e “Spilna Prava”), ma il giornale polacco “Gazeta Wiborcza” ha parlato di squadre paramilitari polacche che agiscono a Maidan. E la piazza pullula di agenti dei servizi segreti occidentali: lo fanno in Siria, perché mai non dovrebbero farlo a Kiev? È perfino più facile: Yanukovic, dittatore sanguinario, appare più molle di Milosevic, altro strano dittatore sanguinario che si fece sconfiggere elettoralmente da Otpor (fondato e ampiamente finanziato dagli Usa). Tutto già visto. C’è solo un problema: Putin non è un pellegrino sprovveduto. È questo il popolo ucraino? Certo sono migliaia, anzi decine di migliaia, a mostrare il livello della rabbia popolare contro un regime inetto (non più inetto di quelli dei precedenti amici dell’Occidente, Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Timoshenko), ma chi guida è chiaro perfino dalle immagini televisive. E questa è la ex Galizia, ex polacca, e la Transcarpazia. Se crolla Yanukovic e prendono il potere costoro, sarà una diaspora sanguinosa.I primi ad andarsene saranno i russofoni dell’est e del nord, del Donbass dei minatori, che già stanno alzando le difese. E subito sarà la Crimea, che ha già detto quasi unanime che intende restare dalla parte della Russia, anche per tentare di salvarsi dalla furia antirussa di coloro che prenderanno il potere. È l’inizio delle secessioni, oggi perfino difficili da prevedere, dai contorni indefiniti, che produrranno non fronti militari ma selvagge rappresaglie all’interno di comunità che non saranno più solidali. L’Europa, fedele esecutrice dei piani di Washington, ha aperto il vaso di Pandora. Che adesso le esploderà tra le mani. I nuovi inquilini saranno di certo concordati (sempre che Putin abbia la garanzia che non sarà valicato il Rubicone dell’ingresso nella Nato), ma coloro che sono scesi in piazza armati hanno in testa un’idea di Europa molto diversa da quella che si figura Bruxelles.E quelli in buona fede che sono andati dietro i neonazisti – e sono sicuramente tanti – si aspettano di entrare in Europa domani. E saranno tremendamente delusi quando dovranno cominciare a pagare, e non potranno comunque entrare, perché nei documenti di Vilnius questo non è previsto. L’unico tra i commentatori italiani che ha scritto alcune cose sensate è stato Romano Prodi, ma le ha scritte sull’“International New York Times”. Rivolto agli europei li ha invitati a non mettere nel mirino solo Yanukovic, bensì condannare anche i rivoltosi. E ha aggiunto: «Coinvolgere Putin», visto che tutte le parti hanno «molto da perdere e nulla da guadagnare da ulteriori violenze». Giusto ma ottimista. Chi ha preparato la cena adesso vuole mangiare e non si fermerà. E l’isteria antirussa è il miglior condimento per altre avventure.(Giulietto Chiesa, “L’Occidente apre il vaso di Pandora”, da “Il Manifesto” del 21 febbraio 2014).L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.
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Fatto fuori anche Gratteri, così Renzi si rottama da solo
Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.È il segno più evidente di come il rottamatore Matteo Renzi prosegua imperterrito nella distruttiva opera di auto-rottamazione e di demolizione del sogno di cambiamento che aveva rappresentato per molti italiani. Una stolta manovra iniziata con il tradimento e il successivo brutale accoltellamento politico del mediocre Enrico Letta, a cui il nuovo premier aveva più volte pubblicamente e bugiardamente assicurato lealtà. Certo, sull’esclusione all’ultimo minuto di Gratteri in molti vedono le impronte digitali di Napolitano. Il presidente del secondo paese più corrotto d’Europa, noto per aver lesinato solo i moniti in materia di legalità della politica, ovviamente esclude ogni responsabilità. Resta però da spiegare come mai, stando a quello che risulta per certo a “Il Fatto Quotidiano”, al magistrato fosse stato assicurato il dicastero solo pochi minuti prima della salita di Renzi al Colle. E perché Napolitano, pubblicamente, abbia poi tenuto a precisare – con una sorta di excusatio non petita – che tra lui e Renzi non era avvenuto nessun “braccio di ferro” sulla lista dei ministri.Nelle prossime ore le notizie su quello che è esattamente accaduto durante il lunghissimo faccia a faccia tra il neopremier e l’ottuagenario capo dello Stato, non mancheranno. Non c’è invece bisogno di retroscena per capire tutto il resto. Bastano i curricula dei ministri più importanti. Nella lista spiccano i nomi dell’esponente di Confindustria e della Commissione Trilaterale, Federica Guidi (Sviluppo economico), quello del presidente della Lega Cooperative, Giuliano Poletti, dell’ex delfino di Berlusconi, Angelino Alfano (Interno), e del ciellino Maurizio Lupi (Infrastutture). Mentre all’Economia ci finisce Pier Carlo Padoan, capo economista dell’Ocse e ex presidente della Fondazione italiani europei di Massimo D’Alema, e alle Politiche, Agricole Maurizio Martina, già pupillo di Filippo Penati, l’ex presidente della Provincia di Milano sotto processo per le tangenti di Sesto San Giovanni.Il fatto che Renzi sia riuscito a mettere insieme una squadra formata al 50 per cento da donne, che l’età media dell’esecutivo sia piuttosto bassa, non servirà al premier per cancellare negli elettori la sensazione di trovarsi di fronte a un consiglio dei ministri espressione di quelle lobby da più parti ritenute responsabili del degrado del paese. È infatti più che ragionevole dubitare che il suo obamiano programma di governo (“una riforma al mese”) possa essere messo in atto da una compagine del genere. Perché questo non è un dream team, ma solo una galleria di errori e orrori. Così già oggi sappiamo che ha vinto il Gattopardo. #lavoltabuona può attendere.(Peter Gomez, “Governo Renzi auto-rottamato, fatto fuori Gratteri restano solo lobby e gattopardi”, da “Il Fatto Quotidiano” del 21 febbraio 2014).Nel 1994 era stato Cesare Previti, l’avvocato degli affari sporchi di Silvio Berlusconi, a entrare al Quirinale come Guardasigilli in pectore e a uscire degradato. Sull’onda dell’indignazione suscitata dalla scoperta di Tangentopoli, il Colle aveva detto no. E Previti era finito alla Difesa. Oggi, nel mondo alla rovescia dei ladri e della Casta, a venir depennato all’ultimo momento dalla lista ministri è Nicola Gratteri, stimato magistrato antimafia, la cui colpa principale è quella di aver sognato di poter far funzionare la giustizia anche in Italia. Gratteri resterà in Calabria. E per la gioia della ‘ndrangheta, delle consorterie politico-mafiose e dell’Eterno Presidente, Giorgio Napolitano, in via Arenula ci finisce l’ex ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando, celebre per aver chiesto l’abolizione dell’ergastolo e proposto l’abrogazione dell’obbligatorietà dell’azione penale.
