Archivio del Tag ‘euro’
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Arriva il gigante Putin, e l’Europa dei nani non ha un leader
Arriva a Roma un gigante, Vladmir Putin, che guida la Russia con mano sicura dall’inizio del terzo millennio. Accantoniamo i giudizi di valore, piuttosto controversi, sullo zar venuto dal comunismo e dalla tradizione russa. Parliamo di statura politica: è un grande statista che passerà nel bene e nel male alla storia. Anche Donald Trump e Xi Jinping sono due leader giganti, qualunque cosa positiva o negativa si pensi di loro. E il giapponese Shinzo Abe e l’indiano Narendra Modi sono due statisti che con salda mano guidano i loro paesi, confermati dai loro popoli. A suo modo perfino un autocrate come Erdogan è destinato a passare alla storia. Sarà un mezzo dittatore ma stranamente ha indetto elezioni regolari a Istanbul, le ha perse e lo ha riconosciuto. E l’Europa, invece? L’Europa è governata dai sette nani più la biancaneve tedesca. Juncker, Tusk, o se volete Macron, Sanchez e ora le due signore dell’asse franco-tedesco, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.In urbe caecorum la Merkel grandeggia sugli altri anche perché ha guidato il paese più grande e grosso dell’Unione; ma è incomparabile per lungimiranza, forza e consenso ai leader extraeuropei prima citati. Oltretutto è una leader sconfitta, sfiduciata, che non rappresenta più nemmeno la Germania. Tra i sette nani, perfino il nostro premier, Giuseppe Conte, pur scaturito artificiosamente, non venuto dalla politica né dall’establishment, appare non certo peggiore, più inadeguato o meno legittimato degli altri partner europei. Pensatela come volete ma se l’Europa oggi conta poco nel mondo, non piace agli europei, è un mezzo fallimento nelle relazioni interne prima che esterne, non sa farsi valere negli scenari internazionali, una quota importante del suo insuccesso lo deve proprio all’assenza di grandi capi. Mezze calzette che fanno eleggere ai posti chiave mezze cartucce. E nei loro paesi sono tutti leader di forte minoranza, con governi precari di coalizioni fragili e assai eterogenee: da Sanchez alla Merkel, passando per tutti gli altri.Si deve arrivare ai paesi più piccoli per trovare leadership salde e governi più omogenei, riconfermati dal voto popolare. Non è per dire, ma il più votato è Viktor Orban, in Ungheria. Ma il suo paese non è tra i grandi e lui nei popolari è a bagnomaria, mezzo sospeso. Non dico leader carismatici o statisti che passeranno alla storia, non dico Adenauer e Schumann, De Gaulle e forse De Gasperi, per restare all’Europa del dopoguerra; ma non c’è nemmeno l’ombra di qualcuno che somigli a Helmut Kohl, François Mitterrand, Margareth Thatcher… Tra i socialisti non c’è nessuno che vagamente somigli a Brandt, Gonzales, a Craxi, a Blair del passato. Non c’è un leader europeo di livello storico manco a pagarlo, non c’è un padre nobile, non c’è un leader naturale o in pectore al di sopra degli altri. Da che dipende? Facile dire che i grandi nascono una tantum e in modo imprevedibile. Sarà pure così ma c’è una spiegazione più forte e articolata che spiega la penuria di leader europei.L’Unione Europea è nata male, intorno a una moneta e a una banca centrale, non è scaturita dalla politica, non è cresciuta intorno alla politica, è un processo dispersivo, policentrico e anonimo, senza un conducente, con un pilota automatico e sotto tutela della Troika, dunque dei potentati economico-tecnocratici-finanziari euro-globali. L’Europa che ripudia la storia elegge leader bonsai. In queste condizioni non poteva avere leader forti, ma solo frutti mediocri del compromesso, zelanti esecutori e funzionari di piccolo cabotaggio. Dacché l’Europa si è unificata con l’euro non è emerso neanche un leader europeo; né dalla Commissione Europea e dalle assemblee parlamentari europee né dai governi e dai Parlamenti nazionali. E la politica di austerità dell’Europa, il gioco in difensiva mostra l’assenza di disegni politici e progetti storici e l’asservimento agli assetti contabili e ai loro funzionari di tutta l’Unione. Per questo trovo un po’ ridicolo parlare di “Più Europa”, come fanno la Bonino e Mattarella: l’Europa è il regno del meno, non del più, vince il low profile, la cordata, il compromesso di medio-basso profilo, la conventio ad excludendum.Viene premiato chi si fa tappetino, chi china la testa e si adegua all’apparato e ai suoi parametri; viene punito chi alza la testa. È una continua selezione a rovescio, dei più deboli, dei più meschini. Mediocri leadership si avvicendano negli Stati e nelle Commissioni Europee. Forse un presidente dell’Europa eletto direttamente dal popolo europeo, pur piena di insidie e controindicazioni, sarebbe una via per favorire un clima favorevole alla nascita e alla crescita di veri leader. Non è il capriccio di un’indole autoritaria ma quando hai di fronte Putin, o anche Trump e Xi Jinping, non puoi pensare di mandarci mezzi leader sfiduciati in casa propria, che non sanno mai parlare a nome dell’Europa ma riescono a malapena a curare gli interessi di bottega nazionali o del Fondo Mondiale. Gli altri hanno i leader, noi abbiamo le foto di gruppo, i cori e le comitive a sovranità limitata. Ci rendiamo poco credibili e soprattutto incapaci di trattare alla pari. Alla Grande Politica rispondiamo coi micro-leader. Europa mignon guidata dalla nano-tecnocrazia…(Marcello Veneziani, “Arriva Putin, e all’Europa manca un leader”, da “La Verità” del 4 luglio 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Arriva a Roma un gigante, Vladmir Putin, che guida la Russia con mano sicura dall’inizio del terzo millennio. Accantoniamo i giudizi di valore, piuttosto controversi, sullo zar venuto dal comunismo e dalla tradizione russa. Parliamo di statura politica: è un grande statista che passerà nel bene e nel male alla storia. Anche Donald Trump e Xi Jinping sono due leader giganti, qualunque cosa positiva o negativa si pensi di loro. E il giapponese Shinzo Abe e l’indiano Narendra Modi sono due statisti che con salda mano guidano i loro paesi, confermati dai loro popoli. A suo modo perfino un autocrate come Erdogan è destinato a passare alla storia. Sarà un mezzo dittatore ma stranamente ha indetto elezioni regolari a Istanbul, le ha perse e lo ha riconosciuto. E l’Europa, invece? L’Europa è governata dai sette nani più la biancaneve tedesca. Juncker, Tusk, o se volete Macron, Sanchez e ora le due signore dell’asse franco-tedesco, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde.
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Roma fra Putin, la Cina e Trump: nuovo ordine sovranista?
Il colpo d’occhio non è male: in tre mesi due grandi leader globali (Xi Jinping e lo Zar del Duemila) sono atterrati a Roma per visite ufficiali in cui hanno dispensato onori e amicizia. In mezzo, il ministro dell’interno in modo totalmente irrituale vola a Washington e viene omaggiato dal vicepresidente Pence e dal segretario di Stato Mike Pompeo. Tre su tre, in pratica. Contiamo davvero qualcosa? No, siamo il solito “ventre molle” d’Europa (come scrive oggi Lucio Caracciolo su “Rep”) su cui di volta in volta i potenti del mondo appoggiano la loro testolina per fare dispetto al rivale di turno. La differenza di oggi è che pure il resto del continente è molle, anzi frollato, e conta sempre meno. I giochi sono tra Trump e Xi, con Putin terzo incomodo grazie alla sua influenza in Siria, Turchia, Venezuela, Egitto. È un incastro di dazi, sanzioni e ripicche in cui il resto del pianeta fa da spettatore o vittima. Putin nelle scorse settimane ha annunciato una grande alleanza con la Cina per sfuggire alla morsa delle sanzioni euro-americane, e ha rinsaldato i rapporti con Turchia e Iran per costituire un blocco che possa dar fastidio all’America. Nel mentre, Xi “regalava” a Trump l’incontro con Kim Jong-Un in Corea del Nord in cambio di un apertura su dazi e Huawei.La guerra commerciale con la Cina e le sanzioni alla Russia troveranno soluzione, ma solo nel momento più congeniale alla campagna elettorale di Trump. Poche ore fa è uscito l’ultimo dato sul mercato del lavoro americano: +224.000 posti di lavoro a giugno, disoccupazione al 3,7%. Poteva andare meglio, di sicuro non va male. Sul piano economico, insomma, può stare abbastanza tranquillo. Quello di cui ha bisogno, per vincere le elezioni e guidare la “narrazione” pre-voto, è un “win” geopolitico. La mezza vittoria del disgelo con la Corea del Nord non basta. Serve qualcosa che abbia un impatto mediatico più profondo. Ad esempio, un nuovo accordo con l’Iran, ovviamente più “huge” di quello che firmò Obama, che sarà facilitato dalla Russia in cambio di un allentamento delle sanzioni. Tutto s’incastra, e tutto