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Della Luna: tutti i falsi dogmi che fanno la nostra rovina
E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».Nel suo blog, Della Luna offre un drammatico “inventario” dei dogmi su cui si fonda la falsa verità spacciata dal sistema. Prima favola, quella dei “mercati efficienti”, cioè liberi e trasparenti: moneta, credito, materie prime ed energia non sono oggetto di monopoli e di cartelli. I mercati «prevengono o correggono efficientemente le crisi e realizzano l’ottimale distribuzione delle risorse e dei redditi», in più «abbassano i prezzi e le tariffe» e inoltre «puniscono gli Stati inefficienti e spendaccioni mentre premiano quelli efficienti e virtuosi». Di conseguenza, «la regolazione della politica va ultimamente affidata ad essi, non ai Parlamenti». Così si arriva al secondo dogma, quello della spesa pubblica concepita come zavorra: «La spesa pubblica è la causa dell’indebitamento pubblico, il quale a sua volta è la causa delle tasse, della recessione e dell’inefficienza del sistema». Obiettivo? Facile: «Tagliare la spesa pubblica come tale e affidare i servizi pubblici alla gestione del mercato, cioè alla logica del profitto».Tutto questo, in Europa, sotto il grande ombrello del terzo dogma, quello dell’integrazione europea: che è al tempo stesso «benefica, possibile e inevitabile». Dunque, chi la contrasta «si oppone a una tendenza naturale e storica, va contro la realtà e gli interessi di tutti». L’Europa quindi «legittimamente detta le regole a cui tutti devono adeguarsi». A cominciare dalla moneta unica, cioè il dogma dell’euro, valuta che «produce la convergenza delle economie europee, quindi sostiene l’assimilazione e l’integrazione tra i paesi europei, favorisce la crescita economica e la loro solidarietà». Bugia per bugia, ecco il quinto dogma: la preziosità e scarsità oggettiva della moneta, che «non è un simbolo prodotto a costo zero, ma è un bene, una commodity, con un costo di produzione che giustifica il fatto che coloro che la producono (come moneta primaria o creditizia), in cambio di essa, tolgano grandi quote del reddito a chi produce beni e servizi reali». Lo fanno anche grazie alla pretesa “indipendenza” della banca centrale, sesto dogma: la banca centrale è indipendente dalla politica, dai governi e dai Parlamenti. «Non è vero che renda la politica dipendente dai banchieri, bensì assicura al paese un’adeguata disponibilità di liquidità e di credito, previene le bolle speculative e le crisi bancarie».Il settimo dogma è quello della contrazione salariale: «Se si riducono i salari e i diritti dei lavoratori, se si rende liberi i licenziamenti e impraticabili gli scioperi, allora i costi di produzione calano, l’economia diventa più competitiva, la disoccupazione viene riassorbita, gli investimenti aumentano e diventiamo tutti più ricchi, e non è vero che la domanda interna cali». Il lavoro scarseggia ma l’immigrazione aumenta? Nessun problema, perché l’immigrazione – ottavo dogma – è sempre benefica: «Va accolta anche sostenendo grosse spese», perché ormai «è indispensabile per compensare l’invecchiamento e il diradamento della popolazione attiva, quindi per sostenere il sistema previdenziale e per coprire i molti posti di lavoro che gli italiani rifiutano; non è vero che tolga posti di lavoro agli italiani, che faccia loro concorrenza al ribasso sui salari, che serva come manovalanza alle mafie, che comporti un apprezzabile aumento della criminalità e dei costi sanitari o assistenziali».Carattere comune di questo catechismo propagandistico, continua Della Luna, è la censura: l’occultamento dei conflitti di interesse e di bisogni, e ancor più della lotta di classe in atto. Il primo conflitto oppone la «classe globale finanziaria, improduttiva, parassitaria e speculatrice» alle classi produttive dell’economia reale, «legate ai loro territori e sempre più private di potere», di istituzioni democratiche nonché di quote di reddito, «in favore delle rendite finanziarie», attraverso «una serie di riforme del sistema finanziario, del diritto del lavoro e delle Costituzioni», e anche attraverso «i trattati internazionali come quelli europei e come il Wto, che modificano dall’esterno le Costituzioni». Forte, in Italia, il conflitto di interessi tra Nord e Sud, con risorse trasferite verso «alcune regioni meridionali, onde tenere unito il sistema paese». Terzo conflitto negato, quello dei bisogni oggettivi tra paesi manifatturieri come Italia e Germania, «nel quale la Germania ha interesse a tenere l’Italia entro una moneta comune per togliere all’Italia il vantaggio di una moneta più debole, quindi di una maggiore competitività rispetto alla Germania, così da prendere anche sue quote di mercato».Poi c’è il conflitto di bisogni oggettivi tra paesi creditori, come la Germania, e paesi debitori, come l’Italia: «I tedeschi, essendo detentori di crediti sia personali, previdenziali, da investimento, sia anche pubblici, sono interessati a mantenere forte il ricorso della valuta in cui quei crediti sono denominati, cioè l’euro». Da qui «l’esigenza di tenere stretti i cordoni della borsa, cioè di far scarseggiare la moneta» per tenerne alto il costo. Per contro, «l’Italia e gli italiani, essendo indebitati e avendo i loro investimenti perlopiù in immobili, hanno bisogno di una moneta meno forte». Quinto conflitto oscurato: quello tra paesi in recessione, che hanno bisogno di politiche monetarie espansive, e paesi in crescita, che hanno bisogno di politiche monetarie restrittive. Poi ci sono paesi ad economia manifatturiera-trasformatrice e paesi ad economia basata sui servizi finanziari e il commercio, come il Regno Unito. «Tutti conflitti che rendono dannosa l’unione monetaria, o meglio che fanno sì che la politica monetaria faccia gli interessi del paese più forte dentro di essa (la Germania) a danno dei paesi meno forti».Gli ultimi due conflitti d’interesse sono fortemente paralleli. Un conflitto classico oppone gli imprenditori ai lavoratori: «I primi hanno interesse a togliere ai lavoratori quanto più possibile forza negoziale e capacità di resistenza, di sciopero, oltre che di salario». L’altro grande conflitto, ormai dilagante, vede da una parte i cittadini-utenti e dall’altra i monopolisti (o al massimo oligopolisti) dei servizi pubblici: «Questi ultimi hanno interesse a imporre tariffe sempre più alte in cambio di servizi sempre più scarsi, onde massimizzare i loro profitti; da qui la privatizzazione sistematica di tali servizi». I pochi che, da sinistra, contestano il trend neoliberista in chiave socialista, spesso «dimenticano che il settore pubblico spende in modo inefficiente e molto condizionato dalla criminalità burocratica, partitica, mafiosa», senza trascurare il «cattivo sindacalismo» che ha incoraggiato «una mentalità e una prassi parassitarie e improduttive», squalificando la pur sacrosanta difesa dei diritti del lavoro, quelli che il neoliberismo oggi confisca.Grazie al mainstream politico e mediatico, «il complesso di dogmi e nascondimenti è stato costruito come senso comune socio-economico, cioè come percezione comune e condivisa della realtà». Proprio questo, scrive Della Luna, «consente a una classe globale parassitaria di perfezionare la spoliazione dei diritti e dei redditi delle altre classi, facendola apparire come espressione naturale di leggi impersonali del mercato, e non come una guerra di classe», come se la storia del genere umano non fosse nient’altro che «una competizione assoluta e totale tra individui per la conquista della ricchezza e del potere». Ideologia del “mercatismo”, individualismo di massa: «Ciascuno è solo davanti allo schermo, davanti alle tasse, davanti alle banche, davanti ai problemi di salute, vecchiaia, disoccupazione». Ognuno è solo «soprattutto davanti a un sempre più impersonale e grande datore di lavoro», e si scopre «senza diritti comuni, senza solidarietà e garanzie».Si vive in un mondo «dove tutto è merce e prestazione, dove la vita è riconosciuta solo come scambio di valori commerciali, dove tutto è quantificato in debiti e crediti, dove è proibito agli Stati persino introdurre tutele alla salute pubblica, se queste possono limitare il profitto delle corporations (norme del Wto e del Ttip)». Lavoro autonomo, piccole imprese, professionisti indipendenti? Tutti «vessati e costretti a cedere il campo o a confluire in grandi aziende», mentre i lavoratori dipendenti «sono impossibilitati a conservare i propri diritti, conquistati con dure e lunghe lotte, dalla scelta politica di mantenere il sistema economico, attraverso la pratica dell’austerità (della anemizzazione monetaria), in una condizione di diffusa disoccupazione e precarietà che, combinata col diritto al libero licenziamento e demansionamento dei lavoratori, priva questi di ogni potere di lotta e contrattazione, rendendo pressoché impraticabile lo sciopero».E’ un modello socio-economico «che viene costruito metodicamente, anche a livello legislativo e costituzionale, nazionale ed europeo, dalle nostre élites», denuncia Della Luna, indicando in Italia «la staffetta dei governi Berlusconi-Monti-Letta-Renzi (sotto la guida dei banchieri centrali e la locale regia di Giorgio I». E’ un modello “markt-konform”, «conforme e ideale per le esigenze del mercato, del capitale e del profitto», ma incompatibile con «le esigenze psicofisiologiche dell’essere umano, inteso sia come individuo che come famiglia, che come comunità sociale». Esigenze che comprendono «una prospettiva stabile per la progettazione e l’impostazione della vita, per la procreazione e l’educazione della prole», ma anche «ambiti di non-mercificazione e di non-competitività», con in più «la garanzia di una dimensione pubblica sottratta alla logica del profitto finanziario». L’Interesse