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Giorno: Val Susa e finti terroristi, tragico film già visto
Allarme rosso, in valle di Susa, dopo l’ultimo colpo di scena nel “romanzo criminale” che qualcuno sta cercando di scrivere, attorno alla lotta popolare dei No-Tav contro l’inutile ecomostro chiamato Torino-Lione. Una fantomatica sigla terroristica – Noa, nuclei operativi armati – avverte l’Ansa che meritano la “condanna a morte” un funzionario della Digos di Torino, un politico pro-Tav come il senatore Pd Stefano Esposito e due dirigenti di Ltf, la società Lyon-Turin Ferroviaire che sta scavando a Chiomonte il contestato “cunicolo esplorativo”, propedeutico all’eventuale, futuro tunnel ferroviario – quello che la Francia ha dichiarato che non prenderà neppure in considerazione prima del 2030, dal momento che la Torino-Lione (crollato il traffico Italia-Francia) non è più una priorità, né per Parigi né per l’Ue. Se il movimento No-Tav respinge con sdegno quella che considera una provocazione inquinante, non manca chi – come Claudio Giorno – denuncia il possibile ritorno di una sorta di strategia della tensione, per criminalizzare l’opposizione alla grande opera.«I No Tav – scrive Giorno nel suo blog – sono cittadini normali, che hanno dato vita a un movimento che si è messo di traverso alla spartizione di un malloppo che oggi è stimato, a preventivo, poco meno di 30 miliardi di euro». Una lotta che, «nonostante tutto e tutti», dura da un quarto di secolo: 25 anni, «nei quali è finita, dicono, una repubblica (la prima), si sono estinti la democrazia cristiana, i socialisti e tutti i vassalli del pentapartito, anche se gli sono sopravvissuti tutti i ladri, trovando ospitalità nei “non-partiti” che nel frattempo sono stati inventati». Anni di frustrazioni, continua Giorno, in cui «sono stati vanificati gli esiti di quasi tutti i referendum popolari e si sono spenti gli occupy di mezzo mondo», mentre le “rivoluzioni” del Nord Africa «sono servite all’avvicendamento di regimi più o meno teocratici, direttamente o indirettamente sostenuti manu militari». Nel loro piccolo, i militanti della valle di Susa – che hanno appena raccolto la solidarietà degli italiani per fronteggiare una causa civile da 220.000 euro – sentono di costituire «una speranza, un orizzonte di resistenza in un panorama di rese incondizionate».«L’irrigidimento dello Stato – continua Giorno – ci ha posto “nostro malgrado” in condizione di rappresentare un livello di antagonismo che non avremmo neanche lontanamente immaginato possibile, alla fine degli anni ‘80 quando alcuni “reduci della lotta all’autostrada del Frejus” cominciammo a intravedere un nuovo pericolo – quello definitivo, il Tav – affacciarsi all’orizzonte affollato del nostro esiguo e fragile territorio». Soprattutto, aggiunge l’esponente No-Tav, «non avremmo mai immaginato che avremmo potuto mantenere così a lungo la posizione senza arretrare di un millimetro». Pertanto, in una condizione così “estrema”, «sarebbe molto stravagante se non fossimo stati “debitamente” infiltrati». Nonostante la disinformazione dilagante, secondo Giorno non manca «qualche coraggiosa iniziativa editoriale» che documenta «i primi tentativi di inquinare la lotta in difesa della nostra terra». Ne parla Luca Rastello, in un capitolo del libro-denuncia “Binario morto”, scritto con Andrea De Benedetti per “Chiarelettere”.Il libro rievoca la tragedia di due giovani anarchici, “Sole e Baleno”, morti in stato di detenzione prima di poter essere scagionati, in tribunale, dalle accuse per la strana serie di attentati dinamitardi che colpirono la valle di Susa negli anni ‘90, coperti da sigle fantomatiche come quella dei “Lupi Grigi”. Già allora, i giornali si affrettarono a parlare di “ecoterrorismo” e “pista anarco-insurrezionalista” in relazione alla nascente opposizione No-Tav, trascurando un’altra indagine, sempre della Procura di Torino, che aveva appena individuato il ruolo dei servizi segreti “deviati” in un traffico di armi tra un’armeria di Susa e una cosca della ‘ndrangheta. «Le “prove “granitiche” raccolte attraverso indagini svolte anche da inquirenti che si riveleranno attivamente coinvolti nella fabbricazione delle medesime – scrive Giorno – non reggeranno oltre l’istruttoria», ma nel frattempo Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas non giungeranno vivi alla fine del processo. «Un errore che dovrebbe pesare come un macigno sulla coscienza di chi indagò in un’unica direzione ma che – a quanto pare – non ha insegnato nulla», conclude Claudio Giorno, pensando a chi oggi criminalizza il movimento No-Tav addebitandogli anche attentati incendiari, sulla cui parternità non è finora emersa alcuna prova. Sabotaggi «attribuiti sempre e comunque al movimento, sino ai processi e agli arresti preventivi per reati di terrorismo».E ora irrompono sulla scena i “Noa” – i nuovi “Lupi Grigi”? – che «decretano condanne a nome del popolo e indicano la strada al movimento No-Tav, romanticamente affezionato a criteri nonviolenti pur nella radicalità dello scontro». Rivendicazione «rispedita al mittente», anche perché «sa di déja vu». Uno, dieci, cento “mittenti”, sostiene Giorno, che in questi anni «non solo non hanno fatto quanto in loro potere (e soprattutto dovere) per disinnescare gli “ordigni esplosivi”», ma in alcuni casi «li hanno “messi a dimora” – qualcuno manualmente sotto un viadotto, altri virtualmente in conferenze dei servizi-burla, confronti truccati, procedure umilianti prima ancora che scorrette». In altre parole: «Chi doveva risolvere ha complicato, chi doveva indagare non pare aver sempre finito il lavoro».In sostanza, è come se anche la periferica valle di Susa concorresse e delineare i retroscena delle strane connessioni tra servizi “deviati” e mafia («l’onorata società sta agli appalti come le api al miele») sui cui indagano «i coraggiosi magistrati di Palermo», perché probabilmente la “trattativa” «ha tanti fautori e a tutte le latitudini». Tutto questo, mentre è in fiamme una città come Kiev, fino a ieri capolinea Ue dell’ipotetico “corridoio 5 Kiev-Lisbona” di cui la Torino-Lione avrebbe dovuto essere lo snodo alpino. «Oggi – chiosa Giorno – c’è davvero qualcosa di inquietante all’orizzonte-est non solo della val di Susa, ma dell’Europa SpA dei finanzieri e dei