Archivio del Tag ‘energia’
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Dopo le Sardine, le Zucchine: se il potere si tinge di verde
Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.I Verdi furono negli anni Settanta la risposta alla crisi energetica, al modello di sviluppo industrialista e all’inquinamento. Ci furono esperienze importanti intorno ai Grünen, sorti dal ’68, superando le ideologie storiciste. Da noi un verde che merita di essere ricordato fu Alex Langer, morto prematuramente; interessanti furono i movimenti comunitari verdi, come quello toscano con Giannozzo Pucci. Nell’ambientalismo diventato giardino pubblico della sinistra radicale e nell’ecologismo che è invece la ruota di scorta e la copertura verde del capitalismo global-progressista (magari in funzione antiTrump), la parola Natura scompare: natura evoca madre natura, il diritto naturale, l’ordine naturale, la gravidanza, la vita secondo natura. Meglio usare un’espressione neutra, paradossalmente asettica, plastificata, come Ambiente, che può funzionare in tutti i campi e in tutti i sensi. Così l’ecologia diventa un ramo fiorito dell’ideologia e la parola ambiente indica tutto, persino l’ambiente di lavoro, le fabbriche e ambienti in cui di natura non c’è neanche l’ombra. La forza dei movimenti verdi è invece nella loro autonomia dalle categorie politiche del Novecento, dalla storia ideologica e dallo schema progressista.Curioso osservare che il fenomeno dei Verdi attecchisce in modo particolare in Germania, dove il primo ministro ecologista fu durante il nazismo, si chiamava Walter Darrè (Hitler era un ecologista rispetto a Lenin, Stalin e Roosevelt…). In realtà l’ecologia è nata conservatrice, patriottica e rurale, mentre le sinistre erano per definizione industrialiste, urbane, internazionaliste e operaiste. Solo con i figli dei fiori si aprì una breccia naturalistica che germogliò poi tra i contestatori innamorati di società preindustriali (la Cina, il Vietnam, il Terzo Mondo). I primi ecologisti della modernità furono i nazionalconservatori noti come Wandervogel, Uccelli migratori. E in Italia le prime leggi a tutela dell’ambiente le fece il fascismo con Giuseppe Bottai. Alla fine degli anni Settanta sorsero movimenti ecologisti anche a destra, soprattutto in ambiente rautiano. Alcune tematiche dell’ambiente degradato incontrano naturaliter la sensibilità di un conservatore, di un patriota, di un cattolico e di un tradizionalista: il rispetto per il creato e per la natura, l’evocazione del mondo incontaminato e genuino di una volta, l’amore per le cose sane e antiche, i borghi d’origine e le tracce del passato, la predilezione per l’agricoltura, per i prodotti chilometro zero e per le attività legate alla natura, il legame con la terra e con le radici, il senso del limite e il realismo. E in negativo la critica alle metropoli invivibili, al progresso senza freni; il rifiuto di cibi manipolati o geneticamente manipolati, il rifiuto dell’inquinamento acustico, l’aria inquinata, il mare sporco, la terra desertificata.Si sa poi che i cittadini a maggior contatto con la natura (dagli agricoltori agli allevatori e ai cacciatori) hanno tradizionalmente espresso preferenze politiche non certo progressiste. Perché regalare la sensibilità verde al grillo-sinistrismo che la usa come foglia di fico e tisana per far digerire bocconi inquinanti della società euro-global? In passato si sono già rubati le querce, gli ulivi, i cespugli e le margherite; perché regalare loro l’intera natura? In difesa della natura, del paesaggio e dell’ambiente hanno scritto diversi autori tra la nuova destra e il pensiero conservatore, da Alain de Benoist a Roger Scruton. Un giovane editore, Francesco Giubilei, ha pubblicato ora un libro, “Conservare la natura”, cercando di riscoprire il legame tra pensiero conservatore e difesa della natura. Trent’anni fa scrissi sui «verdi sentieri dell’ecologia» in “Processo all’Occidente” (1990), sostenendo la necessità di un’alleanza trasversale e comunitaria alternativa alla società global che si profilava. Insomma, il tema verde è molto più serio e profondo di un travestimento elettorale o di una battaglia anti-Trump; e non appartiene certo a una cultura progressista e mao-capitalista. Ma va praticato con realismo, con amore della natura e delle sue leggi, in armonia e non in conflitto con la civiltà e con l’umanesimo. E ricordate: l’amore per la natura è incompatibile con chi vuole modificare geneticamente la natura umana.(Marcello Veneziani, “Per non fermarsi col rosso passano col verde”, da “La Verità” del 1° luglio 2020).Dopo le Sardine verranno le Zucchine. La sinistra cerca un nuovo travestimento per le competizioni elettorali e si converte alla Verdura perché tira, dopo il Covid, Greta e l’amazzonico Bergoglio. Vede che in molte parti d’Europa, dalla Spagna alla Francia, dalla Germania al Nord Europa, il consenso perduto nelle competizioni coi populisti può essere arginato fabbricandosi un populismo eco-compatibile, manipolabile, suggestivo. E così il verde diventa l’ausiliario per le battaglie politico-elettorali, il vaccino populista per battere i populismi sovranisti. Lo hanno capito perfino i due Bismarck dell’alleanza grillo-sinistra: l’esimio Fico dei 5 Stelle, che come dice il suo cognome è un frutto della natura e sta appeso all’albero di Montecitorio; e l’odontotecnico che guida il Pd, Nicola Zingaretti, che per darsi un ruolo oltre quello di filo interdentale della coalizione, si è accorto che per curare gli ascessi politici funzionano bene gli impacchi di verdura cotta sulle gengive arrossate. Entrambi hanno così, in una corrispondenza di amorosi sensi che però apre anche una concorrenza di spietati sensi, esortato all’unisono a buttarsi sul Verde. Tra poco vedrete che anche Conte, in uno dei suoi travestimenti, si trasformerà nel Conte Verde, scriverà nel suo curriculum di avere un passato di verdura, indirà gli Stati Vegetali e farà spuntare dal taschino una foglia di lattuga per dimostrare la sua conversione verde. Intorno voleranno finocchi e cetrioli.