Pubblico, estirpato dalle riforme neoliberiste degli ultimi decenni.Lo spettacolo attuale è desolante: generazioni di giovani senza lavoro o costretti ad accettare salari precari e irrisori, da contendere ai colleghi-coetanei in una spietata gara al ribasso. «E quando iniziano a invecchiare e non riescono più a tenere il ritmo, sono fuori». La prospettiva della pensione? Diventa un miraggio. Nessuna speranza, se a decidere saranno gli yes-men di cui si circonda Renzi. Nessuno che si possa opporre alla “voce del padrone”: «Se guardiamo alla storia, vediamo sempre, solo e dappertutto società che non si gestiscono dal loro interno per i loro interessi, ma sono gestite da padroni (oligarchie) esterni, che perseguono il duplice obiettivo di rinforzare il loro dominio sulla società e di intensificare lo sfruttamento di essa». Tecnologia e globalizzazione, accentramento planetario degli strumenti di controllo: oggi l’élite piò spingersi oltre ogni limite, sottoponendoci a tensioni altissime. Un giorno, però, la corda si spezzerà: «I vari sistemi di dominazione, nel corso dei secoli, si sono rotti tutti, prima o poi». Qualche fattore fa sempre saltare il gioco, conclude Della Luna. E paradossalmente, oggi più che mai, «la più concreta ragione di speranza del genere umano sta proprio in questo, ossia nel fatto che finora tutti i tentativi umani di soggiogare definitivamente l’umanità siano falliti, si siano rotti. Speriamo quindi nel caos, che vinca ancora e presto, nonostante la tecnologia».E’ tutto falso, ma c’è un problema: sembra vero. Viviamo in mezzo a verità di fede, spacciate per realtà. Basta ripeterle all’infinito, sui giornali e in televisione. I mercati infallibili, la spesa pubblica da tagliare, l’inevitabile Europa dell’euro. Dogmi che servono a occultare il conflitto tra oligarchia parassitaria e cittadini-lavoratori. Economia, legittimazione del potere, interpretazione della storia. Avverte Marco Della Luna: chi osa uscire dal recinto dei dogmi viene etichettato come «antagonista, estremista, antisociale, populista», viene delegittimato ed emarginato, «finché i fatti e le realtà censurate non rompono l’incantesimo del sistema dogmatico». E’ la legge del regime attuale, con la «classe finanziaria» che si prende quasi tutto il reddito disponibile ed erode, «attraverso l’indebitamento pubblico e le tasse», anche il risparmio. Questo, grazie al consenso e all’acquiescenza «ottenuti tanto mediante l’indottrinamento con dogmi, quanto con il sistematico nascondimento di conflitti di interessi, che non devono apparire onde evitare che la gente percepisca il male che le viene fatto».
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Gentiloni tra gli Usa, Israele e il gas russo gestito dall’Eni
Un ministro vicino a Israele e al Vaticano ma soprattutto devoto a Washington, per controbilanciare la perdurante amicizia con la Russia, via Eni. E’ la lettura che Aldo Giannuli fornisce della nomina di Paolo Gentiloni come ministro degli esteri, dopo giorni difficili nei quali Renzi ha dovuto affrontare la manifestazione della Cgil e il pestaggio degli operai di Terni. Gentiloni, si dice, non era nella rosa iniziale dei candidati per la sostituzione della Mogherini. Imposto dal Colle? Eppure «viene dalla Margherita, come gran parte dello staff renziano». Non era in pole position in omaggio al principio della “parità di genere” nel governo? «Renzi è abbastanza fatuo per andare dietro a queste fesserie, ma la cosa non convince». Perché a Gentiloni non si è arrivati subito? Probabilmente, spiega Giannuli nel suo blog, perché la suia nomina fa parte di una partita complessa, fatta soprattutto di energia e business, in cui l’Italia si colloca a metà strada tra gli Usa, che puntano a punire la Russia, e Israele, che invece non gradisce le sanzioni contro Putin e rimprovera Obama di non aver sferrato un attacco contro l’Iran.Dopo «una breve scapigliatura giovanile», dal Movimento Studentesco ai comunisti del Pdup passando per una collaborazione con il “Manifesto”, dov’era ritenuto esperto di mondo cattolico, «Gentiloni è andato a sciacquare i suoi panni nel Potomac, diventando uomo assai sensibile alle ragioni a stelle e strisce», scrive Giannuli. «E ancor più sensibile è diventato, con il tempo, alle ragioni di Israele: è interessante constatare come proprio alla vigilia della sua nomina, Gentiloni abbia avuto un caloroso incontro con i maggiori rappresentanti della comunità ebraica italiana». Non è un mistero, aggiunge Giannuli, che da almeno cinque anni, cioè dall’epoca del “discorso del Cairo” di Obama, Washington e Tel Aviv procedano «in direzioni via via divaricanti», sicché «l’intesa non è più quella di un tempo». Si sa: «Israele avrebbe voluto l’intervento in Iran che non c’è stato», e inoltre «non ha visto affatto di buon occhio la “primavera araba” che gli Usa hanno, in parte, incoraggiato». Parallelamente, «Washington si è mostrata meno allineata del passato ad Israele sulla questione palestinese». Ma soprattutto, in tempi recenti, «è la questione energetica a dividere i due vecchi sodali».Gli Usa, ricorda lo storico dell’ateneo milanese, hanno l’obiettivo strategico di indebolire la Russia e in particolare la sua influenza sull’Europa, determinata dal peso delle sue forniture di gas. «A questo scopo, gli Usa hanno cercato in tutti i modi di impedire la nascita del gasdotto “Southstream”, prima con il progetto concorrenziale “Nabucco”, dopo spingendo per l’inserimento del Quatar nella rete metanifera europea». Entrambe le questioni vedono al centro il nostro paese, sottolinea Giannuli: “Southstream” avrebbe dovuto essere costruito dall’Eni (ora non sappiamo che fine farà il progetto), mentre la via più semplice per agganciare il Qatar alla rete europea è agganciarlo al gasdotto italo-libico-algerino, operazione tentata nel 2005 e bloccata dal governo Berlusconi, per evidenti preferenze moscovite. Scelta che i quatarioti «si legarono al dito, rendendo all’Italia pan per focaccia in occasione della crisi libica». Va da sé, conclude Giannuli, che Israele veda il piano di inserimento del Qatar come il fumo negli occhi. Ed è ovvio, dato che il Qatar finanzia i Fratelli Musulmani: sicché, «accentuare la dipendenza dell’Europa dalle forniture di un paese arabo è in palese contrasto con i suoi interessi strategici». Per questo, «si è determinata una oggettiva convergenza fra Mosca e Tel Aviv».Il problema era tornato per un attimo alla ribalta, all’inizio della crisi ucraina, in occasione del viaggio di Letta in Qatar per trattare sull’ingresso degli arabi in Alitalia. Poi la tempestiva crisi del governo Letta bloccò sul nascere la ripresa del disegno. Dopo, con il governo Renzi (sul quale si sa avere molta influenza l’economista Yoram Gutgeld, già ufficiale superiore dell’esercito israeliano), sono venute le nomine Eni con la promozione di Claudio De Scalzi al posto che fu di Paolo Scaroni e, con essa, la conferma piena degli orientamenti filorussi dell’ente petrolifero di Stato. Insomma, «nel governo Renzi si è riprodotta in sedicesimo quella convergenza russo-israeliana di cui dicevamo», spiega Giannuli. «E gli americani non hanno affatto gradito, riservando al giullare fiorentino più di uno sgarbo». Poi, «puntuale come Big Ben», è arrivato lo scandalo Nigeria, «che ha colpito De Scalzi, oltre che Scaroni». Renzi? «In un primo momento ha difeso a spada tratta De Scalzi, ma si è molto raffreddato quando questi, per salvarsi, ha buttato a mare Scaroni (“decideva tutto lui”). E il gelo è sceso in occasione della visita di Italia di Li Kequiang, quando, alla cerimonia della firma dei contratti d’affari conclusi, tutti hanno notato la clamorosa assenza di De Scalzi, unico a mancare fra i big delle imprese di Stato».Sembra quindi che tutto confermi che sia in atto «una nuova puntata della guerra segreta dei gasdotti e che essa passi per il governo italiano», ragiona Giannuli. «Di qui la necessità di un ministro degli esteri molto ben accreditato sia presso Washington che presso Tel Aviv per trovare una mediazione in un conflitto che potenzialmente può travolgere il governo». Meglio ancora se questo mediatore dispone di buone entrature in Vaticano ed è amico di un personaggio come Stefano Silvestri, «altro ex estremista passato al campo a stelle e strisce», che può contare a sua volta su amici a Mosca e a Washington. Resta il rebus sulle modalità della nomina di Gentiloni: «Come mai un nome così perfetto non è stato la prima scelta? Forse perché occorreva coprirlo con altre candidature di parata, per non bruciarlo nel partito, dove c’erano altri candidati pure renziani? O per distrarre l’attenzione dal vero senso dell’operazione?».Un ministro vicino a Israele e al Vaticano ma soprattutto devoto a Washington, per controbilanciare la perdurante amicizia con la Russia, via Eni. E’ la lettura che Aldo Giannuli fornisce della nomina di Paolo Gentiloni come ministro degli esteri, dopo giorni difficili nei quali Renzi ha dovuto affrontare la manifestazione della Cgil e il pestaggio degli operai di Terni. Gentiloni, si dice, non era nella rosa iniziale dei candidati per la sostituzione della Mogherini. Imposto dal Colle? Eppure «viene dalla Margherita, come gran parte dello staff renziano». Non era in pole position in omaggio al principio della “parità di genere” nel governo? «Renzi è abbastanza fatuo per andare dietro a queste fesserie, ma la cosa non convince». Perché a Gentiloni non si è arrivati subito? Probabilmente, spiega Giannuli nel suo blog, perché la suia nomina fa parte di una partita complessa, fatta soprattutto di energia e business, in cui l’Italia si colloca a metà strada tra gli Usa, che puntano a punire la Russia, e Israele, che invece non gradisce le sanzioni contro Putin e rimprovera Obama di non aver sferrato un attacco contro l’Iran.