va distillato in base alla convenienza politica. La prossima data sull’agenda della Casa Bianca è il 17 settembre, quando Israele tornerà al voto per la seconda volta quest’anno, essendo falliti i tentativi di Netanyahu di formare un governo. Per Donald è fondamentale che il suo migliore amico Bibi resti al potere, anche se non è più scontato: oltre al principale rivale Benny Gantz, è riemerso dalle nebbie pure l’ex primo ministro Ehud Barak, che ha annunciato la formazione di un partito, l’ennesimo, che correrà alle legislative. L’alleanza tra Barak e Gantz vuol dire sconfita oer Netanyahu.C’è una cosa che hanno in comune i tre leader di Cina, Stati Uniti e Russia, ed è piuttosto clamorosa. Tutti sono d’accordo sul declino della democrazia liberal-liberista. Il requiem pronunciato da Putin al “Financial Times” è sottoscritto da Trump – non in modo esplicito – e ovviamente da Xi. Per loro, la globalizzazione è un fenomeno che è scappato di mano e da correggere, a botte di dazi e sanzioni, perché le disuguaglianze interne che ha creato sono destabilizzanti per i sistemi politici. Per l’America è una questione economica; per la Cina, che dalla globalizzazione ha tratto più benefici, è politica e identitaria: circolano le merci, ma non deve circolare il pensiero. L’Europa invece non ha (ancora?) aderito a questo cambiamento epocale. Però Trump e Putin hanno già promesso accordi bilaterali al Regno Unito quando uscirà dall’Unione Europea, e tutto fa pensare che al timone ci sarà Boris Johnson, uno che è tanto colto e brillante quanto sciroccato e populista. “BoJo” avrà come unico scopo di non far affondare il suo glorioso paese, e metterà l’interesse nazionale davanti a tutto e tutti, non essendo più vincolato dall’odiato consensus di Bruxelles.Sia Trump che Putin, in modi diversi ma paralleli, hanno provato a indebolire l’euro (ovvero il marco tedesco), che è l’unica vera arma che l’Europa ha dispiegato negli ultimi vent’anni, l’unico strumento che abbia impensierito le altre potenze. Per ora, vedi le ultime elezioni e le nomine dell’altro giorno, il tentativo di abbattere la costruzione europea è fallito, ma la struttura ne esce comunque indebolita. Come un frigorifero, bisogna farlo oscillare a destra e sinistra più volte prima di poterlo buttare giù. Non è un caso che la rigorista Ursula abbia dato retta alla Merkel e abbia concesso agli Stati membri altri due anni di flessibilità per mettere a posto i conti; la procedura d’infrazione contro l’Italia si è sciolta come un ghiacciolo, mentre fino a due settimane fa era una clava pronta a calare sulle nostre teste. La verità è che l’Europa non può permettersi altri strappi. Già la Brexit rischia di essere una bella botta, che potrebbe creare danni più ai continentali che ai sudditi dell’immortale Elisabetta. Non è un caso, neppure, che uno degli obiettivi principali della nuova presidente della Commissione, già ministro della difesa tedesco, sia quello di costruire una forza militare comune.Se si mettono d’accordo, i singoli paesi potrebbero mettere in piedi un esercito europeo tanto forte da poter intervenire in quei luoghi dove gli Stati Uniti non intendono più mettere il naso (Africa, Medio Oriente, persino Sudamerica), e prenderne il posto di sceriffo del mondo. Con l’influenza geopolitica che ne discende. Per la Germania i dazi americani sono un grosso guaio, l’unica strada è allargare lo sguardo all’Africa prima che la Cina si prenda tutto anche lì. Un petit tour italiano di Putin non cambierà nulla per le sanzioni alla Russia. È un modo per dar fastidio agli Usa, punzecchiare la Germania. E ricordare al resto d’Europa che ora si trova in mezzo a un nuovo ordine non mondiale ma sovranista, e che dovrà farci i conti. Da qui alle elezioni americane del novembre 2020 preparatevi a una nuova, forse finale, battaglia mediatica contro il Puzzone della Casa Bianca. Perché se dovesse vincere di nuovo, nulla sarà come prima in Occidente.(“La visita di Putin in Italia non cambia niente ma dice tantissimo”, da “Dagospia” del 5 luglio 2019. “Stiamo assistendo a un nuovo ordine mondiale in cui Cina, Stati Uniti e Russia hanno sottoscritto lo stesso modello politico sovranista che condanna la globalizzazione liberal-liberista, e l’Europa è un vaso di coccio tra i tre colossi”).Il colpo d’occhio non è male: in tre mesi due grandi leader globali (Xi Jinping e lo Zar del Duemila) sono atterrati a Roma per visite ufficiali in cui hanno dispensato onori e amicizia. In mezzo, il ministro dell’interno in modo totalmente irrituale vola a Washington e viene omaggiato dal vicepresidente Pence e dal segretario di Stato Mike Pompeo. Tre su tre, in pratica. Contiamo davvero qualcosa? No, siamo il solito “ventre molle” d’Europa (come scrive oggi Lucio Caracciolo su “Rep”) su cui di volta in volta i potenti del mondo appoggiano la loro testolina per fare dispetto al rivale di turno. La differenza di oggi è che pure il resto del continente è molle, anzi frollato, e conta sempre meno. I giochi sono tra Trump e Xi, con Putin terzo incomodo grazie alla sua influenza in Siria, Turchia, Venezuela, Egitto. È un incastro di dazi, sanzioni e ripicche in cui il resto del pianeta fa da spettatore o vittima. Putin nelle scorse settimane ha annunciato una grande alleanza con la Cina per sfuggire alla morsa delle sanzioni euro-americane, e ha rinsaldato i rapporti con Turchia e Iran per costituire un blocco che possa dar fastidio all’America. Nel mentre, Xi “regalava” a Trump l’incontro con Kim Jong-Un in Corea del Nord in cambio di un apertura su dazi e Huawei.
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Christine Lagarde: la macellaia della Grecia a capo della Bce
«Usami per il tempo che ti serve». E ancora: «Se mi usi, ho bisogno di te come guida e come sostegno». La lettera era senza data, ma riconducibile agli anni fra il 2007 e il 2011 quando Christine Lagarde, dal 2 luglio governatore in pectore della Bce, siedeva sulla poltrona di ministro dell’economia della Francia. Così si rivolgeva all’allora presidente Nicolas Sarkozy, dando di sé un’immagine che sottomessa è dir poco. Non sorprenderà, allora, che nel valzer delle nomine che contano in Ue, a spuntarla sia stata proprio Parigi. Classe 1956, è – al pari di Ursula von der Leyen, destinata alla presidenza della Commissione Ue – la prima donna che guiderà la Bce. Si tratta anche della prima personalità senza studi di economia: figlia dell’altissima borghesia parigina, la Lagarde è infatti laureata in giurisprudenza. Esponente dell’Ump, ha iniziato la sua carriera “istituzionale” nel 2005. Senza soluzione di continuità, è stata prima ministro delegato al commercio estero, poi dell’agricoltura e della pesca, successivamente titolare delle finanze e dell’industria. Christine Lagarde diviene nota alle cronache per prendere possesso, nel 2011, dello scranno più alto al Fondo Monetario Internazionale. Succede al suo connazionale Dominique Strauss-Kahn, esautorato a causa di uno scandalo di natura sessuale poi rivelatosi una montatura.Non è invece una montatura il ruolo che l’Fmi ebbe nella crisi della Grecia. Pur avendo preso avvio prima del suo insediamento, l’intervento si è concretizzato sotto la presidenza Lagarde. Con i risultati che tutti conosciamo. La Troika era sì composta, oltre che dal Fondo, anche da Unione Europea e Bce. Marchiani furono però gli errori commessi in sede di analisi da parte del primo, che sottostimò clamorosamente i moltiplicatori fiscali (a livello 0,5: erano fra tre e cinque volte più alti), imponendo misure draconiane che riuscirono persino a peggiorare una già drammatica situazione. Il Pil si è così contratto di oltre il 20% in più rispetto alle previsioni e la disoccupazione, che non doveva superare il 15%, è schizzata al 25%. L’Fmi ha scontato, scrisse l’editorialista economico del “Daily Telegraph”, Ambrose Evans-Pritchars, un “pregiudizio pro-euro” che l’ha portato di fatto a «sacrificare la Grecia per salvare l’euro e le banche del Nord Europa». Un curriculum di tutto rispetto, non c’è che dire. Al quale dobbiamo aggiungere il tentativo esperito nel 2011 per tentare di costringere l’Italia ad accettare un intervento finanziario. In cambio ovviamente delle solite “riforme”. Berlusconi e Tremonti si opposero, ma il commissariamento arrivò comunque a novembre di quell’anno con la crisi speculativa sui nostri titoli di Stato e l’insediamento di Mario Monti alla presidenza del Consiglio.Con la piena benedizione di Emmanuel Macron, Christine Lagarde arriva così fino al vertice dell’Eurotower. Non un fulmine a ciel sereno, dato che il suo nome era fra quelli papabili. Ma che dice molto sui nuovi equilibri che regneranno in Europa: a questo giro l’ha spuntata la Francia, riuscendo