lobbysti». Come dire: di fronte a certi appetiti, da noi come in Ucraina, si può arrivare senza problemi anche alla macelleria. Con debito corredo di disinformazione.Allarme rosso, in valle di Susa, dopo l’ultimo colpo di scena nel “romanzo criminale” che qualcuno sta cercando di scrivere, attorno alla lotta popolare dei No-Tav contro l’inutile ecomostro chiamato Torino-Lione. Una fantomatica sigla terroristica – Noa, nuclei operativi armati – avverte l’Ansa che meritano la “condanna a morte” un funzionario della Digos di Torino, un politico pro-Tav come il senatore Pd Stefano Esposito e due dirigenti di Ltf, la società Lyon-Turin Ferroviaire che sta scavando a Chiomonte il contestato “cunicolo esplorativo”, propedeutico all’eventuale, futuro tunnel ferroviario – quello che la Francia ha dichiarato che non prenderà neppure in considerazione prima del 2030, dal momento che la Torino-Lione (crollato il traffico Italia-Francia) non è più una priorità, né per Parigi né per l’Ue. Se il movimento No-Tav respinge con sdegno quella che considera una provocazione inquinante, non manca chi – come Claudio Giorno – denuncia il possibile ritorno di una sorta di strategia della tensione, per criminalizzare l’opposizione alla grande opera.
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Dopo Marx, sarà l’ex terzo mondo a sfidare l’élite
“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.Nel blog “Foreign Policy”, Kenny ricorre alla rivisitazione del marxismo: «Nella sua lotta di classe, Marx vide una logica apocalittica. E la battaglia della grande massa contro la piccola plutocrazia aveva una conclusione inevitabile: lavoratori 1, ricchi 0». Marx pensava che l’impulso rivoluzionario proletario fosse soprattutto globale, che le classi lavoratrici sarebbero state unite in tutto il mondo dalla loro comune esperienza di povertà devastante e dall’alienazione della vita in fabbrica. Ragionevole, per l’epoca. Secondo Branko Milanovic, economista della Banca Mondiale, quando nel 1848 fu scritto il “Manifesto” comunista la maggior parte della disuguaglianza del reddito a livello globale dipendeva dalla differenza fra classi su base nazionale. Sebbene alcuni paesi fossero più ricchi di altri, il reddito che poteva rendere un uomo ricco o confinarlo alla povertà in Inghilterra si sarebbe tradotto nella stessa cosa in Francia, negli Stati Uniti e persino in Argentina.Ma, mentre la Rivoluzione Industriale prendeva piede, quella parità mutava drammaticamente durante il secolo successivo: una ragione per la quale la predizione di Marx circa una rivoluzione proletaria globale si rivelò errata. Solo pochi anni dopo la pubblicazione del “Manifesto”, i salari dei lavoratori cominciarono a crescere in Inghilterra. La tendenza proseguì nel resto d’Europa e in Nord America, mentre divennero abissali le differenze col resto del mondo: «Centoquarant’anni fa l’africano medio era ricco un quinto del suo compagno inglese. Oggi, vale meno di un decimo». Mentre l’Occidente decollava verso una crescita continua, scrive Kenny in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, le differenze di reddito fra paesi sovrastavano il divario di reddito all’interno dei paesi stessi. Ovvero: «Una segretaria a tempo determinato nell’Est di Londra può ancora avere difficoltà ad arrivare alla fine del mese, ma se la mandi a Lagos potrà vivere come una regina». Lo stesso Milanovic stima che il reddito medio del 5% più ricco dell’India equivale a quello del 5% più povero degli Usa.I lavoratori municipali di più basso grado in Europa e negli Stati Uniti sono ben più ricchi dei loro omologhi nei paesi poveri in via di sviluppo, e stanno comunque meglio della gran parte degli occupati in quei paesi. Vero, la povera gente in Europa e in America fa parte dell’élite reddituale, secondo gli standard del Sud Asia o dell’Africa. Questo perché «i lavoratori di tutto il mondo non si sono ancora uniti», conclude Kenny. Nel 1920, l’Internazionale Comunista condannò il “tradimento” di molti socialisti europei e americani durante la Prima Guerra Mondiale, quando difesero la madrepatria per camuffare il “diritto” della loro borghesia di schiavizzare le colonie. Per i comunisti, la diffidenza generata nel resto del mondo poteva essere sradicata solo abbattendo l’imperialismo nei paesi avanzati e riscattando l’economia del terzo mondo. Oggi, il colonialismo si chiama globalizzazione. Ma secondo Kenny «è ancora un processo in fase di cambiamento», perché «a mano a mano che i mercati globali diventano sempre più interconnessi, i redditi medi convergono». Dati alla mano, «gli ultimi dieci anni hanno visto i paesi in via di sviluppo crescere molto più rapidamente dei paesi ad alto reddito, diminuendo la differenza fra redditi medi».Un altro economista, Arvind Subramanian, prevede che la Cina nel 2030 sarà ricca come l’intera Unione Europea oggi. E lo stesso Brasile non sarà molto indietro, attestandosi a un Pil pro-capite di 31.000 dollari, seguito a breve distanza da paesi come l’Indonesia e la Corea del Sud. «Semplicemente – annota Kenny – questo significa che, nello spazio di una generazione al massimo, una buona porzione del mondo sarà presto ricca, o come minimo solidamente classe media». Secondo le previsioni sviluppate in collaborazione con Sarah Dykstra di “Global Development”, Kenny rileva che circa il 16% della popolazione della Terra vive in paesi tanto ricchi da poter essere considerati dalla Banca Mondiale “ad alto reddito”. Se i tassi di crescita continueranno come nella decade passata, il 41% della popolazione mondiale si troverà entro il 2030 nella fascia “ad alto reddito”. «Quindi, se i paesi in via di sviluppo continueranno a crescere al ritmo che abbiamo visto di recente, la disuguaglianza fra nazioni si ridurrà, e la disuguaglianza all’interno delle nazioni tornerà la componente dominante della disuguaglianza globale».Ciò significa che Marx aveva ragione, con due secoli di anticipo? «Non esattamente», sostiene Kenny. «La realtà è che questa nuova classe media avrà una vita che la classe lavoratrice dell’era vittoriana poteva solo sognare. Lavoreranno in negozi e uffici illuminati da led piuttosto che in oscure e infernali fabbriche. E vivranno quasi 40 anni più a lungo della persona media nel 1848, secondo l’aspettativa di vita alla nascita». Ma la