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Magaldi: socialismo liberale, il virus salva-Italia siamo noi
«Siamo piccoli, ma attentamente monitorati: ai piani alti, c’è chi si domanda in che modo contiamo di riuscire nell’impresa, e non manca chi vorrebbe attuare le nostre proposte. Che poi sono le uniche in grado di ribaltare la situazione: perché le nostre idee sono uno scandalo, un’eresia. Un virus benefico, destinato a contaminare finalmente il sistema». Gioele Magaldi sintetizza il concetto in due parole: socialismo liberale. Keynes e Roosevelt, Carlo Rosselli, Olof Palme. I semi migliori del Novecento: l’antidoto contro l’ingiustizia. Dove sono finiti? Dispersi: soffocati dalla sovragestione del neoliberismo globalizzato. Ma oggi, per un movimento d’opinione come quello fondato nel 2015 da Magaldi, rappresentano l’unico salvagente per evitare il naufragio della democrazia, schiacciata dalle possenti oligarchie planetarie che ora speculano anche sul disastro del coronavirus. Il loro piano: mantenere il potere a tutti i costi, anche instaurando una sorta di polizia sanitaria mondiale, pronta a usare il ricatto della paura e il fantasma della depressione economica. Risultato: l’Europa ridotta a nullità politica, capace però di tenere in ostaggio un paese come l’Italia, il cui governo – lasciato senza soldi – non ha la minima idea di come evitare il massacro sociale a orologeria che già si annuncia per l’autunno. «Famiglie e aziende avranno l’acqua alla gola, per effetto del terribile lockdown imposto senza nessun vero paracadute economico».«A Conte faremo una proposta che non potrà rifiutare», annunciò Magaldi tempo fa, tra il serio e il faceto, indossando una maglietta con l’icona di Marlon Brando nei panni del “Padrino”. Ora rilancia: «In settimana, il nostro piano salva-Italia sarà pronto e illustrato anche in un video, sul nuovo canale MrTv». Il succo: proposte ragionevoli, il “minimo sindacale” per evitare il peggio. Attenti: «La nostra non è una provocazione arrogante, tutt’altro: sono iniziative che qualsiasi governo (di centrodestra o centrosinistra, non importa) avrebbe dovuto adottare già durante il lockdown». Un pacchetto di misure «attuabili da subito», che il Movimento Roosevelt guidato da Magaldi insiste nel voler impacchettare sotto forma di “ultimatum”: «Sarà recapitato nei prossimi giorni all’esecutivo, che avrà a disposizione l’intera estate per valutare le nostre proposte. L’ultimatum scadrà in occasione dell’election-day del 20-21 settembre». Giuseppe Conte accoglierà quei consigli? Tanto meglio: «Se saranno soddisfatte le esigenze minime degli italiani – dice Magaldi – ne prenderemo atto e ringrazieremo: in una prospettiva laica come la nostra non ci sono nemici, né antagonisti o pregiudizi».Se Conte e i suoi ministri, «da quei brocchi che hanno mostrato di essere sinora, dimostrassero di diventare dei purosangue, a partire da settembre», allora «mi toglierei il cappello e ne sarei felice, come cittadino italiano e come europeo», assicura il leader “rooseveltiano”. «C’è però la “legittima suspicione” che così non sarà», aggiunge: «E allora, in quel caso si avrà il debutto della Milizia Rooseveltiana il 5 ottobre, nell’anniversario della data fatidica del 1789 in cui le donne della Rivoluzione Francese marciarono su Versailles per chiedere al Re perché mai non volesse sottoscrivere la nuova Costituzione». Milizia Rooseveltiana? Una formazione “marziale” solo a livello teatrale, con uno slogan (”dubitare, disobbedire, osare”) che capovolge ironicamente il mussoliniano “credere, obbedire, combattere”. «Missione: incalzare il governo, in modo nonviolento ma divenendo una vera spina nel fianco: nelle piazze italiane, la Milizia chiederà conto – ogni giorno – dell’eventuale, mancato recepimento del piano salva-Italia».Altra avvertenza: non è un’iniziativa di parte, contro Conte. «Neppure l’opposizione ha brillato», sottolinea Magadi: Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia «non hanno strutturato una vera proposta alternativa per il paese». Un consiglio? «Qualcuno di loro dovrebbe andare politicamente in pensione. Altri dovrebbero guardarsi dentro e sviluppare un vero progetto per l’Italia, che oggi non hanno». Ce l’ha Magaldi, il progetto? La sua risposta è scontata: certamente sì. Ma chi è, il presidente del Movimento Roosevelt? Due cose insieme: un intellettuale, e un massone. Laureato in filosofia, appassionato storico, tagliente politologo. E’ ultra-trasparente, il suo impegno nel mondo libero-muratorio: nel suo saggio “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere (bestseller italiano, oscurato dai media), da un lato denuncia le superlogge sovranazionali neo-oligarchiche e il loro sogno di Nuovo Ordine Mondiale neoliberista, “neoaristocratico” e post-democratico, e dall’altro rivendica il ruolo della massoneria settecentesca nella fondazione dell’attuale modernità: suffragio universale, libere elezioni, laicità e Stato di diritto.«La democrazia è un’anomalia della storia: e non ce l’ha portata la cicogna, è il frutto della massoneria rivoluzionaria che riuscì ad abbattere l’Ancien Régime in Europa a partire dalla Francia fino poi a guidare il Risorgimento italiano, dopo aver animato la stessa Rivoluzione Americana». Insiste: «L’architettura istituzionale del mondo in cui viviamo è interamente massonica. Per questo mi domando se siano in grado di fare il loro mestiere i magistrati come Nicola Gratteri, che tendono a criminalizzare la massoneria: si rendono conto che la stessa Costituzione italiana nasce dalle idee ultra-massoniche alla base della primissima Costituzione della Repubblica Romana di Mazzini e di Garibaldi, primo “gran maestro” del Grande Oriente d’Italia?». Discorsi lunari, in un’Italia che associa regolarmente i grembiulini alla P2 di Gelli, o a qualche congrega infiltrata dalla mafia. «Quelle sono conventicole che non contano niente, e lo sanno tutti. Ma fingono di non sapere che i grandi decisori dei nostri tempi – anche italiani, da Monti a Napolitano – appartengono tutti all’aristocrazia massonica internazionale: il mondo delle Ur-Lodges, quello che orienta davvero i destini del pianeta».Ne fa parte lo stesso Magaldi, già “iniziato” alla superloggia “Thomas Paine”, punta di lancia del progressismo novecentesco. Una filiera che ha “allevato” e sostenuto personaggi come Gandhi e Papa Giovanni XXIII, i Kennedy e i Roosevelt, Martin Luther King, Nelson Mandela, Yitzhak Rabin. Sempre di massoneria si tratta, ma di segno opposto. Ed ecco il punto: «Il sistema massonico oligarchico stava perdendo la sua presa sul mondo, lo si è visto con l’inattesa elezione di Donald Trump, fiero avversario del globalismo neoliberista: Trump ha imposto uno stop all’egemonia della Cina, che era e resta la creatura preferita dell’élite massonica reazionaria». Il progetto: efficienza economica, ma senza democrazia. Un modello da esportare in Occidente? «Sicuramente è stato esportato il modello-Wuhan per il coronavirus: massimo rigore e sospensione della libertà. Ed è successo appena dopo che Trump ha inflitto a Xi Jinping l’umiliazione dei dazi». Come dire: è in corso una partita cruciale per le sorti del pianeta, di portata epocale. Da una parte i neoliberisti, che si sono riciclati come gendarmi sociali in nome del Covid, favoloso pretesto per rendere eterna l’austerity degli ultimi decenni. Dall’altra, sono in campo quelli che Magaldi chiama massoni progressisti: avversari del rigore già prima della pandemia, e ora impegnati a evitare che il virus diventi un alibi per seppellire quel che resta della nostra democrazia.Di più: per il fronte in cui Magaldi milita, la crisi pandemica è un’occasione irripetibile. Il collasso indotto dal lockdown rappresenta un assist perfetto, per archiviare il dogma della scarsità – solo immaginaria – e il falso riformismo sulla pelle degli altri (”ce lo chiede l’Europa”). Il Piano-B l’ha esposto Mario Draghi a fine marzo, sul “Financial Times”: tornare a Keynes. Cioè: inondare di miliardi l’economia, senza paura di spendere. Soldi che non si trasformino in debiti: proprio come in tempo di guerra. Ma Draghi non era il sommo custode dell’ordoliberismo europeo in salsa teutonica? Lo era, dice Magaldi, ma nell’ultimo anno ha abbandonato la comitiva. «Il “fratello” Draghi è tornato alle sue origini keynesiane e ha chiesto di essere accolto nel circuito massonico progressista, come anche la “sorella” Christine Lagarde». A muoversi sono pesi massimi del potere economico, come la stessa Kristalina Georgieva del Fmi e Premi Nobel del calibro di Krugman e Stiglitz. Tutti a dire che non è possibile insistere con la “terapia” che ha impoverito l’Europa: vista la gravità della crisi economica indotta dal Covid, bisogna buttare a mare trent’anni di rigore finanziario e metter mano al “bazooka” dell’emissione monetaria illimitata e gratuita, non a debito, pena il collasso del sistema economico.«Ci stiamo accorgendo che nessun denaro verrà dato all’Italia con spirito solidaristico e risolutivo», riassume Magaldi. «Concedere denaro in prestito, vincolato alle solite condizionalità – poco importa che si tratti del Mes o di altro – è inaccettabile, in questa temperie. E se la classe politica europea non è all’altezza, quella italiana rispecchia perfettamente questa mediocrità complessiva». Così almeno la vede Magaldi: «L’Europa è un nano politico, economicamente sempre più problematico (benché ricco, perché eredita posizioni di privilegio). Ma il nanismo politico, geopolitico, diplomatico e militare, nella nuova guerra fredda tra sistema-Cina e sistema-Usa, con in mezzo la Russia a fare da terzo incomodo, non aiuta i futuri sviluppi economici dell’Europa». Lo spettacolo è eloquente: «L’Ue è incapace di darsi un’unità fiscale, evitando il dumping che molti paesi esercitano, ed è incapace di costruire un tessuto socio-economico più equo e lungimirante». E intanto il mondo non ci aspetta: «La Cina ci ha insegnato che un paese molto povero può aumentare in modo significativo il proprio Pil, anno dopo anno, e proiettarsi sullo scenario globale da protagonista neo-imperiale». Domani, tutto potrebbe cambiare. E noi, semplicemente, subiamo gli eventi: «C’è davvero un’assenza di visione, da parte di tutti i leader europei».A soffrire le pene dell’inferno, tanto per cambiare, è in primo luogo l’Italia: «Troppe famiglie, lavoratori, aziende ed esercizi sono ancora appesi a decisioni che non vengono prese. C’è un menare il can per l’aia, del governo e anche delle opposizioni: litigano e cazzeggiano. Gli