Archivio del Tag ‘Europa’
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L’eclissi di Napolitano e il clan occulto dei golpisti mondiali
Dopo nove anni passati sul Colle Giorgio Napolitano si appresta (forse) a lasciare. In poco tempo l’ex comunista migliorista ha trasformato un paese relativamente prospero come l’Italia in una valle di lacrime. In questo senso si può dire che Napolitano è stato molto efficace, riuscendo con abilità e costanza a realizzare gran parte degli obiettivi che alcuni occulti consessi gli avevano implicitamente affidato. Chi ha letto il libro di Magaldi, “Massoni”, sa come l’attuale presidente della Repubblica sia stato iniziato presso la Ur- Lodge “Three Eyes” nel lontano 1978. La “Three Eyes”, motore e centro decisionale di una offensiva reazionaria senza precedenti, supervisionò in passato una serie di accadimenti nefasti e sanguinari: dal golpe greco dei “colonnelli” fino all’operazione “Condor” in America Latina, molte delle tragedie conosciute e perpetuate dall’Uomo a partire dagli anni ’60 fino ai giorni nostri portano indiscutibile il timbro della famigerata loggia dai “tre occhi”.Napolitano è quindi epigono di una stagione tragica, violenta ed infingarda, fortunatamente destinata per consunzione a chiudersi per sempre. Negli stessi anni in cui Kissinger e soci “cucinavano” in giro per il mondo le dittature militari poi personificate dai vari Pinochet e Videla, in Italia si riaffacciava il pericolo golpista. I tentativi del principe Junio Valerio Borghese prima e quello di Edgardo Sogno poi rappresentavano infatti coerenti tasselli di un mosaico globale. Grazie al cielo Arthur Schlesinger Jr., già “maestro venerabile” della superloggia progressista “Thomas Paine”, riuscì a proteggere la democrazia italiana dalla grinfie di alcuni noti “contro-iniziati”. La P2, giova ripeterlo, altro non era se non il braccio italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, centro elitario ed occulto che muoveva come pedine i tanti “Gelli” allevati e pasciuti in giro per il mondo.Proprio l’organica appartenenza presso una delle Ur-Lodges in assoluto più influenti ha permesso a Giorgio Napolitano di devastare di fatto l’Italia tra gli applausi scroscianti di un sistema mediatico appositamente “addomesticato”. La massoneria reazionaria sovranazionale, nelle sue diverse articolazioni, ha oggi affinato metodi ed approcci. Il nazismo classico, ora improponibile in Europa, è stato sostituito da un tecno-nazismo soft che uccide cavalcando il mito della “purezza del bilancio” in luogo dell’oramai vetusta “purezza della razza”. Per completare una torsione oligarchica in grado di affamare una gran parte di cittadini resi sudditi dalla paura e dal bisogno, è necessario quindi che tutti gli attori in commedia recitino lo stesso copione. Dal 2011 fino ad oggi Napolitano ha di fatto commissariato l’Italia, nominando premier-fantoccio con il chiaro obiettivo di assecondare bramosie private. Monti, Letta e ora Renzi hanno difatti attuato politiche volutamente recessive, pensate per distruggere il tessuto economico italiano e diffondere miseria, disoccupazione e disperazione.Per questo la scelta del successore di Napolitano sarà indispensabile per capire quale piega prenderà l’Italia nei prossimi anni. Un nuovo Presidente della Repubblica organico alle Ur-Lodges neo-aristocratiche proverà infatti anche in futuro a neutralizzare gli esiti di una elezione libera e democratica, tenendo di continuo sotto scacco un Parlamento già declassato al ruolo di misero e decorativo orpello. Quelli che sperano nell’ascesa di un nuovo Presidente della Repubblica “tecnico” e “indipendente”, parlano in realtà in nome e per conto di quegli stessi mondi che da tempo selezionano ministri dell’Economia come Grilli, Saccomanni o Padoan. Chi esercita il potere in forza di un mandato popolare tenderà in linea di principio a difendere interessi diffusi. Chi, al contrario, come Monti o Padoan, ricopre posti di pubblica responsabilità senza avere un voto, evidentemente gode di altre fonti occulte di legittimità. Fonti che il libro “Massoni” smaschera, fornendo a chiunque le chiavi per comprendere genesi e ratio di alcuni accadimenti altrimenti apparentemente inspiegabili.(Francesco Maria Toscano, “L’eclissi di Giorgio di Napolitano, presidente della Repubblica in forza alla Ur-Lodge Three Eyes”, da “Il Moralista” del 22 dicembre 2014).Dopo nove anni passati sul Colle Giorgio Napolitano si appresta (forse) a lasciare. In poco tempo l’ex comunista migliorista ha trasformato un paese relativamente prospero come l’Italia in una valle di lacrime. In questo senso si può dire che Napolitano è stato molto efficace, riuscendo con abilità e costanza a realizzare gran parte degli obiettivi che alcuni occulti consessi gli avevano implicitamente affidato. Chi ha letto il libro di Magaldi, “Massoni”, sa come l’attuale presidente della Repubblica sia stato iniziato presso la Ur- Lodge “Three Eyes” nel lontano 1978. La “Three Eyes”, motore e centro decisionale di una offensiva reazionaria senza precedenti, supervisionò in passato una serie di accadimenti nefasti e sanguinari: dal golpe greco dei “colonnelli” fino all’operazione “Condor” in America Latina, molte delle tragedie conosciute e perpetuate dall’Uomo a partire dagli anni ’60 fino ai giorni nostri portano indiscutibile il timbro della famigerata loggia dai “tre occhi”.
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La ricchezza non gocciola: sempre più ricchi, a nostre spese
La dottrina del trickle-down esprime l’idea per cui la ricchezza di pochi finirà con ricadere vantaggiosamente sull’intera collettività, compresi i ceti meno abbienti. Risale agli anni di Reagan, e si sviluppa coerentemente all’interno di quell’ideologia che vede nel libero mercato la migliore e unica forma di interazione economico-sociale, attribuendogli taumaturgiche virtù auto-regolanti in un contesto di perfetta concorrenza, privo di asimmetrie informative, e dove la funzione dello Stato – detentore del potere coercitivo – dev’essere strettamente limitata a garantirne le condizioni ottimali di sviluppo. Il neoliberismo, all’epoca di Reagan, aveva già iniziato quel percorso che lo avrebbe portato, nel giro di qualche anno, a essere l’ideologia di riferimento della globalizzazione: fin dagli anni Settanta i Chicago-boys di Friedman avevano potuto farsi le ossa e testare la bontà della shock-economy presso le dittature sudamericane; Fmi e Banca Mondiale si stavano orientando decisamente verso quelle direttive di politica economica che in seguito sarebbero state formalizzate sotto il nome di “Washington consensus”.Il termine trickle-down può essere tradotto con la parola “gocciolamento”. Un’espressione che evoca processi naturali, e che serve a dare alla dottrina un carattere di spontaneità irrefutabile.I neoliberisti sono bravi, in queste narrazioni: l’arbitrio che viene tradotto come libertà di decisione; la subordinazione del bene individuale a quello comune descritta come una prevaricazione indebita dello Stato; la tutela dei più deboli vista come incoraggiamento alle tendenze parassitarie; i meccanismi di previdenza accusati di essere de-responsabilizzanti.(Esempi recenti li troviamo nella retorica della compagine governativa, in particolare quella del nostro caro leader, il facondo Renzi. L’ultimo che mi ha colpito è stata quando a proposito dell’idea di mettere il Tfr in busta paga ha affermato, più o meno, che doveva finire l’epoca dello “Stato-mamma”). In rete mi sono imbattuto in una vignetta che illustra molto bene il concetto di Trickle-down, come ce lo raccontano e come funziona veramente. Molto carina, vero?, ma restava una metafora senza supporto scientifico.Manco a farlo apposta, leggo sul “Washington Post” un articolo di Christopher Ingram a commento del grafico costruito da Pavlina Tcherneva sulla base di dati ricavati dal recente lavoro di Piketty. Il titolo dell’articolo è significativo: “Il deprimente grafico che segue dimostra che i ricchi non si stanno impossessando della fetta di torta più grande: si stanno prendendo tutta la torta”. Il grafico lo trovate qui sotto: rappresenta la distribuzione dell’incremento dei redditi dal secondo dopoguerra a oggi, fra il 10% più ricco della popolazione (in rosso) e il restante 90% (in blu), e dimostra che una quota sempre maggiore di ricchezza prodotta finisce nelle tasche dei più facoltosi. Notare l’inesorabile declino della quota blu a beneficio di quella rossa, culminato con il crollo degli anni ’80 grazie agli effetti della reaganomics e della pretestuosa trickle-down theory. Notare anche come la quota blu non solo è andata diminuendo, ma negli ultimi anni è diventata in termini reali addirittura negativa. Il grafico non dice nulla che non sapessimo o sospettassimo già, ma lo dice in maniera molto eloquente. Va ricordato però che sono dati riferiti alla realtà statunitense. Dati europei, ne sono convinto, mostrerebbero una distribuzione molto più equilibrata. O no?(Mauro Poggi, “Tricke-up, la ricchezza non gocciola”, da “Appello al Popolo” del 1° novembre 2014).La dottrina del trickle-down esprime l’idea per cui la ricchezza di pochi finirà con ricadere vantaggiosamente sull’intera collettività, compresi i ceti meno abbienti. Risale agli anni di Reagan, e si sviluppa coerentemente all’interno di quell’ideologia che vede nel libero mercato la migliore e unica forma di interazione economico-sociale, attribuendogli taumaturgiche virtù auto-regolanti in un contesto di perfetta concorrenza, privo di asimmetrie informative, e dove la funzione dello Stato – detentore del potere coercitivo – dev’essere strettamente limitata a garantirne le condizioni ottimali di sviluppo. Il neoliberismo, all’epoca di Reagan, aveva già iniziato quel percorso che lo avrebbe portato, nel giro di qualche anno, a essere l’ideologia di riferimento della globalizzazione: fin dagli anni Settanta i Chicago-boys di Friedman avevano potuto farsi le ossa e testare la bontà della shock-economy presso le dittature sudamericane; Fmi e Banca Mondiale si stavano orientando decisamente verso quelle direttive di politica economica che in seguito sarebbero state formalizzate sotto il nome di “Washington consensus”.