vera domanda è: condivideranno la causa con i loro compagni operai che sono ad un oceano di distanza? «Forse, ma non perchè le barricate sono l’unica opzione praticabile. Marx ha predetto che la classe lavoratrice globale si sarebbe unita e ribellata perché ovunque i salari sarebbero stati portati a livelli di sussistenza. Ma, a mano a mano che i salari crescono e si livellano in tutto il mondo, la brutta situazione del proletariato – lavoro duro, paga bassa – oggi più che mai significa lavoro più semplice e paga migliore».Solo in Cina, questo sviluppo sta portando centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. «Proprio perché il ricco e il povero di Lagos e di Londra si somiglieranno, sarà più probabile nel 2030 un’unione dei lavoratori di tutto il mondo». Mentre la tecnologia e il commercio livellano il campo di gioco e uniscono l’umanità, i previsti 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo potranno capire quanto hanno in comune rispetto alle super-ricche élite dei propri paesi. Secondo Kenny, i nuovi esponenti della mid-class mondiale «faranno pressioni sui governi per collaborare al fine di assicurare che il loro sudore e il loro sangue non arricchiscano troppo una piccola globale élite capitalista, ma siano diffusi più largamente». E magari «lavoreranno per fermare i paradisi fiscali dove i plutocrati del mondo nascondono i loro guadagni, e sosterranno i trattati per prevenire le corse al ribasso sui diritti del lavoro e nelle politiche fiscali pensate e stilate per attrarre le compagnie». Uno stile di vita globale, non solo per i più ricchi. Rivoluzione in vista? «La prossima decade – profetizza Kenny – non vedrà tanto la povertà disperata affrontare la plutocrazia, quanto la classe media riprendersi quanto le spetta».“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.
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2016, fine della democrazia: il privilegio sarà legge
Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.Se sarà approvato il Trattato Transatlatico, avverte Lori Wallach su “Le Monde Diplomatique”, niente fermerà più l’appetito privatizzatore dei “padroni dell’universo”, specie nei settori di maggior interesse strategico: brevetti medici e fonti fossili di energia. Un sogno, a quel punto, concepire politiche di lotta all’inquinamento e per la protezione del clima terrestre. Il Ttip «aggraverebbe ulteriormente il peso di questa estorsione legalizzata», che giù oggi ricatta molti Stati, dal Canada alla Germania. Il grande business lavora per eliminare le leggi statali per far posto a quella degli affari. Attualmente, negli Usa sono presenti 3.300 aziende europee con 24.000 filiali. Ognuna di esse, dice Wallach, «può ritenere di avere buone ragioni per chiedere, un giorno o l’altro, riparazione per un “pregiudizio commerciale”». Peggio ancora per gli europei: sono addirittura 14.400 le compagnie statunitensi dislocate nell’Unione Europea, con una rete di 50.800 filiali. «In totale, sono 75.000 le società che potrebbero gettarsi nella caccia ai tesori pubblici».L’aspetto più inquietante del “cantiere” del Trattato, un dispositivo destinato – se approvato – a sconvolgere la vita democratica di tutto l’Occidente – è la sua massima segretezza: la stampa è stata espressamente invitata a starsene alla larga. Si tratta di un ordinamento decisamente eversivo: il grande business si prepara ad emanare i propri diktat non più di nascosto, attraverso le lobby e politici compiacenti del Congresso e della Commissione Europea, ma ormai alla luce del sole, trasformando addirittura in legge il privilegio di una minoranza, contro la stragrande maggioranza della popolazione. L’autonomia istituzionale dello Stato? Completamente aggirata, disabilitata, in ogni settore: dalla protezione dell’ambiente a quello sanitario, dalle pensioni alla finanza, dai contratti di lavoro alla gestione dei beni comuni primari, come l’acqua potabile. Si avvicina la “grande privatizzazione definitiva” del mondo occidentale.Sicurezza degli alimenti, norme sulla tossicità, assicurazione sanitaria, prezzo dei medicinali. E ancora: libertà del web, protezione della privacy, cultura e diritti d’autore, risorse naturali, formazione professionale, strutture pubbliche, immigrazione. «Non c’è una sfera di interesse generale che non passerà sotto le forche caudine del libero scambio istituzionalizzato», scrive Lori Wallach. Rispetto al Trattato Transatlantico, le condizioni-capestro oggi imposte dal Wto sono considerate “soft”. A decidere su tutto saranno tribunali speciali, formati da avvocati d’affari che si baseranno sulle “leggi” della Banca Mondiale. Fine della democrazia: «L’azione politica degli eletti si limiterà a negoziare presso le aziende o i loro mandatari locali le briciole di sovranità che questi vorranno concedere loro». Neppure la fantasia di Orwell era arrivata a tanto. Eppure, è esattamente l’incubo che ci sta aspettando, se nessuno lo fermerà. Ed è inutile farsi illusioni: per ora, del “mostro” non parla nessuno. Non una parola, ovviamente, dalle comparse della politica, e neppure da giornali e televisioni. La grande minaccia si sta avvicinando indisturbata, all’insaputa di tutti.Si chiama Ttip, Trattato Transatlantico, e se va in porto siamo rovinati. A decidere su tutto – lavoro, salute, cibo, energia, sicurezza – non saranno più gli Stati, ma direttamente le multinazionali. I loro super-consulenti, attraverso lobby onnipotenti come Business Europe e Trans-Atlantic Business Dialogue, in questi mesi stanno dettando le loro condizioni alle autorità di Bruxelles e di Washington, che nel giro di due anni contano di trasformarle in legge. A quel punto, la democrazia come la conosciamo sarà tecnicamente finita: nessuna autorità statale, infatti, oserà più opporsi ai diktat di questa o quella corporation, perché la semplice accusa di aver causato “mancati profitti” esporrà lo Stato nazionale – governo, magistratura – al rischio di pagare sanzioni salatissime. Già oggi, vari Stati hanno dovuto versare 400 milioni di dollari alle multinazionali. La loro “colpa”? Aver vietato prodotti tossici e introdotto normative a tutela dell’acqua, del suolo e delle foreste. E le richieste di danni raggiungono già i 14 miliardi di dollari. La novità: quello che oggi è un incubo, domani sarà legge.