uni (al governo) sono del tutto inefficaci, ma non è ben chiaro cosa farebbero al loro posto gli altri, che stanno all’opposizione». La verità, dice il presidente “rooseveltiano”, è che l’emergenza coronavirus non è mai cessata: «Ieri c’era un’emergenza sanitaria, e adesso c’è un’emergenza che è economica e sociale. Ce ne accorgeremo proprio a settembre: molti nodi verranno al pettine e ci sarà il baratro, per molti». A partire da settembre, «diventeranno lampanti i disastri che la cattiva gestione e la mancata reazione del governo provocherà, nella società e nell’economia italiana». E il guaio è che i leader europei sembrano ectoplasmi: «Troppi cincischiamenti, al di là dell’azione benemerita di Christine Lagarde, contro ogni previsione (salvo la mia). Per il resto solo parole, passi indietro e traccheggiamenti odiosamente studiati: quando era forte la pressione mediatica sul lockdown e sull’emergenza sanitaria strombazzata, si parlava del dovere dell’Europa di intervenire subito. E invece, di Recovery Fund stiamo ancora soltanto discutendo».Quest’anno il bilancio è molto negativo, sin qui, perché secondo Magaldi si è persa anche la grande opportunità – generata dal coronavirus – per un cambio di paradigma. Obiettivo mancato: archiviare gli ultimi disastrosi decenni di austerity. «La mia previsione però non è catastrofica: io continuo a rilanciare l’ottimismo della volontà, a patto però che diventi anche “ottimismo del fare”». Spiegazioni: «I massoni progressisti operano dietro le quinte, mentre il Movimento Roosevelt opera davanti alle quinte». Ma da solo non basta: «Si decidano a operare tutti i cittadini, aderendo a strumenti di azione politica». Concretezza e realismo: «Bisogna evitare di andare appresso ai soliti piagnoni apocalittici, che parlano di uscire dalla Nato e dall’euro, e magari strizzano l’occhio alla Russia ma odiano gli americani. Tutto questo “pastone” di “alternativi” non ha mai prodotto nulla, in questi anni, e continuerà a non produrre niente. Se si vuole cambiare la situazione, occorre iniziare dalle cose che si possono fare già da domani: e questo è l’unico cammino serio che il Movimento Roosevelt vuole intraprendere».Piccola profezia: «Il Movimento Roosevelt è destinato a crescere, perché la censura che l’ha finora colpito sarà destinata a crollare». Quel giorno, «risulterà che in questi anni si sono avvicendati partitini e partitoni, grandi e piccoli protagonisti, piccole narrazioni, litanie e piagnistei, mentre il Movimento Roosevelt è stato granitico, dal punto di vista ideologico, nel proporre qualcosa che è ancora un’eresia, uno scandalo». Ovvero: «Il socialismo liberale di cui parliamo noi non è quella parodia che ne ha fatto Renzi, e che tuttora ne fanno Calenda e altri, che declinano una forma di neoliberismo “de sinistra”». Magaldi allude al socialismo liberale in versione rooseveltiana, post-keynesiana, rosselliana. «Ci richiamiamo alla migliore tradizione del socialismo democratico, quella di Olof Palme. E’ il socialismo liberale che, in qualche modo, anche l’esecrato e demonizzato Bettino Craxi aveva comunque cercato di introdurre, tra luci e ombre, nella coscienza politica degli italiani». Già, Craxi: «Ebbe indubbie benemerenze, che però vennero stroncate: in Italia, quei socialisti che non erano subalterni ai comunisti erano definiti “social-traditori”. E Craxi era odiato da quella sedicente sinistra che da Pci si trasformò in Pds, poi in Ds, poi in Pd, e che certo non ha operato bene».Secondo Magaldi, «oggi è paradossale che il Pd appartenga al Partito Socialista Europeo, considerando che non c’è più nulla, di socialista, nella politica del Pd». Peraltro, «non c’è più nulla di socialista neppure nel Pse: dovrebbero vergognarsi, i sedicenti socialisti europei, ricordando l’esempio di personaggi come Olof Palme». Non solo: «Dovrebbero vergognarsi i socialdemocratici tedeschi, come anche i socialisti francesi, guardando a cosa si sono ridotti, e a quanto sono subalterni a narrative neoliberiste che in altri tempi sarebbero state definite “di destra conservatrice”. Il loro è un mondo fasullo, capovolto». Il Movimento Roosevelt, al contrario, rivendica un’assoluta e granitica coerenza: «Parliamo di socialismo liberale e democrazia sostanziale, e denunciamo i riti fasulli, vuoti e retorici di una democrazia priva di anima. Abbiamo idee all’avanguardia sull’istruzione, sull’ambiente, sull’energia, sulla difesa, sull’economia, sulla stessa riforma costituzionale dello Stato. Tutti seguono le nostre mosse con attenzione, e si chiedono cosa ne sarà di queste nostre idee forti, che qualcuno vorrebbe attuare. Domani, io credo che questa nostra influenza uscirà alla luce del sole e diventerà pienamente percepibile». Tanto ottimismo è motivato: «Per fortuna, c’è chi – accanto a noi, a livello globale – agisce dietro le quinte e prepara le condizioni più propizie perché le nostre idee possano affermarsi, presso la coscienza del popolo sovrano».Questo, ribadisce Magaldi, deve fare la differenza: «Il Movimento Roosevelt non vuole candidarsi a raccogliere voti alle elezioni, ma vuole influenzare politica e cittadini in modo solare, come una lobby apertamente dichiarata: una lobby della democrazia e del socialismo liberale». La missione: «Contaminare, come un virus benigno, le coscienze e le istituzioni. E vogliamo farlo in Italia, in Europa e nel mondo: per far sì che diventi un imperativo categorico, quello che è scritto nel nostro statuto, cioè la promozione e l’estensione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani». Il mondo di oggi è pieno di piaghe: «Democrazia assente, diritti calpestati, disuguaglianze mostruose. Oligarchie e teocrazie che dominano, imperterrite, con la loro arroganza». Ci dimentichiamo, ricorda Magaldi, che nel 1948 tutte le nazioni si erano impegnate a promuovere i diritti umani. «Il Movimento Roosevelt è qui per ricordarlo a tutti. E io credo che la sua influenza si misurerà negli anni e resterà nella storia: il giorno in cui certe cose verranno affermate, non si potrà non ricordare che questo è stato, perché a un certo punto il Movimento Roosevelt ha suonato la campana, e ha detto “la ricreazione è finita”».Pensieri visionari? Forse, dando per scontato che ogni avanguardia tende a esplorare orizzonti lunghi. Il monitor italiano, peraltro, s’è incantato su un fermo-immagine: il paese è a terra, e il governo non sa dove trovare i soldi per rianimarlo. «Quei soldi non c’erano nemmeno prima», dice Magaldi, che già un anno fa parlava di «almeno duemila miliardi» per rimettere in sesto infrastrutture, servizi e occupazione. Come trovare quel fiume di soldi, ora che la crisi post-Covid morde gli italiani? Nel solo modo possibile: creandoli dal nulla, come sempre si è fatto di fronte alle grandi crisi. L’Ue non lo consente? Male: perché l’alternativa non esiste. Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, predica da anni il ricorso – temporaneo – all’emissione di moneta parallela, di Stato, spendibile solo in Italia: un toccasana, per resuscitare stipendi e consumi. Chi pensa in grande – da Draghi in giù – sa che un’Unione Europea così conciata non ha futuro: è indispensabile cambiare le regole, gettando a mare la religione del rigore finanziario. Rosselli credeva nel socialismo come ricetta socio-economica bilanciata dalla giustizia sociale. Un altro campione democratico come Olof Palme, autore del rinomato welfare svedese, impegnò lo Stato per salvare aziende traballanti e posti di lavoro.Lo stesso Roosevelt, che ereditò un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione, adottando le ricette di Keynes trasformò gli Stati Uniti nella prima superpotenza mondiale. E noi che facciamo, stiamo ancora a pietire le concessioni usuraie dei signori di Bruxelles, mentre milioni di italiani tra poco non sapranno come arrivare a fine mese? «Per inciso: Rosselli, Palme, Keynes e Roosevelt erano tutti massoni progressisti», precisa Magaldi, come per rimarcare che – se qualcuno oggi li evoca – intende avvertire il pubblico che s’è messo in moto qualcosa di importante, che affonda le sue radici in cent’anni di battaglie per i diritti sociali. «L’essenziale, in un momento come questo, è non cadere nella tentazione del complottismo stupido che demonizza qualsiasi potere, a prescindere: il cospirazionismo apocalittico è l’alleato perfetto della peggior oligarchia, quella che noi democratici vogliamo abbattere». Ecco perché non è il caso di sottilizzare, su Conte e soci: «Se saranno loro, ad accettare il nuovo corso, benissimo. Ridurre la politica a tifo da stadio è una pessima idea: serve solo ad allungare la vita al sistema che ci ha messo di fronte avversari solo apparenti, come Prodi e Berlusconi, di fatto esecutori dei medesimi diktat». Magaldi ne è certo: sarà la durezza della crisi a imporre le scelte giuste. E allora cadranno, di colpo, tutte le storielle che ci hanno finora propinato: dalla criminalizzazione del deficit all’odio tribale che spinge le tifoserie a dilaniarsi l’un l’altra, come i capponi di Renzo destinati a finire in padella.«Siamo piccoli, ma attentamente monitorati: ai piani alti, c’è chi si domanda in che modo contiamo di riuscire nell’impresa, e non manca chi vorrebbe attuare le nostre proposte. Che poi sono le uniche in grado di ribaltare la situazione: perché le nostre idee sono uno scandalo, un’eresia. Un virus benefico, destinato a contaminare finalmente il sistema». Gioele Magaldi sintetizza il concetto in due parole: socialismo liberale. Keynes e Roosevelt, Carlo Rosselli, Olof Palme. I semi migliori del Novecento: l’antidoto contro l’ingiustizia. Dove sono finiti? Dispersi: soffocati dalla sovragestione del neoliberismo globalizzato. Ma oggi, per un movimento d’opinione come quello fondato nel 2015 da Magaldi, rappresentano l’unico salvagente per evitare il naufragio della democrazia, schiacciata dalle possenti oligarchie planetarie che ora speculano anche sul disastro del coronavirus. Il loro piano: mantenere il potere a tutti i costi, anche instaurando una sorta di polizia sanitaria mondiale, pronta a usare il ricatto della paura e il fantasma della depressione economica. Risultato: l’Europa ridotta a nullità politica, capace però di tenere in ostaggio un paese come l’Italia, il cui governo – lasciato senza soldi – non ha la minima idea di come evitare il massacro sociale a orologeria che già si annuncia per l’autunno. «Famiglie e aziende avranno l’acqua alla gola, per effetto del terribile lockdown imposto senza nessun vero paracadute economico».