in qualche modo a ridimensionare una Merkel (la quale ha comunque un’ottima stima della Lagarde) sempre meno leader indiscusso. Tandem Christine Lagarde – Ursula von der Leyen? Se le nomine dovessero essere confermate dal Parlamento Ue, ai vertici delle istituzioni comunitarie siederanno così due donne. Detto delle esperienze della Lagarde, non va meglio con quelle di Ursula von der Leyen. Tedesca, classe 1958, ininterrottamente dal 2005 ha rivestito per tre volte la carica di ministro nel governo federale tedesco. Torniamo di nuovo all’annus horribilis 2011. Proprio mentre Lagarde premeva per il nostro commissariamento, la von der Leyen si spingeva oltre, proponendo di legare eventuali aiuti ai membri in crisi dell’Eurozona in crisi con la richiesta di depositare beni in garanzia. Nello specifico, il nostro oro o le nostre aziende strategiche. L’unione di intenti fra le due nuove “teste” dell’Ue condurrà al disastro? Nonostante i “precedenti”, infatti, già da qualche anno l’Fmi ha iniziato, sia pur timidamente, a ripensare i propri modelli.Se prima l’austerità e le riforme strutturali erano l’unica via da percorrere, oggi la musica sembra in minima parte cambiata. E’ quindi estremamente probabile che, seguendo la nuova trama, che Christine Lagarde possa riprendere in mano il “bazooka” lanciato da Draghi con il nome di Quantitative Easing. Modificandolo, dandogli forse una diversa taratura. Ma certo non riponendolo in soffitta. Altro ossigeno, insomma, per un’Eurozona che è e rimane disastrata e preda delle contraddizioni intrinseche di una moneta unica architettata male e realizzata peggio. Un effetto placebo che, come già dimostrato fino ad oggi (nonostante l’invasione di liquidità l’inflazione, zavorrata da una crescita che resta asfittica, di salire non ne vuol proprio sapere) rischia solo di procrastinare la nostra agonia. Evitando forse manovre lacrime e sangue. Ma non per questo affrontando qui problemi talmente connaturati all’euro dal non poter essere in alcun modo risolti. A meno di non voler dare una nuova forma all’unione monetaria, magari iniziando a discutere di trasferimenti monetari dalle zone più ricche a quelle più in difficoltà. Scelta di politica economica standard in condizioni “normali”, ma che la Germania non accetterà mai. E anche qualora si dimostrasse aperta all’ipotesi, chiederebbe in cambio di scrivere – insieme a Bruxelles e alla Bce stessa – direttamente le nostre finanziarie. Sarebbe desiderabile?(Filippo Burla, “La macellaia della Grecia a capo della Bce: ecco chi è Christine Lagarde”, da “Il Primato Nazionale” del 3 luglio 2019. Laureato in scienze politiche ed economia aziendale, Burla è un analista economico del giornale, indipendente, ascrivibile all’area culturale della nuova destra sovranista italiana. Quanto alla Lagarde, nel saggio “Massoni” edito da Chiarelettere, Gioele Magaldi svela che la presidente uscente del Fmi milita stabilmente in svariate Ur-Lodges, come le superlogge “Three Eyes” e “Pan-Europa”, espressione dell’ala reazionaria e oligarchica del supremo potere massonico mondiale).«Usami per il tempo che ti serve». E ancora: «Se mi usi, ho bisogno di te come guida e come sostegno». La lettera era senza data, ma riconducibile agli anni fra il 2007 e il 2011 quando Christine Lagarde, dal 2 luglio governatore in pectore della Bce, siedeva sulla poltrona di ministro dell’economia della Francia. Così si rivolgeva all’allora presidente Nicolas Sarkozy, dando di sé un’immagine che sottomessa è dir poco. Non sorprenderà, allora, che nel valzer delle nomine che contano in Ue, a spuntarla sia stata proprio Parigi. Classe 1956, è – al pari di Ursula von der Leyen, destinata alla presidenza della Commissione Ue – la prima donna che guiderà la Bce. Si tratta anche della prima personalità senza studi di economia: figlia dell’altissima borghesia parigina, la Lagarde è infatti laureata in giurisprudenza. Esponente dell’Ump, ha iniziato la sua carriera “istituzionale” nel 2005. Senza soluzione di continuità, è stata prima ministro delegato al commercio estero, poi dell’agricoltura e della pesca, successivamente titolare delle finanze e dell’industria. Christine Lagarde diviene nota alle cronache per prendere possesso, nel 2011, dello scranno più alto al Fondo Monetario Internazionale. Succede al suo connazionale Dominique Strauss-Kahn, esautorato a causa di uno scandalo di natura sessuale poi rivelatosi una montatura.
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Ladri di tasse: dumping, Olanda e complici rapinano l’Italia
Meravigliosa Unione Europea: da un lato costringe paesi come l’Italia a sudare sangue per spuntare misere percentuali di deficit – con Conte che ora esulta, per aver evitato la procedura d’infrazione introducendo 7 miliardi di tagli – e dall’altro permette che alcuni paesi continuino a fare allegramente il loro piratesco dumping fiscale, “rubando” contribuenti ricchissimi che provengono dai paesi vicini. Guai se il governo gialloverde prova a tagliare le tasse, magari anche varando i minibot. Va benissimo, invece, se – proprio per sfuggire all’iper-tassazione – le imprese scappano in Olanda e in Lussemburgo, in Irlanda e in Gran Bretagna. Caso classico, quello dell’ex Fiat, ora Fca: «Il trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana, nonché il trasferimento della sede legale e fiscale in Olanda della sua società sua controllante ha causato all’Italia un rilevante danno economico», dice Roberto Rustichelli, presidente dell’Antitrust, nella sua relazione annuale presentata in Parlamento, infrangendo quello che fino a ieri era una specie di tabù.Vietato soffermarsi su questo sgradevolissimo aspetto della vita europea: il presidente uscente della Commissione, Jean-Claude Juncker, vero e proprio guardiano dell’austerity (a casa degli altri), ha trasformato il Lussemburgo in un paradiso fiscale. Idem l’Olanda, che poi è la prima a premere perché all’Italia venga imposto il massimo rigore. Ovvio: più le aziende italiane soffrono a causa della pressione fiscale indotta dall’Eurozona, e più trovano conveniente trovare rifugio ad Amsterdam. «La concorrenza fiscale – dice oggi Rustichelli – genera esternalità negative che costano a livello globale 500 miliardi di dollari l’anno, con un danno per l’Italia tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno». Per Rustichelli siamo di fronte a una «malsana competizione, frutto di egoismi nazionali», rappresentata proprio dal dumping fiscale. «Una concorrenza di cui beneficiano le più astute multinazionali», che pone le imprese italiane «in una situazione di grave svantaggio competitivo».Rustichelli, che ricopre la carica da maggio, critica in particolare il comportamento «realizzato da alcuni paesi membri, divenuti oramai veri e propri paradisi fiscali». La “concorrenza sleale” praticata da Olanda, Irlanda, Lussemburgo e Regno Unito, afferma Rustichelli, «è utilizzata dalle imprese multinazionali per porre in essere forme di pianificazione fiscale aggressiva». I gruppi multinazionali, aggiunge Rustichelli, «reagiscono alla concorrenza fiscale localizzando le loro imprese più profittevoli proprio nei paesi europei con una tassazione più favorevole». Se alcuni paesi ci guadagnano, è l’Europa nel suo insieme a perderci. «Ciò non solo drena risorse dalle economie in cui il valore è effettivamente prodotto, ma riduce nel complesso la capacità della collettività di raccogliere risorse, in tal modo impedendo una più equa tassazione dei profitti delle imprese». Un bell’applauso, ancora una volta, all’Unione Europea: Bruxelles non muove un dito per metter fine all’abuso, che si traduce in drastici tagli per l’economia italiana.Meravigliosa Unione Europea: da un lato costringe paesi come l’Italia a sudare sangue per spuntare misere percentuali di deficit – con Conte che ora esulta, per aver evitato la procedura d’infrazione introducendo 7 miliardi di tagli – e dall’altro permette che alcuni paesi continuino a fare allegramente il loro piratesco dumping fiscale, “rubando” contribuenti ricchissimi che provengono dai paesi vicini. Guai se il governo gialloverde prova a tagliare le tasse, magari anche varando i minibot. Va benissimo, invece, se – proprio per sfuggire all’iper-tassazione – le imprese scappano in Olanda e in Lussemburgo, in Irlanda e in Gran Bretagna. Caso classico, quello dell’ex Fiat, ora Fca: «Il trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana, nonché il trasferimento della sede legale e fiscale in Olanda della sua società sua controllante ha causato all’Italia un rilevante danno economico», dice Roberto Rustichelli, presidente dell’Antitrust, nella sua relazione annuale presentata in Parlamento, infrangendo quello che fino a ieri era una specie di tabù.
