Archivio del Tag ‘Europa’
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Marijuana libera, e il Colorado incassa 175 milioni in tasse
Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi», riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».La lotta alla droga, inoltre, assorbe ingenti risorse di polizia, giudiziarie, carcerarie. «Tanto per dare una idea, il problema del sovraffollamento da terzo mondo delle nostre carceri verrebbe praticamente di colpo risolto dalla legalizzazione», scrive Bartolini su “Micromega”. «Gli immensi ritardi della nostra giustizia penale si ridimensionerebbero». Per non parlare della finanza pubblica: le stime sui mancati introiti fiscali della tassazione di un commercio tanto imponente parlano di miliardi. Altrove, poi, il narcotraffico è un fattore permanente di destabilizzazione: «Nel 2006 il presidente messicano Calderòn decise di usare l’esercito dichiarando “guerra alla droga”. Da allora tale guerra ha prodotto la sbalorditiva cifra di 60.000 morti, che arrivano a 100.000 se si contano gli scomparsi. Ci sono paesi interi la cui economia è stata distrutta dalla transizione dell’agricoltura alla produzione di droghe, come l’Afghanistan, ormai avviato a divenire la prima monocoltura di papavero da oppio del pianeta».I sostenitori del proibizionismo non negano questo disastro, continua Bartolini, ma dicono che è il minore dei mali possibili. Motivazione etica: uno Stato non può legalizzare cose che fanno male. «Questo argomento – ribatte Bartolini – assume un sapore tragicomico in una società devastata da dipendenze di ogni genere, cominciando con quella dallo shopping e continuando con videogiochi, videopoker, slot, calcio, tv, sesso, pornografia, alcol, sigarette, tanto per menzionare qualcuna delle più comuni. E ovviamente una alluvione di droghe chimiche legali, elegantemente definite psico-farmaci». Infatti, «esistono una quantità di cose che sono legali, possono fare malissimo e sono persino pubblicizzate». E allora, perché pigliarsela solo con alcune droghe? «Il proibizionismo è in ritirata perché non esiste una risposta a questa domanda». O meglio, «non ne esiste una nobile», dal momento che «sono legali le droghe prodotte dalle case farmaceutiche e sono illegali quelle prodotte da contadini del terzo mondo o autoprodotte».Inoltre, l’anti-proibizionismo riduce le dipendenze: «Il calo costante e spettacolare del consumo di tabacco negli ultimi decenni in tutto l’Occidente dimostra che le campagne informative funzionano». Se una sostanza viene percepita come realmente pericolosa, il suo consumo diminuisce. Campagne come quelle anti-fumo «costano una frazione insignificante del costo di quell’immenso apparato messo su per la guerra alla droga». Secondo la polizia doganale americana, il 2014 ha registrato per la prima volta un calo delle importazioni di marijuana dal Messico (- 24%), che erano invece costantemente cresciute per 50 anni. Un primo successo del proibizionismo? Al contrario: «Sono le prime conseguenze di un anno abbondante di legalizzazione in due Stati americani, Colorado e Washington. Semplicemente, la vendita legale di marijuana ha rubato il mercato ai cartelli dei narcos». Inoltre, la marijuana legale è di migliore qualità, priva di tagli, senza gli additivi della marijuana illegale (ammoniaca, fibra di vetro e lana di roccia, che simulano i cristallini tipici della marijuana). Tutto questo lascia prevedere una diminuzione nel lungo periodo dei costi sanitari connessi all’uso di additivi dannosi per la salute.Quanto ai rischi paventati dai proibizionisti – aumento dei crimini, del consumo e degli incidenti stradali – non ve ne è alcuna traccia nelle statistiche, osserva ancora Bertani: in Messico molti vedono la legalizzazione negli Usa come l’unica salvezza dal definitivo disfacimento del paese, devastato dai cartelli. Infine, non proprio un dettaglio: il Colorado prevede un gettito fiscale di 175 milioni di dollari nei prossimi due anni che consentirà una sostanziosa riduzione della pressione fiscale. E le previsioni dello Stato di Washington sono intorno ai 600 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. «Tutti soldi che verranno trasferiti dalle tasche dei narcos messicani a quelle dei due Stati americani», conclude Bartolini. Ecco perché «il proibizionismo è un lusso che non possiamo più permetterci». Marijuana libera significa due cose: più soldi pubblici e meno mafia. «Le mafie si occupano anche di altre cose oltre alla droga, ma questa rimane il loro core business. La legalizzazione delle droghe le indebolirebbe molto. La platea proibizionista è ampia e variegata. Ma la prima fila, quella dei sostenitori più accesi, è occupata dalle mafie».Torna il dibattito sulla legalizzazione della marijuana: la crescita dell’anti-proibizionismo è una tendenza globale che ha già condotto a decisioni in questo senso in Uruguay e in alcuni Stati americani e città europee. «I risultati di un secolo di proibizionismo sono disastrosi», riconosce Paolo Bartolini: l’azione di contrasto dell’offerta «ha ottenuto il solo effetto di concentrarla in pochissime, potentissime, ferocissime mani». Zero risultati anche nel contrasto della domanda, che ha continuato a crescere ovunque. «In compenso, questo immenso buco nell’acqua ha costi giganteschi: finanziari, sociali, civili, criminali ed etici». Il motivo lo chiariscono gli economisti, tutti largamente anti-proibizionisti: «Rendere illegale una merce che è consumata da milioni di persone ha il solo effetto di aumentarne il prezzo e creare mafie potentissime in grado col tempo di comprarsi banche, grandi e piccole imprese, patrimoni immobiliari, media, fette crescenti di partiti, parlamenti e governi». Enormi masse di denaro “nero” «rappresentano una minaccia mortale per la democrazia e il sistema di mercato».
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Tutto già scritto: disoccupazione all’11% fino al 2019
In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».Lo conferma il documento del Tesoro dell’aprile 2013 sul Nawru, acronimo di “non accelerating wage rate of unemployment”: tasso di disoccupazione d’equilibrio, tarato per non generare pressioni inflazionistiche comprimendo il potere di spesa mediante, appunto, il taglio deliberato dei posti di lavoro. Proprio il Nawru ha un ruolo centrale nella determinazione dei “diktat” che la Commissione Europea rivolge ai singoli paesi membri dell’Ue. Il presidente del Centro Europa Ricerche, l’economista Vladimiro Giacché, sul “Sole 24 Ore” osserva: «Dal punto di vista culturale, è interessante notare come il tasso di disoccupazione di equilibrio sia la leva che viene adoperata per garantire l’iper-contenimento dell’inflazione. In molti, in passato, hanno considerato l’Unione Europea un moloch impregnato di keynesismo. In realtà, anche in questo caso prevale l’egemonia del monetarismo francofortese, che mette davanti a tutto e a tutti l’imbrigliamento dell’inflazione», fino all’asfissia programmata dell’economia reale.Per quanto riguarda il Nawru, conferma il Def del governo Renzi, i parametri sono stati più volte rivisti dalla Commissione, alla luce degli effetti sul mercato del lavoro della prolungata recessione. «Il Nawru è stato pertanto rideterminato verso l’alto, determinando una riduzione nel tasso di crescita del Pil potenziale». Il che significa che il tasso di “disoccupazione di equilibrio”, tale cioè da non generare pressioni inflazionistiche sui salari, «è stato stimato in crescita negli anni della crisi, con una dinamica che, di fatto, ha fatto sì che al crescere della disoccupazione crescesse anche il Nawru». Stefano Sanna esibisce la drammatica proiezione governativa, riassunta in una tabella: la “disoccupazione programmata”, al 12,3% nel 2015, si ridurrà in modo praticamente irrilevante: 11,8% nel 2016, poi 11,4% l’anno seguente, ancora 11,1% nel 2018 e poi 10,9% nel 2019. Non c’è scampo: Bruxelles vuole che i disoccupati, in Italia, restino l’11%. Si tratta di «un piano di distruzione sociale», conclude Sanna: l’obiettivo scritto da questo governo? E’ tecnicamente impossibile da raggiungere, visto che si parla di «contenimento dell’inflazione e crescita del Pil con un tasso di disoccupazione all’11%». Una farsa sfrontata: «E’ la risposta cinica, ma mai comunicata, ai milioni di disoccupati che per anni sono stati (e saranno) presi in giro da ciarlatani di professione».In milioni chiedono lavoro, ma non sanno che la loro sorte è già segnata: disoccupazione stabile all’11%. «Tutti i disoccupati nel 2019 saranno ancora disoccupati: questo perché lo sviluppo voluto dai tecnocrati europei, liberisti e neomercantilisti, per l’economia italiana, ha bisogno di un tasso strutturale di disoccupazione». Lo spiega Stefano Sanna, citando documenti ufficiali del Tesoro nonché l’ultimo Def del governo Renzi: 11%. Tutto il resto sono chiacchiere, comprese le 154 crisi aziendali tuttora aperte che rappresentano solo «la punta di un iceberg chiamato disoccupazione, che galleggia nel mare del mercato del lavoro». Il resto della montagna di ghiaccio «è fatto di milioni di disoccupati di piccole aziende, che non hanno alcuna possibilità di far valere le loro ragioni davanti al governo come possono fare, invece, le 154 aziende seguite direttamente dal ministero dello sviluppo economico». Tutti quanti però sono accomunati da un fatto: aspettano una risposta. «Ma il governo delle “luci e paillettes” porterà all’infinito la commedia dei tavoli di crisi, o posticiperà la data in cui rispondere ai disoccupati, anche se la risposta è stata già scritta».
