Archivio del Tag ‘Erri De Luca’
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Erri De Luca: manca un partito che dia voce a noi italiani
Gianluca Di Candia è un avvocato che ha criticato il decreto Minniti-Orlando in toni civili e argomentati. È appunto un avvocato. Io non lo sono, e considero il decreto una infamia, perché toglie il diritto di appello alla persona richiedente asilo che si vede respingere la sua istanza in prima battuta. A una persona che ha perso in vita sua tutto quello che si può perdere e che si trova costretta a cercare riparo lontano dalla sua terra, si toglie anche questa garanzia. La sua pratica passa in Cassazione dove non potrà difenderla con la sua persona. E perché questo decreto si accanisce contro un diritto garantito dalla Costituzione? Perché il 70% delle sentenze di appello sono favorevoli al richiedente asilo. E’ una volontà di persecuzione e perciò una infamia. Se questa convinzione è un reato, me ne assumo la responsabilità. Il reato articolo 290 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate) è stato utilizzato soprattutto negli anni ‘70. Come mi spiego questo suo ritorno, tra l’altro, nei confronti di un avvocato che era presente ad una mobilitazione totalmente pacifica e dai toni bassi? Volontà di censura nei confronti di chi si adopera per offrire aiuto e sostegno ai casi di estrema necessità.Le navi dei volontari che salvano naufraghi dall’annegamento sono state bersaglio di calunnie e diffamazioni lasciate poi cadere senza neanche chiedere scusa. Oggi il ministero del decreto infame stila nuove misure per intralciare il loro intervento di soccorso. C’è volontà di ostacolare i salvataggi e c’è volontà di censura contro il diritto di critica. Mentre aumentano povertà e diseguaglianze sociali, diminuiscono gli spazi di partecipazione tanto che cresce la disaffezione dei cittadini nei confronti della res publica come dimostra anche il tasso di astensionismo alle recenti elezioni amministrative. Non so cosa vuol dire post-democrazia, noi siamo in una democrazia che possiede una carta costituzionale spesso calpestata, aggirata, ignorata. Noi siamo nel tempo della legittima e necessaria difesa di quella Carta e della sua attuazione. Vedo la condizione di cittadino degradata a quella di cliente. Lo Stato – da garante del diritto alla salute, alla istruzione, alla giustizia – diventa erogatore di servizi alla clientela.Il cliente è valutato in base al suo potere di acquisto: se ha denaro può accedere a una buona difesa in tribunale, a una buona istruzione, a un buon trattamento sanitario. Lo Stato diventa azienda, questa è la bestemmia in corso contro la quale si deve rianimare la condizione opposta di cittadino di una comunità di uguali. Manca una rappresentanza politica dell’enorme potenziale civile del nostro paese. Non si tratta di protesta, ma di dare valore aggiunto all’innumerevole attività di volontari e di piccole amministrazioni impegnate a governare bene con pochissimi mezzi. Esiste un’Italia eccellente che aspetta una proposta politica per raccogliersi.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Decreto Minniti, vogliono censurare il diritto di critica”, pubblicata su “Micromega” il 19 luglio 2017. Lo scrittore della “parola contraria” si schiera col giovane avvocato denunciato con l’accusa di vilipendio per aver constestato pubblicamente il decreto Minniti-Orlando durante un pacifico flash-mob al Pantheon, a Roma).Gianluca Di Candia è un avvocato che ha criticato il decreto Minniti-Orlando in toni civili e argomentati. È appunto un avvocato. Io non lo sono, e considero il decreto una infamia, perché toglie il diritto di appello alla persona richiedente asilo che si vede respingere la sua istanza in prima battuta. A una persona che ha perso in vita sua tutto quello che si può perdere e che si trova costretta a cercare riparo lontano dalla sua terra, si toglie anche questa garanzia. La sua pratica passa in Cassazione dove non potrà difenderla con la sua persona. E perché questo decreto si accanisce contro un diritto garantito dalla Costituzione? Perché il 70% delle sentenze di appello sono favorevoli al richiedente asilo. E’ una volontà di persecuzione e perciò una infamia. Se questa convinzione è un reato, me ne assumo la responsabilità. Il reato articolo 290 (vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate) è stato utilizzato soprattutto negli anni ‘70. Come mi spiego questo suo ritorno, tra l’altro, nei confronti di un avvocato che era presente ad una mobilitazione totalmente pacifica e dai toni bassi? Volontà di censura nei confronti di chi si adopera per offrire aiuto e sostegno ai casi di estrema necessità.
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Migranti, Erri De Luca: sinistra morta, 5 Stelle invotabili
Migranti: in Europa siamo di fronte ad un’emergenza da fronteggiare? Non si può usare il termine emergenza per un fenomeno che dura in continuità da venti anni. Emergenza è un terremoto, un’alluvione, una siccità. Qui si tratta di incompetenza, di volontario affidamento dei flussi migratori ai trafficanti, di passiva gestione di chi comunque arriva. Nel caso dei flussi migratori registriamo una percezione ingigantita che istiga l’allarme di invasione. È vero il contrario, le poche decine di migliaia di nuovi arrivi non compensano l’esodo di italiani verso residenze all’estero. Passivo è anche il saldo tra nascite e decessi, in parte compensato dalla natalità dei nuovi arrivi. L’Italia è un paese in via di disabitazione. Una percezione sobria della realtà dovrebbe rallegrarsi del rabbocco di nuovi residenti. Si sparge invece artificialmente l’allarme per giustificare la parola emergenza, che a sua volta giustifica assegnazioni senza gara di appalti e di denaro pubblico a imprenditori legati ai partiti.L’Italia e i paesi di confine sud si sono danneggiati da soli firmando il trattato di Dublino, che assegna al paese di primo arrivo l’intero onere di identificazione e trattenimento. Il governo d’Europa invece lascia che i flussi migratori se la sbrighino da soli. Ogni tanto l’Europa impone il blocco alle frontiere, sospendendo il trattato di Schengen. Va sospeso invece quello di Dublino. La polemica sulle Ong generata dalle frasi del grillino Luigi Di Maio? Un atto di autolesionismo politico e morale: se c’è un calcolo nel ripetere a pappagallo la diffamazione contro i salvatori di vite umane in mare, è calcolo sbagliato. Potrà incassare qualche voto, ma produce di più un’emorragia di consensi. Con questa posizione sono diventati non più votabili per chi era uscito dall’astensionismo. Il Movimento aveva raccolto quell’area di astenuti, che ora ha restituito al vento.Quali le responsabilità della politica? Di infischiarsene, di lasciare che l’economia selvaggia lucri sulla vita, il lavoro, il bisogno di chi ha solo la forza e la gioventù come merce di scambio. Il recente ignobile decreto Minniti toglie al richiedente asilo il diritto di appello in caso di prima sentenza di respingimento della sua domanda. A chi ha perso tutto quello che si può perdere nella vita, viene tolto anche il ricorso in appello. È un provvedimento incostituzionale e il ministro lo sa, ma che importa? Basta sbattere sul tavolo di una perpetua campagna elettorale l’accanimento contro il più debole. Il decreto è stato preceduto dal ridicolo e certamente costoso accordo con un caporione libico, uno fra i tanti, per trattenere i profughi più a lungo. E in tutto questo, la sinistra dov’è, esiste ancora? E’ stata amputata dopo lunga cancrena. Come gli arti amputati, ogni tanto continua a far male in assenza.Il centrosinistra ha introdotto i campi di detenzione abusiva per stranieri colpevoli di viaggio non autorizzato. Ha esordito con il governo Prodi-Veltroni affondando il barcone albanese Kater i Rades nella Pasqua del ‘97 per imporre un blocco navale illegale. Invece l’accoglienza economica esiste, eccome: manodopera sottopagata, senza limiti di orario di lavoro, sistemata in alloggi degradati. Succedeva già a Torino negli anni ‘60 e ‘70, gli operai meridionali vivevano in soffitte, dividendosi in due la stessa branda, secondo i turni di lavoro in fabbrica. Il sistema economico tende a ridurre al minimo il costo della manodopera e la nuova disponibilità di stranieri senza diritti sindacali è la pacchia del profitto. L’accoglienza economica avviene sopra e sotto banco. Nella questione dei flussi migratori è in discussione la semplice appartenenza alla specie umana e alla civiltà del Mediterraneo.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Io sto con le Ong, e il M5S è diventato invotabile”, pubblicata da “Micromega” il 17 maggio 2017).Migranti: in Europa siamo di fronte ad un’emergenza da fronteggiare? Non si può usare il termine emergenza per un fenomeno che dura in continuità da venti anni. Emergenza è un terremoto, un’alluvione, una siccità. Qui si tratta di incompetenza, di volontario affidamento dei flussi migratori ai trafficanti, di passiva gestione di chi comunque arriva. Nel caso dei flussi migratori registriamo una percezione ingigantita che istiga l’allarme di invasione. È vero il contrario, le poche decine di migliaia di nuovi arrivi non compensano l’esodo di italiani verso residenze all’estero. Passivo è anche il saldo tra nascite e decessi, in parte compensato dalla natalità dei nuovi arrivi. L’Italia è un paese in via di disabitazione. Una percezione sobria della realtà dovrebbe rallegrarsi del rabbocco di nuovi residenti. Si sparge invece artificialmente l’allarme per giustificare la parola emergenza, che a sua volta giustifica assegnazioni senza gara di appalti e di denaro pubblico a imprenditori legati ai partiti.