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Piccola antologia ignobile: così parlarono i padri dell’Ue
«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».Sul metodo generalmente adottato dalla Troika – il terrorismo economico – è illuminante l’ammissione di un altro supremo eurocrate, il francese Jean-Claude Juncker, già presidente dell’Eurogruppo: «Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno». Non è fantascienza, non è letteratura horror. Sono parole – reali – dei grandi decisori europei, quelli che decretano le misure da cui deriva il supplizio socio-economico al quale siamo sottoposti. In altre parole, stando alle rivelazioni di Juncker, crimini contro l’umanità. I leader europei, dice l’italiano Giuliano Amato il 12 luglio 2007 a “Eu Observer”, hanno deciso che il Trattato Lisbona «avrebbe dovuto essere illeggibile». Questo perché, «se fosse stato comprensibile, ci sarebbero state ragioni per sottoporlo a referendum». Quindi gli eurocrati «si sentono più al sicuro con la cosa illeggibile», testualmente. Obiettivo, appunto, «evitare pericolosi referendum».Lo sa bene l’ex cancelliere tedesco Helmuth Kohl, che al “Telegraph” del 9 aprile 2013 dichiara: «Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro sono stato come un dittatore». Dopotutto, «l’Europa non nasce da un movimento democratico», come ammette già nel 1999 il super-tecnocrate ed ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa. L’attuale Unione Europea ha un’origine chiaramente eversiva: «E’ nata seguendo un metodo che potremmo definire con il termine di dispotismo illuminato». La costruzione europea? «E’ una rivoluzione», dice Padoa Schioppa a “Commentaire”, «anche se i rivoluzionari non sono dei cospiratori pallidi e magri, ma degli impiegati, dei funzionari, dei banchieri e dei professori», che al «polo del consenso popolare» preferiscono ovviamente «quello della leadership».Per un altro padre fondatore dell’Ue, il monarchico Jacques Attali, trasformatosi in “socialista” alla corte di François Mitterrad, l’euro non fu certo creato per la gioia della “plebaglia europea”. Il 24 gennaio 2011 rivela: «Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht». Contratto unico al mondo: senza clausola di rescissione. Attali ha avuto «il privilegio» di far parte del gruppo ristretto incaricato di stendere le prime bozze. «Ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile», ammette. «Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Niente da aggiungere? «Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».Chiude la rassegna dell’orrore il professor Mario Monti, il 22 febbraio 2001 all’università Luiss, al convegno “finanza: comportamenti, regole istituzioni”. «Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, crisi gravi, per fare passi avanti», dice il futuro capo del “governo tecnico” incaricato da Napolitano. «I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti delle sovranità nazionali a un livello comunitario». In quattro parole, Monti espone la “filosofia del ricatto” che è la prassi sostanziale dei gangster al governo di Bruxelles: si provvede a terremotare un paese, per poi (Prodi docet) imporre la “soluzione” già pronta nel cassetto. «È chiaro che il potere politico – ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale – possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata». La benedetta crisi, progettata a tavolino. Minacce, ricatti, menzogne, truffe. Un campionario inesauribile.«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Così parlava Romano Prodi nel lontano 2001, precisamente il 4 dicembre, intervistato dal “Financial Times”. Dunque “sapeva”, Prodi, che l’euro avrebbe generato “una crisi”. La memorabile sortita dell’ex premier italiano, ex consulente di Goldman Sachs e ovviamente ex presidente della Commissione Europea, fa parte del florilegio presentato da “Megachip” alla voce: piccola antologia di “democrazia europea”. «Dunque per fare “passi avanti” l’Europa ha bisogno di devastare la società, avvilire la cultura, generare disoccupazione di massa, far suicidare imprenditori e lavoratori, gettare nello sconforto e nella disperazione milioni di giovani e produrre miseria».