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Il disastro del lockdown e i valori dei poeti del vino italiano
Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.Tutto sta a rimboccarsi le maniche, ancora una volta? Lo assicura un genio del marketing come Oscar Farinetti, che in mezzo a quei vigneti è cresciuto. Ha ragione? Solo a metà: giusto attingere all’ottimismo della volontà, mobilitando risorse anche morali per fronteggiare una crisi paurosa, cercando di trasformarla in un’occasione per riconvertire l’economia, premiando il profilo anche ecologico del “food & wine”. Ma forse i conti sarebbe meglio farli con l’oste, cioè con il convitato di pietra della grande depressione: la macroeconomia, questa sconosciuta. Se privatizzi il pianeta, appaltando la politica a piccoli mestieranti locali, puoi scordarti che lo Stato abbia il potere – aiutando, agevolando, detassando – di far decollare l’economia privata. Il visionario patron di Eataly – che ha fatto davvero moltissimo, per far brillare il sistema-Italia nel mondo, e pure in anni difficili – viene da una tradizione socialista: il padre partigiano, poi vicesindaco di Alba. L’Italia che seppe rimboccarsele davvero, le maniche, era quella del dopoguerra: miracolata dal Piano Marshall e poi trainata dall’economia mista alimentata dal colosso Iri, il più grande complesso industriale d’Europa. Un sistema smantellato in modo brutale prima con la “privatizzazione” del debito pubblico e poi con la svendita dei maggiori asset pubblici, strategici per il Made in Italy.Per un capriccio della storia, proprio nel periodo più buio per l’Italia – la grande precarizzazione, le delocalizzazioni selvagge, la folle austerity imposta dall’Ue – ha potuto fiorire, di colpo, il paradiso del vino. Anno dopo anno, i numeri di Vinitaly hanno stracciato ogni record, facendo volare l’intero sistema vinicolo italiano, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, con fenomeni-mostro come il Prosecco e i suoi 800 milioni di bottiglie vendute in tutto il pianeta. La festa sembrava non dovesse finire mai, nelle colline piemontesi – Langhe, Monferrato – ora elevate al rango di patrimonio paesaggistico dell’umanità sotto la tutela delle Nazioni Unite, attraverso l’Unesco. Un volano formidabile: paesini fino a ieri sconosciuti, trasformati all’improvviso in mete internazionali, con un indotto virtuoso e declinato a livello “glocal”, all’insegna della valorizzazione dell’ambiente e della genuinità delle filiere corte. In questo piccolo paradiso, c’è un’area Unesco quasi altrettanto nota – il Roero, sulla riva sinistra del Tanaro proprio di fronte ad Alba e Barbaresco – che di bottiglie ne produce solo 8 milioni, cioè la centesima parte del potenziale di fuoco di Treviso e Valdobbiadene. Un mondo di artigiani: il loro passaporto per gli Stati Uniti si chiama Arneis, un bianco che tradizionalmente era il meno prestigioso, tra i vitigni coltivati su quelle colline.Nomi che hanno fatto storia, nel Piemonte vinicolo – Ceretto, Negro – hanno ripescato l’Arneis dall’oblio contadino, facendone un signor vino, modernissimo, a suo agio sulle migliori tavole di Tokyio e di Los Angeles. E anche l’Arneis – insieme al Barolo – ha contribuito a trasformare il periferico Piemonte, a lungo rassegnato a languire come entroterra dell’universo Fiat, in un attore di primissima grandezza, nel mondo (felicemente globalizzato, in questo caso) delle degustazioni per veri indenditori. Oggi, anche il sistema-Piemonte piange le amare lacrime del maledetto coronavirus: il Monferrato, patria della Barbera, sconta una contrazione delle vendite che viaggia attorno al 40%. Una specie di ecatombe, da cui non si sa come uscire: c’è chi propone addirittura di mandare al macero il vino invenduto per distillarlo e ricavarne alcol, così da recuperare almeno i costi di produzione. Se nelle Langhe del Barolo il grande silenzio della primavera 2020 resterà negli annali come immane sciagura memorabile, forse il piccolo Roero soffre meno: con la sua economia differenziata (agricoltura mista, tanta frutta), è meno dipendente dal turismo internazionale. «Però anche qui la batosta è stata forte: paragonabile alla grandine che, quarant’anni fa, avrebbe fatto saltare la vendemmia, facendoci perdere un anno intero di lavoro, e quindi di entrate vitali per la famiglia».A parlare è Sergio Marchisio, un autentico pioniere: il primo a spumantizzare l’Arneis, il primo a vinificare il Nebbiolo in anfora. Un’azienda modello, certificata biologica, e con un debole per la biodonamica di Rudolf Steiner. Missione: scommettere innanzitutto sul recupero della fertilità naturale del suolo. «Dopo dieci anni il risultato lo senti nel bicchiere, in termini di pienezza e ampiezza di profumi». La sua cantina, a Castellinaldo d’Alba, sembra uno scrigno di silenziosa energia alchemica: nel ventre della terra riposano anfore panciute, contrassegnate dall’effigie del benefico serpente che avvolge l’uovo primordiale. Impatto zero, pannelli fotovoltaici e verdissimi filari che avvolgono l’officina delle delizie. «Certo, la processione dei turisti venuti da lontano si è interrotta anche qui. Ma non per questo ci scoraggiamo: i nostri valori sono più grandi, più forti del coronavirus». A proposito di valori: se c’è qualcosa di eroico, nel sistema-vino che negli ultimi decenni ha tenuto alta nel mondo l’eccellenza italiana, è la sua capacità di offrire bellezza raffinata, worldwide, attingendo con notevole coraggio alla passione, tipica del miglior Made in Italy, nutrito di praticità artigiana. Il paese crollava – Pil, disoccupazione – e le cantine conquistavano il pianeta, imparando l’inglese e sbalordendo pubblico e critica.Una storia che per certi aspetti sembra dar ragione all’incrollabile ottimismo di Farinetti. E che oggi – di fronte alle macerie del lockdown, tra mercati che franano – fa capire quando può essere feroce questo disastro, che è risucito a spiazzare persino gli invincibili, appassionati guerrieri del grande vino italiano. «Personalmente – confessa Sergio Marchisio – a cambiare il mio modo di vivere e di pensare è stata una frase di Steiner: quella in cui invita a riflettere sul fatto che l’uomo, in fondo, è l’unico abitante del pianeta che riesce ad avvelenare il cibo di cui si nutre». Se è per questo, siamo riusciti ad avvelenare l’acqua, i terreni, i cieli. «Esatto. Ecco perché, se le viti hanno nostalgia del sole, anziché usare prodotti chimici le accontento con semplici micro-cristalli di quarzo, minerale specchiante che conserva in sé la memoria della luce e del calore». Filosofi e poeti, tra i filari? Un amico e collega di Marchisio – Paolo Carlo Ghislandi di Cascina I Carpini, maestro del Timorasso (super-bianco dei Colli Tortonesi) – sa che ai suoi filari piace ascoltare la musica classica: Rachmaninov, di preferenza. E cita una poetessa francese, Colette: «Nel regno vetegale, la vite è l’unica che rende intellegibile, all’uomo, il valore della terra». Quando saremo usciti dall’incubo che ci è piovuto addosso, sarà naturale ripensare a loro, i pensatori-contadini che, custodendo le loro verdissime colline, sembrano rinnovare una specie di promessa, prodigiosamente alchemica. Viene che il sospetto che non si tratti solo di vino: come se in qualche modo, in punta di piedi, lavorassero anche per l’armonia dell’universo.(Giorgio Cattaneo, 21 giugno 2020).Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.