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Dominus del potere sub-europeo, Renzi manovra per durare
Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».Da qui, scrive Gianni sul “Manifesto”, la centralità della cosiddetta riforma fiscale, «definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”». I proprietari di 75.000 case di lusso e palazzi ne trarranno ampi benefici, almeno 2.800 euro in media a testa. «Non importa se a farne le spese sarà la sanità o altri istituti dello stato sociale, un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere». Per questo, continua Gianni, «la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana». Il vecchio leader di Arcore, almeno, «ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata all’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche». Invece, «Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo».Il boss di Confindustria sembra confortato anche dai propositi del leader: intervenire d’autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, «usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire». E qui, per Alfonso Gianni, «si scende negli inferi del diabolico». Il taglio dell’Ires? «Verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità».Renzi vuole durare, insiste Gianni. «Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci». Le “controriforme” costituzionali, istituzionali ed elettorali in atto potranno essere smantellate, forse, solo a colpi di referendum. Ma intanto il governo Renzi si fa cinghia di trasmissione del super-potere di Bruxelles, «espresso dagli organi ademocratici della Ue», e in Italia diventa «strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista», provando a cooptare «strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva, cioè il conflitto».Durare nel tempo e imporsi come nuova struttura di potere: questo, per Alfonso Gianni, il senso della manovra varata da Renzi con la legge di stabilità. Operazione ambiziosa: da un lato l’apertura di una «lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese, vere e proprie “midterm elections in salsa italiana”». Ma, al di là del puro ritorno elettorale, la manovra «vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus». L’esito delle elezioni 2016 non è scontato, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali, «a dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele». Inoltre, a orientare la manovra è il timore dei “censori” di Bruxelles, visto che il governo «ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle élite economiche e politiche europee».
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Record, giovani senza lavoro: accetteranno salari da schiavi
Mai così alto il tasso di disoccupazione giovanile: nell’ultima rilevazione Istat di giugno è al 44,2%, in aumento dell’1,9% rispetto al mese precedente. E’ il livello più alto dal primo anno di stima, il 1977, e la rilevazione esclude i giovani “inattivi”, che non cercano lavoro. «L’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo governo», scrive Guglielmo Forges Davanzati. «La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti». Inoltre, la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. Scaduto il periodo di decontribuzione, molti contratti verranno ri-trasformati a tempo determinato.L’aumento della disoccupazione giovanile, scrive Davanzati su “Keynes Blog”, è imputabile al fatto che, come registrato da Banca d’Italia, fin dal 2010 la riduzione dell’occupazione si è manifestata più sotto forma di riduzione delle assunzioni che di aumento dei licenziamenti. Il fenomeno viene imputato a effetti di “labour hoarding”, ovvero alla convenienza – da parte delle imprese – a non licenziare lavoratori altamente specializzati in fasi recessive, dal momento che, se dovessero farlo, nelle successive fasi espansive si troverebbero costrette ad assumere individui da formare. La relativa tenuta dell’occupazione di lavoratori adulti? Dipende anche «da fenomeni di disoccupazione nascosta, ovvero dal fatto che – in imprese di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare – il livello di occupazione viene mantenuto stabile per il semplice fatto che i lavoratori dipendenti appartengono al nucleo familiare». In più, l’aumento della disoccupazione giovanile si registra in un contesto di drastica riduzione del potere contrattuale dei sindacati e della sostanziale assenza, almeno in Italia, di nuove forme di conflittualità.«Le giovani generazioni non percepiscono il sindacato come un soggetto che possa rappresentarle e, al tempo stesso, il sindacato incontra difficoltà nel reclutarle», scrive Davanzati. «Le politiche di precarizzazione del lavoro messe in atto negli ultimi anni, ponendo i lavoratori in competizione fra loro, hanno esercitato un effetto rilevante nello spezzare i legami di solidarietà fra lavoratori, che sono alla base dell’azione sindacale». Così, ha buon gioco il governo nel suo obiettivo di delegittimare il sindacato: «La proposta di un sindacato unico e l’introduzione di nuovi vincoli al diritto di sciopero rientrano in questa strategia». Un recente studio del Fmi mostra che la riduzione della “union density” nel corso degli ultimi decenni è stata la principale causa delle crescenti diseguaglianze distributive, a loro volta alla base dei bassi tassi di crescita registrati dai paesi industrializzati negli ultimi decenni. «La spirale perversa che si è così generata è quindi riassumibile nella sequenza: riduzione del potere contrattuale dei sindacati – aumento delle diseguaglianze – riduzione del tasso di crescita – aumento del tasso di disoccupazione, in particolare giovanile».Le imprese italiane, nella gran parte dei casi sono poco propense a innovare, continua Davanzati, anche perché, essendo di piccole dimensioni, non possono sfruttare economie di scala e in più sono fortemente dipendenti dal settore bancario: in una fase come questa, di restrizione del credito, gli investimenti si riducono, abbattendo il tasso di crescita. Poi c’è l’invecchiamento della popolazione, che frena la crescita della produttività. «In generale, economie nelle quali il bacino degli occupati è formato prevalentemente da individui giovani sono economie con elevato tasso di crescita: ciò a ragione dell’obsolescenza intellettuale che riguarda lavoratori con età più elevata, della maggiore propensione al consumo dei giovani (e dunque della più alta domanda interna), della maggiore “creatività” (e dunque, della maggiore propensione a innovare)». Gli annunciati tagli alla sanità? «Non potranno che esercitare ulteriori effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, dal momento che incideranno negativamente sul potenziale produttivo della forza-lavoro».Quindi i salari: quelli percepiti dai lavoratori italiani sono al di sotto della media europea, nonostante il numero di ore lavorate superiore alla media Ue. «Laddove i salari sono maggiori, è maggiore la produttività del lavoro». L’aumento dei salari, combinato con minore flessibilità in uscita, «incentiva le imprese a introdurre innovazioni per non perdere quote di mercato». E l’aumento dei salari «incentiva l’aumento degli investimenti netti, con un duplice effetto di segno positivo, dal lato della domanda (essendo gli investimenti una componente della domanda) e dal lato dell’offerta, dal momento che l’ammodernamento degli impianti è una fondamentale pre-condizione per l’aumento della produttività del lavoro». La precarizzazione del lavoro è un freno alla crescita della produttività, sia perché incentiva le imprese a competere riducendo i costi di produzione (e dunque non innovando), sia perché, «accrescendo la concorrenza fra lavoratori, rende necessario un maggior impegno del management in attività di controllo e sorveglianza, per loro natura improduttive, disincentivando l’impegno per la produzione di innovazioni».I governi che si sono succeduti negli ultimi anni, continua Davanzati, hanno provato a contrastare il continuo aumento della disoccupazione giovanile con misure inadeguate, come l’alternanza scuola-lavoro, che «risponde all’esigenza di dequalificare la forza-lavoro, assecondando la domanda di lavoro poco qualificato espressa dalla gran parte delle nostre imprese», specie nei settori “maturi”, agroalimentare e “made in Italy”. Poi, le incentivazioni offerte alle imprese che assumono giovani: «Non è uno strumento efficace per accrescere l’occupazione giovanile», annota Davanzati, dal momento che «le imprese assumono se le loro aspettative in ordine alla realizzazione di profitti sono ottimistiche», ovvero «quando ci si aspetta un aumento della domanda», e non certo in piena crisi. Altra leva, la promozione dell’auto-imprenditorialità: «In questo caso, è possibile riscontrare un duplice problema: la difficoltà di accesso a finanziamenti per l’avvio dell’impresa (pure a fronte di incentivi pubblici nella fase iniziale) e verosimilmente i bassi profitti che una nuova impresa può aspettarsi di ottenere in una fase di intensa e prolungata recessione».Per l’analista, si tratta di provvedimenti «la cui ratio risiede, in ultima analisi, nel dequalificare la forza-lavoro e renderla disponibile a bassi salari». Affinché ciò si renda pienamente possibile, «è necessario ridurre ulteriormente il potere contrattuale del sindacato». La riduzione del potere contrattuale del sindacato si è tradotta, nei paesi Ocse, in un significativo aumento dei redditi percepiti dal 10% delle famiglie con più alto reddito. «L’Italia è ovviamente all’interno di questa dinamica, ma con una propria specificità, ovvero il fatto che, rispetto alla media europea, il numero di iscritti al sindacato è ancora relativamente elevato. Letto in questa chiave, il fondamentale compito del governo Renzi consiste nell’impedire qualunque forma di conflittualità sociale e di resistenza organizzata, incentivando i giovani disoccupati all’autoimprenditorialità», escludendo il sindacato. Tutto questo serve a redistribuire del reddito a vantaggio dei più ricchi, percettori di rendite finanziarie e di redditi da capitale (fenomeno già intensamente in atto in altri paesi). «Un processo di redistribuzione della ricchezza che sembra prioritario rispetto all’obiettivo della crescita e che si rende possibile per l’accresciuto potere politico delle nuove classi agiate».Mai così alto il tasso di disoccupazione giovanile: nell’ultima rilevazione Istat di giugno è al 44,2%, in aumento dell’1,9% rispetto al mese precedente. E’ il livello più alto dal primo anno di stima, il 1977, e la rilevazione esclude i giovani “inattivi”, che non cercano lavoro. «L’attuazione di politiche di contrasto alla drammatica crescita della disoccupazione giovanile, in particolare nel Mezzogiorno, non sembra essere oggi fra le priorità di questo governo», scrive Guglielmo Forges Davanzati. «La propaganda governativa è prevalentemente concentrata nel vantare il merito di aver contribuito, tramite il Jobs Act, alla trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato. Ma anche se ciò è accaduto, si fa riferimento a lavoratori già occupati e, dunque, prevalentemente adulti». Inoltre, la trasformazione di contratti precari in contratti a tempo indeterminato è semmai da imputare agli sgravi fiscali attribuiti alle imprese, non alla “riforma” in quanto tale. Scaduto il periodo di decontribuzione, molti contratti verranno ri-trasformati a tempo determinato.