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Della Luna: l’Eurolager è una banda di ladri, denunciamoli
«Il governo Conte fa bene a piegarsi alle richieste di Bruxelles e ad evitare la procedura di infrazione (che comporterebbe un esproprio delle funzioni politico-economiche in favore degli eurocrati). E’ il male minore, oggi». Lo sostiene l’avvocato Marco Della Luna, acuto saggista euroscettico. «L’euro ha un effetto tecnico inevitabile: deindustrializzare l’Italia trasferendone le risorse e gli assets migliori a paesi più efficienti e dominanti entro la Ue: lo scopo fondativo dell’Ue è esattamente questo, e non solo nei confronti dell’Italia», scrive Della Luna nel suo blog. «Se l’Italia resta nell’euro e nell’Ue è destinata a una fine certa e miseranda, ma non a un tracollo immediato, perché – mentre è in corso il suo svuotamento – viene mantenuta in vita finanziariamente». Psicologia: «La gente non si ribella perché ha paura dei tracolli e dei sacrifici immediati e non pensa al lungo termine. Ed è per questo che la si può portare dove si vuole, quindi le si concede la “democrazia”». Aggiunge Della Luna: «Rompere la gabbia dell’euro e dell’Ue sarebbe pertanto un obiettivo da perseguire anche a costo di sacrifici, ma può farlo soltanto un governo unito, guidato da grandi economisti, sostenuto dal consenso popolare. Un governo capace di resistere alle pressioni, ai ricatti e alle ritorsioni dell’Ue, e al contempo di rimpiazzare l’euro e di ricollegare l’economia nazionale ai fornitori e clienti esteri di cui necessita, essendo la nostra un’economia di trasformazione molto dipendente dagli scambi internazionali».Oggi, al contrario, abbiamo «un governo disunito, balordo e demagogico in economia, privo di veri statisti soprattutto economici, sostenuto dalla maggioranza di un popolo che però non vuole uscire dall’euro». Soprattutto, l’esecutivo gialloverde «è tenuto sotto la spada di Damocle da un Quirinale che è garante della Ue, che vieta di nominare ministri dell’economia eurocritici imponendo invece l’europeista Tria, e che – a detta delle malelingue – avrebbe precedenti di golpe su ordine germanico». Ovviamente, con siffatte premesse, «non si può andare allo scontro con gli interessi europeisti, per quanto siano rovinosi per l’Italia». Quindi, propone Della Luna, «cerchiamo di archiviare il reddito di cittadinanza, la Quota 100, il salario minimo, le chiusure domenicali, lo shock fiscale». Il taglio delle tasse «fa ripartire la domanda e gli investimenti solo in un quadro di stabilità, di sicurezza, di futuro ragionevolmente buono e di umore diffusamente positivo», mentre oggi «il quadro è di instabilità, di debolezza e divisione del governo, di futuro preoccupante, e l’umore generale è negativo». Non funzionerebbe nemmeno una distribuzione di denaro alla popolazione: per tornare a consumare, gli italiani avrebbero bisogno di prospettive rassicuranti, viceversa metterebbero da parte il denaro in più, come scorta di sicurezza per ripararsi dagli scossoni in arrivo.Infatti, sostiene Della Luna, «oggi sta aumentando la propensione al risparmio perché le aspettative sono giustamente fosche». Meglio quindi usare le risorse disponibili per fare investimenti pubblici infrastrutturali, nell’immediato. Ma nel medio-lungo periodo? Il nodo da sciogliere è sempre lo stesso: il rapporto con l’Ue. «L’Italia attuale, a causa anche delle regole finanziarie europee e dell’euro (oltre che dell’incompetenza economica dei suoi governi), ha una cattiva tendenza in quanto a Pil, rapporto deficit/Pil, rapporto debito/Pil, andamento della produttività (competitività)». Dal canto suo, «l’Ue reagisce e continuerà a reagire imponendo misure recessive e proibendo il ricorso a rimedi come i minibot». La combinazione di questi due fattori farà sì che il contrasto con Bruxelles «continuerà ad aggravarsi, a farsi sempre meno gestibile e ricomponibile». Della Luna ipotizza esiti preccupanti. Il peggiore? «Colpo di Stato europeista del Quirinale, sottomissione dell’Italia, sua grecizzazione, sua spoliazione totale (se si riuscirà a inibire la protesta popolare e a reprimere le forze che la esprimeranno) e africanizzazione (colonia franco-tedesca)».Oppure: «Uscita dall’Italia dall’euro e dell’Ue, verso un futuro incerto ma condizionato dall’essere un sistema-paese inefficiente, con una classe politica scadente, e molto dipendente da fornitori e clienti – quindi un futuro tendente al Terzo Mondo». Terza ipotesi: «Una riforma organica della Ue che sostituisca le regole finanziarie errate e infondate con regole aderenti alla realtà, limitando lo strapotere e l’approfittamento franco-tedesco, e consentendo l’introduzione dei minibot o di altre misure per rimonetizzare l’economia reale italiana che oggi ristagna anche per carenza di liquidità e la diffusa insolvenza». Della Luna vede anche in teoria l’uscita dall’euro e dalla Ue da parte della Germania e di altri paesi, se non addirittura lo scioglimento della stessa Ue. Cosa conviene all’Italia? Per evitare l’ipotesi più pericolosa – il commissariamento – occorre «cercare un forte alleato esterno», cioè gli Usa o l’Eurasia russo-cinese, cercando di «riformare l’istituto della Presidenza della Repubblica per limitare i suoi poteri di ingerenza». Se possibile, aggiunge Della Luna, bisognerebbe eleggere al Colle, appena possibile, «un personaggio non di parte euro-bancaria». Mattarella? «Potrebbe essere costretto a dimettersi dallo scandalo della magistratura, dato che per ben cinque anni è stato presidente del Csm, quindi conosceva bene e non denunciava ciò che ora, costretto dalle rivelazioni pubbliche, denuncia con enfatica prosopopea».Lo sbocco numero due sarebbe l’Italexit. «Dato che la struttura e gli effetti tecnici pianificati di euro e Ue sono di sottomettere e spogliare l’Italia, bisogna uscire». Sennonché, rileva Della Luna, per uscire dall’euro e dall’Ue «bisogna avere un governo coeso, con ministri competenti, indipendente dal Quirinale, in grado di sostenere lo scontro contemporaneo con questo, con la Ue e con la Bce». E anche capaci di gestire «la fase di transizione verso un nuovo assetto», risolvendo enormi problemi. Esempio: con che valuta pagare le materie prime? Come convertire la produzione industriale oggi integrata nella Ue? Come difendersi dalle ritorsioni? «Dato che queste condizioni allo stato mancano, non bisogna cercare di uscire ora, né andare ora allo scontro, che probabilmente finirebbe con un nuovo golpe», come quello che nel 2011 portò il “macellaio” Monti a Palazzo Chigi. Quanto al terzo ipotetico sbocco, cioè la riforma democratica dell’euro-sistema, per Della Luna sarebbe di gran lunga l’esito più desiderabile. Ma è anche assai difficile da attuare, «perché l’attuale assetto euro-comunitario è conforme ai piani e agli interessi dei potentati bancari che controllano l’Ue». Per Della Luna «vale la pena in ogni caso di tentare», anche perché il tentativo può portare alla “fuga” della Germania o al suicidio dell’Ue.Per tentare di costringere l’Ue ad adottare finalmente regole democratiche, secondo Della Luna «bisogna guadagnare qualche mese», periodo in cui «sostituire Mattarella e dotarsi di un governo coeso e competente con un idoneo ministro dell’economia», nonché «revocare i provvedimenti costosi e improduttivi in termini di Pil, emettendo invece provvedimenti sani e intelligenti (in modo che Bruxelles non possa imputare il malandare dell’economia italiana a misure economiche sbagliate e demagogiche». Bisognerebbe anche «smascherare e criticare a fondo le falsità, le aberrazioni, le iniquità e i conflitti di interesse nell’Ue, nella Bce e nei rapporti tra grande finanza e governi, insistendo fino a ottenere la messa in comune del debito pubblico, l’approvazione degli eurobot e dei minibot, il livellamento dell’extra-surplus commerciale tedesco, l’eguaglianza di tutti i paesi comunitari rispetto alle regole comuni». Quelle falsità, iniquità, aberrazioni e incompatibilità di interessi «sono tanto gravi, strutturali e oscene, che una campagna di informazione e denuncia ben fatta potrebbe avere effetti delegittimanti e devastanti per eurocrati ed eurobanchieri, perciò costituirebbe uno strumento forte per negoziare l’uscita dall’Eurolager».«Il governo Conte fa bene a piegarsi alle richieste di Bruxelles e ad evitare la procedura di infrazione (che comporterebbe un esproprio delle funzioni politico-economiche in favore degli eurocrati). E’ il male minore, oggi». Lo sostiene l’avvocato Marco Della Luna, acuto saggista euroscettico. «L’euro ha un effetto tecnico inevitabile: deindustrializzare l’Italia trasferendone le risorse e gli assets migliori a paesi più efficienti e dominanti entro la Ue: lo scopo fondativo dell’Ue è esattamente questo, e non solo nei confronti dell’Italia», scrive Della Luna nel suo blog. «Se l’Italia resta nell’euro e nell’Ue è destinata a una fine certa e miseranda, ma non a un tracollo immediato, perché – mentre è in corso il suo svuotamento – viene mantenuta in vita finanziariamente». Psicologia: «La gente non si ribella perché ha paura dei tracolli e dei sacrifici immediati e non pensa al lungo termine. Ed è per questo che la si può portare dove si vuole, quindi le si concede la “democrazia”». Aggiunge Della Luna: «Rompere la gabbia dell’euro e dell’Ue sarebbe pertanto un obiettivo da perseguire anche a costo di sacrifici, ma può farlo soltanto un governo unito, guidato da grandi economisti, sostenuto dal consenso popolare. Un governo capace di resistere alle pressioni, ai ricatti e alle ritorsioni dell’Ue, e al contempo di rimpiazzare l’euro e di ricollegare l’economia nazionale ai fornitori e clienti esteri di cui necessita, essendo la nostra un’economia di trasformazione molto dipendente dagli scambi internazionali».
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Macché criptovaluta, Libra sarà soltanto la banca del web
Il progetto “Libra” lanciato dal Ceo di Facebook Mark Zuckerberg mostra paradossalmente il ruolo che gli Stati possono avere in campo monetario, e generalmente in economia. Tutti ora commentano la “moneta” di Facebook; pochi, si sono presi la briga di andare a vedere su cosa si basa. Se lo facessero scoprirebbero, ad esempio, che 1) è una moneta basata su asset reali e sulle obbligazioni, cioè sui vecchi e tradizionali bonds, che sono titoli basati sul debito; e dunque, tutta la baracca di Zuckerberg poggerà le sue basi su un preciso istituto giuridico. Infine 2) che Libra sarà moneta centralizzata e non decentralizzata, come ora Bitcoin, Ether e compagnia cantando. Le società fondatrici di Libra non stamperanno un tubo, neanche in modo virtuale. In pratica, creeranno un fondo che compra titoli di Stato ed altri asset per miliardi. Il consumatore che può fare? Si compra un tot di Libra, poniamo a titolo di esempio 1.000 euro nel corrispettivo in Libra, e così l’app di Facebook dedicata ti accredita la possibilità di pagare fino a 1.000 euro con i pagamenti che vorrai tu, anche solo di 3 euro, per dire. Accadrà allora che uno studente universitario con la app di Libra nello smartphone potrà con un clic pagare in Libra il suo compagno di stanza che ha fatto la spesa, oppure comprarsi qualche boiata nel circuito e-commerce, e così via. Anche ora si può fare, ma adesso dietro ci sono le banche. Dopo ci sarà Facebok e la sua banda.