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Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre
La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.(Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
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Orsi: la disperazione di chi vorrebbe uccidere Putin
«La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».Il pensiero di Meyer, scrive Orsi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, non è che uno sfogo esplicito e definitivo dopo anni di incessante propaganda occidentale: Putin come l’assassino di Anna Politkovskaya e dell’ex 007 Alexander Litvinenko, Putin come persecutore del gruppo rock delle “Pussy Riot”, Putin l’“omofobo”, Putin che «vive in un altro mondo» (secondo Angela Merkel), Putin che è chiaramente «un lato sbagliato della storia» (secondo Barack Obama). Insomma: Putin il malato di mente, il “nuovo Hitler”, come già Saddam Hussein. L’Anticristo, simbolo del male assoluto, annunciatore dell’imminente fine del mondo. «Molti sono stati gli europei etichettati come emissari del diavolo: Napoleone Bonaparte, Federico II di Prussia e Pietro il Grande», scrive Orsi. «L’identificazione di Putin come manifestazione di un male assoluto metafisico, che giustifica il ricorso a misure estreme, invece di essere semplicemente accennata attraverso semplici metafore e ridotta a una banale questione propagandistica di bassa lega, dovrebbe diventare il centro di una più profonda discussione».Il caso Putin evoca la pratica dell’omicidio politico, in tempo di pace oppure in guerra. La “decapitazione” del leader avversario, ovviamente, finisce sempre per «legittimare atti di ritorsione, aprendo scenari a spirale di violenze indiscriminate con conseguenze imprevedibili». In Occidente, continua Orsi, «c’è stata una sorprendente varietà di opinioni sulla corretta conduzione della “guerra giusta”». Per esempio, «le guerre tra nazioni cristiane dovevano essere altamente regolamentate, mentre erano ammessi diversi gradi di guerra senza restrizioni contro gli infedeli». L’assassinio del leader del nemico «sembra essere un atto di disperazione, di solito associato a guerre genocide definitive». Mentre nasceva una moderna concezione di politica internazionale e globale, che prendeva le distanze dalla dicotomia tra cristiani e non-cristiani, nel saggio “La pace perpetua” Immanuel Kant mise in guardia la società del suo tempo contro questo tipo di pratiche: il filosofo auspicò il divieto, nelle guerre, di tutte quelle pratiche che potrebbero rendere impossibile la reciproca fiducia nei futuri accordi di pace, come appunto l’assassinio, l’avvelenamento, la violazione della capitolazione, l’istigazione al tradimento.«Essere contrari alla demonizzazione del nemico e a un suo assassinio a sangue freddo non significa sostenere la totale assenza di odio o di conflitto», scrive Orsi. «Al contrario, secondo una vecchia teoria purtroppo troppo poco apprezzata, proprio la guerra senza restrizioni (fin troppo familiare) ad ogni forma di lotta, è in sé contraddittoria, poiché conduce ad una forma di guerra totale». E’ possibile evitare che uno scontro sia completamente distruttivo? «Il punto è quello di limitare e contenere il conflitto», conferendogli una legittimazione all’interno di argini precisi: «Ci può essere inimicizia tra la Nato e la Russia, ma non vi è alcuna ragione per trasformarla in una guerra totale globale». Proprio in questo quadro, aggiunge Orsi, «la denigrazione del nemico diminuisce la dignità di chi lo denigra e il valore dei suoi sforzi durante il conflitto». Invece di inventare nuove rappresentazioni denigratorie del nemico, «sarebbe bene non scendere in queste forme di demonizzazione, perché il compromesso politico e il dialogo diplomatico restino sempre un’opzione possibile». In che non significa sradicare l’ostilità, ma gestirla. Chi invece cede alla violenza della degradazione verbale, si condanna da sé: «Mentre Putin costituisce certamente un avversario temibile per le élite che attualmente governano il mondo occidentale, è proprio per questo che dovrebbero apprezzare l’occasione storica di poter dimostrare il loro valore».Una seconda linea di pensiero, continua Orsi, fa riferimento alla tradizione intellettuale che permette – o addirittura raccomanda – l’assassinio di un leader politico ogni volta che questi imponga un dominio tirannico. Storia lunga, da Pisistrato a Giulio Cesare. «Tuttavia, il tirannicidio solleva per lo meno due questioni: la prima riguarda la definizione stessa della tirannia, la seconda il suo rapporto con la politica internazionale». Tirannia, dittatura, autocrazia, autoritarismo, dispotismo, assolutismo: «Sono cose tra loro diverse, nonostante alcune comuni aree di sovrapposizione». La tirannia è «una forma autocratica degenerata, in cui il potere è esercitato contro il principio del bene comune, al di fuori e contro le regole costituzionali stabilite, e con una sistematica crudeltà nei confronti dei propri sudditi». Ora, non c’è dubbio che Putin sia l’individuo più potente nella Federazione Russa, ma questo non basta a farne a un “tiranno”. Al contrario, è il politico che ha risollevato il paese dopo il crollo dell’Urss e la “colonizzazione” occidentale.Certo, la nuova Russia di Putin resta «uno Stato autoritario, la cui classe dirigente – un’alleanza in qualche modo eterogenea di intelligence, militari, leader religiosi, magnati e influenti personaggi locali – è sufficientemente coesa da mantenere un efficace controllo del paese, ma non abbastanza ampia da promuovere una più sofisticata prospettiva pluralistica». Tuttavia, aggiunge Orsi, «nessuno sta dicendo che Putin sta esercitando il suo potere al di fuori del quadro costituzionale dello Stato russo, e tantomeno tenendo in ostaggio l’intera popolazione attraverso una violenza sadica e onnipresente». Inoltre, «Putin gode di un autentico sostegno popolare, pur tenendo conto dello stretto controllo dei principali mezzi d’informazione da parte del Cremlino». Senza contare che il presidente «rappresenta una figura moderata nel panorama della politica russa: la sua estromissione probabilmente aprirebbe la strada ad altre figure politiche significativamente più radicali».Infine, la responsabilità morale e politica della “detronizzazione” del leader «non può che essere presa da coloro che sono soggetti al potere tirannico, non da soggetti esterni». Sicché, «fatta esclusione del caso deprecabile di una guerra totale, non vi è alcun motivo per considerare tale atto come un’azione politica raccomandabile». Riguardo alla tentazione di accelerare l’eliminazione di Putin, quindi, «ci sono tanti motivi per respingere questo flusso di pensieri e ritenerli gravemente controproducenti». La demonizzazione del presidente russo? «Non è una politica sana, né una pratica moralmente onorevole». Quanto alla venuta dell’Anticristo e alla fine del mondo, «nessuno ne conosce l’ora». Per dirla con l’evangelista Matteo: «Di quel giorno e ora nessun uomo sa, né gli angeli del Cielo, né il Figlio, ma solo il Padre».«La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».
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Guerra infinita, Foa: non è più possibile credere a Obama
Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.L’Isis, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, rappresenta l’ala più estremista dell’Islam integralista sunnita, «un’ala fanatica, pericolosa, impresentabile: gente da tenere alla larga». Dunque, «i bombardamenti avvengono in nome di una causa che pochi non condividono in Occidente, tanto più dopo le immagini delle decapitazioni». Tuttavia, «l’altra sconvolgente verità» è che l’Isis «è stato finanziato da paesi arabi come il Qatar e i sauditi e sostenuto militarmente negli Stati Uniti, fino ad alcuni mesi fa, in nome della lotta alla Siria, ben sapendo che la distinzione tra ribelli “moderati” e quelli dell’Isis anti-Assad è risibile, come emerso nelle analisi più competenti e oneste pubblicate anche dalla grande stampa anglosassone». Si trattasse di un singolo errore, concede Foa, l’indulgenza sarebbe ovvia. Analizzando invece le linee fondamentali della politica estera statunitense, «il bilancio non può che essere molto negativo, e con uno schema che tende a ripetersi».Riflessioni d’obbligo: «La guerra in Afghanistan non è stata risolutiva, quella in Iraq nemmeno: anzi, il paese sta molto peggio rispetto all’era Saddam». Il Maghreb? «Era molto più stabile quando c’erano i Mubarak, i Ben Ali e persino Gheddafi, considerato che la Libia vive in uno stato di guerra tribale permanente». Quanto alla Siria, il paese di Assad «prima era una garanzia di stabilità per la regione nonché un alleato prezioso degli stessi Stati Uniti nella lotta al terrorismo, vedi la collaborazione al programma di “rendition”». Ora invece è improvvisamente diventato «un regime diabolico, da abbattere ad ogni costo». A partire dal grande detonatore geopolitico dell’11 Settembre, «le guerre condotte negli ultimi 13 anni non hanno portato pace e nemmeno libertà e prosperità, ma crescente instabilità, morte, povertà, caos». Paradigmatico l’esempio dell’Iraq: «Saddam odiava i fondamentalisti e rifiutava qualunque collaborazione con Bin Laden». Oggi, invece, l’Iraq «è la nuova terra promessa, anzi il nuovo Califfato del peggior integralismo islamico». Le guerre americane? Hanno solo peggiorato il problema. «A cosa sono servite, davvero? E quale sarà l’effetto finale di quella appena iniziata contro l’Isis? Vedremo – conclude Foa – ma alle promesse di Obama e della sua squadra non credo più da un pezzo».Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.