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Erri De Luca: il referendum, per non restare sudditi a vita
Il malaffare Guidi non è un episodio isolato, ma la prassi: interessi privati in pubblico servizio, con l’aggravante del danno alla salute e all’economia di una comunità. Il personale politico al potere è regolarmente corrotto e se ne infischia delle conseguenze. Le dimissioni preparano a nuovi incarichi e non all’esilio. Il 17 aprile si va a riscattare la nostra cittadinanza contro la riduzione a sudditi del satrapo di turno. Si va a riempire le urne di Sì per affermare la nostra sovranità sul mare, sui fondali, sulle coste e sull’economia della bellezza, nostra irripetibile fonte di reddito e di credito. Per il giurista Stefano Rodotà, con l’attacco frontale ai referendum Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Al governo serve un’astensione totale dei cittadini, una rinuncia a partecipare e interessarsi, complice una informazione che procede a reti unificate con la censura del referendum. Istigano alla diserzione dalle urne. Al governo serve l’anestesia delle coscienze per proseguire con la svendita e lo stupro del territorio, come fosse cosa sua privata.Siamo alla democrazia drogata da anestetico. Perciò il 17 aprile lo chiamerei giorno di caffeina civile, giorno di adrenalina e di pronto soccorso al nostro suolo. Non è un voto contro il governo, è il voto di chi vuole bene al suo paese. Questo governo, anch’esso non uscito da urne, gode di una congiuntura favorevole: ha maggioranze parlamentari variabili dovute al fine corsa di Forza Italia che vuole sfruttare tutta la durata della legislatura. Da questa posizione irripetibile di vantaggio il governo spadroneggia. Il guasto del nostro paese è la corruzione. Questa è la tirannia penetrata nelle fibre della società, che produce inerzia. Attribuisco al 17 aprile un’ importanza superiore al quesito del referendum: assume il senso di un risveglio di cittadinanza oppure, l’alternativa, la sottomissione all’emiro nostrano. Chi sta con le trivelle in mare vede l’Italia come un suo emirato.Per il comitato del No, con il blocco futuro delle concessioni l’Italia avrebbe bisogno di sopperire al gas e al petrolio “perso” rifornendosi altrove, il che si tradurrebbe nell’arrivo di un maggior numero di petroliere che aumenterebbero i rischi di inquinamento da idrocarburi nei nostri mari. Inoltre le trivellazioni porterebbero ad un risparmio di quasi 5 miliardi l’anno sulla bolletta energetica. Come replico? Sono balle desolate. Le concessioni, come dice la parola, concedono ai petrolieri di vendere l’estratto a chi vogliono loro. Quel gas, quel petrolio non è nostro, per concessione è loro. Da noi intanto con tenacia cresce l’energia rinnovabile che investe sulla dipendenza dal sole e dal vento, per liberarsi dalla dipendenza dei trivellatori, degli sfruttatori e dei loro concessionari politici. Il settore chimico della Cgil si è schierato per il No al referendum per il rischio della perdita dei posti di lavoro? Non è così. Quei posti di lavoro sono altamente specializzati e trovano collocazione ovunque. È puro corporativismo analfabeta, da parte di un sindacato, pronunciarsi contro questo referendum voluto da sette Regioni e per legittima difesa.(Erri De Luca, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Referendum, caffeina civile contro l’anestesia delle coscienze”, pubblicata da “Micromega” il 4 aprile 2016).Il malaffare Guidi non è un episodio isolato, ma la prassi: interessi privati in pubblico servizio, con l’aggravante del danno alla salute e all’economia di una comunità. Il personale politico al potere è regolarmente corrotto e se ne infischia delle conseguenze. Le dimissioni preparano a nuovi incarichi e non all’esilio. Il 17 aprile si va a riscattare la nostra cittadinanza contro la riduzione a sudditi del satrapo di turno. Si va a riempire le urne di Sì per affermare la nostra sovranità sul mare, sui fondali, sulle coste e sull’economia della bellezza, nostra irripetibile fonte di reddito e di credito. Per il giurista Stefano Rodotà, con l’attacco frontale ai referendum Renzi prosegue sulla strada della passivizzazione dei cittadini. Al governo serve un’astensione totale dei cittadini, una rinuncia a partecipare e interessarsi, complice una informazione che procede a reti unificate con la censura del referendum. Istigano alla diserzione dalle urne. Al governo serve l’anestesia delle coscienze per proseguire con la svendita e lo stupro del territorio, come fosse cosa sua privata.
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Moresco: perché non firmo la petizione per Erri De Luca
Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave. Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione.Così una persona che si è fatta portavoce di questo motivato rifiuto è finita sotto processo, mentre altre persone, amministratori, tecnici e anche politici di primo piano, che pure hanno ricevuto un mandato elettorale dai cittadini e che quindi dovrebbero ascoltarne le ragioni, sarebbero invece gli eroi positivi del progresso contro i negativi e retrivi abitanti della valle che rifiutano il progresso. Tutto ciò pone dei gravi interrogativi sul nostro futuro di specie e sulle scelte che bisognerà avere il coraggio e l’immaginazione di fare di fronte al deteriorarsi del nostro rapporto con l’ambiente planetario in cui viviamo, lacera il rapporto tra elettori ed eletti e straccia il velo di una simile democrazia a senso unico. Perciò – per quanto può valere la mia solidarietà – non posso che essere dalla parte di Erri De Luca, senza riserve, senza se e senza ma. Però, nello stesso tempo, non posso firmare la mozione di solidarietà con lui in nome della libertà di espressione. E questo non per viltà o per ragioni di opportunità, ma perché dissento profondamente da come la questione è stata posta in questa mozione. Cercherò di spiegare il perché.Io non credo che le parole siano un insieme dove sono tutte interscambiabili e ineffettuali, non credo che ci sia una zona franca e neutra dove ogni parola possa venire astrattamente permessa e nello stesso tempo depotenziata e disinnescata in nome della libertà di opinione. Firmare una mozione posta in questi termini sarebbe per me come dire: “Che bello! Avete proprio ragione. Le parole non contano niente. Possiamo dire tutto quello che vogliamo, tanto non conta niente”. Vorrebbe dire che io sono d’accordo sul fatto che le parole non hanno peso, che non vanno prese sul serio, vorrebbe dire che accetto la dimensione vuota in cui si vorrebbero collocare le persone che si esprimono anche attraverso parole, e questo non posso farlo, come uomo e come scrittore. Inoltre, a firmare questa mozione – cui vedo stanno aderendo noti scrittori, capi di Stato e altri paladini di questa idea di libertà – mi sentirei un ipocrita, perché io non sono affatto sicuro di poter essere sempre e comunque solidale con chi esprime determinate opinioni, e questo in nome della sola e astratta libertà di espressione.Se, per esempio, domani qualcuno sostenesse – in un suo libro, in un’intervista o in qualsiasi altro modo – che bisogna schedare e bruciare le case e i negozi degli ebrei, oppure incendiare i campi rom o radere al suolo la Cappella Sistina, io certo non firmerei una mozione in sua difesa. Perciò mi sentirei un ipocrita a firmare oggi una mozione posta in questi stessi termini e che poggia sulle stesse astratte motivazioni. Né credo che questa contraddizione si possa aggirare con una capriola dialettica, come altri fanno, mettendomi cioè al riparo da questo rischio stabilendo a priori ciò che non rientra in questo campo di possibilità, come ad esempio le ideologie totalitarie di destra, negatrici di libertà. E poi, oltre a tutto questo, mi domando anche perché questa libertà dovrebbe essere privilegio di uno scrittore più che di qualsiasi altra persona. Questo spazio sostanzialmente infantile e deresponsabilizzato concesso agli scrittori è qualcosa che infantilizza e deresponsabilizza anche le loro stesse parole. Si mostra di concedere loro qualche lusso in più, ma al prezzo di rendere depotenziate, ineffettuali e inerti le loro parole.Strana cosa questo destino che, in nome della “tolleranza” (grande mito delle nostre società avanzate, che bisognerebbe prendere a scatola chiusa e senza vederne i risvolti), si vorrebbe riservare alle parole degli scrittori o di chiunque ne faccia un uso mediatico pubblico. Infatti, mentre in ogni altro campo si attribuisce un potere effettuale e vincolante alle parole (in un documento di matrimonio o divorzio, in un rogito, in un testamento, ecc…), in quello che riguarda invece il cosiddetto discorso pubblico e in particolare nelle cose dette da uno scrittore o da chiunque sia visto come accreditato a esprimere opinioni le si riduce appunto a “opinioni”, le si fa rientrare nella dimensione ineffettuale, insiemistica e deresponsabilizzante della “libertà di opinione e di espressione”. E allora è concesso tutto, è concesso tutto