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.
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Grecia: strage per depressione di massa, made in Germany
La Gabanelli vi intrattiene con sapienza proponendovi un po’ di senso di colpa a buon mercato per le povere oche spiumate? «Bene, avete sofferto tanto: il distrattore ha funzionato», scrive Barbara Tampieri. Ma se volete inorridire veramente – non per la mattanza di oche, ma di esseri umani – c’è un documentario greco che racconta «l’epidemia di depressione che è calata sul paese come un castigo biblico». La terapia-choc, made in Germany, ha provocato «un disastro mentale su larga scala, un genocidio senza sparare un colpo», con la piena complicità della propaganda dei media. «L’ansia, il senso di colpa, quello di vergogna e la disperazione possono essere inoculati a milioni di persone, mentre si opera criminalmente per derubarle della propria ricchezza e gettarle nella disperazione. E’ istigazione collettiva al suicidio. E’ la prova di un crimine contro l’umanità, uno dei più efferati, che però non interessa a nessuno, tanto meno a coloro che vorrebbero esportare, dopo il grande successo in Grecia, la medesima terapia da noi e nel resto dell’Europa di seconda classe. Per liberarsi delle nuove vite indegne di essere vissute. O che hanno vissuto al di là delle proprie possibilità».“La Grecia che si dispera, la Grecia che spera”: tra le testimonianze raccolte nel video pubblicato su Vimeo, oltre a quelle degli operatori psichiatrici dei centri di aiuto che raccontano le cifre della tragedia, l’aumento del 28% dei suicidi e l’impennata della depressione tra la popolazione, «stringono il cuore quelle dei bambini e i loro disegni, con quei soli neri: piccoli già vittime del convincimento che siano stati sì i politici a ridurre le loro famiglie alla fame ma che soprattutto la colpa sia stata di quelle famiglie, di avere “speso troppi soldi”». Eppur, dice un intervistato, «non chiedevamo tutto quel benessere, siamo gente semplice». Scrive la Tampieri su “L’Orizzonte degli Eventi”: «C’è un particolare sadismo in colui che ti toglie la felicità sostenendo che se sei stato felice fino ad ora non ne avresti avuto diritto. C’è un che di pedagogia nera dall’origine inconfondibile in questo senso di colpa inoculato come un veleno in popolazioni talmente solari, per restare in tema, da inventarsi una terapia a base di risate per tentare di sopportare l’angoscia del quotidiano». Uno dei testimoni dice, a un certo punto: «Noi abbiamo il sole. Sono riusciti a farci sentire in colpa per avere il sole».Una donna, il cui stipendio si è ormai dimezzato e non riesce più a pagare il mutuo, esprime la rabbia di chi ha capito chi l’ha ridotta alla disperazione: «La banca avrebbe dovuto sapere che non sarei stata in grado di pagare le rate, avrebbe dovuto saperlo meglio di me». Un uomo racconta di essere invecchiato di vent’anni in poco tempo. Non si suicida, dice, perché non vuole lasciare solo il figlio, un bambino al quale riesce a dare da mangiare solo un piatto di fagioli. Però il padre ha già preparato la corda appesa, e la mostra. «Un popolo intero, quindi, in preda alla depressione, una depressione provocata scientificamente dall’invidia di chi è convinto di non potersi meritare il sole a meno di toglierlo agli altri con la violenza», scrive Tampieri. «Un popolo che sembra purtroppo fin troppo adagiato sul proprio destino, se è vero che pensa di affidarsi come unica speranza al toy boy delle damazze eurofile, quel Tsipras che, sì, poveri greci, ma l’euro non si tocca».«Questo documentario mi ha fatto stare male – scrive ancora Barbara Tampieri – perché la depressione la conosco, è la cosa più terribile che possa capitarti e l’ho avuta addosso per dodici anni. Conosco quel dolore atroce e quell’assoluta disperazione che ti danno le bellissime giornate di cielo terso, quando normalmente dovresti essere felice solo per il fatto di esistere e vedere tutta quella bellezza. Conosco quella vocina insistente che ti dice: “Non hai speranza, davanti a te c’è solo un muro nero oltre al quale c’è il nulla, il futuro non esiste, ammazzati”».E conclude: «Sono paranoica e complottista se penso che in fondo non si abbia alcun interesse a debellare la depressione ma anzi, si voglia non solo perpetuarla ma renderla endemica? Perché un popolo depresso è più facilmente controllabile, può essere sottomesso più alla svelta e difficilmente ti farà una rivoluzione perché, come per i lemming, basterà portarlo in cima al burrone e penserà da sé a suicidarsi. Come in Grecia».La Gabanelli vi intrattiene con sapienza proponendovi un po’ di senso di colpa a buon mercato per le povere oche spiumate? «Bene, avete sofferto tanto: il distrattore ha funzionato», scrive Barbara Tampieri. Ma se volete inorridire veramente – non per la mattanza di oche, ma di esseri umani – c’è un documentario greco che racconta «l’epidemia di depressione che è calata sul paese come un castigo biblico». La terapia-choc, made in Germany, ha provocato «un disastro mentale su larga scala, un genocidio senza sparare un colpo», con la piena complicità della propaganda dei media. «L’ansia, il senso di colpa, quello di vergogna e la disperazione possono essere inoculati a milioni di persone, mentre si opera criminalmente per derubarle della propria ricchezza e gettarle nella disperazione. E’ istigazione collettiva al suicidio. E’ la prova di un crimine contro l’umanità, uno dei più efferati, che però non interessa a nessuno, tanto meno a coloro che vorrebbero esportare, dopo il grande successo in Grecia, la medesima terapia da noi e nel resto dell’Europa di seconda classe. Per liberarsi delle nuove vite indegne di essere vissute. O che hanno vissuto al di là delle proprie possibilità».