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Se l’Ue ci vuole morti, meglio trattare con Parigi e Berlino
Oggi Draghi ha annunciato che l’abbassamento dei tassi di interesse (alcuni sono già negativi!) ed il quantitative easing continueranno. Senza di essi, vale a dire con tassi di interesse e acquisti di titoli pubblici in linea con quanto fa la Fed (a discapito di Trump), sarebbe prevedibile un accumulo di liquidità disponibile solo sulle obbligazioni, e quindi in grado di mettere in grande crisi le Borse, fino ad un loro crollo. Ma la missione di Matteo Salvini a Washington – se coronata da pieno successo, vale a dire un riavvicinamento Russia-Usa in chiave anticinese e antieuropea – apre ad uno scenario di rafforzamento della posizione internazionale dell’Italia. Posizione debole, per ragioni che risalgono agli omicidi di Mattei e Moro, alla soppressione di Craxi, alle politiche economiche scelte in Italia dopo il 1981. Di contro, l’Ue non è così intelligente da giocarsela bene con la Cina stessa: ben altro c’è da attendersi da Francia e Germania, in grande difficoltà e sempre con la carta da giocare di uno svincolamento dall’Eurozona per avvicinarsi a superpotenze alternative alla stessa imbelle Ue (vedi Africa, per esempio). D’altra parte, la Russia di oggi è una superpotenza solo militare; non fa paura agli Usa come una superpotenza economica.A casa nostra si delineano scenari chiari purchè non si finisca a dare con una mano e prendere con l’altra: è importantissimo che al promesso e ineludibile calo (della pressione) delle tasse non faccia da controbilanciamento un pari taglio della spesa pubblica (quella fu la causa prima del crollo della classe media negli Usa dei Bush); così – ma questo pare più che altro, almeno si spera, un mero problema di comunicazione – il salario minimo garantito deve significare un livello minimo della paga oraria (non la definizione di un “reddito minimo” che, nelle esperienze passate, ha creato più problemi che altro). Quindi, il taglio delle tasse (necessario, prioritario, sacrosanto e promesso) o si accompagna ad una rottura totale con la Commissione per via del deficit – finchè non si dimostrasse, ma ci vuole almeno un annetto contabile – che alla minore pressione corrisponde un maggiore gettito, o si accompagna alla introduzione di qualche moneta non a debito (ad esempio i minibot, a determinate condizioni).La linea moderata – verso la Commissione – non considera che l’obiettivo della Ue consiste nella sottomissione dell’Italia (resa totale e incondizionata, quindi le “trattative” sono inutili: o si china la testa completamente o tanto vale alzare il tiro e prepararsi allo scontro). Paradossalmente, sarebbe meglio trattare con Francia e Germania direttamente, dopo aver portato la comunità sull’orlo di una crisi monetaria e di nervi. Infatti, il comparto metalmeccanico (delizia e croce della Germania) sta entrando in crisi, e le tensioni sociali – soprattutto in Francia – stanno aumentando.(Nino Galloni, “Se Draghi non stacca la spina, se Salvini…”, da “Scenari Economici” del 19 giugno 2019).Oggi Draghi ha annunciato che l’abbassamento dei tassi di interesse (alcuni sono già negativi!) ed il quantitative easing continueranno. Senza di essi, vale a dire con tassi di interesse e acquisti di titoli pubblici in linea con quanto fa la Fed (a discapito di Trump), sarebbe prevedibile un accumulo di liquidità disponibile solo sulle obbligazioni, e quindi in grado di mettere in grande crisi le Borse, fino ad un loro crollo. Ma la missione di Matteo Salvini a Washington – se coronata da pieno successo, vale a dire un riavvicinamento Russia-Usa in chiave anticinese e antieuropea – apre ad uno scenario di rafforzamento della posizione internazionale dell’Italia. Posizione debole, per ragioni che risalgono agli omicidi di Mattei e Moro, alla soppressione di Craxi, alle politiche economiche scelte in Italia dopo il 1981. Di contro, l’Ue non è così intelligente da giocarsela bene con la Cina stessa: ben altro c’è da attendersi da Francia e Germania, in grande difficoltà e sempre con la carta da giocare di uno svincolamento dall’Eurozona per avvicinarsi a superpotenze alternative alla stessa imbelle Ue (vedi Africa, per esempio). D’altra parte, la Russia di oggi è una superpotenza solo militare; non fa paura agli Usa come una superpotenza economica.
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Fassina: sinistra neoliberista, teme i minibot e tifa spread
«Minibot? C’è stata una strumentalizzazione inaccettabile sul fatto che siano la premessa per uscire dall’euro. E’ un racconto sbagliato che fa il gioco della Lega e di chi vuole lo sfascio. E poi ci sono larga parte della classe dirigente e parte dell’opposizione che sono tornate a fare il tifo per lo spread, perché quello che non sono riusciti a fare a livello elettorale, cioè far cadere il governo, vogliono farlo attraverso i mercati». Sono le parole pronunciate ai microfoni de “L’Italia s’è desta”, su “Radio Cusano Campus”, da Stefano Fassina, deputato di “Liberi e Uguali” e consigliere comunale di Roma. L’ex viceministro dell’economia del governo Letta attacca anche la sinistra: «Chi dice certe cose o è in malafede o è inconsapevole. Si alimenta un clima molto negativo, così. C’è timore, strumentalità e subalternità culturale da parte della sinistra, perché, ahimè e non solo in Italia, larga parte della sinistra rimane prigioniera di un pensiero unico neoliberista che la porta a contrastare qualunque ipotesi, anche sensata, di apertura di qualche breccia rispetto a un quadro asfissiante». E spiega: «Il minibot è un titolo di Stato definito “mini” perché, a differenza del valore ordinario dei buoni ordinari del Tesoro, è di taglio più piccolo».«Attenzione alle strumentalizzazioni, però. L’obiettivo della mozione in Parlamento riguardava il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese, che notoriamente hanno dei ritardi cronici, molto spesso causa della morte delle stesse piccole imprese. Non è una moneta parallela, è un titolo di Stato – continua Fassina – che su base volontaria può essere utilizzato come metodo di pagamento di un debito commerciale che è già stato fatto. Visco ha dichiarato la sua contrarietà ai miniboti definendoli sempre “debito”? Certo che sono debito, ma è un debito che è stato già fatto, non è un ulteriore debito. Il debito commerciale esiste già e prima o poi la pubblica amministrazione lo deve pagare, solo che viene scaricato sulle imprese. Coi minibot invece il debito, che è dello Stato, viene riconosciuto allo Stato. E, ripeto, resta un’opzione su base volontaria».Fassina puntualizza: «Si tratta di una mozione che dà delle indicazioni al governo, non di una norma di legge che è stata approvata. Se, rispetto a una proposta molto circoscritta, che non ha assolutamente l’obiettivo di portare l’Italia fuori dall’euro, i principali quotidiani italiani gridano al fatto che si sta uscendo dall’euro, è evidente che tutto questo non aiuta il paese. La classe dirigente “consapevole”, oltre a criticare le risse, le incapacità e le favole del governo gialloverde, dovrebbe fare un discorso di verità che ponga a Bruxelles e a Berlino nodi strutturali – conclude – cioè questioni di fondo, che andrebbero affrontati da chiunque governi. E invece prevale un conformismo, anche culturale, e una strumentalità politica che, alla fine, fanno male anche a coloro che le utilizzano, perché, dopo questo governo, chi sarà all’esecutivo si troverà di fronte agli stessi vincoli e agli stessi nodi che continueranno a soffocare il paese».(Gisella Ruccia, “Minibot, Fassina: passo per uscita euro? Strumentalizzazione inaccettabile, sinistra subalterna a neoliberismo”, dal “Fatto Quotidiano” del 3 giugno 2019).«Minibot? C’è stata una strumentalizzazione inaccettabile sul fatto che siano la premessa per uscire dall’euro. E’ un racconto sbagliato che fa il gioco della Lega e di chi vuole lo sfascio. E poi ci sono larga parte della classe dirigente e parte dell’opposizione che sono tornate a fare il tifo per lo spread, perché quello che non sono riusciti a fare a livello elettorale, cioè far cadere il governo, vogliono farlo attraverso i mercati». Sono le parole pronunciate ai microfoni de “L’Italia s’è desta”, su “Radio Cusano Campus”, da Stefano Fassina, deputato di “Liberi e Uguali” e consigliere comunale di Roma. L’ex viceministro dell’economia del governo Letta attacca anche la sinistra: «Chi dice certe cose o è in malafede o è inconsapevole. Si alimenta un clima molto negativo, così. C’è timore, strumentalità e subalternità culturale da parte della sinistra, perché, ahimè e non solo in Italia, larga parte della sinistra rimane prigioniera di un pensiero unico neoliberista che la porta a contrastare qualunque ipotesi, anche sensata, di apertura di qualche breccia rispetto a un quadro asfissiante». E spiega: «Il minibot è un titolo di Stato definito “mini” perché, a differenza del valore ordinario dei buoni ordinari del Tesoro, è di taglio più piccolo».