perché è stato tolto tutto.Certo, questo può sembrare un passo in avanti rispetto a ciò che succede nei regimi totalitari, siano essi di natura politica o religiosa. Basti pensare a quanto hanno sofferto scrittori e poeti nell’Unione Sovietica di Stalin (chiusi nei lager e condotti a morte da un regime che prendeva maledettamente sul serio le loro parole), o altri più vicini a noi, costretti a vivere nascosti perché minacciati di morte e/o sottoposti a mostruosi editti religiosi e fatwe, quando non massacrati da feroci giudici-boia, come è successo poco fa in Francia ai vignettisti di “Charlie Hebdo”. Però, se guardiamo a fondo, non è anche questo un altro modo (umanamente preferibile, certo) di togliere peso e forza alle parole, di rendere interscambiabile e gratuito ciò che dicono non prendendolo sul serio, di impedire la loro effettualità e il contagio che ne può derivare? E anche, allargando il campo, non è un altro modo di rendere neutra, ineffettuale e depotenziata l’intera letteratura?Io sono particolarmente sensibile a questo, e lo sono non solo per ragioni di principio ma anche perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Mi è capitato infatti, dopo i vent’anni, di venire incarcerato per un reato cosiddetto d’opinione, perché avrei cioè vilipeso l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone durante un comizio tenuto in un paese dell’Oltrepo Pavese. Per questo reato sono stato arrestato, portato via in manette e poi, con i ferri ai polsi tra due carabinieri armati di mitra, ho visitato un paio di prigioni dove sono stato sottoposto a ispezione rettale e dove ho passato diversi giorni in isolamento in una cella sotto terra con paglione e bugliolo, sono stato poi scarcerato per gravi errori contenuti nel documento di carcerazione, processato a piede libero e condannato a un anno e due mesi.Perciò lo so bene: il reato di opinione è una cosa grottesca e orribile. Ma non è altrettanto grottesco e orribile depotenziare le parole e le convinzioni dei viventi, ridurle a scatole vuote, non entrare mai nel merito delle parole stesse, che possono essere molto diverse le une dalle altre e meritare diversa riflessione e ascolto, invece che essere collocate nella categoria insiemistica della libertà di opinione in cui è concesso tutto perché è stato sottratto tutto alla radice? Se io domani dovessi venire processato o condannato per un reato di questa natura, mi piacerebbe certo sentire la vicinanza e l’amore delle persone libere ma, a torto o a ragione, non me la sentirei di chiedere a nessuno la solidarietà in nome di un principio che nega l’urgenza, la necessità e la verità delle stesse parole che ho pronunciato o scritto. Per tutto questo e per altro ancora sto con Erri De Luca, ma non sto con una generica libertà di espressione e di opinione che toglie ogni verità, responsabilità e forza a espressioni e opinioni.(Antonio Moresco, “A proposito di Erri De Luca e della libertà di espressione”, da “Il Primo Amore” del 23 settembre 2015).Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave. Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione.
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.
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Mujica, presidente impossibile: possiamo solo sognarcelo
Erri De Luca lo scrive nell’introduzione: «Pepe Mujica e il nuovo Uruguay democratico inaugurano insieme il tempo moderno e il futuro praticabile. A me lettore di queste pagine fa venire voglia urgente di andare a vederlo». Non un istant book su un personaggio in voga ora in Occidente, “Il presidente impossibile” – scritto a quattro mani da Nadia Angelucci e Gianni Tarquini – è un lavoro iniziato anni fa: una narrazione dettagliata e documentata di una piccola grande rivoluzione in un paese passato dal crack economico a rappresentare un interessante laboratorio socio-politico. Un profondo cambiamento che sta riguardando, tra anomalie e qualche contraddizione, l’intero continente latinamericano, dove una nuova leadership progressista – e populista, secondo le categorie dello studioso Ernesto Laclau – è stata capace di conquistare una egemonia culturale che passa attraverso la critica e l’opposizione al modello neoliberista.«A noi arrivano i successi ottenuti dai governi nati dall’ondata di cambiamento, ma bisogna ricordare che il loro emergere è stato favorito dal lavoro dei movimenti sociali latinoamericani, dei movimenti indigeni e sindacali», affermano i due autori del libro. «I governi progressisti e integrazionisti sono per lo più frutto di questo costante lavoro di riflessione, analisi e azione. Dall’altra le organizzazioni partitiche, nel caso dell’Uruguay, hanno saputo cogliere queste istanze e considerano i movimenti interlocutori alla pari». Appunto l’Uruguay, governato ora da un ex guerrigliero tupamaros. Il testo ci porta in questo Stato di soli 3 milioni di abitanti, principalmente agricolo dove «la terra ha un potere quasi religioso». Si ripercorre la biografia di Pepe Mujica – classe 1935 – il quale fin da giovane dimostra l’attaccamento alla vita rurale diventando un esperto di fiori (soprattutto giapponesi) da vendere in fiere e mercati. Ma la politica entra presto nella sua vita. Si forma ispirandosi al pensiero anarchico, successivamente sposa un marxismo eterodosso.Negli anni ’60 visita la Cina di Mao Zedong e la Cuba di Che Guevara rimanendo positivamente colpito dall’esperienza cubana, mentre dell’Unione Sovietica riporta il rifiuto verso un modello anchilosato a causa dell’enorme peso della burocrazia. Aderisce al Movimento di Liberazione Nazionale “Tupamaros” nel 1966, in un Uruguay in grande fermento politico: sono gli anni di una destra golpista che getterà le basi per il futuro regime. Mujica sceglie l’opzione militare. Il Mln, un gruppo armato di sinistra ispirato dalla rivoluzione cubana e alla difesa dei diritti dei lavoratori della canna da zucchero (cañeros) del nord del paese, sindacalizzati da Raúl Sendic, è inclusivo e attira militanti politici e sindacali di diversa provenienza. «Fummo molto attenti – le parole di Mujica riportate nel libro – cercammo di evitare il più possibile lo spargimento di sangue. Perché eravamo imbottiti di questa percezione anche in quanto figli dell’Uruguay, un paese che ha determinate caratteristiche tra le quali quella della vita umana come un valore portante».Una guerriglia di liberazione principalmente urbana, che nel tempo è duramente piegata dalla repressione del governo: molti attivisti sono uccisi, la polizia scheda e sorveglia 300 mila persone. Lo stesso Mujica è arrestato e torturato nel 1971. Proprio l’esperienza di prigionia, di cui ben 12 anni in isolamento, è fondamentale per capire il suo attuale pensiero: «In quella cella, realtà e immaginazione erano tutt’uno». Uscito dal carcere, l’Uruguay è in via di cambiamento. Lui, animale politico, passa dalla lotta armata alle vie parlamentari. Viene eletto per la prima volta deputato il 15 febbraio 1995. Nel libro viene ricordato uno dei suoi interventi maggiormente esplicativi del suo pensiero: «La democrazia vera non esiste, è una meta da raggiungere, non so quando né so bene come. La democrazia è un insieme di compromesso, lavoro, partecipazione, gestione dell’economia e tutto il resto. Noi siamo lontani da tutto questo e mi sembra che ci si avvicinino di più i popoli indigeni».«La democrazia liberale massifica, non promuove lo sviluppo delle enormi potenzialità della società, non dà opportunità, è rigida. Il fatto che io accetti di navigare con questo sistema non significa che mi illuda che sia il sistema ideale. No! Da questo punto di vista sono socialista come esattamente trent’anni fa». Nella sua attività parlamentare, da subito si evince la necessità di restituire il Parlamento ai cittadini come luogo di discussione ed elaborazione: «Compagni, il mondo è sottosopra. Nel palco dovreste esserci voi e noi in basso ad applaudirvi». I giornali raccontano come si sia presentato il giorno dell’insediamento con jeans e maglietta, spettinato e con una vecchia motocicletta. Questo il suo stile di vita, estremamente umile, sobrio e quasi – lo definirei – francescano, che ad oggi ancora lo caratterizza. Nel 2010 l’elezione a presidente dell’Uruguay col “Frente Amplio”, dopo un’esperienza da ministro nel primo governo di centrosinistra nel paese.Da premier rinuncia a tutti i privilegi della cosiddetta casta. Rimane a vivere nella sua umile “chacra”, con la sua compagna (anch’essa militante storica del Mln, intervistata nel libro) e i suoi tre amatissimi cani. Nel poco tempo libero si dedica alla terra, al trattore, alla coltivazione. Come scrivono Nadia Angelucci e Gianni Tarquini, «l’unicità di Mujica è data proprio dalla sua resistenza ad un certo tipo di ‘civilizzazione’». E poi l’innovazione nel paese. Soprattutto sui temi dei diritti civili: l’istituzione del matrimonio omosessuale (una rivoluzione per uno Stato latinoamericano) e la legalizzazione dell’uso della cannabis. Non solo. La decisione di lottare contro