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Lafontaine: Italia, basta subire. Serve una sinistra No-Euro
La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.Per migliorare la competitività relativa del proprio paese sotto l’ombrello dell’euro, restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei trattati europei solo la politica salariale, la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro. Se l’economia più forte, quella tedesca, pratica il dumping salariale dentro un’unione monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali e smantellare i diritti dei lavoratori, così come vuole l’ideologia neoliberista. Se poi l’economia dominante gode di tassi di interesse reali più bassi e dei vantaggi di una moneta sottovalutata, i suoi vicini europei non hanno praticamente alcuna possibilità. L’industria degli altri paesi perderà sempre più quote sul mercato europeo e non europeo. Mentre l’industria tedesca produce oggi tanto quanto produceva prima della crisi finanziaria, secondo i dati Eurostat, la Francia ha perso circa il 15% della sua produzione industriale, l’Italia il 30%, la Spagna il 35% e la Grecia il 40%.La destra europea si è rafforzata anche perché mette in discussione l’euro e i trattati europei, e perché nei paesi membri cresce la consapevolezza che i trattati europei e il sistema monetario europeo soffrano di alcuni difetti costitutivi. Come dimostra l’esempio tedesco, la destra europea non si preoccupa della compressione dei salari, dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e delle politiche di austerità più severe. La destra vuole tornare allo Stato nazionale, offrendo però soluzioni economiche che rappresentano una variante nazionalistica delle politiche neoliberiste e che porterebbero agli stessi risultati: aumento della disoccupazione, aumento del lavoro precario e declino della classe media. La sinistra europea non ha trovato alcuna risposta a questa sfida, come dimostra soprattutto l’esempio greco. Attendere la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico, soprattutto perché i partiti socialdemocratici e socialisti d’Europa hanno preso a modello la politica neoliberista.Un partito di sinistra deve porre come condizione alla sua partecipazione al governo la fine delle politiche di austerità. Tuttavia ciò è possibile solo se in Europa prende forma una costituzione monetaria che conservi la coesione europea, ma che riapra ai singoli paesi la possibilità di un ritorno a un sistema monetario europeo (Sme) migliorato, che consenta nuovamente di ricorrere alla rivalutazione e alla svalutazione. Tale sistema restituirebbe ai singoli paesi un ampio controllo sulle rispettive banche centrali e offrirebbe loro i margini di manovra necessari per conseguire una crescita costante e l’aumento dell’occupazione attraverso maggiori investimenti pubblici e a politiche capaci di aumentare la crescita e i posti di lavoro, così come per contrastare, tramite la svalutazione, l’ingiusto dumping salariale operato dalla Germania o da un altro Stato membro.Questo sistema ha funzionato per molti anni e ha impedito l’emergere di gravi squilibri economici, come ne esistono attualmente nell’Unione europea. Rivolgendomi ai sindacati italiani, tengo a sottolineare che lo Sme non è mai stato perfetto, dominato com’era dalla Bundesbank. Ma nel sistema euro la perdita del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso salari più bassi (svalutazione interna) è maggiore. A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie. Silvio Berlusconi e Beppe Grillo hanno messo sì in discussione il sistema euro, ma ciò non ha impedito all’Eurogruppo di imporre il modello delle politiche neoliberiste alla politica italiana. Oggi la sinistra italiana è necessaria come non mai.La perdita di quote di mercato, l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario, con la conseguente compressione dei salari, possono rientrare nei miopi interessi delle imprese italiane, ma la sinistra italiana non può più stare a guardare questo processo di de-industrializzazione. Lo sviluppo in Grecia e in Spagna, in Germania e in Francia, dimostra come la frammentazione della sinistra possa essere superata non solo con un processo di unificazione tra i partiti di sinistra esistenti ma soprattutto con l’incontro di tante energie innovative fuori dal circuito politico tradizionale. Solo una sinistra sufficientemente forte nei rispettivi Stati nazionali potrà cambiare la politica europea. La sinistra europea ha bisogno ora di una sinistra forte in Italia.(Oskar Lafontaine, “Lettera alla sinistra italiana”, ripresa da “Contropiano” il 14 ottobre 2015. Già ministro delle finanze della Germania, Lafontaine è stato presidente dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco, e poi fondatore della Linke, il partito della sinistra).La sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei. La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei. Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.
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Gender a scuola, i bambini e l’orco. Ma la famiglia dov’è?
Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».A livello teorico, tutto nasce dagli studi di Margareth Mead, che dimostrano che i ruoli possono benissimo ribaltarsi, come in certe società tribali dell’Oceania: le donne a caccia, gli uomini a casa a farsi belli. Succede anche da noi, scrive Franceschetti nel suo blog: c’è l’amico Maurizio, «che fa il supermacho superscopatore, ma in privato mi confessa che gli piacciono le gonne e i vestiti femminili e quando è solo si veste con le scarpe coi tacchi della moglie». E all’opposto c’è l’amica Ambra, a cui domandi “cosa facciamo stasera?” e ti risponde “andiamo a tirare col fucile”, e al poligono «fa cento colpi e cento centri, una cosa mai vista in vita mia». Autore di clamorose denunce sul “lato oscuro del potere” (gli omcidi rituali, il Mostro di Firenze, la misteriosa setta criminale denominata Ordine della Rosa Rossa), l’ex avvocato Franceschetti, autore di un recentissimo libro, “Le Religioni”, che indaga sulla comune matrice spirituale delle grandi confessioni religiose del pianeta, si è anche distinto per i ripetuti allarmi lanciati in favore dei minori: ne spariscono troppi, anche in Italia. Centinaia, ogni anno. Dove finiscono? Nel traffico di organi e nelle reti potentissime dei pedofili d’alto bordo.Di fronte alle istanze “Gender”, Franceschetti riconosce che «la rigida divisione tra sessi che per secoli ha dominato la società ha portato, e porta tuttora, a degli squilibri». Una donna in carriera è considerata “poco femminile” e temuta dagli uomini, mentre un uomo “casalingo” «è visto con sospetto, come un parassita nullafacente». L’uomo che va con molte donne «è guardato con ammirazione», mentre la donna che ha molti uomini «è quasi sempre una troia». La divisione in sessi? Ha penalizzato chiunque, uomo o donna, rifiutasse gli obblighi sociali. «Non parliamo poi delle problematiche che sorgono se una persona vuole cambiare sesso, o se durante il matrimonio scopre di avere tendenze omosessuali». La teoria Gender vuole sicuramente «porre rimedio a questo stato di cose, introducendo una nuova mentalità, rispettosa delle differenze individuali, per educare la popolazione a una nuova concezione della sessualità e delle differenze di genere». E fin qui, tutto bene. Si prefigura «un meraviglioso mondo, dove l’uomo che voglia andare in giro con i tacchi a spillo e il rossetto venga rispettato, così come una donna che si metta a ruttare e fare a braccio di ferro bestemmiando al bar».Idem per i piccoli: «Nessun trauma arrivi a un bambino che sia allevato da due papà o due mamme, perchè la salute psichica del bambino si misurerà in funzione dell’affetto e degli insegnamenti che riceve, e non dal fatto che abbia necessariamente un padre maschio e una mamma femmina». Ma le ricadute pratiche? Utile leggere il dossier “Standard per l’educazione sessuale in Europa”, commissionato dall’Oms, per capire cosa si vuole fare nelle scuole. Rispetto, equilibrio, attenzione: un documento “amorevole”. Ma «il bello viene da pagina 37 in poi, dove ci sono le direttive sintetiche che gli insegnanti di educazione sessuale dovrebbero applicare sui bambini di varie fasce di età». Sono 144 disposizioni: «Il problema sorge per solo una ventina di direttive in tutto, sparse qua e là quasi innocentemente», specie quelle rivolte ai bambini dai 9 ai 12 anni. L’educatore deve «mettere il bambino in grado di decidere se avere esperienze sessuali o no, effettuare una scelta del contraccettivo e utilizzarlo correttamente, esprimere amicizia e amore in modi diversi, distinguere tra la sessualità nella vita reale e quella rappresentata dai media». E deve «aiutare il bambino a sviluppare l’accettazione della sessualità (baciarsi, toccarsi, accarezzarsi)», nonché «trasmettere informazioni su masturbazione, piacere e orgasmo».Amarcord inevitabile: «Il pensiero corre ai miei professori del liceo», dice Franceschetti. «Quello di matematica che toccava sempre i seni alle ragazze, tranquillo dell’impunità del preside, tanto che quando fu denunciato da una ragazza fu la ragazza a dover cambiare istituto, non il professore». O quello di storia e filosofia, che sprecava intere lezioni «coi suoi racconti tesi a dimostrare che il sesso è peccato». Già alle elementari fioccavano ceffoni: rudi maestre, anziché «improvvisati educatori sessuali protetti dallo scudo delle direttive europee». L’idea Gender? «Meravigliosa e auspicabile se fossimo in un mondo ideale, e se chi la dovesse applicare fosse un essere umano ideale». Ovvero: un educatore «equilibrato, centrato, e amorevole», capace di «saper amare davvero l’altro e il prossimo e saperlo rispettare», dopo «essersi confrontato con la propria parte omosessuale ed essersi interrogato, ove tale parte sussista, su come viverla».L’insegnante-modello, inoltre, dovrebbe essere «monogamo per scelta, convinto che la fedeltà sia un dono, non un obbligo», dunque «una persona sessualmente attiva», che desidera altri partner ma si trattiene, e inoltre è «disposta ad accettare la poligamia del proprio». Di fronte al tradimento subito, massima comprensione: «Caro/a, ho scoperto che mi tradisci; è evidente che ho sbagliato in qualcosa». E poi dev’essere «uno che, scoperta l’omosessualità del figlio, anziché preoccuparsi, veda questo come un’opportunità di crescere insieme e apprendere di più dalla vita e da se stessi». E ancora, scoprendo l’omosessualità del partner, gli dovrebbe dire: «Ti amo, e per rispetto vorrei che tu vivessi appieno questa tua esperienza, finché non deciderai in che ruolo collocare il nostro rapporto». Tutto bene, «se esistesse un essere umano che ha raggiunto un tale grado di consapevolezza». Quanti ne conosciamo, nella vita quotidiana? Ovviamente, «questo ritratto di essere umano quasi perfetto è praticamente introvabile».La realtà, infatti, è desolatamente opposta: «Dal punto di vista sessuale, la maggior parte delle persone non solo non è affatto equilibrata, ma ha quelle che in psicologia sono considerate devianze o problemi: eiaculazione precoce, impotenza, anorgasmia, sadomasochismo, feticismo». E poi le “stranezze”, «come l’eccitarsi solo in determinate condizioni ambientali», magari con l’impiego di “oggetti particolari”, «per non parlare della percentuale, altissima, di coloro che hanno delle vere e proprie perversioni criminali». Morale: «Il problema dell’ideologia Gender è, molto semplicemente, che non esiste un numero sufficiente di educatori che abbia l’equilibrio tale da poter insegnare ai bambini il rispetto di genere (altrui e proprio) per il semplice motivo che ancora non hanno raggiunto tale equilibrio in loro stessi». Che medico sei, se non sai nemmeno curare te stesso?Sicché, le «demenziali 20 regole» indicate da Franceschetti «porteranno a una conseguenza inevitabile nelle scuole: abusi, facilitazioni della pedofilia e traumi vari ai bambini». Quindi, anche se «l’obiettivo teorico della riforma è lodevole e teoricamente condivisibile», visto che propone che i bambini devono essere educati al rispetto di genere, di fatto «la riforma conseguirà (volutamente, è il caso di dirlo) l’obiettivo opposto: aumenterà gli abusi sui minori nel lungo termine, e nel breve termine creerà la falsa contrapposizione tra progressisti e conservatori omofobi». Una riforma di questo tipo, «in mano a insegnanti e politici inconsapevoli e non in grado di gestire una problematica come quella del genere», secondo Franceschetti produrrà scontri, tensioni e cause legali: «Cattolici contro omosessuali, omosessuali contro eterosessuali, politici contro politici, genitori contro insegnanti, magistrati contro cittadini». Tutto questo, «in un clima in cui a risentirne e a restarne traumatizzati saranno soprattutto i bambini».Tradotto: anche questa del Gender «si inquadra in quel contesto di riforme volute dal Parlamento Europeo in tutti i campi (economico, politico, finanziario, sociale, scolastico) per distruggere i fondamenti della società e ricostruirne una nuova, basata sul Nwo, creando caos sociale ad ogni livello». Nuovo ordine mondiale? «La tecnica è nota», insiste Franceschetti: «Si parte da una premessa giusta (educare al rispetto delle diversità) e si fa una legge in parte giusta (educare i bambini alla sessualità) con qualche appiglio per ribaltare completamente il risultato e creare più caos di quanto già non ce ne sia (dando