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Nato e Ue, due guinzagli per lo stesso padrone: gli Usa
Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».Questa vassallizzazione, continua Meyssan in un’analisi tradotta da “Megachip”, contravviene ai principi dell’Onu, in quanto gli Stati membri perdono l’indipendenza della loro politica estera e di difesa. Il diktat atlantico fu contestato prima dall’Urss e poi dal presidente francese Charles De Gaulle che, «dopo aver affrontato una quarantina di tentativi di assassinio» da parte dell’Oas, l’organizzazione estremista «finanziata dalla Nato» ed essere riuscito a farsi rieleggere, «annunciò il ritiro immediato della Francia dal comando integrato e la riconsegna di 64.000 soldati e impiegati della Nato fuori dal territorio francese». Una pagina di indipendenza che cessò con l’elezione di Jacques Chirac: pochi mesi dopo il suo arrivo all’Eliseo, il nuovo presidente «reintegrò la Francia in seno al Consiglio dei ministri e al Comitato militare dell’Alleanza». Capitolo definitivamente archiviato «con il ritorno delle forze armate francesi sotto il comando statunitense, deciso da Nicolas Sarkozy nel 2009».Infine, aggiunge Meyssan, «la vassallizzazione degli Stati membri è proseguita con la creazione di numerose istituzioni civili, di cui la principale e la più efficace è l’Unione Europea». Lo dice in modo netto, il giornalista francese: «Contrariamente a un diffuso luogo comune, l’attuale Unione non ha avuto tanto a che fare con l’ideale dell’unità europea, quanto con la vocazione di fissare i membri della Nato fuori dall’influenza sovietica, poi russa, in conformità con le clausole segrete del Piano Marshall». Si trattava quindi di mantenere l’Europa saldamente divisa in due blocchi: la Russia da una parte, tutti gli altri con l’America. «Non è un dunque un caso che gli uffici della Nato e quelli dell’esecutivo europeo siano principalmente situati a Bruxelles e secondariamente in Lussemburgo. Ed è per consentire il controllo dell’Unione da parte degli anglosassoni, che questa si è dotata di una strana Commissione, la cui attività principale è quella di presentare “proposte”, economiche o politiche, tutte predefinite dalla Nato».Si ignora spesso che l’Alleanza non è semplicemente un patto militare. La Nato infatti «interviene nel dominio dell’economia», di fatto «è il primo cliente dell’industria della difesa in Europa». Attualmente, tre quarti del bilancio euroatlantico sono assicurati dai soli Stati Uniti, i quali «stanno progettando un confronto con la Cina» sin dall’11 Settembre, che Meyssan chiama «il colpo di stato del 2001». E spiega: il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, mentre il mondo era ipnotizzato dagli attentati, «il presidente George W. Bush fu illegalmente rimosso dalle sue funzioni in virtù del programma di “continuità del governo”». Funzioni presidenziali che ritrovò «solo alla fine della giornata, dopo che il suo paese aveva cambiato radicalmente la sua politica estera e di difesa». Durante quella giornata, aggiunge Meyssan, «tutti i membri del Congresso e i loro staff furono collocati dalle autorità militari in domicilio sorvegliato, presso il complesso Greenbrier (West Virginia) e presso il Mount Weather (Virginia)». E’ da allora, dice Meyssan, che il vero obiettivo è la Cina. E, proprio in questa prospettiva, Obama ha annunciato il riposizionamento delle sue forze armate in Estremo Oriente. Problema: «Questo programma è stato perturbato dalla ripresa economica, politica e militare della Russia, che si è mostrata capace nel 2008 di difendere l’Ossetia del Sud attaccata dalla Georgia e, nel 2014 la Crimea minacciata dai golpisti di Kiev».La resurrezione della Russia di Putin ha inoltre indotto gli Usa ad abbandonare lo “scudo anti-missile” dell’Est Europa, presentato come un sistema di protezione contro i missili dell’Iran ma in realtà progettato per accerchiare la Russia e paralizzarla: i missili da fermare erano quelli che Mosca avrebbe potuto scagliare verso ovest, se attaccata. Ma perché concentrarsi sull’Europa orientale? Per colpire l’Ameirca, dice Meyssam, il percorso più breve è il Polo Nord. «Dopo aver minato per oltre un decennio le relazioni tra Washington e Mosca, il progetto viene abbandonato perché risulta tecnicamente impossibile distruggere in volo i missili russi intercontinentali di ultima generazione. Quindi è il principio stesso di “deterrenza nucleare” che viene abbandonato di fronte alla Russia, anche se rimane pertinente per gli altri Stati». Da Mosca a Pechino: «Washington ha esacerbato le tensioni tra la Cina e i suoi vicini, in particolare il Giappone. La Nato, che storicamente rende l’Europa vassalla del Nord America, si è dunque aperta a dei partner asiatici e dell’Oceania, tra cui Australia e Giappone, attraverso contratti di associazione. Nel frattempo, ha ampliato il suo campo d’azione a tutto il mondo».In questo periodo di restrizioni di bilancio, l’Alleanza, che a quanto pare non conosce crisi, sta costruendo una nuova sede a Bruxelles, per la somma sbalorditiva di un miliardo di euro: dovrebbe essere consegnata all’inizio del 2017. Nel frattempo si prevede di associare anche il Montenegro, mentre si invitano gli europei ad aumentare le spese militari. Intanto, a imporsi è sempre il Medio Oriente: «Nella preoccupazione di evitare che la Cina e la Russia controllino abbastanza materie prime da essere capaci di rivaleggiare con gli Stati Uniti», la Nato «si è aggiunta nel corso dell’estate la questione dell’Emirato islamico», il famoso Califfato. «Un’intensa campagna mediatica ha demonizzato l’organizzazione jihadista, i cui crimini non sono affatto nuovi, ma che deve solo attaccare il popolo iracheno». L’Isis è una cretatura occidentale. E, nonostante le apparenze, «la sua azione in Iraq è del tutto coerente con il piano Usa di dividere il paese in tre Stati separati», per sunniti, sciiti e curdi. «Per realizzare un progetto che costituisce un crimine contro l’umanità, perché presuppone la pulizia etnica, Washington ha fatto ricorso a un esercito privato che le spetta condannare pubblicamente intanto che però lo sostiene sottobanco». In realtà, infatti, i “tagliatori di teste” obbediscono agli ordini. Il Califfato è destinato a durare, assicura Meyssan: «Sebbene attualmente agisca soprattutto in Siria e in Iraq, è stato progettato per mettere a ferro e a fuoco a lungo termine la Russia, l’India e la Cina».La questione dell’Emirato islamico non doveva pertanto essere aggiunta all’ordine del giorno anti-russo e anti-cinese di Newport, perché ne faceva già parte. Inoltre, non volendo rischiare di vedere un qualche Stato membro esprimere i propri dubbi su questa mascherata, Washington ha spostato il dibattito a margine del vertice. Obama ha riunito altri otto altri Stati, più l’Australia (che non è membro Nato, ma solo associata) per «mettere a punto il suo piano di guerra». Così, è stato deciso di associare anche la Giordania a questo dispositivo. In appena una mattinata, il vertice del Galles ha poi sbrigato la questione della lunga presenza occidentale in Afghanistan: «Certo, la Nato ritirerà le sue truppe da combattimento, come previsto, entro la fine dell’anno, ma manterrà il controllo dell’esercito afghano e della sicurezza del paese», ipotecando inoltre le prossime elezioni presidenziali. Quanto all’Est Europa, il vertice ha accettato di estendere il controllo Nato anche sull’Ucraina, «solo per vedere quale sarà la reazione russa», ma non è andato oltre: «L’Atto costitutivo sulle relazioni Nato-Russia non è stato revocato e l’Ucraina non è stata incorporata nell’Alleanza. Ognuno ha preferito evocare un possibile cessate-il-fuoco tra Kiev e il Donbass».Molto rumore per nulla, dunque? In apparenza, sì: «A meno che le cose importanti non siano state decise a porte chiuse, in occasione della riunione dei capi di Stato di venerdì 5 settembre, non sembra che le guerre segrete siano state discusse al vertice, ma solo a margine del vertice e solo con alcuni alleati». Già nel 2011, ricorda Meyssan, la Nato aveva violato le sue regole istitutive, non riunendo il Consiglio Atlantico prima di bombardare Tripoli. «Sembrava in effetti impossibile che tutti accettassero di perpetrare un tale massacro». Per questo, «in gran segreto», Usa e Regno Unito riunirono a Napoli la Francia, l’Italia e la Turchia, «per pianificare un attacco che ha causato almeno 40.000 morti civili in una settimana». Cinicamente, il report del vertice gallese «afferma che l’Alleanza ha protetto il popolo libico», citando le risoluzioni 1970 e 1973 delle Nazioni Unite, in realtà utilizzate «per cambiare il regime uccidendo 160.000 libici e facendo precipitare il paese nel caos». In ultima analisi, conclude Meyssan, negli ultimi anni la Nato ha raggiunto i suoi obiettivi in Afghanistan, Iraq, Libia e nel nord-est della Siria, «cioè solo ed esclusivamente in paesi o regioni organizzate in società tribali: non sembra dunque in grado di entrare in conflitto diretto con la Russia e la Cina».Se al summit di Praga nel 2002 si tratta si accogliere l’Est Europa verso ovest, lo storico vertice di Newport si incarica di impedire alla Cina e alla Russia di svilupparsi. Lo sostiene Thierry Meyssan, secondo cui l’appuntamento gallese della Nato è stato pianificato per impedire a Mosca e Pechino di rivaleggiare con gli Stati Uniti. Politica estera a mano armata: è nella natura della Nato fin dal 1949. La prassi: «Manipolare i fatti per presentarsi come un’alleanza difensiva di fronte all’espansionismo sovietico». Era vero l’opposto: ad avere funzione di difesa era semmai il Patto di Varsavia, creato infatti sei anni dopo, nel 1955, per cercare di limitare l’imperialismo anglosassone. La Nato, poi, «non è un’alleanza fra uguali, ma la vassallizzazione degli eserciti partner da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito», mentre «il servizio segreto della Nato, la “Gladio”, sotto l’autorità congiunta di Washington e Londra, veglia affinché gli anti-imperialisti non possano mai arrivare al potere negli altri Stati membri. Per fare questo, la Nato non ha lesinato né sugli omicidi politici, e nemmeno sui colpi di Stato: in Francia, in Italia, in Grecia, a Cipro e in Turchia».