gli sprechi e di donare gran parte del suo stipendio ai poveri. Per ultimo, la campagna contro l’eccessivo uso delle armi: a chi dà indietro un fucile, lo Stato garantisce una bicicletta e un computer. Strumento sempre più utilizzato e diffuso nelle scuole dell’Uruguay.Un consenso nei suoi confronti in grande ascesa, anche se non mancano critiche. Qualcuno lo accusa di aver fatto poco a livello socio-economico, di non aver contrastato fino in fondo le politiche liberiste e di non aver ancora attuato riforme strutturali (come la riforma agraria). Mujica ne è consapevole. Parla di “umanizzazione del capitalismo” e, nel suo definirsi ancora socialista e libertario, chiede tempo per attuare completamente quel cambiamento promesso e annunciato. Pragmatico, rappresenta nel governo un uomo di grande mediazione che però ha avuto il coraggio di non abbandonare mai l’utopia: «Chi non coltiva la memoria, non sfida il potere», le sue parole. «E’ questo lo strumento per costruire il futuro che, in ogni caso, è nostro perché non hanno potuto sconfiggerci». Non un modello esportabile. Né un esempio da seguire in maniera pedissequa. Ma dall’Uruguay ci giunge un laboratorio politico-sociale che dovremmo analizzare e studiare per riscoprire da noi le ragioni della sinistra e riaffilare gli strumenti per la lotta dal basso. Il libro di Angelucci e Tarquini è prezioso per tali motivi.(Giacomo Russo Spena, “Il coraggio di cambiare, il nuovo Uruguay di Pepe Mujica”, da “Micromega” del 1° agosto 2014. Il libro: Nadia Angelucci e Gianni Tarquini, “Il presidente impossibile”, Nova Delphi, 199 pagine, euro 12,50).Erri De Luca lo scrive nell’introduzione: «Pepe Mujica e il nuovo Uruguay democratico inaugurano insieme il tempo moderno e il futuro praticabile. A me lettore di queste pagine fa venire voglia urgente di andare a vederlo». Non un istant book su un personaggio in voga ora in Occidente, “Il presidente impossibile” – scritto a quattro mani da Nadia Angelucci e Gianni Tarquini – è un lavoro iniziato anni fa: una narrazione dettagliata e documentata di una piccola grande rivoluzione in un paese passato dal crack economico a rappresentare un interessante laboratorio socio-politico. Un profondo cambiamento che sta riguardando, tra anomalie e qualche contraddizione, l’intero continente latinamericano, dove una nuova leadership progressista – e populista, secondo le categorie dello studioso Ernesto Laclau – è stata capace di conquistare una egemonia culturale che passa attraverso la critica e l’opposizione al modello neoliberista.
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Fortezza Europa: vendiamo armi e anneghiamo profughi
Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.«I rifugiati sono oggi il prodotto su scala industriale di quella grande guerra, immateriale e non dichiarata, che è la guerra contro i poveri, dove un confine netto separa chi ha diritto di muoversi da chi quel diritto si vede negato», e di trova di trova di fronte un’Europa trasformata in filo spinato, scrivono Spinelli, Padoan e Viale, nella petizione sottoscritta da Alexis Tsipras e Nichi Vendola e da autorevoli personalità come Stefano Rodotà, Luigi Manconi, Andrea Camilleri, Umberto Eco, Curzio Maltese, Moni Ovadia, Erri De Luca, Gad Lerner, Marco Revelli, Ermanno Rea, Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Imperativo morale: garantire il diritto di fuga e fermare i “respingimenti”. Nel 2013, il numero dei migranti forzati è aumentato di ben 6 milioni, complice la carneficina siriana che in tre anni ha sfrattato due milioni e mezzo di civili. Si scappa anche dalla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dalla Libia gettata nel caos dalla guerra occidentale; si fugge dalla Somalia e dal Maghreb.Uomini, donne e bambini che giungono alle nostre coste «in cerca non solo della nuda vita, ma di libertà e di giustizia: di quell’inclusione nel concetto di umanità senza il quale ogni discorso sui diritti perde significato, rimanendo appannaggio di un ceto di privilegiati». Chi non muore durante il viaggio, che trasforma il Mediterraneo in un cimitero, viene accolto come un fuorilegge, subendo una «inferiorizzazione giuridica, economica e sociale», oltre alla privazione della libertà. Così, a naufragare è «quello stesso pensiero di eguaglianza e solidarietà che fonda le nostre democrazie». Sicché, «i cittadini europei non possono più assistere passivamente alla strage che giorno dopo giorno si svolge davanti ai loro occhi». Tuttavia, l’Unione Europea – che dal 2000 dichiara di voler prevenire e combattere il traffico di esseri umani – sta, di fatto, permettendo che profughi e migranti attraversino il Mediterraneo «mettendo la propria vita nelle mani di organizzazioni criminali transnazionali, perché è stato lasciato loro il monopolio del trasporto in mare».La cosa, aggiungono i firmatari della petizione, è tanto più grave in quanto il Trattato sul Funzionamento dell’Unione prevede una responsabilità diretta in materia di gestione integrata delle frontiere, gestione di tutte le fasi del processo migratorio, accoglienza delle persone e condivisione degli oneri, non solo finanziari, tra tutti i paesi membri. Tutte norme rimaste quasi lettera morta: questo «conferma l’assenza di volontà politica da parte degli Stati membri e la pusillanimità della Commissione», data anche l’incapacità di predisporre soluzioni pratiche come la creazione di corridoi umanitari. L’Ue preferisce restare «nascosta dalla retorica del Consiglio Europeo o dalla valanga di documenti, incontri e conferenze», tra agenzie europee che dovrebbero «applicare le politiche europee, e non nel fare da schermo alla loro assenza». Massima ipocrisia, i respingimenti: presentati come misure per salvare i profughi, sono esattamente la loro condanna all’annegamento. Sono gli Stati, per primi, a violare le norme su diritto d’asilo, integrazione e solidarietà: «L’ossessione della lotta contro l’immigrazione clandestina e la chiusura dei canali di accesso regolari hanno concretamente operato per accrescere, come strumento di dissuasione, il rischio patito da tutti coloro che cercano di attraversare i confini della “fortezza Europa”».Come ogni altra legge varata dall’autocrazia tecnocratica di Bruxelles che infligge le politiche di austerity, anche lo “scudo” europeo anti-immigrazione, Frontex, non è mai stato votato dai cittadini. «L’Europa che ha creduto di potersi barricare in una fortezza, ha fallito», scrivono Spinelli, Padoan e Viale, ricordando il cartello esposto a Bruxelles da un migrante: “Non siamo noi ad attraversare i confini, sono i confini ad attraversare noi”. Servono nuove leggi, da applicare prontamente per fermare la strage. Oggi ci sono soltanto «iniziative su base volontaria, approcci diplomatici poco credibili e strumenti operativi con risorse limitate, come Frontex», praticamente «fumo negli occhi». I firmatari chiedono a Bruxelles di esaminare seriamente la situazione e produrre risposte. Nel frattempo, «si tratta di prevedere d’urgenza l’apertura di percorsi autorizzati e sicuri per chi lascia il territorio di nascita, di cittadinanza o di residenza – in fuga da guerre, persecuzioni, catastrofi ambientali, climatiche o economiche». Un corridoio umanitario tra Africa e Ue, sotto tutela Onu, per scongiurare nuove tragedie. Del resto, l’Europa è già presente in Libia: perché non fa niente per contrastare il traffico di esseri umani?Spinelli, Padoan e Viale chiedono «canali di ingresso legale», in cui «un sistema di traghetti e voli charter sostituisca le carrette del mare», e in cui l’Onu e l’Ue presidino ogni snodo di partenza e di transito per «identificare, tutelare e dotare i profughi di visti provvisori», per poi «smistare gli arrivi fra i vari porti e aeroporti attrezzati per l’accoglienza, così da governare razionalmente la distribuzione sul territorio europeo dei singoli e delle famiglie», mettendo fine all’assedio degli abitanti di Lampedusa, costretti a supplire, con grande generosità, «l’abissale assenza dello Stato e dell’Unione Europea». Più in generale, «l’Italia e tutti i popoli del Sud Europa non possono più essere lasciati soli nel gravoso compito dei soccorsi in mare». Poi occorre assicurare libertà di movimento, garantire ai profughi «la libertà di scegliere dove vivere e la libertà di riannodare i propri affetti». Serve anche il “mutuo riconoscimento” delle decisioni sull’asilo: «Chiunque si trovi nello spazio europeo, indipendentemente dalla sua cittadinanza, deve poter godere del pieno esercizio di pari diritti». Per questo, i firmatari chiedono «la chiusura di tutti i centri di detenzione per migranti e profughi, comunque si chiamino, che configurano una forma di detenzione extra ordinem».Barbara Spinelli, Daniela Padoan, Guido Viale e chiedono che l’Ue si impegni a facilitare richieste e visti, «per chi fugge da situazioni di guerra o di persecuzione o di rischio per la vita», grazie a una normativa «capace di restituire dignità giuridica ai rifugiati», a cominciare dalla protezione