mano libera ai pedofili e ai pervertiti di poter agire liberamente nelle scuole)». E i primi frutti dell’introduzione dell’ideologia Gender si vedono già: «Alcuni sindaci hanno ritirato alcuni libri ispirati all’ideologia Gender dalle scuole. Una maestra è stata denunciata da un rappresentante dell’Arcigay e linciata mediaticamente, su tutti i giornali, per aver detto a scuola che l’omosessualità è una malattia (salvo poi essere scagionata dagli allievi, che hanno detto “ma no, veramente ha detto tutt’altro”)».Stefania Giannini, ministro dell’istruzione, minaccia denunce contro chi sostiene che la riforma Renzi della “buona scuola” obblighi a educare sessualmente i giovani secondo le teorie Gender: la riforma imporrebbe solo di “educare al rispetto della diversità”. «Ogni tanto sui giornali escono notizie di genitori preoccupati per i vibratori a scuola. Una preside ha inviato una lettera al ministero per denunciare l’introduzione della teoria Gender nelle scuola, e il ministero ha mandato gli ispettori (sic!) ritenendo inaccettabile il comportamento della preside». E ancora: «In una scuola sono state denunciate delle suore che, stando ai giornali, avevano fatto educazione alla masturbazione a bambini di 10 anni». In alcuni Comuni già si raccolgono firme “contro”. Ma attezione: «La maggior parte delle notizie sono false e volutamente distorte, per poter essere interpretate come uno preferisce. Come è falso che questa teoria sia “imposta” dall’Ue», che in realtà «impone solo, con vari regolamenti, direttive e indicazioni, di abolire le differenze di genere tra uomo e donna in tutti gli ambiti, il che è sacrosanto».Le teorie Gender a scuola sono già applicate in diversi paesi europei, «ma la situazione è di estremo caos». La confusione impazza, anche nel privato: «Solo per fare un esempio personale – racconta Franceschetti – ho postato sulla mia pagina Facebook un video dell’avvocato Amato, di tendenza dichiaratamente cattolica. Una ragazza omosessuale mi ha ritirato l’amicizia sentendosi profondamente ferita dal video (sue parole testuali). Un altro mi ha dato del fascista, dicendo in aggiunta che probabilmente poi di nascosto vado a trans». Tutto questo, «a riprova che non si può discutere serenamente di Gender senza creare conflitti: se sei contro questa nuova tendenza, sei omofobo e retrogrado; se sei a favore, sei un pedofilo o un frocio». Dobbiamo quindi preoccuparci, gridare allo scandalo e arroccarci sulle vecchie posizioni, o sposare le teorie Gender? «Nulla di tutto ciò. C’è invece la possibilità di trasformare la questione Gender in un’occasione favorevole per la crescita dei nostri figli e di noi stessi». E come? Mobilitando – per la prima volta, in molti casi – la cara, vecchia famiglia, troppo spesso assente, o peggio.«Lo sfascio del sistema in cui viviamo è inevitabile, e questa ideologia porterà, col tempo, allo sfascio della famiglia tradizionale e dei valori tradizionali», insiste Franceschetti. «I bambini saranno spesso abusati e traumatizzati. Ma purtroppo, occorre dirlo, i bambini sono da sempre stati abusati e traumatizzati perché – in questo ha ragione l’ideologia Gender – l’imposizione rigida dei ruoli ha provocato da sempre una serie di problemi psicologici». Il bambino è inoltre traumatizzato su vari fronti, non solo quello sessuale, e peraltro in tutte le epoche, «perché la maggior parte dei genitori riversa inevitabilmente i propri disturbi personali sul bambino stesso, che fin da piccolo è costretto a subire limitazioni prive di senso, ad essere sgridato senza criterio, talvolta picchiato, costretto a subire le urla dei genitori tra di loro, gli abbandoni, la violenza verbale e fisica che a volte sussiste nella coppia». Basta rileggere gli studi di Alice Miller: “Il dramma del bambino dotato”, “Il bambino inascoltato”, “La fiducia tradita”, “La chiave abbandonata”.Niente di nuovo sotto il sole: i bambini «saranno “solo” costretti a un ulteriore abuso, oltre a quelli che quotidianamente subiscono dagli ignari genitori», spesso convinti di essere impeccabili. «Questa situazione di caos e ulteriore abuso, però, potrà avere effetti positivi qualora le famiglie si riappropriassero del proprio ruolo, senza delegare alla scuola l’educazione dei bambini», sostiene Franceschetti. «Se fino ad oggi, a casa, di sesso non se ne parlava, o se ne parlava male», a questo punto «per arginare l’effetto traumatico della riforma Gender l’unica possibilità è che i genitori si sforzino sempre di più di dialogare con i figli, di accettare davvero le diversità e di spiegare loro che se l’insegnante si masturba in classe è solo un pervertito, non un educatore». E a fronte di un insegnante che vorrà “far provare nuove esperienze” al bambino di 9-12 anni, come da protocollo, «gli si spieghi che forse, a quell’età, tali esperienze potrebbero provocargli un trauma: sarà meglio rimandarle magari a quando sarà adulto e in grado di decidere da solo quali esperienze diverse provare».E di fronte a un insegnante che magari «esalterà l’omosessualità dicendo che è normale, invitando i bambini di 9 anni a farne esperienza», il genitore dirà: «Sì tesoro, in effetti è normale, ma statisticamente l’80% delle persone è ancora eterosessuale, quindi direi che potrai fare queste prove più in là, magari dopo i vent’anni». Così, «invece di portarli al doposcuola, forse sarà la volta buona che un genitore anaffettivo trovi una buona scusa per portare i figli con sé e passarci più tempo insieme», conclude Franceschetti. In pratica, proprio perché la riforma Gender è arrivata nel momento in cui l’istituzione familiare «si era deresponsabilizzata dal suo ruolo educativo», forse «è proprio questo il momento buono affinché l’educazione sessuale dei figli venga riportata nel luogo principale dove dovrebbe essere effettuata: la famiglia».Gender: tutti diversi, tutti uguali. Bellissimo, ma se poi la faccenda scappa di mano e la scuola diventa il paradiso degli orchi? A rimetterci sarebbero loro, i minori. A meno che non entri in scena un soggetto troppo spesso assente: la famiglia, con le sue responsabilità educative. «Quando sentii parlare di questa teoria e della sua diffusione nelle scuole, lì per lì pensai a una bufala perché veniva proposta come una specie di invito esplicito alla masturbazione e all’omosessualità anche per i bambini delle elementari e dell’asilo». L’ideologia Gender in classe? Superficialmente, scrive Paolo Franceschetti, si potrebbe credere che tutta la questione si riduca a un derby tra gay e omofobi, sinistra progressista e Vaticano conservatore. Già il governo Letta invitava gli insegnanti a educare alla diversità (“Rosa e i suoi due papà hanno comprato tre lattine di tè freddo al bar; se ogni lattina costa 2 euro, quanto hanno speso?”). «La necessità di approfondire la questione – ammette Franceschetti – mi è venuta quando ho letto che il ministro dell’istruzione minacciava querele contro chi osasse sostenere che la riforma Renzi introducesse la teoria Gender».
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Senza lavoro un americano su tre, 100 milioni di persone
Un americano su tre è senza lavoro: oltre 102 milioni di persone, su una popolazione che nel 2015 ammonta a circa 320 milioni di individui. A lanciare l’allarme è un analista come Michael Snyder, mai tenero con l’establishment: «ll governo federale utilizza molto attentamente numeri manipolati per coprire la depressione economica schiacciante che sta interessando questa nazione». A settembre, Washington ha annunciato 142.000 nuovi posti di lavoro. «Se questo fosse effettivamente vero, sarebbe a malapena sufficiente per tenere il passo con la crescita della popolazione. Purtroppo, la verità è che i numeri reali sono in realtà molto peggiori». I numeri “non aggiustati”, afferma Snyder, mostrano che l’economia americana, in realtà, ha perso 248.000 posti di lavoro nel solo mese di settembre, e che lo stesso governo ha conteggiato più di un milione di americani nella categoria “Non nella forza lavoro”. Eccola, l’illusione ottica: «Secondo l’amministrazione Obama, attualmente ci sono 7,9 milioni di americani che sono “ufficialmente disoccupati” e altri 94,7 milioni americani in età lavorativa che sono fuori dalla forza lavoro. Questo ci dà un totale di 102,6 milioni di americani in età lavorativa che non hanno un lavoro in questo momento».