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Isis, finto nemico. Obiettivo: negare il petrolio alla Cina
Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».Quando, oltre dieci anni da, Giulietto Chiesa dava alle stampe “La guerra infinita” (Feltrinelli), prima coraggiosa indagine sulle menzogne ufficiali dell’11 Settembre funzionali all’imposizione imperialista del “Nuovo Secolo Americano”, i media mainstream si guardavano bene anche solo dal riportarne le tesi. Oggi, dopo anni di crisi catastrofica e focolai di guerra accesi praticamente ovunque, un editorialista in doppiopetto come Foa può permettersi si far sentire la sua voce indipendente dalle pagine del “Giornale”, attraverso il suo blog. «Sieti sicuri di aver capito cosa sta accadendo in Iraq e perché Obama abbia dichiarato guerra all’Isis?». Siamo seri: «L’Isis non esce dal nulla ma è un “mostro” religioso e militare che proprio gli Usa e alcuni alleati strategici come il Qatar e l’Arabia Saudita negli ultimi due anni hanno incoraggiato e sostenuto». E’ l’erede di Al-Qaeda, il nemico di ieri. «Poi è venuto il tempo delle rivoluzioni colorate», a carattere popolare in Tunisia e in Egitto, deflagrate in guerra civile prima in Libia e poi in Siria. «Guerra durissima, spietata e sporca. Combattuta da chi? Da eroici rivoltosi sunniti siriani? Solo in parte».In Siria, a scendere in campo contro Assad sono stati «soprattutto guerriglieri provenienti da altri paesi, motivati dal denaro, dalla disperazione e dall’esaltazione religiosa». Una forza opaca, «composta dalle milizie che avevano combattuto in Iraq e che avevano contribuito a rovesciare Gheddafi». Fanatici ultra-religiosi, ammiratori di Al-Qaeda. «Ovvero, quell’estremismo terrorista che l’Occidente in teoria combatte dal 2001. Ma, si sa, le regole della politica internazionale non corrispondono a quelle della morale e le alleanze possono essere molto flessibili. Certi nemici, all’occorrenza, possono diventare amici. E così è stato. Arabia Saudita e soprattutto Qatar hanno fornito aiuti finanziari, gli americani e verosimilmente i turchi assistenza militare e fornitura d’armi. A posteriori – continua Foa – Hilllay Clinton si è addirittura rammaricata che l’aiuto fosse stato troppo timido. E nel frattempo l’America era stata sul punto di attaccare la Siria che era stata accusata da tutti di aver usato armi chimiche contro i ribelli, un attacco a cui si oppose con successo Putin con ottime ragioni: oggi sappiamo che a usare le armi chimiche furono proprio i ribelli che l’Occidente smaniava di soccorrere. Quali ribelli? Quelli dell’Isis».La guerra civile si è prolungata, Assad non è caduto e nella primavera del 2014 i guerriglieri dell’Isis, ben armati e ben finanziati, hanno cercato nuovi sbocchi: «Hanno girato i cannoni e i blindati e hanno iniziato a scorazzare verso sud-ovest, puntando l’Iraq filoamericano, spingendosi fino alle porte di Baghdad e di Mosul, mentre l’America lasciava fare». Fino a ieri, «Obama snobbava l’Isis, o più verosimilmente faceva finta». Come dire: sono giovani teste calde, non ci preoccupano. «Per lunghe settimane Washington ha lasciato fare, decidendosi tardivamente a sostenere il governo iracheno e decisamente controvoglia, ovvero con pochi raid. Intanto Qatar e sauditi continuavano a finanziare l’Isis». Poi, nelle ultime settimane, l’accelerazione: i media hanno iniziato a occuparsi quotidianamente dell’Isis, diffondendo storie umane agghiaccianti, racconti di stupri, violenze, brutalità, fino a quando sono state diffuse le drammatiche immagini della decapitazione dei due giornalisti americani. Così, «l’Isis è diventato improvvisamente il problema numero uno». L’opinione pubblica occidentale? «Scioccata, di fronte a immagini terribili». E indotta, ovviamente, «a invocare una reazione forte contro i fanatici». Si sa: «La gente comune non segue le sottigliezze geostrategiche, non conosce gli antefatti, ma reagisce emotivamente a immagini “che parlano da sole”».Obama, seguendo uno schema classico dello “spin”, ha risposto all’accorato appello di centinaia di milioni di americani giustamente preoccupati, «annunciando una guerra che sarà naturalmente “lunga”» e capace di coinvolgere, nello sforzo finanziario, «proprio quei paesi, Qatar e sauditi, che fino a ieri avevano finanziato l’Isis». Sicché, «nuovo ribaltamento di fronte: gli ex nemici, poi diventati amici, ora tornano ad essere nemici; anzi molto nemici. Gente da annientare». Risultato: Golfo Persico, Medio Oriente e Nordafrica sono in fiamme, «a oltre 11 anni dalla “guerra lampo” che avrebbe dovuto liberare l’Iraq». Disordine, violenza e morte divampano ovunque: dalla Libia a Gaza, passando per l’Egitto, la Siria, l’Iraq. E gli americani, guardacaso, «si trovano “costretti” ancora una volta a portare la liberazione, impiegando, in quello che appare un moto ormai perpetuo, la loro forza militare». Nel lontano 2002, Giulietto Chiesa l’aveva annunciata, col nome di “guerra infinita”. Oggi, il mainstream continua a evitare di collegare tra loro i singoli fotogrammi. E Foa aggiunge una possibile chiave di lettura: gli Usa infiammano il petrolio del Medio Oriente per toglierlo ai cinesi. E’ il piano per il “Nuovo Secolo Americano”: dall’attentato alle Torri Gemelle, di strada ne ha fatta parecchia.Trasformare la regione petrolifera in un teatro permanente di guerra, per sabotare il business del petrolio. Europa, Cina e India avranno sempre più bisogno di oro nero, mentre l’America potrebbe rendersi autonoma dal greggio nel giro di 6-7 anni. Lo sostiene Marcello Foa, che ritiene credibili i ripetuti annunci, di tono quasi trionfalistico, che accreditano gli Stati Uniti di riserve sterminate di “shale oil”, il petrolio che si ottiene con la frantumazione idraulica di rocce bituminose. Proprio questo calcolo motiverebbe la politica apparentemente folle di Obama, disposto a una lunga guerra in Medio Oriente contro l’ultima “creatura” della Cia, il Califfato dell’Isis. «La lotta al terrorismo è diventata una guerra perpetua al terrorismo», e la crescente instabilità dei paesi arabi, dal Golfo Persico al Nordafrica, comporta «conseguenze pesantissime per noi europei, che viviamo non lontano da quelle zone, e per tutti coloro – europei ma anche cinesi e indiani – che del petrolio mediorientale hanno bisogno». Se va in fiamme il business del greggio, coi prezzi alle stelle, e l’America resta immune dal contagio, ne otterrà un immenso vantaggio geopolitico. «Capito l’arcano?».