del diritto di transito. Problema ancor più drammatico per i minori non accompagnati, quasi 6.000 in Italia negli ultimi 18 mesi: «Molti di loro sono trattenuti da mesi in strutture inadeguate, che non prevedono percorsi di formazione né di integrazione». Poi, l’istituzione dello “ius soli”, per assicurare la cittadinanza europea ai figli dei migranti nati nei nostri paesi. Obiettivo finale: una “pax mediterranea”, dopo la “guerra infinita” prodotta dall’attuale geopolitica occidentale, prima responsabile delle crisi che determinano il flusso dei rifugiati. Servono nuovi strumenti politici per governare l’esodo: «Basti pensare al fatto che se accogliessimo davvero i profughi, dando loro possibilità di avere voce e diritti, si creerebbe forse in Europa una “terza forza” in grado di rappresentare il rispettivo paese – per esempio la Siria, la Repubblica Centrafricana, l’Eritrea e tutti i paesi del Corno d’Africa – in un eventuale negoziato, più e meglio dei cosiddetti governi in esilio, che talvolta sono puri fantocci».La crisi migratoria, concludono i firmatari, mostra quanto sia urgente una politica estera europea, «attualmente impedita non solo da sterili sovranità nazionali gelosamente custodite, ma anche dalla sudditanza dell’Unione Europea alla Nato e agli Usa, che sono spesso all’origine dei conflitti che deflagrano nel mondo e soprattutto ai nostri confini». L’Europa è tutt’altro che innocente: tra i primi dieci esportatori mondiali di armi figurano Germania, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia, Spagna e Svezia. «Partner di questo lucroso commercio sono in gran parte proprio i paesi dai quali le persone sono costrette a fuggire per mettersi al riparo da guerre, persecuzioni, violazioni dei diritti umani e soppressione delle libertà democratiche. Poiché i rifugiati sono il prodotto della guerra, noi, cittadini d’Europa, chiediamo che la nostra pace non sia una retorica né un privilegio di asserragliati, ma si declini in politiche solidali capaci di includere i paesi che si affacciano sul Mediterraneo e l’Africa».Siamo noi a vendere le armi ai regimi che li massacrano, facendoli fuggire sui barconi. Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, il numero di profughi, richiedenti asilo e sfollati ha superato i 50 milioni di persone. E’ il più grande esodo della storia, dopo la fuga di massa dall’Europa dominata dal nazismo. La fuga è diventata espressione del nostro mondo, scrivono Barbara Spinelli, Daniela Padoan e Guido Viale in una petizione al Parlamento Europeo in occasione del semestre italiano di presidenza dell’Ue. «È una fuga che vede l’Europa come approdo, luogo di salvezza». Sulle nostre coste affluiscono uomini, donne e bambini «che si lasciano alle spalle paesi in fiamme, dittature, genocidi, carestie, catastrofi climatiche e ambientali, guerre divenute inani e senza fine contro il terrorismo». Ma siamo noi, Occidente, i principali “esportatori” di disperazione. E tutto quello che facciamo è lasciare i disperati in mano ai trafficanti, per poi rinchiudere i superstiti nei centri di detenzione italiani, mentre il resto d’Europa lascia che la sbrighi l’Italia.
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Mafia ad alta velocità, in val Susa l’indagine del Ros
«Via la mafia dalla val Susa», gridarono in coro i No-Tav asserragliati a Chiomonte il 27 giugno 2011, quando scorsero la ruspa dell’Italcoge di Ferdinando Lazzaro sfondare le barricate degli attivisti per consentire ai duemila agenti di sgomberare la “Libera Repubblica della Maddalena” e avviare il mini-tunnel geognostico, primo e unico cantiere finora aperto per la linea Tav Torino-Lione, considerata la grande opera più costosa della storia italiana nonché la più inutile d’Europa, visto il crollo del traffico Italia-Francia e la presenza in valle di Susa della ferrovia internazionale Torino-Modane ormai deserta, nonostante l’ammodernamento del traforo del Fréjus. Oggi, a tre anni di distanza, i No-Tav accolgono con sollievo la retata di arresti e denunce operata dai carabinieri del Ros su ordine della direzione distrettuale antimafia del Piemonte, tesa a stroncare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella maxi-torta dell’alta velocità. «Quella dei No-Tav è anche una lotta antimafia», ha ricordato Marco Revelli al maxi-processo torinese contro gli attivisti della valle di Susa, indagati anche per terrorismo dalla procura torinese guidata da Caselli, prima che la Cassazione stabilisse l’insussistenza di quel gravissimo reato.Contro gli inquirenti di Torino in questi mesi si erano levate voci molto autorevoli, tra cui quelle di alti magistrati a riposo, come Taselli, Pepino e Palombarini. «Contro di noi anche la folle accusa di terrorismo – hanno protestato i No-Tav – mentre nessuno indaga sull’ombra della ‘ndrangheta che incombe sul cantiere di Chiomonte». Errore: qualcuno indagava. E ha intercettato alcune aziende incaricate del movimento terra: «Prendiamo tutto noi», gongolavano i titolari delle imprese. Tra questi Giovanni Toro, secondo gli inquirenti esponente di spicco della ‘ndrina di San Giovanni Marchesato (Crotone), che proprio grazie a Lazzaro – la cui azienda oggi si chiama Italcostruzioni – avrebbe lavorato a Chiomonte aggirando le norme che impedivano l’accesso ai camion privi delle necessarie autorizzazioni. «Lo faccio attraverso la Prefettura, gli dico che dobbiamo asfaltare, è urgente», dice Lazzaro, intercettato dai Ros.Uno dei punti sotto esame riguarda l’asfaltatura delle piste destinate al pattugliamento della polizia, all’interno dell’area militarizzata del cantiere. «Il fatto che emerge, e che dovrebbe far riflettere sulla sicurezza del cantiere – scrive “L’Espresso” – è che gli investigatori non hanno trovato traccia di contratti registrati tra Toro, Italcostruzioni o Ltf», la società Lyon-Turin Ferroviaire che ha in appalto la costruzione dell’arteria. Il che vuol dire, secondo gli inquirenti, che l’azienda di Toro «ha lavorato sotto gli occhi dei militari che presidiavano il sito senza un pezzo di carta che certificasse la sua presenza». Sempre sull’“Espresso”, Giovanni Tizian ricostruisce le vicende alla base dell’indagine: «Inizialmente, la ditta di Lazzaro si chiama Italcoge. Con questa ottiene la commessa. Poi però Italcoge fallisce». Ma Lazzaro «continuava di fatto a occuparsi del cantiere avvalendosi proprio di Toro», scrive il giudice delle indagini preliminari che ha firmato le 900 pagine dell’ordinanza.L’imprenditore in pratica ha creato una nuova società, la Italcostruzioni, proseguendo senza problemi i lavori a Chiomonte: «Italcostruzioni acquisiva i mezzi, le autorizzazioni di legge nonché il subentro nel Consorzio Valsusa», che raccoglie gran parte delle aziende impegnate nel grande appalto pubblico. Ma c’è di più, aggiunge Tizian: Lazzaro negli atti è indicato come uno degli interlocutori principali di Rfi, Rete ferroviaria italiana, e Ltf. «Alcune conversazioni intercettate dimostravano sia l’influenza esercitata da Lazzaro in seno al Consorzio Valsusa, che di fatto considerava di sua proprietà, sia il ruolo di unico interlocutore della committente Ltf», scrivono i magistrati. «Prendiamo tutto noi, Nando», si sente in una delle intercettazioni. E Lazzaro conferma: «Prendiamo tutto noi». Tra gennaio e marzo 2012 poi il titolare di Italcostruzioni – per ora indagato per smaltimento illecito dei rifiuti di cantiere – cerca «di fare entrare Toro all’interno del Consorzio Valsusa». L’imprenditore calabrese che ha asfaltato le piste a Chiomonte, ora in carcere insieme a una ventina di persone, è invece indagato per concorso esterno con il clan crotonese.Ferdinando Lazzaro, dicono ora gli attivisti valsusini, è andato ripetutamente in televisione ad accusare i No-Tav degli incendi divampati presso aziende coinvolte nel cantiere: tesi avallata dai media, nonostante i roghi di tanti presidi No-Tav (i punti d’incontro del movimento, regolarmente dati alle fiamme). In prima fila, a incolpare i valsusini, i politici dell’establishment, dal senatore Pd Stefano Esposito al ministro Maurizio Lupi. Mai un accenno al problema-mafia in valle di Susa neppure dal ministro Alfano, recatosi in visita al cantiere di Chiomonte come l’ex sindaco torinese Sergio Chiamparino, ora presidente della Regione Piemonte, fattosi fotografare in campagna elettorale nel sito di cantiere che secondo gli inquirenti sarebbe stato realizzato con il contributo dell’imprenditoria mafiosa. «Le grandi opere come il Tav fanno gola alla mafia», avvertì il giallista Massimo Carlotto al “Valsusa FilmFest”, «perché sono un’occasione d’oro per riciclare denaro sporco». Nel suo “Libro nero dell’alta velocità”, Ferdinando Imposimato ricorda che buona parte della rete Tav italiana è stata costruita dalla mafia, grazie al sistema dei subappalti a cascata che rende incontrollabile la lievitazione dei prezzi.Di mafia in valle di Susa in realtà si parla da sempre, visto che il comprensorio turistico è dotato di importanti impianti invernali e ha ospitato grandi