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Renzi conta zero, l’Eni vede sfumare anche Southstream
Ancora a metà novembre, la Mogherini («fa un certo effetto pensare che sia la “lady Pesc” della Ue») dichiarava di ritenere strategico il progetto di Southstream per la sicurezza energetica del continente, e altrettanto aveva detto Renzi qualche giorno prima. Dopo neppure due settimane, il progetto è saltato: prima è stata l’Eni a chiamarsi fuori, poi la stessa Gazprom. Requiem per un gasdotto. Cosa ha determinato questo collasso? Ovviamente – scrive Aldo Giannuli – hanno pesato le sanzioni per la questione ucraina. Ma non si tratta solo di questo: «In primo luogo c’è da dire che la politica ostruzionistica degli americani e le loro pressioni sui partner europei erano riuscite a ritardare l’opera di anni: il 31 marzo scorso avrebbe dovuto iniziare la posa dei primi tubi, ma non c’erano neppure le più lontane premesse. Per cui, quando è arrivata la crisi ucraina, è stato più facile bloccare un progetto che non aveva avuto alcun avvio concreto». Inoltre, anche Mosca aveva cominciato a frenare, non più sicura della convenienza della grande infrastruttura.Giannuli parla di «calcoli più accurati», effettuati dai russi, in base ai quali risulta ci sia stata «una sopravvalutazione della massa di gas che sarebbe transitata e, contemporaneamente, una sottovalutazione dei costi dell’opera, per circa 68 miliardi di dollari». L’apertura della prospettiva cinese, con il viaggio di Putin a Pechino, peraltro, aveva indebolito l’interesse sul versante europeo, continua Giannuli. Certo, «una forte difesa del progetto da parte degli alleati europei (italiani e tedeschi in primo luogo, ma anche piccoli come bulgari e greci, interessati ai diritti di transito del gasdotto) forse avrebbe potuto rilanciare l’operazione». Ma i tedeschi si sono molto raffreddati («e c’è da capire quanto pesi, in questo, la partita dei capitali russi congelati nelle banche tedesche»), mentre gli italiani «pesano poco o nulla, forse meno dei bulgari, anche se la Mogherini è “lady Pesc” e Renzi il presidente di turno (a proposito: mi pare che il “semestre italiano” stia passando senza alcun segno memorabile)».Poi, continua Giannuli, c’è stato anche «l’opportuno scandalo Nigeria», che ha messo nei guai Scaroni e Descalzi, provocando anche qualche frizione fra il secondo e il presidente del Consiglio, e anche l’Eni è scesa a più miti consigli («chi lo dice che gli scandali non servono a niente?»). Infine, «il colpo di grazia è venuto dalla caduta dei prezzi del petrolio: se davvero restassero intorno ai 60 dollari per uno o due anni, la concorrenzialità del gas sarebbe azzerata e il rientro dell’investimento si perderebbe nelle brume di un futuro lontanissimo». Ripercussioni geopolitiche: «Con la messa in crisi dell’asse Berlino-Mosca e la fine del progetto Southstream, la Russia perde gran parte del suo interesse verso la Ue e, anzi, vede l’avanzare del progetto dell’area di libero scambio Usa-Ue come rivolto contro di sé». Per cui, «diventa molto più interessante lo scenario del collasso della Ue».E questo, sostiene Giannuli, rende molto più comprensibile l’improvvisa simpatia manifestata dal capo del Cremlino per il Front National di Marine Le Pen, nonché l’invito ufficiale rivolto Matteo Salvini, leader della Lega Nord. Traduzione: «Appurato che Renzi conta in Europa quanto il due di coppe, Putin punta le sue carte sull’opposizione anti-renziana in ascesa e Renzi perde uno dei suoi pochi interlocutori a livello internazionale». Ma non è tutto. Di interlcotutori strategici, forse il presidente del Consiglio ne perde anche un altro, cioè Israele, «che constata come il suo protetto non sia in grado di sbarrare la strada alla strategia petrolifera dei sauditi e affini». In altre parole, anche la vicenda Southstrem dimostra che «Renzi è sempre più solo», precario leader di un’Italia in stato di abbandono.Ancora a metà novembre, la Mogherini («fa un certo effetto pensare che sia la “lady Pesc” della Ue») dichiarava di ritenere strategico il progetto di Southstream per la sicurezza energetica del continente, e altrettanto aveva detto Renzi qualche giorno prima. Dopo neppure due settimane, il progetto è saltato: prima è stata l’Eni a chiamarsi fuori, poi la stessa Gazprom. Requiem per un gasdotto. Cosa ha determinato questo collasso? Ovviamente – scrive Aldo Giannuli – hanno pesato le sanzioni per la questione ucraina. Ma non si tratta solo di questo: «In primo luogo c’è da dire che la politica ostruzionistica degli americani e le loro pressioni sui partner europei erano riuscite a ritardare l’opera di anni: il 31 marzo scorso avrebbe dovuto iniziare la posa dei primi tubi, ma non c’erano neppure le più lontane premesse. Per cui, quando è arrivata la crisi ucraina, è stato più facile bloccare un progetto che non aveva avuto alcun avvio concreto». Inoltre, anche Mosca aveva cominciato a frenare, non più sicura della convenienza della grande infrastruttura.
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I mercati contro la democrazia, inutili anche le elezioni
Il sistema capitalistico ha sempre usato la democrazia come strumento di manipolazione di massa. Ma di quale democrazia sto parlando? Di quella che abbiamo avuto fino a ieri molto simile alla Caverna di Platone, dove gli uomini nel buio della non-conoscenza e non-consapevolezza si agitano per ottenere una libertà fittizia (lo schiavo che lotta per una catena più lunga). La vera democrazia, infatti, metterebbe in pericolo il capitalismo e i suoi interessi; non potrebbe conciliarsi, per esempio, con l’accumulo della ricchezza come base di funzionamento della società, perché la democrazia tende a raggiungere uno stato di uguaglianza sociale. La democrazia falsa, fino ad oggi, ha portato la gente a credere che partecipare alla vita democratica consista nel delegare ogni volta il potere con le elezioni, quando una vera democrazia necessita di revisione continua e di partecipazione assidua per vigilare il corretto funzionamento delle istituzioni. Con la perdita della sovranità abbiamo assistito a un veloce decadimento anche di quest’ultimo barlume di democrazia strumentale.Il potere si è spostato di baricentro, si è accentrato fuori dai confini dello Stato sociale e esistendo lontano anche dal punto di vista logistico, si assicura un aurea di intoccabilità e indecifrabilità. La vecchia “democrazia senza popolo” (come l’ha definita Rodotà) ha lasciato il posto alla dittatura europea finanziaria e mentre con la “vecchia” dopo le elezioni si chiedeva al popolo di rimanere in silenzio per attuare le manovre, con la nuova dittatura non sono più necessarie nemmeno le elezioni, perché obsolete (Monti, Letta, Renzi insegnano). Il popolo è chiamato a sopportare, in silenzio possibilmente, ogni umiliazione imposta come unico e giustificato sacrificio al bene finanziario ed economico. E’ un errore, dunque, pensare di arrivare a una crisi assoluta della società prima di proporre un nuovo modello? La risposta è sì! È un errore perché si perderebbe molto, troppo lungo il cammino verso il tracollo e tanti, troppi, perirebbero sacrificati ingiustamente.Per questo motivo oggi è necessario agire, e subito, per riconquistare gli strumenti che ci permettono di ristrutturare la vita sociale in ogni suo aspetto e l’economia del paese su nuovi paradigmi culturali. La sovranità è uno di questi strumenti indispensabili perché restituisce al paese il controllo del destino del suo popolo. Senza sovranità è inutile pensare di far politica con progetti di lungo periodo, perché il futuro appartiene ai mercati, è fuori dalla gestione dello Stato e quindi indecifrabile. Senza sovranità non è pensabile proporre sistemi economici alternativi e soluzioni per il rilancio del paese. Le forme di sovranità esistono perché esiste il popolo, è funzionale ad esso e al popolo deve tornare, attraverso le istituzioni funzionali al benessere sociale. Sovranità significa anche ricostituire uno Stato di diritto, dove l’uomo è al centro come soggetto e beneficiario del diritto stesso, per la sua felicità e benessere.(Ivana Viazzi, “Democrazia platonica”, da “Appello al popolo” del 15 novembre 2014).Il sistema capitalistico ha sempre usato la democrazia come strumento di manipolazione di massa. Ma di quale democrazia sto parlando? Di quella che abbiamo avuto fino a ieri molto simile alla Caverna di Platone, dove gli uomini nel buio della non-conoscenza e non-consapevolezza si agitano per ottenere una libertà fittizia (lo schiavo che lotta per una catena più lunga). La vera democrazia, infatti, metterebbe in pericolo il capitalismo e i suoi interessi; non potrebbe conciliarsi, per esempio, con l’accumulo della ricchezza come base di funzionamento della società, perché la democrazia tende a raggiungere uno stato di uguaglianza sociale. La democrazia falsa, fino ad oggi, ha portato la gente a credere che partecipare alla vita democratica consista nel delegare ogni volta il potere con le elezioni, quando una vera democrazia necessita di revisione continua e di partecipazione assidua per vigilare il corretto funzionamento delle istituzioni. Con la perdita della sovranità abbiamo assistito a un veloce decadimento anche di quest’ultimo barlume di democrazia strumentale.