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Francia sfinita dai diktat di Berlino, l’Eurozona crollerà
Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».Nell’ultimo mezzo secolo, scrive O’Brien sull’“Independent”, il superamento della sanguinosa storia di questi due paesi – ben tre guerre, tra il 1870 e il 1944 – è stato un imperativo per entrambe le nazioni. «L’attacco illustra lo stato terribile delle relazioni franco-tedesche, che sono state il rapporto bilaterale europeo più importante nell’era successiva alla Seconda Guerra Mondiale». Tutto questo, afferma il giornalista in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, preannuncia guai seri tutti i paesi nell’Eurozona: «Se Parigi e Berlino non riescono ad andare d’accordo, la moneta unica e l’intero progetto di integrazione europea sono in pericolo». Ironia della storia: «Una valuta che è stata progettata per riunire l’Europa e contenere il potere della Germania unita sta ottenendo esattamente l’opposto», dal momento che «l’inevitabile necessità di regole condivise nell’area valutaria porta a scambi di accuse che stanno avvelenando i rapporti fra i suoi membri». Tendenza già evidente da tempo nella periferia europea, ma ora estesa al centro franco-tedesco.«Queste recriminazioni potrebbero svanire se l’economia europea si riprendesse per proprio conto o se venissero implementate delle modifiche di politica economica sostenute da tutti i paesi», continua O’Brien. «Ma se non dovesse accadere nessuna di queste due cose, il centro franco-tedesco della zona euro si indebolirà ulteriormente e probabilmente aumenterà ancora in entrambi i paesi il consenso verso i partiti favorevoli all’uscita dall’euro – compreso il Front National francese, che ha già il consenso di un elettore su quattro». Una ragione ancora più fondamentale per essere pessimisti sul futuro dell’euro, aggiunge O’Brien, è la difficoltà di trovare un modo condiviso di gestione del progetto euro, data la divergenza tra i due paesi sulla maggior parte delle questioni economiche. Se Francia e Germania credono ancora nella gestione pubblica di sanità, istruzione e welfare, «ci sono molte più differenze che somiglianze». I francesi, notoriamente, non si fidano del mercato, e per i servizi preferiscono uno Stato forte.Vale anche per le relazioni economiche internazionali: «Mentre la Francia è sempre tra i paesi Ue più restii a liberalizzare il commercio con altri paesi (inclusi, attualmente, gli Stati Uniti), la Germania è tradizionalmente nel campo pro-liberalizzazione. I loro diversi punti di vista sull’importanza relativa del mercato e dello Stato nella vita economica si riflettono anche nelle opinioni sulla gestione macroeconomica. Nessun governo francese, come si ricorda di continuo, ha presentato un bilancio in pareggio da quasi 40 anni, e le proposte di tagliare la spesa pubblica quasi inevitabilmente portano a proteste». I tedeschi, invece, hanno quasi un’ossessione per la disciplina fiscale. Per loro, un bilancio in rosso (cioè basato su un sano deficit positivo per sostenere la spesa pubblica) significa “vivere al di sopra dei loro mezzi”: «La Germania è una rarità, in quanto i politici che promettono tagli possono aspettarsi applausi, piuttosto che proteste». Così, le tendenze sulla politica monetaria sono diverse tanto quanto quelle sulla politica fiscale. «La classe politica francese chiede frequentemente alla Banca Centrale Europea di fare questa o quell’azione, mentre la loro controparte a est del Reno ritiene sacrosanta l’indipendenza dell’autorità monetaria e crede che anche il solo cercare di influenzarla comprometta tale indipendenza». Un po’ ipocrita, visto che poi la Bce prende ordini dalla Merkel e della Bundesbank.«Anche se l’euro fosse stato un club di soli due paesi – Francia e Germania – una serie dettagliata di regole avrebbero dovuto essere concordate, prima o poi, sulla falsariga del “Two Pack” e del “Six Pack” che ora governano l’Eurozona, continua O’Brien. E visto che la Germania «è economicamente e politicamente più forte della Francia», ne consegue che «la sua filosofia economica è dominante: ciò è particolarmente difficile da digerire per i francesi». Le parole di Montebourg «sottolineano non solo quanto molti in Francia già pensano», e cioè «che le politiche vengono loro imposte», ma dicono anche che «lasciare che ciò accada significa subire un’umiliazione, per un paese non incline a sottovalutare la sua grandeur». Proprio questo senso di umiliazione, osserva il giornalista dell’“Independent”, ha svolto un ruolo considerevole nell’ascesa del «reazionario» Jean-Marie Le Pen, «la cui retorica anti-Bruxelles è perfino più estrema di quella della maggior parte dei membri dell’Ukip in Gran Bretagna».Lo sfogo di Montebourg, insieme ad altri due membri di sinistra del governo che si sono uniti alla sua rivolta, ha costretto l’Eliseo al secondo rimpasto in soli quattro mesi. «La parola “crisi” non riesce nemmeno a descrivere la condizione della presidenza ormai biennale di François Hollande, ridicola perfino per gli standard di un elettorato francese perennemente scontento», scrive O’Brien. «Nessun presidente francese ha mai sperimentato gli infimi livelli che Hollande sta attualmente registrando nelle valutazioni di soddisfazione dell’elettorato». E anche se lo stato dell’economia francese non è ancora così tremendo come molti commentatori anglofoni sostengono, è comunque stagnante, esacerbato dall’assenza di crescita indotta proprio dal rigore euro-tedesco. «Non è chiaro se l’élite politica dell’Eurozona abbia pienamente interiorizzato la dimensione del cambiamento avvenuto con l’adesione all’euro», conclude O’Brien. In compenso, «è molto chiaro che l’élite politica francese non l’ha fatto». E questo, «insieme a una serie di altri fattori, porterà – prima o poi – a una rottura dell’Eurozona».Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».
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Estulin: vogliono sterminarci, è la cupola dell’apocalisse
«Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.Perché la Nato sta alzando i toni con la Russia? «Per capirlo bisogna guardare a Detroit, uno scenario post-apocalittico degno di un film di Will Smith. Le persone che tirano le fila del mondo vogliono le guerre, la crescita zero e la deindustrializzazione, vogliono che ogni città del mondo assomigli a Detroit». Progresso e sviluppo non dovrebbero essere direttamente proporzionali alla densità di popolazione? «Grazie ai progressi tecnologici, le società si sviluppano, creano ricchezza e costruiscono. Ma chi tira le fila del mondo sa che la Terra è un pianeta molto piccolo, con risorse naturali limitate e una popolazione in continua crescita. Ora siamo 7 miliardi e stiamo già esaurendo le risorse naturali. Ci sarà sempre abbastanza spazio sul pianeta, ma non abbastanza cibo e acqua per tutti. Perché i potenti sopravvivano, noi dobbiamo morire». Come intendono fare? «Distruggendo le nazioni a vantaggio delle strutture sovranazionali controllate dal denaro che gestiscono. Le corporazioni governano il mondo per conto dei governi che esse controllano. Così è successo con l’Unione Europea».E Putin non rientra in questo disegno. «Pensavano di poterlo controllare». Perché non ci riescono? «La Russia è una superpotenza nucleare. È questo che la rende tremendamente pericolosa agli occhi di questa gente. La Cina, per esempio, ha una grande popolazione ma non è una potenza nucleare. E per questo non è un pericolo. Mentre l’economia cinese può essere distrutta nel giro di un minuto, le tecnologie russe non possono essere annientate». Dove vogliono arrivare col conflitto in Ucraina? «Togliere il gas all’Europa per farla morire di freddo… Quando parlo di potere, non lo identifico con persone che siedono su un trono, ma con un concetto sovranazionale. L’idea è appunto distruggere ogni nazione». Alla fine non ci sarà più alcuna patria? «L’alleanza è orientata verso una struttura mondiale, che per essere controllata ha bisogno di nazioni deboli». È possibile fare qualche nome? «Christine Lagarde, Mario Draghi, Mario Monti, Petro Oleksijovyč Porošenko. Tutte queste persone sono sostituibili. Prendete Renzi: la sua politica conduce alla distruzione dell’Italia. Perché lo fa, dal momento che dovrebbe fare l’interesse del vostro paese? Non è logico».Non è poi tanto diverso da Monti. «I vari Renzi, Monti, Prodi sono traditori dell’Italia, non lavorano nell’interesse del paese. Renzi non ha mandato politico, nessuna legittimazione, non è stato eletto». L’ultimo premier eletto democraticamente è stato Berlusconi. «E questo è il motivo per cui c’è stato uno sforzo così ben orchestrato per distruggerlo». È il Bilderberg a tirare le fila? «Il Bilderberg era molto influente negli anni Cinquanta, nel mondo postbellico. Ora è molto meno importante di quanto non si creda. Organizzazioni come il Bilderberg o la Trilaterale non sono il vertice di nulla. Sono la cinghia di trasmissione. I veri processi decisionali hanno luogo ancora più in alto. L’Aspen Institute è molto più importate del Bilderberg». Nessuno ne parla. «I giornali mainstream fanno parte di questo gioco. Pensare che media come il “New York Times”, il “Washington Post” o “Le Monde” siano indipendenti, è da idioti. I giornalisti lavorano per azionisti che decidono la linea editoriale del giornale». Vale anche per l’Italia? «Il “Corriere della Sera”, “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore” siedono spesso alle riunioni del Bilderberg. Non c’è metodo più efficace che far passare le loro idee nella stampa mainstream».Anche l’estremismo e il terrorismo islamico rientrano in questo disegno? «Certamante. Non è possibile credere che Obama lavori nell’interesse degli Stati Uniti. Come è impensabile credere che un’organizzazione come l’Isis sia passata, nel giro di poche settimane, dall’anonimato più assoluto a rappresentare la peggiore organizzazione terroristica del mondo». Come si “costruisce” un nemico? «Con gruppi come Isis, Hamas, Hezbollah o Al-Qaeda, succede quello che chiamiamo “blow-back”, cioè quello che succede quando soffi il fumo e ti torna in faccia. L’effetto è sempre lo stesso: si costruisce e si finazia un gruppo terroristico, in Ucraina come in Medio Oriente, e dopo un certo periodo di gestazione questo ti torna indietro e ti colpisce. In ogni operazione non c’è mai un solo obiettivo, ma sempre molti obiettivi. Un obiettivo lavora per te, un altro contro di te».Tutto già calcolato? «Un qualsiasi attacco implica l’uso dell’esercito e, quindi, la necessità di investire soldi nell’industria bellica. La formula è la stessa, cambiano solo i giocatori. Oltre alla guerra ci sono modi diversi per ottenere lo stesso risultato: la fame, la siccità, le droghe, la malattie. Li stanno usando tutti. Così da un lato distruggono il mondo economicamente, dall’altro usano i soldi per sviluppare tecnologie così potenti e futuristiche da creare un gap tra noi e loro sempre più marcato». Eppure faticano a contrastare l’ebola… «Macché! È solo un esempio per vedere la reazione della popolazione mondiale. Viene presentata come un’epidemia ma ha ammazzato appena tremila persone negli ultimi dieci anni. Ogni anno raffreddore, tosse e influenza ne uccidono 30.000 solo negli Stati Uniti. La prossima volta che ci sarà una vera epidemia, conosceranno già le reazioni umane».(“Ecco chi tira i fili del terrore per sovvertire l’ordine mondiale”, intervista di Andrea Indini a Daniel Estulin, da “Il Giornale” dell’11 settembre 2014).«Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.