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Magaldi: l’Italia perde perché la paura paralizza i gialloverdi
Il nemico spara sulla folla, ma i difensori si limitano a lanciare innocui petardi dalla torre su cui si sono rifugiati. E fissano l’orizzonte, nella speranza che arrivi qualcuno a salvarli dall’assedio. Ma sbagliano tutto, se sperano che quel qualcuno si chiami Donald Trump: «Il presidente americano non è generoso con l’Italia come lo fu Roosevelt: è stato eletto solo per smascherare l’equivoco della finta sinistra, rompendo gli schemi del pensiero unico. Ma resta un isolazionista, campione di un’America non così propensa a proiettarsi verso di noi, prigionieri dell’austeriy europea». Gioele Magaldi biasima Salvini e Di Maio, che ora sembrano invocare l’aiuto americano contro i censori di Bruxelles: possibile che l’Italia non abbia il coraggio di ribellarsi da sola, e aspetti sempre che siano altri a cavarle le castagne dal fuoco? Psicologia: «Il vero guaio dei gialloverdi è che hanno paura, e su quella paura campano, alla grande, i loro avversari. Se solo i nostri smettessero di farsela sotto, scoprirebbero che il nemico è assai meno forte di quello che pensano. Ma servirebbe innanzitutto un atto di coraggio. Per esempio: mandare a casa ministri inadeguati, come Tria a Moavero, e spedire a Bruxelles – come commissario Ue – qualcuno che incarni davvero la rottura, non l’ennesimo compromesso».C’era una volta il governo del cambiamento. Poi, del cambiamento è rimasta solo la speranza tenuta accesa dalla Lega, «l’unica ad aver resuscitato l’eresia post-keynesiana candidando economisti come Bagnai e Rinaldi, pronti a smontare il dogma neoliberista del rigore di bilancio che provoca ad arte la crisi eterna». Ma, dopo il fallito assalto a Bruxelles – senza neppure il fegato di sfondare il tetto del 3% nel rapporto deficit-Pil, imposto da Maastricht per imbrigliare l’economia e minare il benessere diffuso – ora i gialloverdi galleggiano in un mare grigio, quello delle promesse mancate. Una su tutte: il magro sussidio che i 5 Stelle hanno chiamato reddito di cittadinanza, e che invece è solo «una tessera annonaria della povertà, che gli stessi beneficiari – pochissimi – si vergognano a esibire». Risultato: voti dimezzati. Elementare: in tanti hanno smesso di votarli, i grillini, se appaiono la copia scolorita della Lega o addirittura un possibile alleato del Pd-fantasma, come avevano lasciato credere alla vigilia delle europee. Chi sono, i 5 Stelle? Cosa sono diventati? Chi è davvero il Re Travicello piovuto a Palazzo Chigi quasi solo per “troncare e sopire”, andreottinanamente, le istanze salviniane?Ma a parte Giuseppe Conte, «Grillo Parlante non richiesto», nella lista dei deludenti c’è anche Marco Bussetti, ministro dell’istruzione. Per non parlare di Giulia Grillo, che al dicastero della sanità non ha fatto nulla per chiarire il caos-vaccini scatenato da Beatrice Lorenzin, su pressione di Big Pharma, sotto il governo Gentiloni. In web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, il presidente del Movimento Roosevelt ne ha per tutti: e il primo della lista è Giovanni Tria, già “diffidato” (massonicamente, in termini di richiamo alla lealtà) la scorsa settimana. «Il “fratello” Tria aveva promesso di attenersi a una linea progressista, opposta a quella dei circuiti massonici neoaristocratici che dominano l’Ue». Di fatto, al netto di qualche sterzata in extremis, il ministro dell’economia si limita – insieme a Conte – a giocare in difesa. Obiettivo: tentare di portare a casa, evitando la procedura d’infrazione, il ridicolo 2% di deficit contrattato a Bruxelles. Per l’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, sarebbe stato necessario almeno un 4% per vederne gli effetti già in primavera, sotto forma di crescita, in virtù del “moltiplicatore della spesa pubblica”, in base al quale un investimento mirato, messo a bilancio come deficit, può fruttare anche il 300% in termini di Pil. Ma nulla di tutto ciò è accaduto, essendo mancato il coraggio di rivendicare l’autonomia finanziaria italiana.«Badate, non è solo una questione di deficit», sostiene Magaldi: «Basterebbe stralciare dal computo del deficit gli investimenti produttivi: infrastruttre strategiche e sostegno al sistema economico nazionale, famiglie e aziende, insieme a un robusto alleggerimento fiscale». Facile a dirsi, ma il Deep State è in agguato. Lo ha ricordato il pentastellato Pino Cabras al convegno “rooseveltiano” di Londra, sul New Deal di cui avrebbe bisogno l’Europa: «Non siamo soli, al governo», ha ricordato Cabras: «Insieme ai 5 Stelle e alla Lega c’è anche lo “Stato profondo”, che ha in mano l’alta burocrazia e rema contro il cambiamento». Per capirci: appena ti muovi, sale lo spread. «Ecco, appunto: se si cambiassero le regole della Bce – dice Magaldi – si potrebbero emettere finalmente gli eurobond, cioè titoli di Stato europei garantiti dalla banca centrale di Francoforte, e così lo spread sparirebbe automaticamente». Di nuovo: facile, in teoria. In pratica, invece, proprio il supermassone reazionario Mario Draghi – l’uomo che non vuole saperne, di eurobond – si è già premurato di bocciare persino i minibot, con cui il governo vorrebbe saldare i debiti pregressi della pubblica amministrazione, per evitare che le aziende creditrici falliscano. Non a caso: i soliti poteri forti stanno manovrando per portare proprio Draghi a Palazzo Chigi, per commissariare l’Italia dopo l’effimera sbornia di speranze gialloverdi.E che fanno, Salvini e Di Maio, mentre il paese sta scivolando verso una crisi catastrofica? «Vanno negli Usa, nella vana speranza che Trump possa aiutare l’Italia, stritolata dai veri sovranismi nazionalistici – quelli di Germania e Francia, protagonisti della Disunione Europea». Diciamola tutta, insiste Magaldi: «L’Europa non esiste proprio: è tutta da costruire, dalle fondamenta». Viceversa, vogliamo fare da soli? «Benissimo, ma il compito che avremmo di fronte sarebbe lo stesso, anche fuori dall’Ue e dall’Eurozona: l’Italia ha infrastrutture fatiscenti, trasporti insufficienti, aziende in crisi, salari bassi, lavoro scarso». Finora, l’Ue ha raccontato la fiaba del “pilota automatico” che governerebbe l’economia. «Una truffa, con cui il noeliberismo si è affermato come religione. E i risultati sono sotto i nostri occhi: gli italiani sono più poveri e precari». Unico possibile Piano-B: un New Deal rooseveltiano. «Massicci investimenti pubblici, oculati e strategici». Non si scappa: «Lo Stato deve poter spendere. L’Ue non vuole? Pazienza: dovrà rassegnarsi». Il problema è politico, ma si continua a girarcisi attorno facendo finta di niente: «I politici italiani devono capire di dover affrontare finalmente uno scontro, con Bruxelles. Senza questo, i governi – compreso quello gialloverde – naufragheranno, di fronte all’inevitabile fallimento: senza soldi, non è possibile varare nessuna politica salva-Italia».Siamo a un punto di svolta decisamente storico, secondo Magaldi: se non altro, Lega e 5 Stelle hanno sdoganato la dottrina sociale keynesiana, rompendo il tabù del marmoreo pensiero unico ancora presidiato dal Deep State italico, Bankitalia e Quirinale in primis. Guai a disobbedire ai mercati, disse Mattarella bocciando Paolo Savona come ministro dell’economia. Un anno fa, l’allora battagliero Di Maio insorse, gridando l’esatto contrario: peggio per noi, se continuiamo a farci dettare la politica economica dall’oligarchia finanziaria che impone le sue regole ai governi, vanificando le elezioni e mortificando la democrazia. Dov’è finito, oggi, il coraggio dei gialloverdi? Sbiadiscono, i grillini, declinando verso la palude dove agonizza il Pd di Zingaretti, ancora impantanato a recitare la mortale ortodossia neoliberista: «Come pure Forza Italia, lo stesso Pd ripete che quest’Europa andrebbe cambiata, ma si guarda bene dal dire come, cioè in senso progressista: spesa pubblica strategica, senza più vincoli di bilancio».L’ultimo guardiano del cambiamento, almeno a parole, è Salvini. Seguiranno i fatti? Per ora, i segnali non sono rassicuranti. Armando Siri, architetto della Flat Tax, è stato silurato dal giustizialismo elettoralistico dei 5 Stelle, senza che il capo della Lega sia insorto per lasciarlo al suo posto, nel governo. «E peggio: ora si fa il nome di Enzo Movero Milanesi come possibile commissario europeo, quando invece il massone neoconservatore Moavero – già “montiano”, anche se poi convertitosi teoricamente all’impostazione progressista – sarebbe da licenziare: graditissimo ai potenti neoaristocratici che comandano in Ue, come ministro degli esteri non ha fatto assolutamente niente. E vogliamo mandare lui, a Bruxelles, come rappresentante del governo del cambiamento?». Per Magaldi, la chiave sta nella dicotomia che oppone paura e coraggio. «Con che faccia c’è ancora chi propone l’uscita dall’euro e dall’Ue, quando il governo non ha osato neppure infrangere il totem del 3% del deficit?». Se solo trovasse la forza di agire, chiosa Magaldi, l’esecutivo avrebbe grandi sorprese: «Mettendo da parte la paura, scoprirebbe che il nemico non è affatto invincibile. E i nostri avversari lo sanno benissimo: per questo continuano a spaventarci». Gli unici a non capire come stanno le cose sembrano proprio i nostri ipotetici difensori: se non faranno sul serio, finiranno presto nel museo delle cere in compagnia di Renzi e di tutti gli altri rottamatori all’italiana, bravi solo a chiacchiere.Il nemico spara sulla folla, ma i difensori si limitano a lanciare innocui petardi dalla torre su cui si sono rifugiati. E fissano l’orizzonte, nella speranza che arrivi qualcuno a salvarli dall’assedio. Ma sbagliano tutto, se si illudono che quel qualcuno si chiami Donald Trump: «Il presidente americano non è generoso con l’Italia come lo fu Roosevelt: è stato eletto solo per smascherare l’equivoco della finta sinistra, rompendo gli schemi del pensiero unico. Ma resta un isolazionista, campione di un’America non così propensa a proiettarsi verso di noi, prigionieri dell’austeriy europea». Gioele Magaldi biasima Salvini e Di Maio, che ora sembrano invocare l’aiuto americano contro i censori di Bruxelles: possibile che l’Italia non abbia il coraggio di ribellarsi da sola, e aspetti sempre che siano altri a cavarle le castagne dal fuoco? Psicologia: «Il vero guaio dei gialloverdi è che hanno paura, e su quella paura campano, alla grande, i loro avversari. Se solo i nostri smettessero di farsela sotto, scoprirebbero che il nemico è assai meno forte di quello che pensano. Ma servirebbe innanzitutto un atto di coraggio. Per esempio: mandare a casa i ministri inadeguati, come Tria a Moavero, e spedire a Bruxelles – come commissario Ue – qualcuno che incarni davvero la rottura, non l’ennesimo compromesso».