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5G alla Camera e sul comodino di Colao, poi ne riparliamo
Alzi la mano chi ancora crede ai numeri quotidiani della Protezione Civile e alle promesse di Conte, alla religione delle mascherine e a quella dei guanti – prima raccomandati e poi sconsigliati dai misteriosi burloni dell’Oms, il gotha tecno-sanitario che a Wuhan se c’era dormiva, quando gli stregoni della genetica pasticciavano attorno all’Rna di un virus del raffreddore, probabilmente con l’intento di ricavarne un chimerico vaccino contro l’Aids. Questa almeno è la versione suggerita da paesi come gli Usa e la Francia, nonché da luminari della medicina come il professor Luc Montagnier, Premio Nobel, primo scopritore del virus Hiv. Alzi la mano chi seguita a immaginare che sia del tutto casuale la catastrofe piovutaci addosso, che ha spinto i governi a trasformarci prontamente in sudditi spaventati e ricattati, destinati a non tornare liberi mai più, lungo un orizzonte post-democratico dove i ministri spariscono, e al loro posto parlano oscuri tecnocrati e rinomati capitani di ventura come Vittorio Colao, principe europeo del 5G, e infatti lestissimo nel proporre il wireless di quinta generazione come elisir miracoloso per resuscitare l’Italia messa in coma farmacologico da Conte. Antenne pericolose? «Facciamo così: prima piazziamo un dispositivo 5G in Parlamento e un altro sul comodino di Colao, poi ne riparliamo».Autore della provocazione è il video-reporter Massimo Mazzucco, regista di documentari dirompenti come “Inganno globale”, sull’11 Settembre, trasmesso in prima serata da Canale 5. Mazzucco ha fama di piantagrane, da quando i giornalisti hanno smesso di fare il loro mestiere in un’Italia in cui gli editori si chiamano Berlusconi, Elkann e Cairo. Ha firmato video-denunce accurate: sul terrorismo fatto in casa, sulle “cure proibite” contro il cancro (che guariscono i pazienti) e sulla guerra dei petrolieri contro la marijiuana (per sbarazzarsi della canapa, concorrente ecologica della plastica). Comodo, liquidare Mazzucco con l’etichetta di complottista: peccato che siano i maggiori fotografi del mondo, da Oliviero Toscani e Peter Lindbergh, a confermare – nel documentario “American Moon” – che le immagini del mitico “sbarco sulla Luna” siano state girate in studio, con luci disposte in modo da simulare il riflesso naturale del sole. In prima linea, Mazzucco, anche contro l’obbligo vaccinale imposto da Beatrice Lorenzin (senza alcuna emergenza sanitaria in corso) e confermato dalla grillina Giulia Grillo, dopo che i 5 Stelle avevano fatto il pieno di voti, nel 2018, anche con la promessa di abolire l’improvvisa e ingiustificata overdose di vaccinazioni obbligatorie.In automatico, il mainstream ha calunniato Mazzucco con l’etichetta No-Vax. «Mai stato contro i vaccini, in linea di principio», chiarisce il reporter. «Sono per la libertà vaccinale, e per vaccini sicuri e puliti: sapendo che gli Usa hanno già speso 4 miliardi di dollari per indennizzare i danneggiati da vaccino, dopo aver garantito – stranamente – la completa impunità delle case farmaceutiche, che evidentemente non sono in grado di assicurare che non vada incontro a rischi, chi accetta di farsi vaccinare». Discorsi scivolosi? Certo: la condanna per eresia (cospirazionismo) è scontata. Da parte di chi? «Dei media mainstream, che hanno permesso alla Lorenzin di raccontare impunemente che a Londra, in un anno, sarebbero morti di morbillo oltre 200 bambini. Ho controllato: non era vero. Eppure, l’anno seguente, Corrado Formigli su La7 ha consentito alla “ministra” di ripetere la stessa, identica notizia falsa». Chi è il complottista, allora? Mazzucco che fa le pulci alle frottole del governo o il sistema dei media, che ha messo la sordina a tutte le notizie allarmanti, in materia? Esempio: i militari italiani morti e ammalati dopo vaccini inappropriati (fonte, la commissione difesa del Parlamento). O i vaccini “sporchi” scoperti dall’Ordine dei biologi. O i test eseguiti in Puglia, che hanno rivelato “reazioni avverse” nel 40% dei bambini vaccinati.Dalle siringhe al 5G, il passo è breve. Perché il metodo è lo stesso: subdolo, non trasparente. «Se la cosa è buona e giusta, che bisogno c’è di nasconderla?». Il parallelo è impietoso: radere al suolo le alberate di mezza Italia e occultare i trasmettitori 5G persino nei tombini, ragiona Mazzucco, fa il paio con le bufale della Lorenzin sulla strage degli innocenti (mai avvenuta) a Londra, per colpa del morbillo. Ancora ci si interroga sulla strana incidenza del Covid nella Lombardia orientale, distretto inquinatissimo. Coincidenze: elevata percentuale di anziani vaccinati contro l’influenza, in un’aera gremita di antenne 5G. Non abbiamo nessuna prova che queste cose siano collegate all’ecatombe-coronavirus, chiarisce Mazzucco, il primo a scoprire – comunque – la correlazione fra il taglio degli alberi la diffusione del 5G: «Lo comprovano due documenti ufficiali del governo inglese: le fronde ostacolano la propagazione del wireless». Mentre Mazzucco avviava la sua ricerca sulla strage degli alberi nei centri storici, tanto per cambiare, i sindaci mentivano (raccontando la storiella degli alberi “malati”, di colpo e tutti insieme) e i giornali tacevano, insieme alle televisioni. Poi succede che la polvere, nascosta sotto il tappeto, a un certo punto diventa troppa. E oggi sono oltre 500, i sindaci italiani che si oppongono all’installazione di quelle antenne. E Colao cosa fa? Vuole togliere ai sindaci il potere di interdizione.Trattandosi di “riforme” all’amatriciana, Mazzucco segnala pure l’immancabile conflitto d’interessi: l’ex manager di Vodafone reclutato da Conte è anche il capo di Verizon, primo investitore europeo nel business “cinese” del 5G. Il piano: finire di riempire l’Italia di antenne, innalzando anche l’intensità delle emissioni. A garantire che si tratti di irradiazioni innocue è l’Ipnirc, un “panel” di scienziati e tecnici «che in realtà provengono dall’industria delle antenne, secondo il sistema delle “porte girevoli” che, anche nella farmaceutica, mette insieme controllori e controllati: addio indipendenza, autorevolezza dei controlli e tutele della salute». Centinaia di scienziati autonomi lanciano l’allarme: non sappiamo ancora quali effetti produca, il 5G, sul corpo umano. Il consiglio: tre anni di test, prima di adottare il nuovo wireless (certamente utilissimo, sul piano tecnologico). E invece: si tende a trasformare i cittadini in potenziali cavie, a loro insaputa. «I promotori del 5G giurano che sia innocuo. Lo dimostrino – dice Mazzucco – e ne saremo felicissimi». Il problema: nessuno è in grado di dimostrare niente, per ora. Tant’è vero che paesi come la Svizzera e la Slovenia hanno imposto l’alt: vogliono prima che la scienza ne comprovi la sicurezza effettiva. «Se i nostri paladini del 5G sono così sicuri che non rappresenti un pericolo per la salute – ecco la provocazione di Mazzucco – i parlamentari facciano un bel gesto: installino antenne alla Camera e al Senato».Stranamente, l’unica grande città europea che ha rifiutato il 5G è Bruxelles, sede dell’Unione Europea. Il sindaco non vuol sentir parlare, di wireless di quinta generazione, nella città che ospita gli uffici Ue, la Commissione, il Parlamento Europeo. I contro-complottisti in buona fede, quelli che accusano di infantilismo i cosiddetti cospirazionisti, ricordano che anche quando venne introdotta l’energia elettrica non mancavano gli agitatori di incubi. Verissimo, ma qui siamo di fronte a qualcos’altro: e se sono “paranoie”, quelle di Mazzucco e soci, certo a fugarle non aiutano le informazioni finora a disposizione, né il metodo semi-clandestino con cui il 5G è stato introdotto in Italia e bandito da Bruxelles. «Se è davvero innocuo – chiosa Mazzucco, tra il serio e il faceto – il suo grande sponsor Colao compia un atto plateale: si installi un’antenna 5G sul suo comodino e ci dorma accanto per anno intero. A quel punto, ne potremmo riparlare». Sì, ma dove? Su quali media? «Gli avvocati del senatore renziano Andrea Marcucci – racconta