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Smith: un nuovo 11 Settembre firmato Isis, cioè Cia
L’Isis è una creatura dell’Occidente al 100%: perché non aspettarsi che siano proprio gli “alleati coperti” del Califfato Islamico a firmare l’eventuale prossimo replay dell’11 Settembre? Se lo domanda Brandon Smith, in una lucida analisi nella quale mette a fuoco la storia recente e recentissima. «Il terrorismo “false flag” architettato dai governi è un fatto storico accertato: per secoli, le élite politiche e finanziarie hanno affondato navi, incendiato edifici, assassinato diplomatici, rimosso leader eletti e fatto saltare la gente per aria, per poi incolpare di questi disastri un conveniente capro espiatorio, così da generare paura nel pubblico e acquisire più potere». Gli scettici potranno discutere se una qualche specifica calamità sia stata o meno un evento terroristico “sotto falsa bandiera”, ma nessuno può negare che queste tattiche, in passato, siano state usate puntualmente, in tutto l’Occidente. «I governi hanno ammesso apertamente di creare tragedie sanguinarie e catalizzatrici con falsi pretesti, come l’Operazione Gladio, un programma false-flag in Europa, supportato dai servizi segreti europei e americani, che durò per decenni, dagli anni ’50 ai ’90».
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Mein Kampf: ora i tedeschi potranno rileggere Hitler
La Germania ha dovuto, ancora una volta, guardare in faccia il suo passato. In discussione questa volta non sono i fatti, ma le parole di Adolf Hitler e la prevista ripubblicazione del suo famigerato manifesto-autobiografia “Mein Kampf”, un libro che è stato ufficialmente bandito dal paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se la prospettiva che le parole del Führer ricomincino a circolare liberamente sul mercato tedesco potrebbe scioccare qualcuno, non dovrebbe esserci nessun pericolo. L’aver cresciuto l’ultima generazione inoculandole il bacillo anti-nazista, vaccinandola con un confronto aperto sulle parole di Hitler, è servito molto più che non lasciare che queste parole restassero sottaciute, nascoste furtivamente tra le ombre dell’illegalità. Hitler scrisse la prima bozza della sua ideologia profondamente antisemita, sul concetto di razza nel 1924, mentre era in prigione per aver guidato un fallito colpo di Stato; al momento della sua morte, 21 anni dopo, aveva venduto 10 milioni di copie.Da allora, anche se “Mein Kampf” è rimasto sempre presente nell’ombra – negli scaffali più nascosti delle bancarelle di libri usati e delle librerie e, più recentemente, in rete – il titolare del copyright, lo Stato della Baviera, ha rifiutato di autorizzare che l’opera venisse ripubblicata, creando così un alone di tabù intorno al libro. Tutto questo sta per cambiare. Il copyright della Baviera scade alla fine del 2015 e poi chiunque potrà pubblicare il libro: un editore di libri di qualità o uno che pubblica libri economici, ma potrebbe pubblicarlo anche un gruppo neo-nazista. Rimettere in circolazione “Mein Kampf” nel flusso del sangue della cultura tedesca costituirà sicuramente un momento di eccezionale importanza. In una nazione dove ancora si comprano avidamente i libri – e che ama discuterne in pubblico – questa pubblicazione accenderà nuovi dolorosi dibattiti intergenerazionali nei talk show e sulle pagine culturali su come genitori e nonni si lasciarono fuorviare tanto ciecamente.Come successe con il clamore creato nel 1996 da Daniel Jonah Goldhagen con il suo controverso libro “I carnefici volontari di Hitler”, che accusava i tedeschi, in generale, di essere tutti capaci di ammazzare gli ebrei in massa, questo evento editoriale potrebbe incidere sulla politica contemporanea e rinvigorire il radicato pacifismo del dopoguerra tedesco. Il coinvolgimento – o il non-coinvolgimento – della Germania nelle crisi internazionali come Kosovo, Afghanistan, Libia e, più recentemente, Mali, è profondamente influenzato da un appassionato dibattito su questo argomento. «La Germania è una terra stregata, dove vivono ancora le ombra di Hitler», mi ha detto recentemente lo scrittore ebreo tedesco Henryk M. Broder.Il primo a prepararsi per la corsa alla pubblicazione del libro è l’Istituto di Storia Contemporanea, un rinomato Centro di ricerca per lo studio del nazismo, a Monaco, che dispone già di un team di cinque studiosi che stanno preparando una “edizione critica ragionata” sulle 700 pagine di Hitler. La versione dell’istituto raddoppierà le dimensioni del libro e servirà come riferimento accademico per tutti i futuri studiosi del testo base dell’hitlerismo, ha detto il leader del team, Christian Hartmann. Le ampie annotazioni del libro – ha aggiunto – serviranno per “delimitare” le linee del racconto di Hitler con una “serie di commenti” che demistificheranno e decodificheranno, con un sottotesto alternativo, il contesto storico raccontato, spogliandolo del suo presunto potere ipnotico.Non sorprende che il progetto “Mein Kampf” abbia suscitato clamore in alcuni ambienti ebraici. Charlotte Knobloch, presidente della comunità di cultura israelita di Monaco e dell’Alta Baviera , ha detto che «esiste ancora il pericolo» di catalizzare i sentimenti dell’estrema destra. Uri Chanoch, un israeliano di 86 anni, superstite dell’Olocausto, ha aggiunto che i tedeschi «da qualche parte nei loro cuori covano ancora odio per noi», e si è prodigato in una aggressiva campagna contro la riedizione del libro, chiedendo che anche dall’estero si faccia pressione sulla Baviera per bloccarne la ristampa. Dopo l’eco ricevuto da questo tipo di sentimenti, il premier bavarese Horst Seehofer, durante il suo viaggio in Israele, ha deciso di togliere il suo patrocinio al progetto “Mein Kampf” e di cancellare i fondi per la ricerca che erano stati stanziati (684.000 dollari). Questa decisione, a sua volta, ha scatenato una levata di scudi tra gli accademici e tra la legislatura bavarese, che in precedenza aveva approvato il progetto.Anche qualche leader ebreo è stato preso alla sprovvista. «Sono rimasto stupito da questa decisione», ha detto Salomon Korn, il leader della forte comunità ebraica di Francoforte, 7.000 persone. «Avremmo già dovuto avere una edizione critica del “Mein Kampf”». E allora, come in un goffo balletto, il governo di Seehofer è stato costretto a riconsiderare la sua riconsiderazione e si è accordato per non riprendersi i soldi ma togliendo il suo sigillo di approvazione governativa. Questa foglia di fico, d’altro canto, potrebbe placare o non placare chi la pensa in modo diverso, soprattutto in Israele, che ormai già credeva di essere già riuscito a bloccare la ristampa del libro. Ma con il finanziamento in mano, l’istituto sta procedendo e la sua edizione servirà ad uno scopo politico di contrasto all’impatto negativo sull’immagine della Germania e sulla cultura politica che potrebbe portare una ristampa incontrollata di un libro che potrebbe inondare il mercato.Indipendentemente da qualsiasi altra pubblicazione, comunque, sarà l’edizione accademica la più autorevole, soprattutto nelle scuole e nelle università. Questo sarà un effetto positivo. Sessantanove anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, non ha più senso per i tedeschi non avere ancora libero accesso ad un libro che può essere facilmente acquistato in tanti altri paesi. Mantenere viva una triste diatriba, spesso incomprensibile, per paura di una rinascita nazista, fuori luogo, è una reazione troppo esagerata: l’unico partito pseudo-nazista tedesco in Germania ha ricevuto 1% alle ultime elezioni del Parlamento Europeo; in Francia, l’estrema destra ha preso quasi il 25%. Nel 1959, il primo presidente tedesco del dopoguerra della Germania Ovest, Theodor Heuss, raccomandò di ripubblicare “Mein Kampf”, come monito per il popolo tedesco, ma forse era troppo presto e la popolazione non era ancora pronta per un tale confronto e l’establishment politico dell’epoca lo ignorò. Oggi, 55 anni dopo e 10 presidenti più tardi, la bella idea di Heuss sta finalmente arrivando a compimento.La Germania ha dovuto, ancora una volta, guardare in faccia il suo passato. In discussione questa volta non sono i fatti, ma le parole di Adolf Hitler e la prevista ripubblicazione del suo famigerato manifesto-autobiografia “Mein Kampf”, un libro che è stato ufficialmente bandito dal paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se la prospettiva che le parole del Führer ricomincino a circolare liberamente sul mercato tedesco potrebbe scioccare qualcuno, non dovrebbe esserci nessun pericolo. L’aver cresciuto l’ultima generazione inoculandole il bacillo anti-nazista, vaccinandola con un confronto aperto sulle parole di Hitler, è servito molto più che non lasciare che queste parole restassero sottaciute, nascoste furtivamente tra le ombre dell’illegalità. Hitler scrisse la prima bozza della sua ideologia profondamente antisemita, sul concetto di razza nel 1924, mentre era in prigione per aver guidato un fallito colpo di Stato; al momento della sua morte, 21 anni dopo, aveva venduto 10 milioni di copie.