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Sta meglio chi è fuori dall’Ue: Norvegia, Svizzera e Islanda
Cos’hanno in comune Svizzera, Norvegia e Islanda oltre ad essere gli unici paesi del Vecchio Continente ad essere fuori dall’Unione? In tutti e tre questi paesi le politiche economiche sono rivolte ai cittadini. Il rapporto tra gli istituti finanziari e di credito e le banche centrali è condizionato dal potere politico espresso dai rispettivi ministeri dell’economia. Mentre i 28 paesi membri della Ue – Inghilterra compresa – ricevono diktat di tipo tecnico da chi opera professionalmente nel settore bancario, in Svizzera, Norvegia e Islanda gli istituti finanziari operano sul territorio, a stretto contatto con i residenti. E’ dunque la totale assenza di democraticità a penalizzare l’area dei 28 paesi Ue, di fatto governati dai loro dirigenti di area lobbystico-finanziaria. Juncker, presidente della Commissione Europea, è un banchiere lussemburghese, e non è affatto un caso. La Bce, guidata dal banchiere Mario Draghi, persegue obiettivi tecnici (il contenimento dell’inflazione) che sono considerati prioritari. Altre voci, dirimenti per la popolazione, come l’indice di disoccupazione o l’incremento del Pil, sono secondari rispetto agli intendimenti statutari della banca centrale di Francoforte.Ma se è l’assenza di democrazia ad aver convinto svizzeri, norvegesi e islandesi a starsene lontani da Bruxelles, quali sono i risultati dei tecnici Ue messi a confronto con gli “extracomunitari” del Vecchio Continente? Eh già, perchè alla fine dei conti, la ricchezza dei cittadini e il loro benessere dovrebbero essere maggiori laddove ci sono dei tecnici a tenere in piedi la baracca. Invece, accade esattamente l’opposto. Svizzera, Norvegia e Islanda non sono solo paesi indipendenti da Bruxelles, e dunque più liberi, ma sono anche i più ricchi. Lo dimostrano tutti i dati di tutte le agenzie che si occupano di questo tipo di statistiche. Il Pil pro capite degli islandesi è di 40.070 euro annui contro, ad esempio, i 36.313 degli italiani. Seppur inferiore al dato tedesco, la Norvegia e la Svizzera si distinguono da tutti gli altri, vantando un Pil pro capite rispettivamente di 69.296 e di 59.376 euro. Il Pil, però, non è il reddito, neppure quando è calcolato pro capite. Ma è proprio sugli altri punti macroeconomici e di qualità della vita che il trio extra-Ue primeggia senza rivali.Il paese in cui si vive meglio al mondo per qualità della vita (al mondo, dunque… non solo in Europa), è la Norvegia, secondo uno studio che è stato realizzato dal centro studi del Boston Consulting Group che ha paragonato tutti i 196 Stati nel mondo. Secondo questo studio, la Norvegia ha un punteggio di 100, ad esempio, mentre l’europeissima Germania non arriva a 94. Gli indicatori presi in considerazione sono ben 44 divisi in 10 macro-aree: ricchezza (redditi), stabilità economica (inflazione e Pil), occupazione (tasso di occupazione e disoccupazione), salute (accesso alla sanità ed efficienza di essa), educazione (accesso all’istruzione), infrastrutture (trasporti, Ict), eguaglianza nella distribuzione dei redditi, società civile (attivismo, uguaglianza di genere, coesione interclasse, sicurezza e affidabilità interpresonale), governance (accountability, libertà di stampa, stabilità, libertà), qualità dell’ambiente. La ricchezza è misurata attraverso l’indicatore del reddito pro capite, mentre la distribuzione del reddito attraverso il coefficiente di Gini.(Giacomo Salvini, “Europa, la mappa dei paesi in cui si vive meglio”, da “Termometro Politico” del 30 luglio 2016. Nonostante i dati non siano aggiornati al 2019, il loro valore resta evidentissimo).Cos’hanno in comune Svizzera, Norvegia e Islanda oltre ad essere gli unici paesi del Vecchio Continente ad essere fuori dall’Unione? In tutti e tre questi paesi le politiche economiche sono rivolte ai cittadini. Il rapporto tra gli istituti finanziari e di credito e le banche centrali è condizionato dal potere politico espresso dai rispettivi ministeri dell’economia. Mentre i 28 paesi membri della Ue – Inghilterra compresa – ricevono diktat di tipo tecnico da chi opera professionalmente nel settore bancario, in Svizzera, Norvegia e Islanda gli istituti finanziari operano sul territorio, a stretto contatto con i residenti. E’ dunque la totale assenza di democraticità a penalizzare l’area dei 28 paesi Ue, di fatto governati dai loro dirigenti di area lobbystico-finanziaria. Juncker, presidente della Commissione Europea, è un banchiere lussemburghese, e non è affatto un caso. La Bce, guidata dal banchiere Mario Draghi, persegue obiettivi tecnici (il contenimento dell’inflazione) che sono considerati prioritari. Altre voci, dirimenti per la popolazione, come l’indice di disoccupazione o l’incremento del Pil, sono secondari rispetto agli intendimenti statutari della banca centrale di Francoforte.
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Cucù, i minibot-vudù: così la Germania disinforma i tedeschi
Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?Qui però si ferma il giornalismo, quello di Eckert e di tanti colleghi, anche italiani. Con un’aggravante: neppure stavolta “Die Welt” spiega ai connazionali che la Germania se la gode, in Eurozona, solo grazie a privilegi esclusivi: non rispetta le condizioni-capestro che invece impone agli altri. E’ lo stesso Galloni a riassumere il senso della “vacanza europea” della Germania. Primo: le piccole banche tedesche – solo loro – si permettono il lusso di non rispettare i vincoli del Trattato di Basilea. E quindi continuano di fatto a emettere credito (quindi moneta-debito) verso l’economia reale. Secondo: il governo di Berlino non include nel bilancio la colossale spesa previdenziale: il costo delle pensioni non pesa sul debito nominale dello Stato. Terzo: nel calcolo del debito pubblico non entra neppure l’ingentissima spesa pubblica dei Lander, le Regioni. Se aggiungessimo queste voci – ha ricordato sul “Giornale” un imprenditore italiano come Fabio Zoffi, da anni attivo a Monaco di Baviera – il debito pubblico reale della Germania risulterebbe il 280% del Pil, cioè più del doppio del tanto vituperato debito italiano, per il quale il Belpaese viene sistematicamente messo in croce dai signori di Bruxelles.Se Daniel Eckert chiarisse tutto questo, probabilmente i lettori di “Die Welt” capirebbero perché l’Italia – in affanno, per disperata carenza di liquidità – tenta di giocare anche la carta dei minibot. «Sbaglia, chi pensa che siano l’anticamera dell’uscita dall’euro», sostiene su “ByoBlu” un parlamentare come Pino Cabras, in quota ai 5 Stelle: le forme di moneta parallela servono proprio a rimanere aggrappati alla moneta unica. Acrobazie italiane? Certo, perché l’Italia non gode dei privilegi della Germania e neppure di quelli della Francia, ricorda ancora Galloni, citando il franco Cfa che Parigi impone a 14 ex colonie africane. «Quella è valuta a pieno titolo, perché circola in più paesi, mentre i minibot non avrebbero valore fuori dall’Italia». Mario Draghi teme che possano aggravare il debito pubblico? Galloni lo smentisce anche su questo: «Tecnicamente, sarebbero solo “titoli di pagamento”, a valere su debiti già maturati e contabilizzati dalla pubblica amministrazione». Se poi lo Stato li accettasse come pagamento delle tasse, potrebbero anche essere scambiati come moneta: «Ma sarebbero moneta parallela solo nazionale, senza corso legale fuori dall’Italia, e in più accettabile – come mezzo di pagamento – solo su base fiduciaria, cioè con la possibilità di non accettarla».In altre parole, riassume Galloni: «I minibot sono perfettamente legali, in quanto non violano nessuna delle condizioni richiamate da Draghi: sarebbero illegali se corrispondessero all’emissione di euro o se costituissero uno stock aggiuntivo di debito pubblico, e invece non sono né una cosa né l’altra». La rabbia di Draghi, aggiunge Galloni, deriva semmai dalla piena consapevolezza di non poter intervenire sul vero problema, cioè la distribuzione della liquidità. Infatti, la Bce si occupa solo dell’erogazione complessiva della massa monetaria: «Gli euro emessi da Francoforte finiscono largamente alla finanza anziché all’economia reale, settore di cui ormai fanno parte anche gli Stati, ridotti a elemosinare credito alle banche». Con due eccezioni, appunto: la Germania (cui è permesso di non rispettare le regole Ue) e la Francia, che a sua volta “respira” grazie al franco Cfa: «Si dirà che il Cfa non viola il Trattato di Lisbona perché quello delle ex colonie francesi è un circuito chiuso. Ma se è legale il franco Cfa – chiosa Galloni – allora sono “legalissimi” i minibot italiani, concepiti per tamponare la disperata “fame” di liquidità a cui la Bce non riesce a rimediare. E questo, Draghi lo sa benissimo».Non lo sanno, di sicuro, i lettori tedeschi “informati” da Eckert, allarmatissimo all’idea che Roma vari minibot di piccolo taglio (100 euro) come pagamento di aziende che attendono di essere saldate dallo Stato, e addirittura impiegabili anche per pagare le tasse (e quindi scambiabili, da un contribuente all’altro, come pagamento alternativo agli euro). «Da quel momento in poi, è solo un piccolo passo verso una valuta parallela», scrive Eckert, che evidentemente ignora la differenza fondamentale tra “valuta” (convertibile in oro, in euro o in divise estere) e “moneta parallela” (non convertibile, né spendibile fuori dal paese). Mai e poi mai, i minibot potrebbero essere “valuta parallela”. Eppure, scrive sempre Eckert, è esattamente «quello che potrebbe mirare a fare» quel mascalzone di Matteo Salvini, «leader della Lega di destra». La prova? «Il portavoce economico della Lega, Claudio Borghi, è un acceso sostenitore dei piccoli mostri fiscali». Fantastico: la Germania bara su tutto, dopo aver raso al suolo la Grecia e sabotato l’Italia, ma a produrre i “mostri” è il terribile Claudio Borghi, universalmente noto per essere di gran lunga il più mite e prudente tra gli economisti al lavoro per tentare di tamponare la voragine-Italia creata da questa Europa a trazione franco-tedesca, sfrontatamente autocelebratasi nell’inaudito Trattato di Aquisgrana (che fa a pezzi l’idea stessa di Unione Europea).