Mazzucco, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – mi hanno appena invitato a rimuovere un video in cui mettevo in relazione la messa alla bando della sieroterapia anti-Covid con la possibilità di produrre siero sintetico in laboratorio, materia in cui è specializzata l’azienda farmaceutica della famiglia Marcucci».Ecco il punto: più che il cosa, il come. Perché si deve aspettare che l’Italia sia in ginocchio, stroncata dal lockdown di Conte, per far uscire il 5G dalle catacombe della clandestinità? E’ troppo, pretendere chiarezza e trasparenza? Domanda retorica, in un paese in cui il ministero della sanità – di fronte all’emergenza Covid – ha fatto l’unica cosa che non doveva fare: dissuadere i medici dal compiere autopsie. Risultato: ci sono volute settimane, per scoprire che non si moriva di polmonite ma di trombo-flebite, e quindi l’ossigenazione forzata era letale, per i malati alle prese con problemi di coagulazione sanguigna. Altra vergogna nazionale, il caso De Donno: il medico di Mantova scopre che la sieroterapia funziona, il sangue dei guariti salva la vita ai malati trasmettendo gli anticorpi, ma invece di adottare il suo protocollo (richiesto da mezzo mondo, a partire dagli Usa) lo si emargina, arrivando poi a proibirlo, mentre il ministro si affretta a prenotare tonnellate di vaccino per un virus che ormai non fa più paura, perché i medici ora sanno finalmente come affrontarlo. Questa, dunque, sarebbe l’Italia in cui i cittadini dovrebbero dormire sonni tranquilli, nel momento in cui un grande privatizzatore della telefonia racconta ai cittadini che del 5G non c’è da aver paura?Alzi la mano chi ancora crede ai numeri quotidiani della Protezione Civile e alle promesse di Conte, alla religione delle mascherine e a quella dei guanti – prima raccomandati e poi sconsigliati dai misteriosi burloni dell’Oms, il gotha tecno-sanitario che a Wuhan se c’era dormiva, quando gli stregoni della genetica pasticciavano attorno all’Rna di un virus del raffreddore, probabilmente con l’intento di ricavarne un chimerico vaccino contro l’Aids. Questa almeno è la versione suggerita da paesi come gli Usa e la Francia, nonché da luminari della medicina come il professor Luc Montagnier, Premio Nobel, primo scopritore del virus Hiv. Alzi la mano chi seguita a immaginare che sia del tutto casuale la catastrofe piovutaci addosso, che ha spinto i governi a trasformarci prontamente in sudditi spaventati e ricattati, destinati a non tornare liberi mai più, lungo un orizzonte post-democratico dove i ministri spariscono, e al loro posto parlano oscuri tecnocrati e rinomati capitani di ventura come Vittorio Colao, principe europeo del 5G, e infatti lestissimo nel proporre il wireless di quinta generazione come elisir miracoloso per resuscitare l’Italia messa in coma farmacologico da Conte. Antenne pericolose? «Facciamo così: prima piazziamo un dispositivo 5G in Parlamento e un altro sul comodino di Colao, poi ne riparliamo».
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Novelli: capitalismo al capolinea, la finanza se l’è mangiato
Le Borse festeggiano la fine imminente del lockdown globale ma, a questi livelli, non stanno certamente prezzando il danno che rimarrà sull’economia, sui profitti attesi, sull’occupazione e, soprattutto, sulle insolvenze che arriveranno. Credo che il reale impatto che la pandemia avrà sull’economia globale si capirà solo nei prossimi tre mesi, quando si avrà una evidenza di come effettivamente si delinea il ritorno alla normalità tanto attesa. Se guardiamo a quello che accade in Cina non ci sono motivi per essere particolarmente ottimisti. Sebbene il governo cinese abbia imposto la ripresa dell’attività industriale, quello che accade fuori dal settore produttivo, in gran parte gestito con politiche centralizzate, non lascia spazio a facili entusiasmi. Il settore dei servizi e dei consumi interni, che non è gestito da politiche centralizzate e dipende dalla reale domanda privata, è pesantemente penalizzato dal fatto che i cittadini cinesi non hanno ancora superato lo shock, e la paura del contagio rimane latente. Le vendite al dettaglio sono ancora sotto del 16% rispetto a fine 2019 e gli unici settori che vedono un incremento dell’attività sono il settore pharma (+8%) e quello alimentare (+18%). I consumi di carburante e i ristoranti, che sono settori indicativi di un ritorno alla mobilità della popolazione e quindi dei consumi, sono -20% il primo e -57% il secondo.
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Poco e tardi: Conte spera di illudere gli italiani più ingenui
La coperta era corta: con 80 miliardi di interventi anticrisi complessivamente stanziati finora, tra i 25 del decreto di marzo e i 55 di quello sul “Rilancio” varato solo il 13 maggio dopo infiniti tira-e-molla interni alla maggioranza, il governo Conte ha fatto molto meno di Francia, Germania e Gran Bretagna, privo com’è di cassa e della leadership politica per raccoglierne di più, sia sui mercati sia dall’Europa, quando si tratterà (ben presto) di trovare materialmente i soldi per finanziare tutte le misure varate ieri. Dunque una “toppa” fuori tempo massimo, e senza investimenti né visione. Così la definisce Sergio Luciano, già caporedattore della “Stampa”, del “Sole 24 Ore” e delle pagine economiche di “Repubblica”. Data la “coperta corta”, scrive Luciano sul “Sussidiario”, il Conte-bis «ha scelto di lasciare scoperti i piedi su cui camminare nel futuro anteriore e coprire invece l’interesse del consenso di breve termine, quello che forse andrà presentato al cambiavalute delle prossime elezioni, soprattutto se il buon senso politico del paese si risveglierà e riporterà gli italiani alle urne prima della naturale scadenza della legislatura».Dunque il vero “rilancio” cui allude il nome del decreto, aggiunge Luciano, «è quello delle possibilità della maggioranza, ma soprattutto personali del premier, di raccattare consensi tra gli italiani», specie i più ingenui, cioè «quelli che sono capaci di contare i benefici immediati e diretti delle misure ma che forse non avranno la competenza per ricollegarli alla carenza – che questo governo non cura – di interventi strutturali sui grandi investimenti pubblici e sulle reti che abilitano la ripresa produttiva». Ci verrà detto che quelli e queste verranno fatti in seguito, con i fondi europei, diversi da quelli emergenziali? «Speriamo: finora non è mai successo». Secondo Luciano, «questo non è un decreto per giovani: è un decreto per elettori, soprattutto vecchi». Rivelatore, l’espressione “mosaico” citata dal grillino Patuanelli per descrivere il documento appena approvato. «Un mosaico di interventi, alcuni anche ineludibili, per carità – dalla cassa integrazione rifinanziata per altre nove settimane al maxi-abbuono dell’Irap di giugno per le imprese, dal differimento delle scadenze fiscali fino a settembre al rinnovo dei contributi per gli autonomi meno ricchi – ma comunque di breve termine e di natura emergenziale».Ben vengano gli interventi d’emergenza, ammette Luciano: non se ne può fare a meno. Semmai, in Italia sono tardivi. «Manca del tutto però un pensiero profondo su come rilanciare l’economia del paese: e in questo senso, purtroppo, il decreto non funzionerà». Il turismo, per esempio, «viene accarezzato con un modesto bonus famiglie», e non trova (nelle 505 pagine del decreto) «nulla che lo conforti sul termine medio-lungo». Quanto alla manifattura, viene «lasciata povera com’è di infrastrutture materiali e digitali», senza nulla di incisivo che la possa risollevare. Si segnala una boccata d’aria l’edilizia, «che ne aveva disperato bisogno», col maxi-bonus del 110% per le ristrutturazioni energetiche e antisismiche dei fabbricati. «Ma anche questa misura si limita ad ampliarne altre esistenti, che sono già state vastamente utilizzate e potrebbero anche non essere così gettonate come forse il governo si augura». Dovendo pagare un pegno di cui non ha colpa diretta, cioè «il pegno della malafinanza che ha dissanguato le casse pubbliche», questa compagine governativa ha puntato insomma sull’immediato, e al massimo sul breve