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Klare: senza le rinnovabili, è guerra ovunque per l’energia
Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.Gli esportatori – come Iraq e Nigeria, Russia e Sudan del Sud – spesso esercitano un’influenza sproporzionata, sulla scena mondiale, rispetto al loro reale peso specifico politico. Proprio la lotta per le risorse energetiche, scrive Klare in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, è stato un fattore evidente in diversi conflitti recenti, tra cui la guerra Iran-Iraq del 1980-1988, la Guerra del Golfo del 1990-1991 e la guerra civile sudanese del 1983-2005. «A prima vista, il fattore legato ai combustibili fossili nei più recenti focolai di tensione e di guerra può sembrare meno evidente, ma se si guarda più da vicino si vede che ognuno di questi conflitti è, in effetti, una guerra per l’energia». Gli estremisti sunniti dell’Isis, che sperano di fondare un giorno un “califfato islamico” in Medio Oriente, oggi occupano le aree-chiave per l’estrazione del greggio in Siria e gli impianti di raffinazione in Iraq. «Pare che l’Isis venda petrolio proveniente dai giacimenti sotto il suo controllo a oscuri intermediari, che a loro volta organizzano il trasporto – per lo più tramite autobotti – alla volta di acquirenti che si trovano in Iraq, Siria e Turchia. Si dice che queste vendite forniscano all’organizzazione i fondi necessari per pagare le sue truppe e acquisire le sue vaste scorte di armi e munizioni».Molti osservatori, aggiunge Klare, sostengono anche che l’Isis stia vendendo petrolio al regime di Assad in cambio di immunità dagli attacchi aerei governativi lanciati contro i restanti gruppi ribelli. «In qualsiasi modo gli attuali combattimenti nel nord dell’Iraq si sviluppino, è ovvio che anche lì il petrolio sia il fattore chiave», anche perché l’Isis «mira sia a negare le forniture di petrolio e le entrate ad esso legate al governo di Baghdad, sia a sostenere le proprie casse, migliorando la sua capacità di costruire una vera e propria nazione e facilitando ulteriori progressi militari». Dal petrolio al gas, è sempre l’energia al centro della contesta in Ucraina, dove transita il 30% del gas russo destinato all’Europa: non deve sorprendere che l’accordo di associazione tra Bruxelles e Kiev preveda l’estensione delle norme energetiche dell’Ue al sistema energetico ucraino, eliminando di fatto i benevoli accordi intercorsi tra le élite ucraine e la russa Gazprom. Non solo militare, ma anche energetico, il significato della contromossa di Putin, cioè il recupero della Crimea: si ritiene che la penisola sul Mar Nero ospiti miliardi di barili di petrolio e vaste riserve di gas, come dimostrato dalla pressione esercitata da Exxon Mobil, prima della crisi, per mettere le mani proprio sulla Crimea.Si scrive guerra ma si legge energia anche in Nigeria: le cronache parlano dei ribelli islamisti di Boko Haram, decisi ad abbattere un regime corrotto, ma spesso dimenticano di spiegare che il paese è il più grande produttore africano di petrolio, grazie a un’estrazione giornaliera di circa 2,5 milioni di barili. Profitti: decine di miliardi di dollari l’anno. Se venissero usati per stimolare lo sviluppo e migliorare la sorte della popolazione, scrive Klare, «la Nigeria potrebbe essere un grandioso faro di speranza per tutta l’Africa». Invece, «gran parte del denaro scompare nelle tasche (e relativi conti bancari esteri) di élite nigeriane ben ammanicate». Per molti nigeriani, la maggior parte dei quali vive con meno di 2 dollari al giorno, la corruzione della capitale Abuja, combinata con la brutalità indiscriminata della polizia, è una fonte costante di rabbia: risentimento che genera reclute per gruppi di insorti come Boko Haram e conquista l’ammirazione della popolazione. Soldi e petrolio sono alla base anche della guerra infinita in Sudan, inclusa la tragedia del Darfur. Avviata nel 1995, la prima guerra civile tra il nord islamico e il sud animista e cristiano si concluse nel 1972. Ma quando fu scoperto il petrolio nel sud, i governanti del nord revocarono l’autonomia concessa: la seconda guerra civile, protrattasi dal 1983 al 2005 per il controllo dei giacimenti, ha fatto 2 milioni di morti prima che si arrivasse alla secessione del sud, nel 2011. Ma il Sud Sudan non trova pace neppure ora: l’élite al potere combatte contro i competitori interni, in scontri continui attorno ai campi petroliferi, proprio come in Siria e in Iraq.Altro teatro di pericolosa instabilità geopolitica di origine energetica, il Mar della Cina: sia in quello meridionale che in quello orientale, «la Cina e i suoi vicini rivendicano la proprietà di vari atolli e isole che si trovano a cavallo di vaste riserve sottomarine di petrolio e di gas», ricorda Klare, citando gli scontri navali ormai ricorrenti. Quel mare, una propaggine del Pacifico occidentale molto ricca di energia, è circondato da Cina, Vietnam, Borneo e Filippine. «Le tensioni hanno raggiunto il picco in maggio, quando i cinesi schierarono il loro più grande impianto di perforazione per acque profonde, l’Hd-981, nelle acque rivendicate dal Vietnam», proteggendolo con una flotta da guerra. «Quando le navi della guardia costiera vietnamita hanno provato a penetrare all’interno di questo anello difensivo, nel tentativo di scacciare l’impianto di perforazione, sono state speronate dalle navi cinesi e colpite con cannoni ad acqua». In mare nessun morto, ma la rivolta anti-cinese in Vietnam ha fatto parecchie vittime. C’è chi parla di risentimenti storici, ma in realtà la China National Offshore Oil Company (Cnooc) stima che nel Mar Cinese Meridionale ci siano da 23 a 30 miliardi di tonnellate di petrolio e 16 trilioni di metri cubi di gas naturale, pari a un terzo del totale delle risorse petrolifere e di gas della Cina, che oggi è il più grande consumatore mondiale di energia.Non c’è via d’uscita, dice Klare: la guerra per l’energia continuerà in tutto il mondo. «Mentre le divisioni etniche e religiose possono fornire il carburante politico e ideologico di queste battaglie», è decisivo il movente economico: si parla di «profitti mastodontici», oltre che di “benzina” per alimentare le strutture militari belligeranti. In un mondo ancora legato a doppio filo ai combustibili fossili, il controllo delle riserve di petrolio e gas è una componente essenziale del potere nazionale. «Il petrolio potenzia più di automobili e aeroplani», ha detto Robert Ebel del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali durante un audizione del Dipartimento di Stato Usa nel 2002. «Il petrolio potenzia la forza militare, il Tesoro nazionale e la politica internazionale». È molto più del normale commercio di una materia prima: «E’ un fattore determinante del benessere, della sicurezza nazionale e della potenza in campo internazionale per coloro che possiedono questa risorsa vitale e il contrario per coloro che non ne hanno». Forse, conclude Klare, ne usciremo solo il giorno in cui, finalmente, il mondo passerà davvero alle energie rinnovabili.Iraq, Siria, Nigeria, Sud Sudan, Ucraina, Mar della Cina: ovunque si guardi, il mondo è in fiamme. A prima vista, i conflitti sembrano regionali e indipendenti l’uno dall’altro. Ma, visti da vicino, sono «un infuso stregato di antagonismi etnici, religiosi e nazionali, portato al punto di ebollizione dall’ossessione dell’energia». In ciascuno di questi conflitti, osserva uno studioso di geopolitica come l’accademico Michael Klare, la lotta è guidata in gran parte dall’irrompere dello scontro tra clan, sette e popoli veri e propri, ciascuno motivato dal controllo delle fonti energetiche, petrolio e gas: «Sono guerre del XXI secolo per l’energia». I governi di Iraq, Nigeria, Russia, Sud Sudan e Siria derivano la gran parte dei loro ricavi da vendite di petrolio, mentre le grandi imprese energetiche (molte delle quali di proprietà dello Stato) esercitano un potere immenso. Chiunque controlli questi Stati, o le zone di produzione di gas e petrolio, gestisce anche la ripartizione di ricavi cruciali. E il controllo delle risorse fossili si traduce in peso geopolitico per alcuni paesi e in vulnerabilità economica per altri.