eventi, dai Mondiali di sci alle Olimpiadi. Storie di appalti sospetti, intimidazioni e sindacalisti minacciati fanno parte della letteratura giudiziaria della valle di Susa, fin dalle prime segnalazioni della Commissione Antimafia. A metà degli anni ‘90, su iniziativa della nuova magistratura antimafia creata dopo la morte di Falcone e Borsellino, fu disciolto per infiltrazioni mafiose il Consiglio comunale di Bardonecchia – primo caso, nel nord Italia. Sempre negli anni ‘90, affiorarono legami tra Susa e la ‘ndrangheta attraverso uno strano traffico di armi, centinaia di pistole cedute illegamente dalla locale armeria a una cosca calabrese “sotto gli occhi di settori dell’intelligence”, secondo gli inquirenti. Di mafia si è occupato a lungo il nuovo procuratore capo di Torino, Armando Spataro, succeduto a Gian Carlo Caselli, protagonista della dura repressione contro il movimento No-Tav, con un migliaio di cittadini denunciati, oltre 50 imputati al maxiprocesso celebrato nell’aula-bunker del carcere torinese delle Vallette e persino il rivio a giudizio dello scrittore Erri De Luca, “reo” di aver difeso lo strumento del “sabotaggio” come forma di resistenza civile contro la grande opera, che devasterebbe il territorio fino a renderlo inabitabile, mettendo in pericolo anche la salute data la presenza di amianto e uranio nel materiale di scavo.Spataro, che nel giorno del suo insediamento ha dichiarato di non gradire i giudici-superstar, si è occupato anche di terrorismo, denunciando l’opacità dei legami con alcuni settori dello Stato. Dopo aver condotto l’indagine sul rapimento illegale del mullah Abu Omar, sequestrato in Italia dal Sismi per ordine della Cia, il giudice è stato premiato per il saggio “Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza, 2010). Nucleo centrale della narrazione, è proprio la vicenda della “extraordinary rendition” del leader islamico catturato e poi torturato. L’opposizione del segreto di Stato, da parte dei governi Prodi e Berlusconi, è stata per Spataro «l’occasione per riflettere sui rapporti tra politica e magistratura e sulla violazione dei diritti umani con il pretesto della sicurezza». E’ ora l’ex magistrato di Mani Pulite a coordinare una procura, quella di Torino, impegnata nella repressione di centinaia di attivisti No-Tav, decisi a contrastare un’opera inutile, per la quale l’Europa ha appena dimezzato il già scarso contributo previsto, mentre la Francia riprenderà eventualmente in considerazione il progetto Torino-Lione solo dopo il 2013. Un’opera costosissima e ora anche inquinata dall’ombra della mafia, come anticipato dai documenti sequestrati ai No-Tav. «Bollati come terroristi che accumulavano materiale chissà per quale scopo criminale», chiosa Tizian su “L’Espresso”. «Oggi invece la storia sembra un po’ diversa: facevano lavoro di controinformazione».«Via la mafia dalla val Susa», gridarono in coro i No-Tav asserragliati a Chiomonte il 27 giugno 2011, quando scorsero la ruspa dell’Italcoge di Ferdinando Lazzaro sfondare le barricate degli attivisti per consentire ai duemila agenti di sgomberare la “Libera Repubblica della Maddalena” e avviare il mini-tunnel geognostico, primo e unico cantiere finora aperto per la linea Tav Torino-Lione, considerata la grande opera più costosa della storia italiana nonché la più inutile d’Europa, visto il crollo del traffico Italia-Francia e la presenza in valle di Susa della ferrovia internazionale Torino-Modane ormai deserta, nonostante l’ammodernamento del traforo del Fréjus. Oggi, a tre anni di distanza, i No-Tav accolgono con sollievo la retata di arresti e denunce operata dai carabinieri del Ros su ordine della direzione distrettuale antimafia del Piemonte, tesa a stroncare l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella maxi-torta dell’alta velocità. «Quella dei No-Tav è anche una lotta antimafia», ha ricordato Marco Revelli al maxi-processo torinese contro gli attivisti della valle di Susa, indagati anche per terrorismo dalla procura torinese guidata da Caselli, prima che la Cassazione stabilisse l’insussistenza di quel gravissimo reato.
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Palombarini: No-Tav, la legge secondo i giudici di Torino
Dopo il filosofo Gianni Vattimo, fermamente contrario alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione, anche lo scrittore Erri De Luca dovrà affrontare un processo penale davanti al Tribunale di Torino. È stato infatti rinviato a giudizio per rispondere del delitto di istigazione a delinquere. Un reato, questo, che la Corte Costituzionale non ha cancellato perché riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione. Ma, allora, se un intellettuale dice che «la Tav va sabotata» e che «le cesoie sono utili perché servono a tagliare le reti», ovviamente nell’ambito di un giudizio positivo del movimento di resistenza alla costruzione della faraonica linea ferroviaria Torino-Lione (270 chilometri di lunghezza, 55 dei quali in galleria), esprime un’opinione o invece può concretamente indurre altre persone a commettere delitti?Da un quarto di secolo c’è in Val di Susa un movimento popolare che tenta di spiegare all’opinione pubblica nazionale le ragioni dell’opposizione all’opera. Dalla tutela della salute, essendo la montagna da scavare ricca di uranio e amianto, alla caduta verticale degli scambi europei di merci sulla direzione est-ovest, dalla ridotta utilizzazione della ferrovia già esistente di cui sarebbe possibile il potenziamento, allo spreco di ingenti risorse in un periodo di grave crisi economica. E però, parallelamente, è andato crescendo il tasso di repressione penale con riferimento agli interventi di intellettuali a sostegno del movimento No Tav e agli scontri fra manifestati e polizia avvenuti in occasione di alcune pubbliche manifestazioni di protesta contro l’iniziativa.Ormai da qualche tempo si ha la sensazione di una complessiva forzatura dell’azione penale quando si leggono le imputazioni ascritte ad alcuni intellettuali o che l’autorità giudiziaria torinese formula nei confronti di giovani e meno giovani protagonisti delle lotte contro la costruzione della linea ferroviaria. Quasi che l’autorità giudiziaria torinese si considerasse investita non solo e non tanto del compito di reprimere i fatti penalmente illeciti, ma anche, immediatamente, della tutela dell’ordine pubblico, così contribuendo, a fianco di tutta una serie di poteri forti interessati alla realizzazione dell’opera, a che i lavori si svolgano rapidamente. La sensazione è rafforzata dal fatto che nei processi della Val di Susa più di una volta è intervenuta la Corte di Cassazione non solo per annullare singoli provvedimenti dei magistrati torinesi, ma anche per precisare i principi ai quali essi dovrebbero ispirarsi.Così, di recente, la Cassazione si è pronunciata sulla misura cautelare emessa il 5 dicembre 2013 nei confronti di quattro attivisti No Tav per i delitti di “attentato per finalità di terrorismo” e “atti di terrorismo” ai sensi degli articoli 280 e 280 bis codice penale; e ha annullato l’ordinanza. In altra occasione la Suprema Corte era intervenuta con una sentenza del 7 settembre 2012 per ricordare che l’ordinamento, a parte i fenomeni associativi di tipo mafioso, non tollera automatismi di carcerazione preventiva collegati alla sola gravità dei fatti, ma richiede un giudizio di pericolosità per ogni imputato, e che nella scelta di una misura restrittiva eventualmente necessaria occorre partire dalla valutazione dell’efficacia di quelle meno afflittive, prima di giungere alla più grave misura del carcere. È auspicabile che si apra presto un dibattito su queste tematiche, non solo fra i giuristi, in quanto le scelte della magistratura torinese e i relativi contrasti investono ormai il ruolo del giudice.(Giovanni Palombarini, “Dai No Tav al ruolo di giudice”, da “Il Mattino di Padova” del 12 giugno 2014, articolo ripreso da “NoTav.info”. Palombarini è stato procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione).Dopo il filosofo Gianni Vattimo, fermamente contrario alla costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione, anche lo scrittore Erri De Luca dovrà affrontare un processo penale davanti al Tribunale di Torino. È stato infatti rinviato a giudizio per rispondere del delitto di istigazione a delinquere. Un reato, questo, che la Corte Costituzionale non ha cancellato perché riguarda, o dovrebbe riguardare, solo i comportamenti concretamente idonei a provocare la commissione di altri reati, ferma però la libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla Costituzione. Ma, allora, se un intellettuale dice che «la Tav va sabotata» e che «le cesoie sono utili perché servono a tagliare le reti», ovviamente nell’ambito di un giudizio positivo del movimento di resistenza alla costruzione della faraonica linea ferroviaria Torino-Lione (270 chilometri di lunghezza, 55 dei quali in galleria), esprime un’opinione o invece può concretamente indurre altre persone a commettere delitti?