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Via il cash, così la finanza ci controllerà al centesimo
Nuove tecnologie minacciano di concentrare un potere assoluto nelle mani di pochi privilegiati, «gli stessi individui e le stesse organizzazioni che hanno già ripetutamente tradito la fiducia di chinque abbia voluto credere in loro». La Hsbc, la terza banca per importanza nel mondo, è stata scelta dai trafficanti di droga e di armi e dai gruppi terroristici di tutto il mondo per riciclare denaro. Di recente, la Hsbc è finita sui giornali per aver limitato gli importi che i clienti possono prelevare dai loro conti correnti (ed è stata costretta a fare retromarcia) mentre, informa la Bbc, la banca non ha «creato gli stessi problemi nell’onorare trasferimenti elettronici: da questo si può ragionevolmente supporre che il problema è il denaro contante in mano al cliente, non la disponibilità di denaro». Questo, scrive “Raging Bullshit”, è solo «l’ultimo episodio di quel grande assalto che la grande finanza e i governi dei paesi più potenti stanno portando contro tutte le transazioni in contanti».Per anni, aggiunge il blog in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, i governi hanno cercato tagliare le operazioni in contanti. Negli Usa, qualsiasi azienda o persona che incassi 10.000 dollari “cash” per una vendita, deve presentare un “Form 8300”. Le banche inoltre devono segnalare tutte le operazioni di cassa che superino questo limite. Stesse procedure valgono anche in Europa, dove le parti sono tenute a spiegare da dove proviene il denaro. Nel 2013, il governo francese ha reso queste norme ancora più restrittive, con nuovi controlli sulle transazioni in contanti abbassando il limite 3.000 a soli 1.000 euro, come del resto anche in Italia. Le ragioni di queste misure sono evidenti: «In un momento in cui la maggior parte dei paesi sta lottando per tenere a freno la spesa pubblica – per non parlare degli interessi sempre più insostenibili sul debito pubblico – i governi si stanno freneticamente guardando intorno per cercare qualsiasi cosa di valore che si possa rubare o depredare. E quando si tratta di avidità i governi, soprattutto durante un momento di acuta crisi fiscale, come quello attuale, non conoscono limiti».Come dice Patrick Henningsen, del Center for Research on Globalization, «il sogno di sempre di tutte le élite di tecnocrati e collettivisti, sarebbe riuscire ad eliminare dall’economia sia il “denaro in contanti semi-irregolare” che il mercato nero, per massimizzare e controllare completamente i mercati. Se riuscissero a farci arrivare a una società senza contanti, sarebbero molto vicini ad aver raggiunto il completo controllo sulla vita di ogni singolo individuo». Protesta un cliente londinese della Hsbc: «Ho un conto in questa banca da 28 anni, mi conoscono tutti. Non dovrebbero chiedermi spiegazioni sul perché io voglia ritirare il mio denaro. Non è denaro loro, è denaro mio». Per tanti versi, aggiunge “Raging Bullshit”, il denaro in contanti offre ai cittadini l’ultimo rifugio rimasto alla propria privacy e serve a mantenere l’anonimato in un mercato sempre più invischiato in una rete di controllo mondiale. «Se si comincia con i collegamenti incrociati globali su tutto quello che si muove nel mondo finanziario, i governi saranno in grado di tener traccia di ogni centesimo che si guadagna, che si spende e che si risparmia».Gli stessi governi che hanno varato misure per limitare l’uso del contante sono gli stessi che spingono per far utilizzare forme alternative di denaro, come il “mobile money” (denaro digitale) che può essere completamente tracciato. Finora, la crescita della moneta che “viaggia per telefono” è avvenuta soprattutto nell’Africa sub-sahariana, dove alcuni dei settori finanziari più sottosviluppati hanno fornito il banco di prova ideale per la sperimentazione di progetti sul denaro telefonico. Secondo il “Mobile Africa Report 2011”, gli utenti africani della telefonia mobile sono oltre 500 milioni. Un sondaggio citato dall’“Economist” e condotto da tre colossi mondiali – la Fondazione Gates, la Banca Mondiale e la Gallup World Poll – rivela che esistono 20 paesi nel mondo dove più del 10% degli adulti afferma di aver fatto transazioni con il “mobile-money” durante il 2011 – e tra questi, 15 sono in Africa. In Kenya, Sudan e Gabon almeno metà degli adulti ha mosso denaro per telefono.Il principale operatore di telefonia mobile in Kenya, Safaricom (società ora controllata da Vodafone), vanta oltre 14,7 milioni di utenti che usano M-Pesa, la piattaforma di “mobile-money”. «Questo significa che oltre il 36,75% della popolazione del Kenya ha un conto di deposito in M-Pesa – senza considerare gli utenti che hanno conti dello stesso genere su altre reti telefoniche. I movimenti di fondi trasferiti da M-Pesa ormai arrivano ad uno sconcertante 25% del Pil del paese». Da quando è stato introdotto questo sistema per trasferire denaro, in Africa si è assistito ad un cambiamento paradigmatico nei metodi delle transazioni finanziarie. Non mancano gli aspetti postivi: «Il denaro movimentato per telefono ha permesso a molte persone, con una istruzione elementare o senza nessuna istruzione, di avere accesso per la prima volta ai servizi finanziari. Ha anche contribuito a colmare il divario tra il settore bancario e non bancario, consentendo a molte persone di ricevere rimesse bancarie dai familiari all’estero, cosa essenziale per far crescere una nuova generazione di africani».C’è però anche il lato oscuro del “mobile money”, come riporta il sito africano di tecnologia “Humanipo.com”: «Più viene utilizzato, più i clienti si espongono a nuove generazioni di truffatori». Esempio: «Ci sono stati recenti casi di raggiro condotti con sms fasulli, che sembravano essere inviati automaticamente da fornitori di telefonia mobile, banche o altre istituzioni finanziarie». Vittime del raggiro: gli abbonati che usano il “mobile money”. La stessa Safaricom ha dimostrato che il 65% dei