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Profughi, vendetta della storia: il conto dei nostri disastri
In questa tragedia storica dell’esodo dei profughi c’è una sconcertante inconsapevolezza ed impreparazione dell’opinione pubblica europea. La gente (scusatemi questo termine generico e populista, ma è per capirci) è convinta che siamo gli aggrediti di una invasione da cui difenderci e che basti serrare la porta di casa per farla finita e lasciarli a cuocere nel loro brodo. Anche quelli che propongono l’accoglienza, lo fanno il più delle volta per altruismo, per buon cuore (che comunque è molto meglio della reazione degli altri) ma non per consapevolezza della portata del problema sul piano storico e delle misure che, pertanto, sono necessarie. Qui non si tratta solo di dare rifugio ad un po’ di bambini che rischiano di morire, cosa comunque doverosa, ma è solo la punta dell’iceberg. Questo è solo l’inizio, vedrete il seguito… Questi profughi scappano, ma da cosa? Dalla guerra, ma da dove viene questa guerra? Magari, vale la pena di ricordare le guerre del Golfo e dell’Afghanistan, gli sciagurati interventi di “polizia internazionale” in Sudan, Mali, Somalia…Non sono di quelli che pensano che tutto quel che accade sia colpa dell’Europa e degli Usa, lo so che ci sono responsabilità anche della vecchia Urss ed anche delle classi dirigenti africane ed arabe, ma, insomma, se ci accorgessimo della fetta non piccola delle nostre responsabilità faremmo già un passo in avanti per trovare la soluzione. C’è stata una rivolta in diversi paesi arabi che non ha prodotto (almeno per ora) i risultati sperati, ma anche questa da dove viene? Ci sono regimi indecenti che hanno usato le enormi risorse della rendita petrolifera per alimentare classi dirigenti corrotte e che non hanno saputo avviare un programma di sviluppo economico, regimi dittatoriali che non hanno rispettato i più elementari diritti umani, ma chi ha sostenuto questi regimi per decenni? Facciamo il conto di quanti vanno messi sul conto dell’Urss e di quanti su quelli dell’Occidente? Gheddafi era un dittatore spietato e incapace di costruire un futuro del suo popolo: verissimo, ma chi lo aiutò a fare il suo colpo di Stato e poi lo ha costantemente sostenuto per quaranta anni di fila? Chi ha permesso ai suoi servizi segreti di assassinare i suoi oppositori per le strade di Roma? Chi lo ha avvisato dell’operazione Hilton? E chi gli ha coperto le spalle in tutte le occasioni, salvo doverlo mollare proprio alla fine?Ne sappiamo niente noi Italiani? E in Siria, certo le responsabilità preminenti fra il 1960 ed il 1991 sono state dell’Urss, e dopo della Russia, ma con il beneplacito di Inghilterra, Francia e Usa. E prima, in Siria cosa c’era? Alla fine della prima guerra mondiale, la divisione dell’Impero Ottomano, si ricavò un territorio chiamato Siria, tirando linee dritte con il righello e senza porsi alcun problema sul tipo di composizione etnica interna, poi lo si affidò a mandato francese ed i francesi come prima cosa fecero l’accordo con la minoranza alawita, una frazione del gruppo sciita che totalizzava meno di un quinto della popolazione, però contava al suo interno una bella fetta delle classi colte. Gli alawiti divennero la classe dirigente del paese, la borghesia compradora alleata degli occupanti e, perciò stesso, odiati da tutti. Quel che non impedì che, con l’aiuto degli inglesi prima e dei russi dopo, restassero a capo del paese.Oggi non è solo una rivolta contro un regime indecente, è anche la rivolta contro un’etnia, anche se le responsabilità sono della ristretta classe dominante alawita e non certo di tutti gli appartenenti a quel gruppo, e non è certo un caso che oggi loro siano la maggioranza dei profughi. Dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare dopo il 1960, venne la decolonizzazione che, per molti versi, fu peggio del colonialismo: i paesi in particolare africani restarono sottosviluppati. E poi, lo sappiamo, le guerre locali, poi gli interventi Usa, eccetera. Questo disastro lo abbiamo costruito noi con decenni e decenni di errori, colpe, disastri, ora sta arrivando il conto. E vi meravigliate? Se gli storici facessero il loro mestiere e la smettessero di guardarsi l’ombelico, rigirando la solita storia europea, forse ci sarebbe più consapevolezza delle responsabilità pregresse ma, soprattutto, delle prospettive future.(Aldo Giannuli, “L’esodo dei profughi e la vendetta della storia. Quando gli storici non fanno il loro mestiere”, dal blog di Giannuli del 24 settembre 2015).In questa tragedia storica dell’esodo dei profughi c’è una sconcertante inconsapevolezza ed impreparazione dell’opinione pubblica europea. La gente (scusatemi questo termine generico e populista, ma è per capirci) è convinta che siamo gli aggrediti di una invasione da cui difenderci e che basti serrare la porta di casa per farla finita e lasciarli a cuocere nel loro brodo. Anche quelli che propongono l’accoglienza, lo fanno il più delle volta per altruismo, per buon cuore (che comunque è molto meglio della reazione degli altri) ma non per consapevolezza della portata del problema sul piano storico e delle misure che, pertanto, sono necessarie. Qui non si tratta solo di dare rifugio ad un po’ di bambini che rischiano di morire, cosa comunque doverosa, ma è solo la punta dell’iceberg. Questo è solo l’inizio, vedrete il seguito… Questi profughi scappano, ma da cosa? Dalla guerra, ma da dove viene questa guerra? Magari, vale la pena di ricordare le guerre del Golfo e dell’Afghanistan, gli sciagurati interventi di “polizia internazionale” in Sudan, Mali, Somalia…
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Torna la lotta di classe, contro il regime che taglia il lavoro
La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.Questo giornale, da quando Marchionne e la famiglia Agnelli ne hanno rafforzato il controllo, è diventato l’organo ufficiale di propaganda del nuovo regime padronale. Così qualche giorno fa il quotidiano milanese ha lanciato il modello sociale aziendalistico, che non è certo una novità nella storia del capitalismo imprenditoriale. Una volta non solo il salario, ma anche la casa, il cibo, le cure sanitarie, la pensione, la scuola dei figli, le vacanze, persino i funerali erano aziendali. Una volta non solo la Fiat, ma tanti padri padroni affermavano così il loro dominio sul lavoro. I conti Marzotto a Valdagno avevano costruito un sistema per cui si era dipendenti aziendali dalla nascita alla tomba. Ora la distruzione dello stato sociale, la disoccupazione e la precarietà, il Jobs Act e la cancellazione del contratto nazionale creano le condizioni per il ritorno a questo aziendalismo medioevale.La svolta da noi l’ha operata Sergio Marchionne, quando nell’estate del 2010 impose ai lavoratori di Pomigliano l’aut aut: o uscire dal contratto nazionale o uscire per sempre dalla fabbrica. Solo la Fiom ed i sindacati di base respinsero il ricatto, che alla fine però ebbe successo. L’allora segretario del Pd Bersani dichiarò che il modello Pomigliano si sarebbe potuto accettare se fosse rimasto una eccezione, ma naturalmente divenne la regola. Allora, Cgil, Cisl e Uil cercarono di ritrovare spazio con lo scambio praticato da trenta anni: l’arretramento dei lavoratori per il riconoscimento del proprio ruolo. Il 10 gennaio 2013 i sindacati confederali e la Confindustria sottoscrissero con grande enfasi una intesa che avrebbe dovuto rilanciare le relazioni industriali. I sindacati accettavano di generalizzare il modello Marchionne in ogni azienda, in cambio della promessa del rinnovo dei contratti nazionali. Oggi quell’accordo registra un totale fallimento e chi lo ha sottoscritto viene descritto come irragionevole da Squinzi. Chi si fa pecora il lupo se lo mangia, dice un proverbio siciliano.La distruzione del contratto nazionale non è solo un interesse del grande padronato italiano, è un obiettivo di fondo delle cosiddette riforme del lavoro volute dalla finanza internazionale, in Europa dalla Troika. Nel nuovo memorandum imposto alla Grecia la soppressione della contrattazione collettiva è uno dei punti cardine. La sempre da ricordare lettera di Draghi e Trichet al governo italiano, nell’agosto 2011 chiedeva sulla contrattazione le stesse cose che oggi pretendono Squinzi, Renzi e il “Corriere della Sera”. Abbattere i salari e i diritti e alzare i profitti, questa è la lotta di classe dall’alto che da tempo viene condotta contro il lavoro e che ogni sistema di potere pratica come può. La vera novità oggi sono i segnali di ripresa della lotta di classe dal basso, le ribellioni che cominciano a sorgere nel mondo del lavoro. Alla Chrysler gli operai hanno respinto in massa il contratto accettato dai loro sindacati e si preparano a scioperare. In Germania i macchinisti hanno tenuto bloccato per una settimana il trasporto ferroviario del paese. Lo stesso hanno fatto i conducenti della metropolitana di Londra. I dipendenti di Air France sono stati sui mass media, e hanno riscosso simpatia in tutto il mondo, per il brutto quarto d’ora che hanno fatto passare ai manager che li vogliono licenziare.Anche da noi ci sono simili segnali. Da tempo i lavoratori della logistica, in gran parte immigrati, organizzati dal Sicobas, fanno scioperi durissimi che spesso producono risultati. Ma ora anche il lavoro più tradizionale ha ricominciato a farsi sentire. Secondo il garante degli scioperi, le agitazioni nella scuola sono più che raddoppiate e così quelle in altri settori dei servizi. Solo pochi giorni fa i trasporti a Roma sono stati bloccati da uno sciopero che ha visto una partecipazione altissima, ben superiore alle forze della Usb che sola lo aveva proclamato. Dopo anni di rassegnazione, nel mondo del lavoro c’è chi comincia ad alzare la testa e quando lo fa esprime subito tutta la rabbia accumulata per le ingiustizie subite. È per questo che si vuole colpire il diritto stesso a scioperare. Non ci sono ancora in campo mobilitazioni sociali della portata di quelle dei decenni passati. Ma i segnali di lotta di classe dal basso sono già allarmanti per chi vuole continuare a condurla indisturbato dall’alto.La reazione contro la ripresa degli scioperi è in tutti gli Stati europei. La magistratura tedesca ha fermato lo sciopero nella Lufthansa. Il governo spagnolo ha varato leggi anti-manifestazioni. Il governo Cameron sta varando una legge sul diritto di sciopero così restrittiva, che un parlamentare che pure la sostiene l’ha comparata a quelle di un regime fascista. In Italia il solito “Corriere della Sera” ha sponsorizzato la proposta di limitazione dello sciopero di alcuni parlamentari renziani, che ricalca quella britannica. L’austerità impone il taglio dei salari e la distruzione dei diritti, l’attacco al diritto di sciopero deve prevenire la ribellione dei lavoratori, mentre i sindacati vanno ridotti all’impotenza e additati al disprezzo dell’opinione pubblica. Tutto si tiene e tutto si fa nel nome di una ripresa che, così come viene promessa, non ci sarà mai.La linea trentennale di Cgil, Cisl e Uil esce distrutta da questa nuova fase dei conflitti sociali. Il modello concertativo è diventato oramai pura gestione dell’impotenza e i proclami televisivi a cui non segue nulla non lo rafforzano di certo. L’alternativa alla resa è una sola, ci vuole un modello sindacale che faccia propria la lezione delle mobilitazioni radicali del lavoro e che, così come fa il sistema delle imprese, sostenga e promuova la lotta di classe. Il fallimento di Cgil, Cisl e Uil apre la via ad un nuovo sindacalismo conflittuale a cui sempre più si rivolgeranno i lavoratori che si ribellano. E un giorno la Confindustria rimpiangerà l’arroganza attuale.(Giorgio Cremaschi, “Il ritorno alla lotta di classe”, da “Micromega” dell’8 ottobre 2015).La Confindustria ha deciso di non rinnovare più i contratti nazionali, nonostante la moderazione delle piattaforme già varate da Cgil, Cisl e Uil, con richieste salariali medie di 30 euro lordi all’anno e con la piena disponibilità a venire incontro a tante richieste delle imprese. A sua volta il governo ha prestato un doppio soccorso agli industriali, come imprenditore con il blocco dei contratti pubblici, e come legislatore con l’annuncio della legge sul salario minimo. Quest’ultima in realtà dovrebbe essere definita come legge per rendere minimo il salario, visto che la cifra ipotizzata, 6 euro lordi all’ora, è poco più della metà della retribuzione minima prevista dai contratti nazionali. Grazie alla nuova legge e al Jobs Act, una impresa potrebbe licenziare i suoi dipendenti pagati 12 euro e poi assumere gli stessi o altri lavoratori al salario minimo di legge. Naturalmente il minimo salario non dovrebbe essere applicato indistintamente a tutti, anche il manager più feroce sa che ci sono lavori e attività che non possono essere gestiti con paghe così basse. Qui viene in soccorso il modello di relazioni sociali proposto con grande risalto dal “Corriere della Sera”.