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Caro Michele Serra, non sono i No-Tav i ladri del 25 Aprile
Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.Una verità consolidata quanto comoda, secondo cui l’ultima fu una unificante e corale lotta di un intero popolo contro un manipolo di feroci ma minoritari fascisti rimasti fedeli agli “invasori” nazisti, quindi in quanto tali alieni… Serra non è notoriamente un frequentatore del nostro “cortile”. Se lo invitassimo ad una delle nostre serate non verrebbe di sicuro, per timore di restar contagiato dal virus incurabile che ha aggredito Erri De Luca. Ma è un peccato (per lui, s’intende): intanto perché, restando appollaiato nella sua Milanodabere (& prossimamente da mangiare, grazie all’Expo) non può ritenersi al riparo dalla propagazione di una epidemia che ha dimostrato di poter colpire a distanza come è successo – ad esempio – al suo “ex collega” Stefano Benni. Ma soprattutto perché, se avesse frequentato anche solo i “nostri” tre giorni a cavallo del sessantanovesimo anniversario della Liberazione, avrebbe faticato a trovare un rassicurante confine all’invasività (benefica) del nostro cortile: cimentarsi in un elenco è quanto di più temerario perché si rischia di riempire pagine senza garantirsi di non incorrere in gravi dimenticanze.Provo allora con alcuni esempi di iniziative particolarmente significative, anche per il forte valore simbolico che hanno avuto, suggerendo al famoso corsivista erede di Fortebraccio alcuni spunti che avrebbe potuto trarne, perché la sua vena non abbia prima o poi ad esaurirsi (con irreparibili conseguenze, visto l’impegnativo modo che ha scelto per guadagnarsi il pane): fosse stato a Bussoleno – alla Libreria del Sole – il pomeriggio del 24 avrebbe potuto ascoltare una antagonista NoTav come Ermelinda Varrese leggere alcune pagine del diario partigiano di Ada Gobetti.Una lettura attenta e sensibile nel sottolinearne l’umanità e la tolleranza che fecero di lei (che fu forse l’unica o una delle poche donne congedata con il grado di maggiore dell’esercito) un raro esempio di chi ha praticato come metodo la disponibilità a capire le ragioni degli altri, anche nei terribili frangenti di una guerra civile! E Gigi Richetto spiegare la contraddizione solo apparente della ostinazione del marito – Piero Gobetti – nel collocare nella rivoluzione liberale di Benedetto Croce e Luigi Einaudi il ruolo della classe operaia di Antonio Gramsci! E il racconto lucido, “didattico” di Ugo Berga, classe 1922, partigiano combattente e commissario politico della 106^ Brigata Garibaldi, che – senza ombra di retorica, né di “appartenenza” – ha spiegato il percorso coerente che portò Ada ad aderire alle formazioni di “Giustizia e Libertà” e la sua capacità di fare causa comune coi “comunisti” sulle nostre montagne.Le nostre montagne luogo di confine come le acque che circondano Lampedusa cantate da Giacomo Sferlazzo a Venaus in una continuità ideale con la “filiazione” sul tema migranti che il Valsusa Film Fest – alla sua diciottesima edizione – ha voluto con l’isola più distante dal nostro profondo nordovest, promuovendovi qualche anno fa una rassegna che ormai cammina sulle sue gambe. Un “favore” che i lampedusani hanno voluto quest’anno “restituire” offrendoci il loro apprezzato concerto; e non in una serata qualsiasi, ma al termine della ormai tradizionale fiaccolata in memoria della Resistenza dei sindaci e dei cittadini di valle che Piera Favro, sindaco di Mompantero, Nilo Durbiano, primo cittadino di Venaus e Sandro Plano, presidente di una Comunità Montana sciolta dall’uomo dalle mutande verdi, ma più unita che mai, hanno chiuso con un saluto a quattro ragazzi che – in attesa che le gravissime accuse a loro carico vengano provate – stanno scontando mesi di carcere duro e preventivo.Le nostre montagne avvolte da nuvole cariche di pioggia anche nel pomeriggio della ricorrenza, quando le mura che delimitano il cortile in cui Serra ci vorrebbe reclusi sono del tutto svanite per accogliere due alberelli spediti sin qui – il primo a Susa e il secondo a Venaus – rispettivamente da Hiroshima e Nagasaki. Due “esseri viventi” sopravvissuti all’olocausto nucleare “alleato” che Elso, uno dei partigiani che il brillante editorialista (del giornale fondato dell’ex guf Scalfari) descrive – forse perché non li frequenta – come sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi, ricorda non essere ancora stato “giustificato” neppure su un piano strettamente militare. E lo fa di fronte agli scolari di Venaus che si sono fatti carico di accudire la pianticella di kaki: il “dono”, come spiega con etimologia virtuosa il loro maestro Paolo Bertini, venuto da tanto lontano e non solo per regalarci i suoi frutti dorati – quando sarà divenuto un albero robusto a dispetto della morte totale da cui fu circondato il suo “progenitore”.Un albero che Tiziana Volta, pacifista bresciana, ha ormai diffuso in tanti luoghi-simbolo del nostro paese e il cui percorso verso la Valle di Susa, come ha ricordato, è iniziato timidamente e in punta di piedi oltre due anni fa. Una pianta cui farà compagnia una scultura di Daniela Baldo. Un “fiore dell’acqua” realizzato non per caso in legno – un antico trave proveniente dal tetto di una vecchia casa – che è stato scolpito e decorato con la collaborazione degli stessi scolari. Un venticinque aprile che si è chiuso idealmente il giorno dopo a Villar Focchiardo con la consegna, alle madri-coraggio della Terra dei Fuochi, del premio intitolato al partigiano Bruno Carli, primo orgoglioso presidente del Valsusa Film Fest, voluto proprio per collegare memoria storica e difesa della terra. Con buona pace del Serra “distante” che – dolcemente cullato dal dondolio della sua amaca – pare non essersi accorto di chi della Resistenza ha fatto e fa continuamente un uso ben più spregiudicato di quello che lui addebita ai “movimenti: quello di chi, per esempio, dopo averci costruito una carriera politica “ricca” e longeva è arrivato, quest’anno, quasi a paragonarne gli eroi rimasti uccisi e a cui dobbiamo la libertà, a due uccisori che – arruolati in difesa di una nave mercantile – hanno scambiato pescatori per pirati al largo delle coste di un oceano ben lontano dal “mare nostrum”.Forse per collocarsi nel solco inaugurato da un suo – sin qui – mancato delfino (il più fedele dei suoi “saggi”) che fu capace di inventarsi, disinteressatamente in pieno ventennio berlusconiano, una pari dignità tra i morti partigiani e quelli repubblichini. Né pare essersi indignato, il graffiante opinionista, per “l’uscita” del prefetto di Pordenone che ha ritenuto, prima di una retromarcia quasi più indecorosa del suo stesso editto, cagionevole per l’ordine pubblico e la sicurezza che si intonasse “Bella ciao” durante la manifestazione in ricordo della Resistenza! Perché la resistenza, caro Serra, è stata e resta sanamente divisiva. L’unità è una necessità, ma non è detto che sia una virtù. Perlomeno fin tanto che chi stette dalla parte sbagliata non ha l’onestà e la dignità di ammetterlo. Ma forse i grandi giornali non sono il luogo migliore per farsene una ragione. Perché sono luoghi molto più angusti del più piccolo dei cortili.(Claudio Giorno, “(25) aprile, dolce dormire”, dal blog di Giorno del 26 aprile 2014).Eternamente sdraiato sulla sua amaca, Micheleserra dedica (anche) al movimento No Tav un passo della sua personale invettiva contro la consueta celebrazione “partigiana” (di parte) della festa della Liberazione. Sul giornale di famiglia (Debenedetti) di oggi 26 aprile – sabato italiano – cita con fastidio «i vivaci movimenti che valutano di essere “i veri partigiani”, a volte rubando la scena ai reduci sempre più vecchi, sempre più fragili e sempre meno numerosi di quella guerra giusta e vittoriosa». La sua prosa prosegue con la più evergreen delle citazioni giornalistiche: la collocazione “in cortile” di tutti i temi “estranei” che sono stati portati nelle manifestazioni di Torino (No Tav), Palermo (No Muos) e Milano (No Canal). Un evidente, implicito indulgere nella celebrazione retorica cara al suo partito di riferimento, che cambia continuamente nome ma conserva pervicacemente il vizio di ritenersi unico autentico depositario della Verità su Democrazia, Costituzione e Resistenza.