casi collegati a frodi telefoniche provenivano dalle carceri. Ma il problema non è solo africano: «Nel Regno Unito le autorità di controllo finanziario hanno avvertito che si verificano frodi prodotte da un software dannoso, come se si avesse un “dito grosso” che causa errori di stile e blocchi del sistema, e che può mettere sotto minaccia chi utilizza i servizi di mobile banking». Il rischio maggiore «resta il sistema stesso di alternativa digitale ai soldi in contanti». A oscurare i vantaggi del “mobile-money” è «il suo enorme potenziale di concentrazione del potere finanziario», consuderati «gli abusi e i conflitti di interesse che sta provocando».Il vero problema, aggiunge “Raging Bullshit”, è che a dominare il mercato del denaro digitale saranno «le stesse istituzioni – come la Hsbc, ad esempio – che hanno già infranto praticamente ogni regola», in materia di servizi finanziari. «Saranno gli stessi che hanno già manipolato le regole di ogni mercato esistente, che hanno mercificato e finanziarizzato praticamente qualsiasi risorsa naturale di valore su questo pianeta». Gli stessi che, sulla scia della crisi finanziaria da loro provocata, «hanno estorto miliardi di dollari dalle tasche dei propri clienti e miliardi di dollari da quelle dei contribuenti». Come fidarsi, d’altra parte, dei nostri governi? Scott Shay, presidente della Signature Bank, su “Cnbc” scrive che il governo Usa sta «diventando molto esperto nel togliere denaro ai cittadini», per poi “spiegare” loro che è in atto una “decadenza civile”. «A peggiorare ancora le cose, c’è un drammatico consolidamento che è avvenuto in tutto il sistema bancario, che ha reso più facile al governo l’acquisizione delle informazioni, dovendo controllare un minor numero di punti di accesso».Ad esempio, Jp Morgan, una delle più grandi e potenti banche d’America, ha raggiunto la stessa dimensione che hanno, tutte insieme, oltre 3.000 banche più piccole. Motivo per cui le prime quattro banche americane controllano circa il 60% di tutti i depositi bancari Usa. «Grazie soprattutto alle rivelazioni di Edward Snowden, siamo riusciti a sapere che il governo americano sta approfittando delle prodezze compiute dai servizi della Nsa e della manipolazione dei big-data in un modo spaventosamente pericoloso». Eppure, aggiunge “Raging Bullshit”, noi «continuiamo ad camminare come dei sonnambuli, quasi come degli zombie, e ci stiamo pericolosamente avvicinando ad una società che potrà vivere senza contanti». In cambio di qualche piccola convenienza immediata, «siamo disposti a concedere ai nostri governi e alle grandi banche “too-big-to fail” (ma anche “tanto-grasse-da-scoppiare”) la possibilità di controllare completamente ogni nostra singola transazione quotidiana. E mentre ci sembra di vedere nelle valute virtuali, come il Bitcoin, qualcosa di vicino ad un antidoto contro questo scenario, anche queste possibili alternative – come dice Shay – sono soggette a continuo monitoraggio e possono essere regolamentate in modo che si limiti o addirittura si metta fine alla loro possibile utilità».Nuove tecnologie minacciano di concentrare un potere assoluto nelle mani di pochi privilegiati, «gli stessi individui e le stesse organizzazioni che hanno già ripetutamente tradito la fiducia di chinque abbia voluto credere in loro». La Hsbc, la terza banca per importanza nel mondo, è stata scelta dai trafficanti di droga e di armi e dai gruppi terroristici di tutto il mondo per riciclare denaro. Di recente, la Hsbc è finita sui giornali per aver limitato gli importi che i clienti possono prelevare dai loro conti correnti (ed è stata costretta a fare retromarcia) mentre, informa la Bbc, la banca non ha «creato gli stessi problemi nell’onorare trasferimenti elettronici: da questo si può ragionevolmente supporre che il problema è il denaro contante in mano al cliente, non la disponibilità di denaro». Questo, scrive “Raging Bullshit”, è solo «l’ultimo episodio di quel grande assalto che la grande finanza e i governi dei paesi più potenti stanno portando contro tutte le transazioni in contanti».
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Già tutta con Renzi la stampa che ieri osannava Letta
Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.Poi tutti con Enrico, a giocare a Subbuteo per non perdersi “la rivoluzione dei quarantenni”. E ora eccoli lì, col solito turibolo e senza fare un plissè, ai piedi del Fonzie reincarnato. Pare ieri che Aldo Cazzullo, sul Corriere, s’illuminava d’immenso: «Napolitano non ha citato Kennedy – “la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione…” – ma ha detto più o meno le stesse cose mentre affidava l’incarico di formare il “suo” governo a un uomo di cui potrebbe essere il nonno [... ]. L’Italia, paese considerato gerontocratico, fa un salto in avanti inatteso e si colloca all’avanguardia in Europa», perché «a Palazzo Chigi arriva il ragazzo che amava il Drive In e gli U2». Ora, oplà, si porta avanti col lavoro ed entra nel magico “mondo di Renzi” passando “dal parrucchiere Tony Salvi e dal suo salone di bellezza”: «Il sindaco viene tre volte la settimana» e «questo è l’unico posto dove stacca il cellulare». Per far che? Ordinare un’impepata di cozze? Ballare il tango?Nossignori. Udite udite: trovandosi dal barbiere, il Renzi «si fa spuntare i capelli (è stato Tony a fargli tagliare il ciuffo)». E nel “bar di Marcello”? Trattandosi di un bar, «fa colazione». Indovinate ora cosa riesce a combinare «nella pizzeria Far West di Pontassieve»? Ordina la pizza. Ma senza mai perdere la sua personalità, ché Lui «non è mai stato e soprattutto non si è mai sentito un ‘uomo di’. Tantomeno di Lapo Pistelli». E «sarebbe sbagliato sopravvalutare l’influenza di amici cui pure è vicinissimo, come Farinetti e Baricco». Perché «nessuno l’ha mai visto in soggezione», neanche davanti a Obama e Mandela. Non porta loden, non gioca a Subbuteo, né si conosce la sua posizione in merito al Drive In e agli U2. Però «il maglione color senape è il regalo di