«Come per gli altri paesi dell’unione monetaria, vale anche per l’Italia: la moneta a corso legale è solamente l’euro», strilla Daniel Eckert, sfoderando accenti criminologici contro gli incorreggibili italiani. Ma sbaglia, anche qui: in base all’articolo 128 del Trattato di Lisbona, l’euro è l’unica moneta a corso legale a livello di valuta (valida anche per l’estero), mentre lo stesso trattato non esclude affatto la creazione di monete parallele, anch’esse “a corso legale”, sebbene solo entro il territorio nazionale. «Se i minibot si diffondessero in tutta l’economia italiana e venissero passati di società in società e di cittadino in cittadino, lo Stato italiano potrebbe farsi il proprio denaro», aggiunge l’ineffabile Eckert, senza domandarsi – di nuovo – perché mai gli italiani dovrebbero ricorrere a questa mossa, che crea loro un sacco di guai diplomatici. «Nel corso del tempo – aggiunge – i nuovi coupon sarebbero negoziati sul mercato e quotati ad un prezzo (presumibilmente inferiore) rispetto all’euro». Per “Die Welt”, «sarebbe l’inizio della strisciante uscita dell’Italia dall’euro». Si possono scrivere stupidaggini di questo tipo, nel 2019, su un grande giornale europeo? Eccome. E succede in quasi tutti i giornali europei, grandi e piccini.Sempre in chiave criminologica, il “detective” Eckert consulta un super-tecnocrate come Thomas Mayer, capo-economista del “Flossbach von Storch Research Institute”. Con i minibot, sostiene Mayer, si può almeno «minacciare di lasciare gradualmente l’euro, se si è costretti dall’Ue a ridurre il deficit». Un altro “guru” interpellato da Eckert, il banchiere Erik Nielsen (capo-economista di Unicredit a Londra), chiarisce che i minibot «non sono l’inizio di una nuova valuta». Ma Eckert non si dà per vinto: «La confusa politica di comunicazione di Roma – scrive – ha contribuito a confondere l’idea potenzialmente significativa di cartolarizzare il debito pubblico, con la dottrina “voodoo” di una valuta parallela». Dopo il thriller, ecco l’horror: i lettori di “Die Welt” apprendono da Eckert che l’abominevole governo italiano pratica pure la stregoneria del voodoo. Aggiunge il giornalista tedesco, come monito: in Grecia, Yanis Varoufakis aveva seguito una strategia simile durante il suo breve mandato come ministro delle finanze. «Alla fine, tuttavia, non è riuscito a prevalere contro la Troika». E certo: Ue, Bce e Fmi hanno disintegrato Atene, riducendo la Grecia a paese del terzo mondo, coi bambini uccisi dall’assenza di medicine negli ospedali. Gran bel risultato.«La Commissione e altri paesi preferirebbero non minacciare una uscita dell’Italia», dice Thomas Mayer, secondo cui «Salvini ha carte migliori oggi, rispetto a Varoufakis nel 2015», riferendosi all’importanza dell’economia italiana rispetto a quella ellenica. L’Italia, riconosce infine lo stesso Eckert, è la terza economia più grande nell’Eurozona dopo Germania e Francia, ma «a differenza di altre economie», il Belpaese, pure membro fondatore della Comunità Europea del 1957, «non ha apparentemente beneficiato dell’appartenenza all’unione monetaria». Evviva. «Soprattutto dopo la crisi finanziaria – aggiunge Eckert – la debolezza degli europei del Sud è divenuta sempre più evidente: l’indice della Borsa di Milano oggi è allo stesso livello di dieci anni fa, e il Dax è più che raddoppiato nello stesso periodo. Mentre altre importanti economie europee possono indebitarsi a tassi d’interesse pari a zero o appena marginali – continua Eckert, sempre senza mai chiedersi il perché – i partecipanti al mercato dei capitali italiani richiedono il 2,6% per i titoli di Stato decennali». E la Grecia ridotta alla fame, che il giornalista definisce «agitata», ora «paga solo leggermente di più, il 2,8%».“Die Welt” ricorda che il debito italiano «è uno dei più alti del mondo», pari a oltre il 130% del Pil. «Secondo le normative dell’Ue, è consentito un massimo del 60%». Bravo Eckert: evita di ricordare che il debito nominale della Germania è attorno all’80% (quindi oltre la soglia Ue). Ma soprattutto: non sa, o finge di non sapere, che il debito pubblico tedesco – quello vero – è oltre il triplo della cifra dichiarata. Su queste basi omertose e omissive, reticenti e quindi disastrosamente fuorvianti, il “professor” Eckert – senza curarsi di informare davvero i lettori tedeschi – si permette di aggiungere che, visto il boom elettorale delle europee, in cui «i populisti di destra hanno raddoppiato la loro percentuale di voti», arrivando a superare il 34%, ora «l’uomo politico della Lega potrebbe impostare le eventuali elezioni anticipate come un voto sull’indipendenza del paese da Bruxelles». Anche qui: per quale motivo, tutto questo dovrebbe accadere? Ma niente da fare: alle domande, Eckert preferisce le risposte: «Da sola, la minaccia di una valuta parallela potrebbe destabilizzare l’Eurozona». Ah, questi italiani: pazzi criminali. «Con un debito totale di 2,3 trilioni di euro, Roma ha un enorme potenziale di minaccia». Brrr, che paura…Ai suoi lettori tedeschi, il giornalista Daniel Eckert non racconta la verità. Il suo articolo appena pubblicato su “Die Wielt” non è che l’ultimo esempio di come l’opinione pubblica europea venga regolarmente disinformata, da cronisti che sono a loro volta disinformati oppure in malafede. «Il governo italiano gioca con il fuoco», avverte Eckert: «I politici della Lega di Matteo Salvini continuano a mettere sul tavolo l’idea di una moneta parallela». E spiega: «I minibot, ora resi possibili dal Parlamento, sono un primo passo in questa direzione». Aggiunge: «Portano un nome che suona in qualche modo carino: i minibot. Ma una volta diffusi, i loro effetti potrebbero non essere carini. Perché i minibot sono uno strumento finanziario con il quale il governo populista d’Italia potrebbe scardinare l’Eurozona». Secondo l’economista keynesiano Nino Galloni, è esattamente il contrario: qualsiasi forma di moneta parallela, compresi gli eventuali minibot, serve all’Italia proprio per tentare di restarci, nell’euro. Quella che Eckert evita di porsi è la domanda fondamentale: perché. Ovvero: perché l’Italia propone i minibot? La risposta, implicita, arriva alla fine dell’articolo (tradotto da “Voci dall’Estero”). E cioè: l’Italia non ha guadagnato nulla dall’Eurozona, anzi. Ma di nuovo: perché?
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Galloni a Draghi: i minibot non sono né valuta né debito
Dobbiamo allinearci alle posizioni della Germania per quanto riguarda il funzionamento del sistema bancario. Cioè: le piccole banche devono poter prestare denaro (e quindi creare credito, moneta, liquidità) senza bloccarsi davanti al rating dei parametri di Basilea, che impediscono alle banche stesse di fare quest’operazione. In Germania le piccole banche sono sollevate da quest’obbligo, e quindi la Germania ha anche questa via d’uscita. Non solo: la Germania mantiene la gestione previdenziale fuori dal bilancio dello Stato, così come la spesa pubblica dei Lander. Queste tre circostanze – piccole banche, pensioni e spese delle Regioni – fanno sì che la Germania possa respirare. Anche la Francia respira, ma a scapito degli africani, perché stampa (emette, immette) il franco Cfa: una moneta che è anche una valuta, visto che circola fuori dalla Francia e non è quindi un circuito solo nazionale. Uno potrebbe dire: non viola l’articolo 128 del Trattato di Lisbona, perché la Francia costituisce con le sue ex colonie un circuito chiuso, nell’ambito del quale viene accettato questo mezzo di pagamento (che non va in Germania, né in Italia o in Olanda), e quindi è rispettoso. Ma se è rispettoso il franco Cfa, allora a maggior ragione dovrebbero esserlo i minibot: perché se fossero illegali i minibot, allora il franco Cfa sarebbe “illegalissimo”.