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Fame di lavoratori, presto i salari torneranno a crescere
«L’ultima volta che i ‘servi della gleba’ europei si trovarono improvvisamente ad essere fortemente richiesti fu nel periodo successivo alla ‘Morte Nera’, a metà del XIV secolo. Si dice che quell’evento abbia posto fine al feudalesimo». Forse ci risiamo, avverte Ambrose Evans-Pritchard: «Siamo sulla soglia di un’inversione demografica che sancirà la fine dell’egemonia delle imprese sul mondo del lavoro e colmerà le disuguaglianze che si son venute a creare nel corso degli anni». Nientemeno: «I lavoratori di tutto il mondo stanno per ottenere la loro vendetta: i capitalisti dovranno accontentarsi di una fetta ridotta della torta». Lo sostiene il professor Charles Goodhart, docente alla London School of Economics e già alto funzionario della Banca d’Inghilterra. «Le potenti forze sociali che hanno invaso l’economia globale, garantendo negli ultimi quattro decenni manodopera in abbondanza, stanno improvvisamente invertendo il loro moto, sancendo la fine sia del super-ciclo deflazionistico che dell’epoca dei tassi d’interesse a zero». Di fatto, «la manodopera a buon mercato sta prosciugandosi».Il periodo a venire, spiega Pritchard in un articolo del “Telegraph”, tradotto da “Come Don Chisciotte”, sarà caratterizzato dalla scarsità di manodopera: così, «l’equilibrio di potere si sposterà dai datori di lavoro ai lavoratori, spingendo verso l’alto i salari». Al che, «la corrosiva disuguaglianza che si è accumulata nei paesi in tutto il mondo andrà quindi a colmarsi». In realtà è successo che, a partire dal 1970, il crollo del tasso di natalità (giunto ad una vita sempre più lunga) ha portato a uno “sweet spot” demografico: «Un episodio una tantum, che ha temporaneamente distorto l’economia del lavoro». Questo “sweet spot” sarebbe stato reso ancora più “sweet” dal crollo dell’Unione Sovietica e dallo spettacolare ingresso della Cina nel sistema commerciale globale. «Nel 1990 la schiera di lavoratori del ‘mondo sviluppato’ era composta da 685 milioni di persone. La Cina e l’Europa Orientale ne hanno aggiunto ulteriori 820 milioni, più che raddoppiando, in un batter d’occhio, i numeri in gioco. E’ stata la più grande scossa al mondo del lavoro che si sia mai vista. E’ l’evento che ha portato a 25 anni di stagnazione dei salari», ha sostenuto il Goodhart, parlando a un forum organizzato dalla “Lombard Street Research”.Le imprese, aggiunge Evans-Pritchard, si sono appropriate a buon mercato dell’“esercito di riserva” del mondo: «Le aziende americane che non avevano esse stesse delocalizzato gli impianti in Cina furono in grado di ‘giocarsi’ i salari cinesi contro quelli dei lavoratori statunitensi, speculando fortemente sul lavoro». Oggi, i profitti netti delle aziende Usa equivalgono al 10% del Pil, «il doppio della media storica e il valore più alto del dopoguerra». Idem in Europa: «La Volkswagen minacciò apertamente di spostare la produzione in Polonia, nel 2004, a meno che i lavoratori tedeschi inghiottissero sia il blocco dei salari che la maggiorazione delle ore lavorative, fatto che equivaleva a un taglio dei salari». La “Ig Metall”, sindacato metalmeccanico tedesco, «s’inchinò amaramente all’inevitabile». La manodopera a buon mercato «spinse in basso i costi globali e i prezzi». E la Cina «aggravò gli effetti, investendo massicciamente nelle fabbriche (con crediti agevolati), spingendo gli investimenti al 48% del Pil (un record mondiale) e inondando i mercati di merci a basso costo – prima vestiti, scarpe e mobili, poi acciaio, navi, prodotti chimici e pannelli solari».Cullate dalla bassa inflazione dei prezzi al consumo, le banche centrali lasciarono fare, allentando le politiche monetarie (molto prima della crisi della Lehman) che portarono a loro volta a dei tassi d’interesse reali sempre più bassi e a delle bolle speculative. «I ricchi, al contempo, diventavano sempre più ricchi». Tuttavia, continua Pritchard, quest’epoca è ormai passata alla storia: «I salari in Cina non sono più a buon mercato, dopo essere saliti a un tasso medio annuo del 16% lungo tutto un decennio. Anche lo yuan è sopravvalutato. Dalla metà del 2012, ovvero da quando il Giappone ha dato il via guerra valutaria in Asia, si è apprezzato del 22% in ‘termini commerciali ponderati’. La Panasonic, ad esempio, ha preferito trasferire la produzione dei forni a microonde dalla Cina al Giappone». Ma le cause alla base del periodo deflazionistico sono più profonde: il ‘tasso di fertilità mondiale’ è costantemente declinato, e le ‘nascite per donna’ sono passate dal 4,85 del 1970 al 2,43 di oggi. E negli ultimi vent’anni c’è stato un crollo epocale in Asia Orientale: se Germania, Italia e Giappone si attestano sull’1,4, la Corea è a 1,25 e Singapore a 0,8. «Come regola generale, ci vogliono 2.1 ‘nascite per donna’ per mantenere la popolazione in equilibrio». Per Goodhard, «siamo sulla soglia di un completo capovolgimento dell’economia mondiale: l’offerta di lavoro tenderà sempre più a scarseggiare». Nel corso degli anni, «le aziende hanno fatto un sacco di soldi», ma ora «la vita non sarà più così accogliente per loro».La Cina dovrà affrontare un duplice colpo, grazie agli effetti della politica del ‘figlio unico’: «E’ disastrosamente andata avanti per 15 anni di troppo», sostiene Goodhart. La forza lavoro sta già diminuendo di 3 milioni di unità l’anno. È opinione diffusa che la crisi demografica spingerà la deflazione ancor più in profondità. «La sanità e i costi dell’invecchiamento porteranno a un’espansione fiscale, mentre la scarsità della manodopera innescherà una ‘guerra delle offerte’ a vantaggio dei lavoratori, il tutto condito da uno stato di latente guerra sociale tra le generazioni». La Cina non inonderà più il mondo con il suo ‘risparmio in eccesso’, gli anziani dovranno attingere alle loro riserve e le aziende dovranno investire di nuovo in tecnologie labour-saving (automazione dei processi industriali) attingendo alle loro «inutilizzate e segrete scorte di denaro». Secondo Evans-Pritchard, assisteremo a un rovesciamento di quelle forze che hanno spinto il “tasso di risparmio mondiale” al record del 25% del Pil globale, «creando quell’ampio bacino di capitali che si è poi rovesciato nell’acquisto a valanga di assets in tutto il mondo, anche se l’economia globale continua a soffrire di depressione: il “tasso di equilibrio” dell’interesse reale tornerà alla normalità e potremo smetterla di parlare di “stagnazione secolare”».Mentre il capo-economista della Bank of England, Andrew Aldane, teme la trappola del “tasso zero”, con poche armi a disposizione delle banche centrali per combattere la prossima crisi (servirebbe il taglio ulteriore di 3-5 punti dei tassi d’interesse), il professor Goodhart «dubita invece che i robot possano sostituire i lavoratori così velocemente da compensare la carenza di manodopera, o che le nazioni invecchiate siano in grado di assorbire culturalmente immigrati a sufficienza per colmare il divario occupazionale, o che l’India o l’Africa abbiano le infrastrutture indispensabili per ripetere l’‘effetto Cina’». Di fatto, secondo Evans-Pritchard, «il mondo non ha mai affrontato una ‘epidemia da invecchiamento’ prima d’ora, e quindi siamo in acque inesplorate». Quello che è decisamente chiaro, conclude, è che il decollo verticale del “tasso di dipendenza” dall’indice demografico, e quindi dalla forza lavoro, «sta per distruggere tutte le nostre ipotesi economiche».