compleanno di Giovanna Folonari», mica cazzi.Il suo discorso dell’altroieri in Direzione, «come tutto il dibattito a seguire, è segnato da una vena lirica». E con la stampa, come andiamo con la stampa? «Tra i giornalisti Renzi ha rapporti di stima con Severgnini e Gramellini, ma non ha amici, se non la coppia Daria Bignardi-Luca Sofri (con Fabio Fazio, dopo una distanza iniziale, si sentono ogni tanto)». E Cazzullo? Su, Aldo, non fare il modesto: eddai, mettiamoci pure Cazzullo e non ne parliamo più. Per non trascurare i dettagli fondamentali, “Repubblica” dedica un’intera pagina alla Smart (“A tutto gas sulla Smart: così il Renzi-style archivia auto blu e berline”). Essa «è leggera, veloce e un po’ prepotente: è giovane, poi, costosa e non italiana. Insomma, è molto Renzi». Il quale – salmodia umido Claudio Cerasa sul “Foglio” – «sfanala con gli abbaglianti della Smart nello specchietto retrovisore della Panda di Letta, decide di premere la frizione, di cambiare marcia, di mettersi in scia, di azionare la freccia, di tentare finalmente il sorpasso». Per fare che? «Diventare l’Angela Merkel del Pd». E, assicura Giuliano Ferrara, «arrivare a Palazzo Chigi con piglio teutonico».Il ragazzo, come dice Sallusti, «ha le palle» più ancora di Palle d’Acciaio. E, aggiunge Salvatore Tramontano sul “Giornale”, «ha rottamato la sinistra che voleva rottamare Forza Italia. Ha messo fine al ventennio. Antiberlusconiano. Ha dimostrato che si può non avere paura del futuro. Come Berlusconi». Del resto, osserva “Repubblica”, «smart sta per “intelligente”, con una sfumatura di brillantezza». La sfumatura che gli fa Tony quando gli spunta il ciuffo. E il discorso in Direzione? Dire sobrio sarebbe troppo montiano: «Asciutto, senza fuochi d’artificio, senza retorica». Decisiva «la camicia bianca», «cambiata un attimo prima in bagno» dal Fregoli fiorentino (prima era “celeste”): «È il suo tratto distintivo, è il richiamo al mito Tony Blair». In effetti, a parte lui e Blair, chi ha mai portato una camicia bianca?“La Stampa” la butta sul mistico: mamma Laura «l’ha affidato alla Madonna… della quale, sopra la porta d’ingresso, c’è una bella icona». Del resto a Pontassieve «la Madonna dev’essere di casa perché il posto dov’è cresciuto Renzi sembra un paradiso». Senza dimenticare che lui «la sua station wagon» la guida personalmente «con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto». Santo subito. E anche colto, molto colto. La lingua corrierista di Luca Mastrantonio scomoda Dante Alighieri («per il suo libro “Stil novo”»), lambisce «Cosimo de ’ Medici» e «Benedetto Cellini» (che si chiamava Benvenuto, ma fa niente) e s’inerpica su su fino a Steve Jobs (per «il celebre imperativo categorico rivolto ai giovani americani: Stay hungry, stay foolish») e al «Grande Gatsby, l’affascinante outsider dell’età del jazz americana… Gatsby e Renzi sono entrambi personaggi fuori misura, dotati di carisma e ambizione, ma i moventi sono diversi».Tra “L’Unità” ed “Europa” è il solito derby del cuore, anzi della saliva. Un filino più perplessa la prima, anche se Pietro Spataro conviene che «l’Italia ha bisogno come l’aria (sic, ndr) di una svolta radicale», «restare nella palude sarebbe stato il male peggiore», «meglio essere trascinati da un’“ambizione smisurata” che prigionieri di una modesta navigazione”: peccato che né lui né “L’Unità” avessero mai avvertito i lettori che Letta era una palude e una modesta navigazione (che s’ha da fa’ per campa’). Eccitatissimo, su “Europa”, il sempre coerente Stefano Menichini. Solo in aprile cannoneggiava il «ceto intellettuale che del radicalismo tendente al giustizialismo fa la propria ragion d’essere»: «I Travaglio, i Padellaro, i Flores che annullano la persona di Enrico Letta perché “nipote”». Putribondi figuri che osavano dubitare delle magnifiche sorti e progressive del governo Letta: «Personaggi che fanno orrore. Il loro linguaggio suscita repulsione. Il loro livore di sconfitti mette i brividi. Ma in condizioni normali il loro posto dovrebbe essere ai margini… lasciando ai neofascisti la necrofilia e l’intimidazione».Ora invece, con agile balzo, impartisce l’estrema unzione al fu Nipote («Enrico Letta lascia dopo aver tenuto il punto ma essendosi fermato un attimo prima di coinvolgere il paese, il sistema politico e il Pd in uno psicodramma pericoloso») e bussare alla «porta che si sta spalancando a una stagione davvero nuova e inedita dell’intera politica italiana»: quella di Renzi, che «si avvia verso l’obiettivo della vita, il governo, col suo solito passo accelerato, e la notizia fa già il giro del mondo suscitando verso l’Italia una curiosità finalmente positiva». Perché «a ogni suo salto di status, si allarga il numero di chi viene coinvolto dalle sue scelte e dalle sue fortune. Fino a oggi era solo il popolo democratico. Da domani sarà l’intero popolo italiano». Torna finalmente a rifulgere il sole sui colli fatali di Roma.(Marco Travaglio, “Governo Renzi, sulla Smart del vincitore”, da “Il Fatto Quotidiano” del 15 febbraio 2014).Uno sente parlare i dirigenti del Pd, soprattutto i lettiani e gli antirenziani. Poi legge i giornali che nove mesi fa salutavano in Enrico Letta l’alba di un nuovo giorno radioso, l’ultima speranza dell’Italia, il capolavoro di Napolitano. E gli viene spontaneo domandare: scusate, cari, ma quando l’avete scoperto che il Nipote era una pippa? No perché, ad ascoltarvi e a leggervi in questi nove mesi, non è che si notasse granché. Benvenuti nel club, per carità: meglio tardi che mai. Ma, prima di saltare sulla Smart del nuovo vincitore, forse era il caso di chiedere scusa: pardon, ci siamo sbagliati un’altra volta. Il fatto è che ci sono abituati, non avendone mai azzeccata una: avevano puntato tutto su D’Alema, poi su Veltroni, persino su Rutelli. Ci avevano spiegato che B. non era poi così male, guai a demonizzarlo, anzi occorreva pacificarvisi. Poi si erano bagnati le mutandine all’avvento di Monti: che tecnico, che cervello, che sobrietà, che loden.