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Verità proibita in Europa, la vergogna dell’arresto di Chiesa
Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.E’ abbastanza evidente, dice, il maldestro tentativo di impedire a un cittadino europeo di esprimere le proprie idee e raccontare le verità che conosce. «Questa – aggiunge Giulietto Chiesa dopo il rilascio – non è certo l’Europa che sognava Altiero Spinelli». Il “decreto di espulsione” dall’Estonia, scrive Pino Cabras su “Megachip”, il newsmagazine web fondato da Chiesa, sarebbe stato «emanato ad personam» dal governo di un paese membro dell’Unione Europea, «senza nessuna accusa formulata in nome di una qualche fattispecie di reato». Quindi, «si è voluto colpire un cittadino di quella stessa Unione Europea, una personalità pubblica nel pieno dei suoi diritti politici e di parola, da sempre proclamati come il miglior primato dell’Europa». In teoria, aggiunge Cabras, tutti hanno quei diritti, «ma vengono usati poco e sempre meno», anche perché «per i diritti funziona al contrario dei vestiti: meno li usi più si sgualciscono». Giulietto? «Indossa invece tutte le sfumature del diritto di parola e perciò mostra la veste integra della libertà, che spicca in mezzo a un sistema dell’informazione ormai agli stracci».Vent’anni prima che diventasse popolare la denuncia della disinformazione di massa organizzata in modo sistematico del mainstream, Giulietto Chiesa ne ha fatto una ragione di vita: «Non sappiamo nulla di quanto avviene attorno a noi, perché non ce lo dicono, e se non sappiamo nulla potrebbe accadere di tutto, al riparo dalla verità». Durissime le denunce sulla Guerra del Golfo, costruita con le false accuse contro Saddam, e sui crimini di Israele verso i palestinesi. E poi la mattanza nei Balcani, i bombardamenti “umanitari” per il Kosovo, le atrocità della guerra in Cecenia: tra i pochissimi, Giulietto Chiesa, a denunciare la Russia per la guerra nel Caucaso, “organizzata” direttamente dal Cremlino per creare un fronte interno in grado di fabbricare consenso a beneficio del pericolante “zar” privatizzatore Boris Eltsin. In contatto con Gino Strada e la struttura di “Emergency”, Giulietto Chiesa è stato il primo giornalista italiano – tra i primi al mondo – a entrare a Kabul nella primavera 2002, durante la “liberazione” dai Talebani, nel corso dell’offensiva dell’Alleanza del Nord scatenata per “punire” Al-Qaeda all’indomani del super-attentato dell’11 settembre 2001, rispetto al quale – oggi è accertato – il network terroristico di Bin Laden non ebbe alcuna responsabilità.«Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia sovietica “Tass” ai tempi dell’Urss, sperando di liberarsi dell’allora corrispondente de “L’Unità”, ritenuto scomodo perché sincero, non allineato al potere. Fu Berlinguer in persona, ricorda Chiesa, a chiarire al Cremlino che il giornale non lo avrebbe sostituito. Un’autorevolezza, quella di Chiesa, che gli ha consentito di collaborare per lunghi anni coi maggiori organi d’informazione italiani, da “La Stampa” ai telegiornali Rai e Mediaset. Stretto collaboratore di Mikhail Gorbaciov a partire dagli anni ‘90, Chiesa ha condiviso l’impegno del “padre della perestrojka” per sviluppare una visione multipolare del mondo, archiviata la guerra fredda. Ma la storia s’è rimessa a correre in direzione contraria: la “guerra infinita”, innescata proprio dall’11 Settembre, ci ha regalato un conflitto dopo l’altro. «La peggiore arma di distruzione di massa è la menzogna», dice Chiesa. «Proprio sulla manipolazione della verità si basa la preparazione di ogni guerra di aggressione: tutte guerre asimmetriche, ormai, particolarmente sanguinose, non più tra eserciti contrapposti ma tra milizie e popolazioni civili». In crisi, Giulietto Chiesa, anche con la sinistra, da cui pure proviene: «La sinistra – dice – non ha “visto” il rivolgimento epocale in corso, l’affermarsi delle grandi oligarchie finanziarie che hanno piegato la politica al loro volere. E se la politica democratica sparisce, non abbiamo più difese».Le ultime grandi battaglie civili l’hanno condotto, ancora una volta, nell’ex Unione Sovietica. Prima nell’Ossezia del Sud, aggredita dalla Georgia armata dalla Nato su ordine di Bush. E poi nell’Ucraina sfigurata dal golpe di Kiev, orchestrato da Washington e affidato alla manovalanza neonazista che ha sparato sulla folla di piazza Maidan e assassinato più di cento inermi alla “casa dei sindacati” di Odessa, provocando la secessione della Crimea. Poi, a seguire, i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile del Donbass “ribelle”. Tutti episodi documentati e filmati, ma oscurati dal mainstream occidentale secondo cui l’aggressore è il vecchio nemico, l’Orso russo, incarnato oggi da quel Putin a cui non si perdona di non volersi “arrendere” al dominio occidentale. «Il mondo sta cambiando e cambierà sempre più in fretta», ha avvertito Pepe Escobar di “Asia Times” al simposio organizzato a Roma da Giulietto Chiesa il 12 dicembre. «Il problema – ha aggiunto Marcello Foa, opinionista del “Giornale” e a allievo di Indro Montanelli – è che l’opinione pubblica occidentale non se rende conto, perché i media non la informano».L’attività più recente di Giulietto Chiesa, la direzione della web-tv “Pandora Tv”, impegnata a svelare i torbidi retroscena della crisi ucraina, gli è probabilmente costata l’inaudito arresto a Tallinn, in quel Baltico dove il risentimento contro l’ex “padrone imperiale” sovietico è ancora così forte da armare violente discriminazioni contro le minoranze russe, fino al punto da applaudire i “rivoluzionari” di Kiev che sfilano sotto bandiere con la svastica. Non è un caso, osserva Pino Cabras, che nel punire con metodi squadristici gli scomodi portatori di verità «si cominci da uno dei paesi baltici, quelli in cui, assieme alla Polonia e all’Ucraina, con la benedizione della Nato, si sta formando un cuore nero dell’Occidente: lì, in piena Europa, si sta “normalizzando” un modo di concepire l’Occidente alla maniera dell’America Latina degli anni Settanta». Per essere chiari: «È un sistema in cui le strategie militari e finanziarie le decide Washington, gli apparati repressivi sono in mano a manovalanza di ispirazione nazista, i simboli storici sono manipolati con ogni mezzo, si rimuove con la forza ogni memoria antifascista e si recuperano segni, monumenti, cimeli legati al peggiore nazionalismo. Per le idee diverse c’è la repressione».Anche in questo caso, Giulietto Chiesa aveva fiutato il pericolo con largo anticipo: si era candidato al Parlamento Europeo in una lista creata per tutelare la minoranza russa della Lettonia. E nel 2009, nel libro “Il candidato lettone”, scriveva: «Mi rendevo conto, nonostante fossi lontano, che si stava preparando un focolaio, che avrebbe presto potuto trasformarsi in un incendio. E avvertivo anche che l’informazione che arrivava da Tallinn era – per usare un eufemismo – incompleta, inadeguata, e che, per capirci qualche cosa, si doveva integrarla con le notizie che venivano da Mosca. L’esperienza mi diceva che le crisi non nascono per caso. Anche se appaiono all’improvviso, hanno sempre una gestazione lunga ed è quella che bisogna scandagliare. Sono come corsi d’acqua, che escono dagli argini all’ultimo momento. Ma è evidente che la questione non è soltanto se gli argini siano sufficientemente alti; bisogna capire perché tanta acqua sia scesa dai monti». L’acqua baltica dell’ultimo decennio, aggiunge Cabras, è quella del recupero della memoria delle SS, della persecuzione dei russi, delle ondate repressive in stile G8 di Genova, tutte raccontate nel libro, «che ancora non poteva descrivere gli sviluppi che invece nel 2014 ha poi raccontato “Pandora Tv”: la guerra ucraina, la veloce e drammatica militarizzazione Nato dell’Est europeo; l’oltranzismo dei leader di quell’area, sempre più organici ai loro burattinai d’Oltreoceano, al punto che cedono platealmente i ministeri chiave e la finanza a ministri stranieri, come in Ucraina; le stragi naziste e i villaggi bombardati dall’artiglieria, le centinaia di migliaia di profughi, l’Europa delle sanzioni autolesioniste».Su questo fiume di eventi, conclude Cabras, c’è l’alba cupa dell’Europa che va incontro alla guerra da Est, non trattenuta dall’altra Europa più a Ovest, a sua volta devastata dall’austerity del regime europeo. «Solo in un contesto simile potevano eleggere il polacco Donald Tusk come presidente del Consiglio Europeo: ai piani alti vogliono quanta più russofobia possibile». L’incredibile arresto intimidatorio e illegale cui è stato sottoposto Giulietto Chiesa a Tallinn «ci dice che il regime europeo non solo emargina le voci dissidenti ma non vuole più tollerarne l’esistenza». Per Pino Cabras, evidentemente, «il silenzio mediatico su notizie importanti non basta più alle correnti atlantiste che dominano il continente. Vedono che c’è chi non si rassegna al silenzio, mentre avverte – qui e lì per l’Europa – che bisogna fare molto chiasso, e urlare che la guerra non sarà in nostro nome». Per Giulietto Chiesa, l’arresto è anche «una lezione da imparare», perché «ci aiuta a capire che razza di Europa è quella che ci troviamo davanti ora, e che battaglia dovremo fare per cambiarla, per rovesciarla come un calzino, se non vogliamo che questa gente rovesci noi».Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.