«L’ultima volta che i ‘servi della gleba’ europei si trovarono improvvisamente ad essere fortemente richiesti fu nel periodo successivo alla ‘Morte Nera’, a metà del XIV secolo. Si dice che quell’evento abbia posto fine al feudalesimo». Forse ci risiamo, avverte Ambrose Evans-Pritchard: «Siamo sulla soglia di un’inversione demografica che sancirà la fine dell’egemonia delle imprese sul mondo del lavoro e colmerà le disuguaglianze che si son venute a creare nel corso degli anni». Nientemeno: «I lavoratori di tutto il mondo stanno per ottenere la loro vendetta: i capitalisti dovranno accontentarsi di una fetta ridotta della torta». Lo sostiene il professor Charles Goodhart, docente alla London School of Economics e già alto funzionario della Banca d’Inghilterra. «Le potenti forze sociali che hanno invaso l’economia globale, garantendo negli ultimi quattro decenni manodopera in abbondanza, stanno improvvisamente invertendo il loro moto, sancendo la fine sia del super-ciclo deflazionistico che dell’epoca dei tassi d’interesse a zero». Di fatto, «la manodopera a buon mercato sta prosciugandosi».
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Barnard: da Corbyn solo fumo negli occhi, vi spiego perché
La trasmutazione di tutti i partiti europei socialisti, socialdemocratici o addirittura comunisti (Italia) in macchine oscenamente asservite e convertite alla destra finanziaria neoliberista è immutabile, e di certo Jeremy Corbyn non rappresenta nulla di inverso e contrario. Tutta ’sta parlata di “la sinistra che in Gran Bretagna ritrova finalmente la sua anima dopo 20 anni di débacle europee” è una sciocchezza. Il Vero Potere quando ha pensato e attuato l’Olocausto di qualsiasi cosa sia di sinistra, non ha lasciato spifferi aperti nelle camere a gas, né buchi nel mantello di Dracula. La sinistra è morta e sepolta a diecimila metri sotto terra. Corbyn è un buffone per due motivi: A) o sa quanto ho scritto sopra ma finge, per attuare una scalata “à la” Tsipras (conati) B) oppure non lo sa e quindi è scemo. Io propendo per la prima.I motivi stanno in tre luoghi: A) Uno che – dopo l’evoluzione anni ‘80-’90 di milioni d’inglesi quasi poveri in piccola classe media per l’umiliazione elettorale terrificante dell’ultimo leader laburista degno di nota, Neil Kinnock – uno che, dicevo, crede ancora “nel senso di giustizia sociale, che sono i valori della maggioranza degli inglesi…”, mente (oppure è un idiota cieco). Ho vissuto là per anni e ho visto e ancora vedo coi miei occhi come milioni di britannici, anche se poveracci, alla prima sniffata thatcheriana di due soldini in speculazioni se ne sono altamente sbattuti le palle di chiunque e di qualsiasi pensionato/disoccupato che crepava nella casa accanto, e hanno salutato con entusiasmo quelli che sono oggi 36 anni consecutivi di politiche economiche di destra neoliberale in quel paese. Ma di che cazzo di senso di giustizia sociale parla ’sto Corbyn?B) Mentre il suo ministro ombra per l’economia, McDonnell, fa la solita parata di politica per uso domestico (= prende x il culo il telespettatore) parlando di elevare le paghe minime, scagliandosi contro le multinazionali Starbucks, Vodafone, Amazon o Google perché evadono le tasse, contro le super-paghe dei manager della City, e promette di convertire i soldi per le armi nucleari in infrastrutture (sì, vediamo cosa dice Washington, ciccio!), Jeremy Corbyn si mette assieme un team di 7 economisti come super-consiglieri del Re. E chi sono? Tutti mezze figure che già conosciamo a memoria per aver solo balbettato parolette alla camomilla e ben arrotondate per darla ad intendere al pubblico contro le Austerità e la finanza padrona. In altre parole, fumo negli occhi ma NESSUN VERO PERICOLO PER IL MEGA BUSINESS nessun vero pericolo per il mega-business. Eccoli: David Blanchflower, Mariana Mazzucato, Anastasia Nesvetailova, Ann Pettifor, Thomas Piketty, Joseph Stiglitz, Simon Wren-Lewis. Tutta gente che non possiede neppure un centesimo della radicalità non dico per salvare dalla povertà qualche milione di sfigati inglesi, ma neppure per paventare una qualche minaccia a BIG-BUSINESS Big Business. E Big Business non sposta come al solito le sue scarpe da 5.000 dollari dalla scrivania, neppure stavolta, cari.C) E soprattutto ’sto Jeremy Corbyn non mette in discussione la rovina di tutte la rovine di qualsiasi gestione economica nazionale: il FANTASMA DELLA RIDUZIONE DEL DEFICIT/DEBITO DI STATO fantasma della riduzione del deficit/debito di Stato. Corbyn cerca di barcamenarsi con mezze promesse alla tisana su più spesa pubblica e magari… un poooooooochino più deficit, ma poi corre trafelato a precisare che rimedierà al deficit con più tasse per i ricchi, ecc. Non capisce NIENTE niente delle realtà di macro-economia dello Stato, Cristo, e vive nella terra di un genio universale dell’economia come fu Wynne Godley, che le descrisse alla perfezione. ‘Sto Jeremy non capisce che, non solo i deficit e il debito di Stato con moneta sovrana (la sterlina) sono LA RICCHEZZA DEL PAESE la ricchezza del paese e non un suo peso, come sancì magistralmente Godley, ma neppure ci arriva vicino. E dove cazzo vai, Corbyn, se ti allinei anche tu, magari un po’ meno, ma anche tu al veleno mortale di tutte le democrazie: IL CONTENIMENTO DEL DEFICIT? Il contenimento del deficit? Ok, basta così per ’sto buffone. La City già scommette miliardi in Hedge Funds, oggi che Jeremy Corbyn non arriverà neppure alle elezioni generali. E vinceranno. No, per favore, ascoltate: Warren Mosler, Mosler Economics-Mmt, sono la vera economia salva-vite e salva-nazione con tradizione secolare di autorevolezza. Il resto è tragedia.(Paolo Barnard, “Jeremy Corbin non farà nulla: è Syriza II, meno la tragedia greca”, dal blog di Barnard del 29 settembre 2015).La trasmutazione di tutti i partiti europei socialisti, socialdemocratici o addirittura comunisti (Italia) in macchine oscenamente asservite e convertite alla destra finanziaria neoliberista è immutabile, e di certo Jeremy Corbyn non rappresenta nulla di inverso e contrario. Tutta ’sta parlata di “la sinistra che in Gran Bretagna ritrova finalmente la sua anima dopo 20 anni di débacle europee” è una sciocchezza. Il Vero Potere quando ha pensato e attuato l’Olocausto di qualsiasi cosa sia di sinistra, non ha lasciato spifferi aperti nelle camere a gas, né buchi nel mantello di Dracula. La sinistra è morta e sepolta a diecimila metri sotto terra. Corbyn è un buffone per due motivi: A) o sa quanto ho scritto sopra ma finge, per attuare una scalata “à la” Tsipras (conati) B) oppure non lo sa e quindi è scemo. Io propendo per la prima.