termine.Secondo Luciano, la precaria maggioranza del Conte-bis «ha messo se stessa in mano al fato, per chi ci crede: perché è chiaro che se la pandemia dovesse davvero esaurire presto i suoi effetti malefici almeno in Italia e permettere una più dinamica ripartenza dell’economia manifatturiera, quella che da sempre salva il nostro paese nelle fasi critiche, resterà la memoria delle piccole ma tante elargizioni di ieri prima che emerga la gravità delle lacune e sfumerà la consapevolezza delle omissioni commesse». Se invece i danni della pandemia si faranno sentire più a lungo, «ripetere o prorogare questo pioggerellina di “pochi soldi per tanti se non per tutti” sarà impossibile e si rivelerà a chiunque con chiarezza che è stato perso altro tempo e un’occasione preziosa per avviare un’autentico rilancio infrastrutturale e produttivo del paese». Siparietto finale, per la «commozione autentica» di Teresa Bellanova sulla temporanea regolarizzazione dei braccianti stranieri. «Le brevi lacrime della ministra, lacrime proletarie – bracciante è stata lei stessa, da ragazza – cancellano le lacrime aristocratiche di un’altra ministra, Elsa Fornero, che le versò in un’altra storica conferenza stampa annunciando la sua draconiana legge sulle pensioni». Chiosa Luciano: «Una lacrima lava l’altra, il paese non ne ha più».La coperta era corta: con 80 miliardi di interventi anticrisi complessivamente stanziati finora, tra i 25 del decreto di marzo e i 55 di quello sul “Rilancio” varato solo il 13 maggio dopo infiniti tira-e-molla interni alla maggioranza, il governo Conte ha fatto molto meno di Francia, Germania e Gran Bretagna, privo com’è di cassa e della leadership politica per raccoglierne di più, sia sui mercati sia dall’Europa, quando si tratterà (ben presto) di trovare materialmente i soldi per finanziare tutte le misure varate ieri. Dunque una “toppa” fuori tempo massimo, e senza investimenti né visione. Così la definisce Sergio Luciano, già caporedattore della “Stampa”, del “Sole 24 Ore” e delle pagine economiche di “Repubblica”. Data la “coperta corta”, scrive Luciano sul “Sussidiario“, il Conte-bis «ha scelto di lasciare scoperti i piedi su cui camminare nel futuro anteriore e coprire invece l’interesse del consenso di breve termine, quello che forse andrà presentato al cambiavalute delle prossime elezioni, soprattutto se il buon senso politico del paese si risveglierà e riporterà gli italiani alle urne prima della naturale scadenza della legislatura».
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Lombardia: è l’inquinamento a far esplodere il coronavirus
Le prime ricerche sono comparse all’inizio dell’epidemia, sostenute dai pareri di molti scienziati. Eppure in molti non hanno voluto crederci e hanno continuato a sostenere che il fatto che non fosse dimostrato scientificamente che il Covid-19 abbia colpito più duramente nelle aree più inquinate del pianeta. Ricercatori dell’Università di Bologna hanno però scoperto che il virus viene trattenuto dalle particelle presenti nell’aria inquinata, confermando una ricerca cinese che affermava che le polveri sottili ospitano diversi tipi di microbi. Gli studiosi sostengono che l’analisi di questa presenza possa essere un possibile indicatore precoce di future recidive dell’epidemia da Covid-19. Il trasporto potrebbe avvenire su più lunghe distanze, e non basterebbe stare distanti un metro. Non sono i soli a collegare inquinamento e pandemia. Pubblicato dalla Harvard University, un altro studio potrebbe porre fine agli eventuali dubbi: conferma che c’è uno stretto legame tra la qualità dell’aria e il rischio di morte per il coronavirus. E questo potrebbe spiegare come mai la Lombardia, e in particolare l’area di Brescia, abbia contato un numero di vittime decisamente più alto che in altre parti del paese.Lo studio di Harvard è stato compiuto sul territorio americano. C’è una evidenza statistica per cui a ogni aumento di 1 grammo per metrocubo di polveri sottili, e in particolare della Pm 2.5, un incremento molto piccolo, corrisponde un aumento del 15 per cento del tasso di mortalità. Come già si sapeva, questa componente dell’atmosfera, prodotta dalla combustione dell’energia fossile, dagli allevamenti intensivi e dal comparto dell’edilizia, provoca anche nascite premature, infarto, danni ai polmoni e cancro. I ricercatori ritengono che la causa dell’effetto sia proprio da cercare nel fatto che il Pm 2.5 colpisce il sistema respiratorio e cardiovascolare. Già precedentemente lo stesso team di ricerca aveva effettuato uno studio su 60 milioni di americani con più di 65 anni scoprendo che lo stesso fattore di aumento provocava lo 0,73 per cento di tutti i casi di mortalità. Il risultato è chiaro: una esposizione a lungo termine agli inquinanti aumenta la vulnerabilità, che diventa ancora grave quando scoppia una epidemia. D’altronde un altro studio effettuato dal dipartimento di epidemiologia dell’Università della California e dalle Università di Pechino e Shanghai sulla Sars, strettamente imparentata con il Covid-19, aveva già dimostrato che il tasso di mortalità dei pazienti che vivevano in aree inquinate era doppio rispetto alle altre.A conferma del fatto che possiamo ormai essere scientificamente certi che esista una correlazione tra coronavirus e smog, c’è anche un’altra ricerca, della Martin Luther University di Halle-Wittenberg, Germania, che ha studiato un altro inquinante, il biossido di azoto, un forte irritante delle vie polmonari prodotto da tutti i processi di combustione ad alta temperatura (impianti di riscaldamento, motori dei veicoli, combustioni industriali), per ossidazione dell’azoto atmosferico. Anche questo composto è legato a un tasso di morti più alto nella pandemia. In questo caso grazie ai monitoraggi satellitari, è stata controllata la distribuzione del biossido di azoto in Europa negli scorsi due mesi, confrontandoli con il numero dei morti in 66 regioni di Italia, Spagna, Francia e Germania. E’ emerso che su 4.443 morti al 19 marzo, il 78 per cento erano avvenute solo in cinque regioni, concentrate tra nord Italia e Spagna centrale. Non basta. Anche un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Siena e della Aarhus University (Danimarca) ha messo in correlazione l’alta letalità del coronavirus registrata nelle zone della Lombardia e Emilia-Romagna con l’inquinamento. In base ai dati della Protezione civile hanno visto che la letalità registrata in Lombardia ed Emilia Romagna era del 12 per cento, mentre nel resto d’Italia siamo intorno al 4,5 per cento. In base all’Air quality index elaborato dall’Agenzia europea dell’ambiente, quelle sono proprio le due regioni più inquinate di Italia e tra le peggiori in Europa.(Mariella Bussolati, “Ritrovato il coronavirus nelle polveri sottili, ecco tutte le ricerche che legano sempre più strettamente Covid e inquinamento”, da “Business Insider” del 25 aprile 2020).Le prime ricerche sono comparse all’inizio dell’epidemia, sostenute dai pareri di molti scienziati. Eppure in molti non hanno voluto crederci e hanno continuato a sostenere che il fatto che non fosse dimostrato scientificamente che il Covid-19 abbia colpito più duramente nelle aree più inquinate del pianeta. Ricercatori dell’Università di Bologna hanno però scoperto che il virus viene trattenuto dalle particelle presenti nell’aria inquinata, confermando una ricerca cinese che affermava che le polveri sottili ospitano diversi tipi di microbi. Gli studiosi sostengono che l’analisi di questa presenza possa essere un possibile indicatore precoce di future recidive dell’epidemia da Covid-19. Il trasporto potrebbe avvenire su più lunghe distanze, e non basterebbe stare distanti un metro. Non sono i soli a collegare inquinamento e pandemia. Pubblicato dalla Harvard University, un altro studio potrebbe porre fine agli eventuali dubbi: conferma che c’è uno stretto legame tra la qualità dell’aria e il rischio di morte per il coronavirus. E questo potrebbe spiegare come mai la Lombardia, e in particolare l’area di Brescia, abbia contato un numero di vittime decisamente più alto che in altre parti del paese.