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Magaldi: chi ha ucciso i nostri eroi, per dominare il pianeta
Tu chiamala, se vuoi, massoneria. Il che, per i libri di storia, significa al massimo Risorgimento, cioè lotta illuminista contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico. Per la stampa italiana del dopoguerra, la connotazione della “libera muratoria” è quasi sempre negativa: Licio Gelli e la P2, Berlusconi, opache trame e comitati d’affari. La fratellanza in grembiulino? Sempre elusiva, quindi fatalmente relegata nel ghetto narrativo della controinformazione, il cosiddetto complottismo che impazza sul web da quando la grande crisi sta minacciando miliardi di esseri umani. Le avvisaglie di quella che alcuni chiamano Terza Guerra Mondiale fanno da sfondo alle fragorose devastazioni dell’altra guerra, già in atto, da parte dell’élite tecno-finanziaria contro il 99% dell’umanità, i non eletti, i cittadini da retrocedere al rango di plebe a cui togliere i diritti democratici conquistati nei decenni del benessere, in virtù della poderosa combinazione messa in campo da Roosevelt e Keynes: economia per tutti, grazie al gigantesco investimento dello Stato, spesa pubblica in forma di deficit positivo. Tutto cancellato, come sappiamo, dagli oligarchi del rigore neoliberista e dai loro politici, economisti, propagandisti. Ma che c’entrano le logge?La massoneria è esattamente l’anello mancante, risponde Gioele Magaldi, “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla “Thomas Paine”, super-loggia internazionale progressista nata a metà dell’800 negli Stati Uniti per allevare le migliori menti dell’economia democratica. Missione: coniugare sviluppo e benessere diffuso, ricchezza e giustizia, prosperità e diritti, secondo l’ispirazione del socialismo liberale che affonda le sue remote radici nella Rivoluzione Francese. Un orizzonte emblematizzato dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata all’Onu sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale per volere della “libera muratrice” Eleanor Roosevelt. “Massoni, società a responsabilità illimitata”, clamorosa operazione editoriale firmata da Chiarelettere, si propone di squarciare il velo di segretezza che ha finora coperto e protetto il “back office” del vero potere, sempre bifronte: da una parte la “fratellanza bianca”, illuminata e democratica, e dall’altra i potentissimi antagonisti neo-feudali, supremi manovratori dell’élite oligarchica che oggi ha preso il sopravvento e da decenni ricatta il mondo con l’arma finale della finanza.Un’analisi radicale, quella di Magaldi, che si scosta dai toni apocalittici del “cospirazionismo” anti-sistema, anche perché innanzitutto ribadisce il ruolo-chiave del capitalismo nell’affermazione della modernità. In più – e qui sta la novità dirompente – Magaldi offre una rilettura interamente massonica della storia recente, sostenendo che in tutti i passaggi decisivi delle maggiori vicende internazionali c’era sempre un convitato di pietra, rimasto nell’ombra. Ad ogni grande evento che ha segnato il nostro passato – questa è la tesi – non corrispondono soltanto aspirazioni di popoli, correnti e partiti, dinamiche economiche e condizioni geopolitiche, ma anche persone in carne e ossa. Nomi e cognomi, individui responsabili di decisioni precise, di acuminate strategie affidate a singoli attori. In questo modo, sempre secondo Magaldi (che ha “blindato” archivi e testimonianze, da esibire all’occorrenza), nel retrobottega del massimo potere si sono prima confrontate e poi affrontate, senza risparmio di colpi, due opposte visioni del mondo, una democratica e l’altra oligarchica, nutrita cioè di autentico spirito aristocratico – quello di chi pensa che il popolo, semplicemente, non sia in grado di governarsi da solo. Due “fratellanze”, dunque, accomunate dalla medesima attitudine iniziatico-esoterica, ma profondamente divergenti nella concezione politica e quindi negli obiettivi da raggiungere.Il “filtro” massonico che Magaldi applica alla sua sorprendente rilettura dell’intera storia del Novecento – l’anello mancante, appunto – contribuisce a illuminare la profondità dell’origine di alcuni eventi, senza peraltro distorcene mai la verità storica accertata, né il senso politico generale, comunemente condiviso e acquisito. E’ una sorta di avvertimento, ai lettori ma anche agli storici: attenti, le cose sono andate così anche perché, oltre alle dinamiche socio-economiche da voi evidenziate, ci sono state riunioni cruciali, scelte e decisioni precise, tutte assunte – nella più totate segretezza – da uomini potentissimi, il cui ruolo emerge solo ora, per la prima volta, grazie agli sterminati elenchi presenti nelle 650 pagine di “Massoni”, che peraltro si conclude con uno stupefacente dibattito tra super-adepti progressisti e confratelli antagonisti “pentiti”, spaventati dalle conseguenze “golpiste” della globalizzazione neoliberista imposta a mano armata.Annunciato come il primo di una lunga serie, imbottita di rivelazioni esplosive, il libro è anche un dichiarato atto di guerra infra-massonico, contro le lobby avversarie: un guanto di sfida rivolto prima di tutto agli iniziati neo-aristocratici. Un’arma pubblica, per indebolire il fronte dei grandi oligarchi, i boss della privatizzazione universale, il cui club esclusivo – secondo Magaldi – è rappresentato da storiche super-logge onnipotenti come la “Three Eyes”, di cui farebbero parte personaggi come Kissinger, Brzezisnki, Mario Draghi e i titani di Wall Street. E naturalmente i Rotschild e i Rockefeller, cioè gli stessi che, attraverso la super-loggia dei “tre occhi”, hanno fondato il corrispettivo organismo paramassonico con “tre lati”, la famigerata Trilateral Commission, cupola dell’élite mondiale da cui diffondere il verbo neoliberista, la “morte” dello Stato che deve far posto al mercato, i diktat della destra economica che eredita il memorandum di Lewis Powell e lo sviluppa nella “Crisi della democrazia”, il saggio di Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki, secondo cui curare la democrazia con altra democrazia è folle, sarebbe come «tentare di spegnere un incendio gettando benzina sul fuoco». Basta democrazia, la ricreazione è finita.Il cuore del libro è concentrato sul punto di svolta della nostra storia del dopoguerra, cioè la fine degli anni ‘60 e l’avvento dei piani neo-aristocratici per fermare l’onda lunga della democrazia che, abbattuto il nazifascismo, aveva ricostruito l’Europa inaugurando la stagione irripetibile del boom economico, con l’inedito benessere per le classi popolari e la nuova frontiera civile incarnata dal welfare. Il mainstream, allora, era quello tracciato dal “fratello” Frankin Delano Roosevelt sulla base della strategia politico-economica del “fratello” John Maynard Keynes: se lo Stato fa spesa pubblica e deficit positivo, l’economia prospera e ne beneficiano tutti. Dottrina tradotta in pratica, in Europa, dal “fratello” George Marshall. Keynesismo “di sinistra”, certo, “ma anche massonico”, aggiunge Magaldi, preoccupato di “dare a Cesare”. Impossibile, insiste, trascurare questo dettaglio: tutti i grandi protagonisti del progressismo del dopoguerra erano affiliati a “Ur-Lodges” di sinistra, come la “Thomas Paine”. Organismi ultra-riservati, e per questo mai finiti al posto giusto nei libri di storia. Eppure, importantissimi. E spesso decisivi, nella loro funzione di suprema diplomazia, molto al di sopra degli esecutori nazionali, governi e partiti.La grande battaglia rievocata da “Massoni”, tutta giocata dietro le quinte ben prima che i fatti diventassero cronaca e poi storia, secondo Magaldi comincia con la scomparsa di Angelo Roncalli, il “Papa buono”, lo straordinario riformatore sociale del Concilio Vaticano II. Magaldi racconta che pure Giovanni XXIII era un “fratello”, associato a una prestigiosa super-loggia progressista in Turchia e poi a un cenacolo rosacrociano in Francia. Sincretismo, dunque: apertura a diverse tradizioni spirituali, per far convergere energia (sapienza) verso il progresso dell’umanità. Poco dopo, la tragica morte di John Fitzgerald Kennedy, l’uomo con troppi nemici. Chi l’ha ucciso? Quasi impossibile stabilirlo. Ma una cosa sembra ormai certa: Jfk era d’accordo con Khrushev per smilitarizzare il pianeta e quindi mettere fine alla guerra fredda entro il 1970. Dopo l’omicidio di Dallas, racconta Magaldi, le “Ur-Lodges” progressiste puntarono su un ticket formidabile: Bob Kennedy alla Casa Bianca con al suo fianco Martin Luther King, forse spendibile addiritttura per la vicepresidenza. Quello, sostiene l’autore di “Massoni”, è stato il momento fatale in cui abbiamo perso tutti: da allora, la democrazia sociale non ha fatto che perdere rovinosamente terreno, in tutto il mondo. Come sarebbe oggi il pianeta se l’America fosse stata governata da Robert Kennedy e da Martin Luther King?Il doppio omicidio dei due campioni dei diritti democratici scatena la guerra dei sospetti nel “back office” del supremo potere: da allora, democratici e neo-aristocratici scendono ufficialmente in guerra. Vincono i secondi: l’America va sempre più a destra, fa la guerra in Vietnam e poi afferma il neoliberismo definitivo con Reagan, mentre in Gran Bretagna è già stata costruita l’affermazione della “sorella” Margaret Thatcher. Nel frattempo, la “guerra coperta” è andata avanti senza risparmio. Prima il golpe dei colonnelli in Grecia, secondo Magaldi un test per saggiare la capacità di resistenza democratica in Europa di fronte a un’involuzione neofascista (Atene come possibile battistrada per abolire la democrazia anche in altri paesi europei). Poi, in risposta, la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo, fatta scattare nel 1974 – non a caso il 25 aprile, come monito ai complottisti neo-feudali (il solito Kissinger) che cospiravano contro la democrazia italiana.Magaldi infatti accredita pienamente almeno tre tentativi di golpe in Italia, due affidati a Junio Valerio Borghese e uno a Edgardo Sogno, sistematicamente sventati dalla “fratellanza bianca”, coordinata dal sociologo e premio Pulitzer Arthur Schlesinger Jr,. infaticabile combattente e anima delle “Ur-Lodges” democratiche. Di fronte al fallimento del golpismo italiano, il cartello mondiale guidato dalla “Tree Eyes” allenta la presa sull’Europa e si concentra sul Sud America: l’Operazione Condor comincia dal Cile (omicidio Allende) e poi trasforma l’Argentina nell’inferno della giunta militare. Intorbidita ulteriormente da una scissione all’interno dell’ala destra (alla “Three Eyes” che puntava su George Bush senior si oppone la “White Eagle”, che riesce a imporre Reagan alla Casa Bianca), la “guerra segreta” finisce di colpo nel 1981, con due attentati cruenti ma non letali, contro il neo-presidente e contro il Papa. Reagan viene ferito gravemente. Un complotto ordito dalla super-loggia dei “tre occhi”? Poco dopo, la stessa sorte tocca al pontefice polacco, il cui massimo sponsor era stato Brzezinski, uno dei massimi leader della “Three Eyes”.Il terrorista turco Alì Agca ha sparato a Wojtyla alle ore 17,17 precise. Per Magaldi, è un indizio decisivo, sempre trascurato dagli investigatori: il 1717 è l’anno di rifondazione della massoneria, dunque si tratta di una “firma” inequivocabile. Ovvero: sarebbero stati i super-fratelli della “White Eagle” a “vendicare” l’attentato a Reagan, “avvertendo” Brzezisnki. Di lì a poco, sarebbe sbocciata la grande tregua sottoscritta con lo storico manifesto “United Freemasons for Globalization”, includente persino i “fratelli” dell’Urss e della Cina comunista, anch’essi collegati alle “Ur-Lodges” del super-potere mondiale, in vista di epocali trasformazioni: la perestrojka di Gorbaciov e le riforme capitaliste di Deng Xiaoping. Una storia che procede in modo lineare, fino al punto di non-ritorno: l’11 Settembre. Il super-attentato del 2001 dà il via alla “guerra infinita”, patrocinata dai nuovi campioni delle super-logge dell’ultradestra: Tony Blair, George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Colin Powell, Nicolas Sarkozy. Tutti “fratelli”, assicura Magaldi, firmando la sua sconcertante contro-storia (massonica) delle tragedie che costellano l’attualità di oggi. Aprite gli occhi, raccomanda il “gran maestro” italiano: quello che vi sta accadendo era previsto nei dettagli, è stato deciso a tavolino, e il piano è stato eseguito con spietata precisione. Ma, in quei circoli super-segreti, non tutti erano d’accordo. E ora, finalmente, dopo quarant’anni di incontrastato dominio autoritario, ci sarà una controffensiva democratica, di cui il libro è parte integrante.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Tu chiamala, se vuoi, massoneria. Il che, per i libri di storia, significa soprattutto Risorgimento, cioè lotta illuminista contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico. Per la stampa italiana degli ultimi decenni, la connotazione della “libera muratoria” è quasi sempre negativa: Licio Gelli e la P2, Berlusconi, opache trame e comitati d’affari. La fratellanza in grembiulino? Sempre elusiva, quindi fatalmente relegata nel ghetto narrativo della controinformazione, il cosiddetto complottismo che ora impazza sul web da quando la grande crisi sta minacciando miliardi di esseri umani. Le avvisaglie di quella che alcuni chiamano Terza Guerra Mondiale fanno da sfondo alle fragorose devastazioni dell’altra guerra, già in atto, da parte dell’élite tecno-finanziaria contro il 99% dell’umanità, i non eletti, i cittadini da retrocedere al rango di plebe a cui togliere i diritti democratici conquistati nei decenni del benessere, in virtù della poderosa combinazione messa in campo da Roosevelt e Keynes: economia per tutti, grazie al gigantesco investimento dello Stato, spesa pubblica in forma di deficit positivo. Tutto cancellato, come sappiamo, dagli oligarchi del rigore neoliberista e dai loro politici, economisti, propagandisti. Ma che c’entrano le logge?