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Giorno: Napolitano riceva sindaci e parlamentari No-Tav
«Odio le cattive massime più delle cattive azioni» (Jean-Jacques Rousseau). Giorgio Napolitano ha scritto al direttore de “La Stampa” Mario Calabresi perché Massimo Numa ha ricevuto una pacchetto anonimo con all’interno un guscio di hard disk con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità diretta o indiretta («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene il movimento NoTav all’origine della spedizione (ha addirittura pubblicato ampi stralci di due mail di solidarietà provenienti da attiviste). Dunque l’accostamento è come minimo prematuro, arbitrario o – più subdolamente – strumentale, in un periodo in cui sembra che sia necessario come mai prima distogliere l’attenzione da “altre” indagini di magistratura, che hanno fatto emergere collegamenti diretti e inequivocabili di una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone con alte cariche istituzionali, esponenti di primo piano dei partiti, “grand commis” dello Stato che dalle poltrone di comando di imprese pubbliche graziosamente trasformate in SpA usano i beni e i denari comuni come fossero propri.Il presidente della Repubblica, trascinato letteralmente nel suo secondo settennato da una faida senza precedenti del suo partito che stava “suicidando” uno dopo l’altro tutti i candidati a succedergli, richiama i cittadini della valle di Susa che si ostinano a non accettare il colpo definitivo alla residua abitabilità della loro terra «al superamento di ogni tolleranza e ambiguità nei confronti di violenze di stampo ormai terroristico». Molti dei cittadini cui è stato rivolto il suo vibrante monito hanno l’età che aveva lui quando aderì alla Gioventù Universitaria Fascista, ma sono tra i più giovani e attivi iscritti alle locali sezioni dell’Anpi. Altri hanno l’età di quando lui – nel 1957, come ha ammesso di recente in una apprezzabile autocritica scritta a due mani con un altro grande vecchio che si atteggia a papa laico – Eugenio Scalfari – plaudeva all’ingresso in Budapest dei carri armati sovietici, i cui cingoli grondavano del sangue di coloro che avevano osato sperare che nel paradiso stalinista potesse essere garantito il diritto all’autogoverno democratico del paese.Ma la maggior parte di coloro che hanno dato vita – un quarto di secolo fa – a un «profilo di pacifico dissenso e movimento di opinione» appartiene a fasce di età che arrivano fino a quella dello stesso presidente, e qualcuno di loro non si limita ad avere la tessera dell’associazione dei partigiani, ma ha partecipato in prima persona alla lotta di Liberazione. Averli avuti e averli tuttora accanto ci da un conforto che nessuna “scomunica” può appannare. Chi tra loro ha ancora recentemente parlato ai più giovani della loro esperienza di Resistenza lo ha fatto in modo autorevole, equilibrato, responsabile: lo ha ricordato anche Erri De Luca ieri sera a Susa in uno dei suoi passaggi più applauditi: c’è un abisso tra l’oppressione di un popolo da parte di un regime dittatoriale ed esterno e il tentativo di imporre (anche attraverso l’uso della forza) un uso del territorio che chi vi risiede non vuole dover subire.Ma ci sono anche delle analogie che autorizzano a richiamarsi a quel diritto-dovere di opporsi a decisioni che possono anche scaturire da percorsi di democrazia formale ma che hanno violato la democrazia sostanziale. Decisioni che comportano (qui come a Taranto, oggi, o nel Vajont ieri) il venir meno di quel principio di precauzione che dovrebbe presiedere a qualunque scelta progettuale, prima ancora di una analisi costi-benefici che però – come sappiamo – è negativa persino circa la desiderabilità di quest’opera per l’intera comunità nazionale (senza contare le perplessità riscontrate in ambito europeo verso un intero programma di grandi opere che sembrano avvantaggiare soltanto il circuito finanziario, che vi individua redditività e garanzie che solo un uso scellerato del denaro pubblico può assicurare ad istituzioni peraltro privatizzate in modo assai discutibile).Annotiamo infine che – stando a quanto scrive “La Stampa” – il presidente Napolitano avrebbe un filo diretto con l’architetto Mario Virano, che in val di Susa ha svolto (su nomina di un gruppo d’impresa coinvolto nella realizzazione e gestione di grandi opere infrastrutturali) l’ad dell’autostrada del Fréjus prima di diventare, per nomina governativa, presidente dell’Osservatorio che doveva stabilire l’utilità dell’opera, e poi commissario per la sua realizzazione. Si tratta di un personaggio certamente informato, ma non per questo in grado di fornire una descrizione obiettiva delle dinamiche in atto, non fosse altro perché la deriva da lui stesso denunciata certifica il fallimento del suo ruolo.Ne discenderebbe il diritto per i cittadini e il dovere per il Capo dello Stato di ascoltare almeno anche le nostre ragioni e “il nostro racconto” della situazione, direttamente o attraverso i nostri sindaci democraticamente eletti. Ma visto che lo stesso presidente oggi in carica si è più volte rifiutato di farlo (e quando non c’erano neanche le avvisaglie di un possibile inasprimento del confronto e quindi nessun “alibi”) potrebbe almeno “sforzarsi” di ricevere i parlamentari eletti nel nostro collegio, che sono motivatamente contrari all’opera. In fin dei conti, dovrebbe essere garante della loro agibilità politica almeno al pari di quella di chi rappresenta le forze di governo.(Claudio Giorno, “Immodesto e non deferente giudizio su un Presidente e le sue iniziative”, 7 ottobre 2013. Ambientalista valsusino già candidato al Parlamento, Giorno è un esponente del movimento No-Tav).«Odio le cattive massime più delle cattive azioni» (Jean-Jacques Rousseau). Giorgio Napolitano ha scritto al direttore de “La Stampa” Mario Calabresi perché Massimo Numa ha ricevuto una pacchetto anonimo con all’interno un guscio di hard disk con polvere esplosiva. Le indagini sono in corso, nessuno ha rivendicato l’azione, il movimento ha rigettato ogni responsabilità diretta o indiretta («pallottole e bombe non ci appartengono») e lo stesso giornalista non ritiene il movimento NoTav all’origine della spedizione (ha addirittura pubblicato ampi stralci di due mail di solidarietà provenienti da attiviste). Dunque l’accostamento è come minimo prematuro, arbitrario o – più subdolamente – strumentale, in un periodo in cui sembra che sia necessario come mai prima distogliere l’attenzione da “altre” indagini di magistratura, che hanno fatto emergere collegamenti diretti e inequivocabili di una cricca ignobile volta ai propri interessi e alle proprie poltrone
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Tav, bombe e menzogne: storia di una vergogna nazionale
Massimo Numa, destinatario di un misterioso pacco-bomba recapitatogli alla redazione della “Stampa”, è il giornalista più noto in valle di Susa, e il più temuto. Nella rovente estate 2011, gli attivisti lo accusarono direttamente: sostennero che proprio dal suo computer era partita una email-fantasma, firmata “Alessio”, nella quale si tentava di sostenere che un militante No-Tav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno il 23 luglio, fosse in realtà finito all’ospedale per essere semplicemente “caduto da solo”. Lo stesso Numa ammise che quella velenosa mail, palesemente destinata a inquinare la verità, era stata davvero inviata dal suo ufficio, anche se – disse – non era stato lui a spedirla. Nonostante questo increscioso episodio, non solo Numa è rimasto regolarmente in servizio alla redazione della “Stampa”, ma il direttore del giornale, Mario Calabresi, gli ha consentito di continuare a occuparsi quotidianamente della drammatica vertenza della valle di Susa, come se nulla fosse accaduto.