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L’Estonia non tollera la verità e arresta Giulietto Chiesa
Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.Giulietto Chiesa è stato arrestato dalla polizia di Tallinn per essere poi espulso come “persona non gradita”: «Un fatto molto grave», per il suo avvocato, Francesco Paola: «Una violazione dei diritti politici». Già europarlamentare, eletto nel 2004 con la lista “Di Pietro – Occhetto” e poi passato come indipendente al gruppo socialista europeo, Chiesa si è ricandidato al Parlamento Europeo nel 2009 in Lettonia, rappresentando la minoranza russa del paese baltico. Uomo di vaste relazioni internazionali, promotore del “World Political Forum” presiduto dallo stesso Gorbaciov, Giulietto Chiesa ha anche insegnato negli Stati Uniti, al Woodrow Wilson International Center di Washington ed è stato inserito nel “panel” internazionale di New York per la verità sull’11 Settembre, dopo il bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli, 2002) e il documentario “Zero”, opere che contestano la verità ufficiale sui drammatici attentati alle Torri Gemelle.Un uomo scomodo, Giulietto Chiesa: al punto da essere impunemente espulso da un paese membro dell’Ue, solo per aver espresso le sue idee? Forte la sua denuncia sulle mistificazioni attorno alla crisi ucraina, completamente manipolata dai media mainstream a partire dal suo sanguinoso esordio, la strage di civili in piazza Maidan a Kiev. A “tradirsi”, rivelando la vera identità degli stragisti, fu proprio un politico estone, il ministro degli esteri Urmas Paet, al telefono con l’allora responsabile europea della politica estera, Catherine Ashton. Paet le disse di aver scoperto che a sparare sulla folla non erano stati gli agenti del regime di Yanukovich, ma cecchini addestrati dall’Occidente. Obiettivo: massacrare innocenti, per poi incolpare la polizia ucraina e scatenare una campagna di odio contro il regime di Yanukovich, non ostile a Mosca. Brutalità e cinismo denunciati con la massima fermezza da Giulietto Chiesa, chiarissimo anche nel rimarcare l’emergere di gruppi neonazisti e la pericolosa intolleranza, in Est Europa, verso chiunque si opponga al “pensiero unico” imposto dagli Usa. Al punto da finire arrestato, dopo aver messo piede in un paese che certo guarda con simpatia ai “golpisti” di Kiev?Nella nuova Europa senza politica estera e interamente dominata dalla Nato non ci si fa scrupolo di espellere da uno dei paesi membri un giornalista di fama internazionale come Giulietto Chiesa, il primo ad affrontare – in mondovisione – i golpisti di Mosca che nel ‘91 avevano tentato di rovesciare Mikhail Gorbaciov, padre della “perestrojka” e Premio Nobel per la Pace. Sconcerto, sulla stampa italiana, per il fermo subito da Chiesa il 15 dicembre a Tallinn, capitale dell’Estonia, dove era invitato a un dibattito internazionale sul tema “la Russia è nemica dell’Europa?”. Evidente l’irritazione delle autorità estoni per l’attività del giornalista, già corrispondente da Mosca per i principali media italiani. Martellante la campagna d’informazione condotta da Chiesa su “Pandora Tv”, per denunciare il “golpe” con il quale l’Occidente ha rovesciato il governo Yanukovich per insediare un governo filo-Usa, dominato dall’estrema destra neonazista, responsabile di atrocità contro la popolazione ucraina di etnia russa, fino alla carneficina della “casa dei sindacati” di Odessa.
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Gawronski: in politica entra solo chi non ostacola le ruberie
Fai politica seriamente? Potresti perdere poltrona e prebende. Dunque, prudenza: mai disturbare chi comanda. Inutile stupirsi, quindi, se il sistema politico è marcio: entrarvi è difficile e, una volta dentro, l’unica regola che conta è non dare fastidio a nessuno, altrimenti si verrebbe esplusi. Lo sostiene Piergiorgio Gawronski, riflettendo sull’ultimo scandalo – quello romano di “Mafia Capitale” – che sta travolgendo destra e sinistra. «I delinquenti ci sono in tutti i paesi del mondo: non sono loro a fare la differenza», premette Gaweonski. «La salute di una società dipende piuttosto dalla qualità degli onesti». Per esempio, i politici che si presentano come moralizzatori, rinnovatori, alfieri della trasparenza. Da Matteo Orfini, incaricato di bonificare il Pd romano, al “rottamatore” Renzi, dall’ex sindaco Alemanno, “faccia pulita” della destra, al suo predecessore Veltroni, «che guidava personalmente le scolaresche ad Auschwitz». Tutti ora si dichiarano sorpresi, sconcertati. «Ho sbagliato squadra», ammette Alemanno. E Veltroni, su “Repubblica”, si dichiara folgorato dallo stupore: mai avuto sentore di malversazioni sul business dell’assistenza ai migranti.«La politica italiana è un business ad altissimo rendimento», replica Gawronski su “Micromega”. «Perciò come si fa a cadere dalle nuvole quando si scopre che attira frotte di arraffoni? I politici italiani sono i più pagati d’Europa, eppure «Veltroni per primo deviò l’attenzione dagli emolumenti al numero dei parlamentari. E ora Renzi, suo epigono, smantella istituzioni invece di moralizzarle». Fa gola il lucroso “indotto” della politica: spesa pubblica opaca, appalti, carriere politicizzate nella pubblica amministrazione. «Né i privilegi sono transitori: si perpetuano nel tempo, perché non sono contendibili». Spiega Gawronski: «La politica ha altissime “barriere all’ingresso”: le candidature a qualsiasi assemblea elettiva sono strettamente controllate, è ammesso solo chi non dà seriamente fastidio. E le selezioni dal basso – primarie, preferenze – per come sono organizzate si vincono solo investendo molti soldi. Per gli interessi privati è razionale farlo, per gli altri no, perciò semplicemente gli altri non sono competitivi».Veltroni divenne il primo segretario del Pd vincendo le primarie nel 2007 contro Rosy Bindi, alfiere dei cattolici democratici, che ha fatto dell’onestà un punto fermo nella sua vita: «Noi non siamo responsabili della crisi del paese!», si auto-assolse la Bindi nel 2013. «Siamo stati inadeguati? Questo sì! Forse… Ma colpevoli, no!». Eppure, ricorda Gaweonski, alle primarie del 2007 la Bindi aderì alla proposta degli outsider – taglio netto della “paga” dei parlamentari, da 15.000 a soli 5.000 euro – ma «parlava solo dello stipendio, che è il 44% della busta paga», e in ogni caso «a tale richiesta non diede mai seguito». Nel “club” ci si divide su tutto, aggiunge Gawronski, «ma non sui privilegi oligarchici del sistema, altrimenti il sistema ti espelle». Nel 2008, Veltroni finse si accogliere le richieste di rinnovamento: «Basta con i capibastone! Voglio un partito di gente perbene, un partito sano, gli altri fuori». Ma non prese alcun provvedimento: «Alle elezioni candidò tutti i capibastone, coperti da una manciata di candidati scelti dall’alto a fini mediatici: un “giovane”, una “donna”, un “operaio della Thyssen”». E nessuna elevata competenza.In passato, ricorda Gawronski, i politici come Fanfani, Amendola e De Gasperi «venivano a Roma a fare i parlamentari in cambio di emolumenti un decimo degli attuali». Oggi, politici e sindacalisti si sono “imborghesiti”: «Non vogliono rinunciare al loro elevato benessere, e neppure ai loro esorbitanti poteri discrezionali sulla pubblica amministrazione, sulla spesa pubblica, sulle candidature». Tutto questo, «a costo di mantenere nel sistema politico incentivi perversi, che lo distorcono profondamente». Tutto diventab torbido, i sospetti si incrociano insieme ai ricatti virtuali, ai veti che portano alla paralisi e all’impossibilità di adottare soluzioni utili, radicali, decisive. Ecco perché questi politici «sono responsabili per l’ipertrofia della corruzione». Il problema di fondo? «I politici “buoni” – scrive Gawronski – ci hanno convinto che noi italiani siamo irrecuperabili, perciò quel che accade non è colpa loro». In più, ci hanno anche convinto che «quel che conta è “fare presto”». E quindi, «trasparenza, controlli e democrazia sono lussi inutili». Poi, a tempo scaduto, va in scena ovviamente il festival dello stupore.Fai politica seriamente? Potresti perdere poltrona e prebende. Dunque, prudenza: mai disturbare chi comanda. Inutile stupirsi, quindi, se il sistema politico è marcio: entrarvi è difficile e, una volta dentro, l’unica regola che conta è non dare fastidio a nessuno, altrimenti si verrebbe esplusi. Lo sostiene Piergiorgio Gawronski, riflettendo sull’ultimo scandalo – quello romano di “Mafia Capitale” – che sta travolgendo destra e sinistra. «I delinquenti ci sono in tutti i paesi del mondo: non sono loro a fare la differenza», premette Gaweonski. «La salute di una società dipende piuttosto dalla qualità degli onesti». Per esempio, i politici che si presentano come moralizzatori, rinnovatori, alfieri della trasparenza. Da Matteo Orfini, incaricato di bonificare il Pd romano, al “rottamatore” Renzi, dall’ex sindaco Alemanno, “faccia pulita” della destra, al suo predecessore Veltroni, «che guidava personalmente le scolaresche ad Auschwitz». Tutti ora si dichiarano sorpresi, sconcertati. «Ho sbagliato squadra», ammette Alemanno. E Veltroni, su “Repubblica”, si dichiara folgorato dallo stupore: mai avuto sentore di malversazioni sul business dell’assistenza ai migranti.
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Le tasse alla mafia dei ladri, venduti al padrone straniero
Pagate le tasse senza discutere! Sono per la mafia e per la partitocrazia! Ormai è sotto gli occhi di tutti: le tasse che paghiamo vanno in mano ai ladri della politica, delle istituzioni, della burocrazia, delle mafie, che le usano soprattutto per arricchirsi, senza curarsi di spenderle bene e utilmente, nell’interesse collettivo. A Roma era così già 50 anni fa. E’ la costante nazionale, il carattere essenziale e immutabile dello Stato italiano. Rubare è lo scopo per cui si fa politica, e il mezzo con cui si fa politica, è il criterio con cui si fa carriera in politica e nell’apparato pubblico e partecipato. In questo quadro, i divieti all’uso del contante, l’imposizione di tenere i soldi in banca e di rendersi completamente tracciabili, col fisco che ti fa i conti in tasca e ti manda la dichiarazione dei redditi a casa, come se l’evasione fiscale dipendesse dall’uso del contante nelle transazioni spicciole, è un modo per consentire alla casta di saccheggiare direttamente e senza difese il cittadino, e per le banche di lucrare su ogni transazione, cumulativamente: 100 pagamenti di 100 euro l’uno, a 1,5 euro di commissioni, fanno guadagnare alla banca 150 euro, se fatti con la carta di credito, e zero, se fatti per contanti.Il principio della rappresentanza democratica parlamentare è clamorosamente e definitivamente fallito sia perché il paese non ha più autonomia politica nelle cose che contano, sia perché i rappresentanti rappresentano le segreterie affaristiche che li nominano, e vanno contro gli interessi dei rappresentati. Fino agli anni ’80 questo sistema di potere si notava meno, faceva danni sopportabili e compatibili con un certo sviluppo del paese, con un certo benessere, garantito da una spirale costruttiva di investimenti e consumi, grazie al fatto che allora la banca centrale e i vincoli di portafoglio delle banche ordinarie garantivano il finanziamento del debito pubblico a tassi sostenibili escludendo il rischio di default. E grazie al fatto che le banche ordinarie si dedicavano all’economia reale anziché alle speculazioni finanziarie e alle truffe ai risparmiatori. E grazie al cambio flessibile.Oggi gli uomini della buro-partitocrazia sono tutti in pasta, trasversalmente, tra loro e con la mafia. Sono tutti nella criminalità organizzata. Quelli che non lo sono direttamente e attivamente, lo sono comunque, perché consapevolmente e volontariamente fanno parte di quel mondo. Quindi sono corresponsabili. Non ci sono onesti, solo finti tonti. Questo sistema ovviamente non si lascia cambiare dal suo interno, perché occupa i canali elettorali, mediatici, istituzionali, e in buona parte anche quelli giudiziari (molti arrestati di oggi sono assolti di ieri); e l’“esterno”, cioè l’“Europa”, la Germania, trae profitto e potere economici proprio da questa situazione. E’ quindi chiaro che questa gente, questa casta, questa cupola nazionale non la si abbatterà mai con le leggi, i tribunali, l’indignazione popolare, anzi continuerà a tramandare il sistema alle nuove leve. Non la si potrà mai abbattere con strumenti interni all’ordinamento dello Stato, che essa occupa. La potrebbero fermare solo mezzi rivoluzionari, solo la ghigliottina. Oppure un padrone straniero che la sostituisca e prenda direttamente in mano la gestione amministrativa del paese – ovviamente nel suo proprio interesse.I leader carismatici proposti al pubblico possono essere “puliti” di faccia, ma gli apparati dei loro partiti sono tutto un cupolone, funzionano in quel modo, quindi nessun governo potrà cambiare questo sistema. Con le loro migliaia di società partecipate e di Onlus mai contabilmente controllate che ricevono e spartiscono i miliardi del business dell’accoglienza. Renzi, che invoca giustizia e promette pulizia, finge di non conoscere che cosa sono gli apparati dei partiti e di non sapere che, se si mettesse di traverso, semplicemente verrebbe sostituito. E infatti le principali componenti della partitocrazia, superando l’ipocrita distinzione maggioranza-opposizione, si accordano tra loro sulle riforme del sistema elettorale e del Senato, riforme concepite per proteggere e rafforzare il sistema stesso. E così alla Camera resta il sistema dei nominati: possono divenire deputati solo i graditi dei segretari dei partiti. La riforma del Senato mette quest’ultimo ancora di più nelle mani dei segretari, i quali vi collocheranno nominati regionali e comunali – cioè elementi presi dagli ambiti più ladreschi dell’apparato – dotandoli così di ciò che resta dell’immunità parlamentare.Intanto, il governo ha allontanato il commissario alla spending review, Cottarelli, che aveva ardito raccomandare la soppressione di 6.000 società partecipate mangiasoldi, una indispensabile greppia di consenso per la partitocrazia. Le condizioni degli italiani – tassazione, recessione, disoccupazione – continueranno perciò a peggiorare e peggiorare e peggiorare, finché questi non insorgeranno con le armi e non faranno fuori materialmente la casta parassita e criminale, o quella parte di essa che non riuscirà a fuggire all’estero. Ma non lo faranno mai: in parte emigrano, in maggioranza restano a subire o a raccontarsi le favole, aspettando il padrone straniero, e di vendersi a lui. Dopotutto, è questa la storica tradizione del Belpaese.(Marco Della Luna, “Le tasse ai ladri e alla mafia”, dal blog di Della Luna dell’8 dicembre 2014).Pagate le tasse senza discutere! Sono per la mafia e per la partitocrazia! Ormai è sotto gli occhi di tutti: le tasse che paghiamo vanno in mano ai ladri della politica, delle istituzioni, della burocrazia, delle mafie, che le usano soprattutto per arricchirsi, senza curarsi di spenderle bene e utilmente, nell’interesse collettivo. A Roma era così già 50 anni fa. E’ la costante nazionale, il carattere essenziale e immutabile dello Stato italiano. Rubare è lo scopo per cui si fa politica, e il mezzo con cui si fa politica, è il criterio con cui si fa carriera in politica e nell’apparato pubblico e partecipato. In questo quadro, i divieti all’uso del contante, l’imposizione di tenere i soldi in banca e di rendersi completamente tracciabili, col fisco che ti fa i conti in tasca e ti manda la dichiarazione dei redditi a casa, come se l’evasione fiscale dipendesse dall’uso del contante nelle transazioni spicciole, è un modo per consentire alla casta di saccheggiare direttamente e senza difese il cittadino, e per le banche di lucrare su ogni transazione, cumulativamente: 100 pagamenti di 100 euro l’uno, a 1,5 euro di commissioni, fanno guadagnare alla banca 150 euro, se fatti con la carta di credito, e zero, se fatti per contanti.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.