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Tutti in gara per aiutarci, anche Pornhub. Tranne la Chiesa
Ragazzi, persino Pornhub ha donato denaro: ha deciso di dedicare gli incassi di una mensilità degli abbonamenti al sostegno di quelle realtà che cercano di fronteggiare l’emergenza coronavirus. Persino Pornhub, che è un sito porno: persino loro stanno raccogliendo soldi per chi si sta impegnando in quest’emergenza. La Chiesa cattolica, no. In alchimia è noto che, quando si alza la temperatura, in una reazione, le varie sostanze in un certo qual modo si distillano, quindi esaltano le loro identità. Immaginate quando si distilla un macerato, per farci dell’acquavite: si estraggono un po’ alla volta le varie sostanze, si separano; si aumentano certe combinazioni, e altre si separano. Al pari, in questo momento, la grande pressione che sta aumentando (lo vedete, c’è una grande pressione nell’aria) sta facendo evidenziare le caratteristiche di certi soggetti – un po’ di tutti, ma di alcuni in particolar modo. Ed ecco che, in questo momento, la Chiesa cattolica dichiara, palesa, rende evidente la sua identità. Getta la maschera, come non aveva mai fatto, in passato.Pensate: il Papa, tramite il dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale (notizia ben evidenziata dall’Ansa), ha donato centomila euro alla Caritas. Una cifra enorme, ragazzi: centomila euro – alla Caritas, che è uno strumento della compagine catto-cristiana. E’ praticamente un semplice giroconto. Di più invece ha fatto la Cei, la conferenza episcopale italiana, ma non di sua iniziativa: accogliendo una richiesta della fondazione Banco Alimentare Onlus ha deciso di “donare” (attenzione al termine) 500.000 euro dei soldi presi dall’8 per mille. Cioè: non si sono tolti niente. L’8 per mille è quel meccanismo furbo, attraverso il quale la Chiesa cattolica riesce a stillare qualcosa come sei, sette, otto miliardi di euro l’anno – e sono soldi nostri. Non hanno cavato una lira, ragazzi. Pensate: Berlusconi, 10 milioni di euro. Gli Agnelli, 10 milioni di euro. Caprotti, 10 milioni di euro. Lavazza, 10 milioni di euro. Persino la Campari (un milione di euro) ha donato più della Chiesa cattolica. L’Unione Buddista Italiana ha donato qualcosa come 3 milioni di euro. “Loro” invece si è sono limitati a girare una piccola parte dei soldi ricevuti dallo Stato italiano.Eppure stiamo parlando della Chiesa cattolica, cioè quella che può essere considerata la realtà più ricca al mondo. Anni fa pubblicai un testo, “La messa è finita”, nel quale spiego quanto sia falso e sbagliato associare alla Chiesa la figura di Gesù. Se è esistito (e chi lo sa?), Gesù ha lanciato un messaggio e fatto alcune cose; la Chiesa cattolica è ben altro. Giusto per farsi un’idea, si ritiene che ad oggi la Chiesa cattolica possieda il secondo più grande tesoro, in oro, al mondo, secondo solo a quello degli Stati Uniti (e si limita a dare centomila euro alla Caritas). Il patrimonio finanziario della Chiesa è immenso, e spazia da azioni presso i più importanti istituti finanziari: i Rothschild di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, la Banca Ambrose, il Crédit Suisse di Londra e Zurigo, la banca Morgan, la First National Bank e altre, e azioni in multinazionali come Shell, General Motors, Betlehem Steel, General Electric, International Business Machine e tante altre, che non vi sto a leggere. Aggiungiamo l’impressionante patrimonio immobiliare, le proprietà terriere, agricole e boschive (che in tutto il mondo raggiungono quote imbarazzanti) e tutte le opere d’arte.A tutti gli effetti, possiamo tranquillamente considerare la Chiesa cattolica come il maggior possessore di ricchezze materiali esistenti, e il Papa – in quanto amministratore – l’uomo più facoltoso del pianeta. Centomila euro alla Caritas, e cinquecentomila (sempre di soldi pubblici, presi col meccanismo dell’8 per mille) dati a sostegno, sulla base di richieste ricevute. Per il resto, non hanno fatto niente. E continuano a non fare niente. Ma c’è un dato ancora più grave, a mio avviso: invece di dare una mano, privandosi di un po’ di quei soldi accumulati nei secoli (quando rischiavi di essere bruciato, se non credevi nella Chiesa, e comunque dovevi cederle i tuoi beni), stanno addirittura approfittando di questo momento per dare forza ai loro strumenti. Per esempio: un simbolo fortissimo che la Chiesa cattolica utilizza è il crocifisso. La prima cosa che ha fatto, il Papa (gesto utilissimo, che infatti ha salvato milioni di vite), è stato andare a far visita al crocifisso che, si racconta, nel XVII secolo “ha fermato la peste”. La gente segregata in casa, e lui in giro per Roma (tranquillo, senza mascherina).Nosiglia, l’arcivescovo di Torino, ha addirittura esortato tutte le chiese e far suonare le campane all’unisono. Sempre nel mio libro mostro i risultati degli ultimi studi condotti dall’epigenetica: è per comprendere cos’è il suono delle campane, che effetto produce in noi, che tipo di ricordo attiva (grave e minaccioso, ndr). Quindi: invece di darci una mano, loro approfittano della situazione. E pensate: in questo periodo di crisi “Radio Maria”, l’unica radio che si sente in tutta Italia, persino nelle gallerie, grazie al più potente emettitore italiano, ha addirittura esortato a rafforzare le donazioni. E per farci cosa? Per tenersele per sé. Concludo: la storia dà sempre grandi lezioni, è una grande maestra. Basterebbe studiare la storia, per riuscire a far fronte al nostro presente in maniera molto più saggia. Quella che ci lascia questa volta è una lezione inesorabile, e il mio invito è quello di ricordarcela. Osserviamo la bellezza della natura, che sta riemergendo, essendosi abassati tutti i livelli di inquinamento: l’acqua che torna limpida a Venezia; i delfini che giocano nei porti; questa primavera con un’aria molto più leggera; questo silenzio nutrito solo da suoni armonici, dal canto degli uccellini, dal volo di qualche insetto.Ricordiamoci di questa bellezza, che stiamo vivendo. Ma ricordiamoci anche che in questa vicenda c’è un grande sconfitto. Hanno vinto in tanti: hanno vinto i medici, gli infermieri; hanno vinto le associazioni di volontariato; hanno vinto le forze dell’ordine; hanno vinto i sindaci, che si stanno impegnando in una maniera incredibile. Ha vinto la gente, che tira la cinghia e rimane in casa, e va avanti, e si inventa qualcosa per sopportare questo stato di stress che a volte è veramente difficile. Ha vinto la Cina, occorre dirlo: la Cina ha stravinto, in tutto questo; ha vinto con la sua tecnologia, con il suo modo di riuscire a gestire la situazione. Ha vinto la solidarietà, ha vinto l’impegno. Ha vinto l’inarrestabile processo evolutivo. Vince addirittura anche il governo italiano che, seppur strangolato nella morsa, nel ricatto monetario dell’euro e del debito, è riuscito comunque a trovare qualche soldo per la gente. L’unica sconfitta – per la sua inadeguatezza, l’incapacità e l’avarizia – è la Chiesa cattolica. L’unico vero sconfitto è il grande impero della Chiesa cattolica, al quale dedico questa ultima frase: persino una spremuta d’arancia, con la sua vitamina C, in questo momento è più utile di te.(Michele Giovagnoli, estratto del video-editoriale “La Chiesa non dà nulla, anzi…”, pubblicato il 20 marzo 2020 sul canale YouTube di “Border Nights”, su cui Giovagnoli conduce la rubrica settimanale “L’uomo che parla con gli alberi”. Naturalista e alchimista, Giovagnoli ha pubblicato saggi come “Alchimia selvatica” e “Impara a parlare con gli alberi”. Quest’anno ha avviato un’iniziativa formativa speciale, chiamata Accademia Genitore Albero. Il libro citato nel video, “La messa è finita” – 175 pagine, euro 12,90 – è stato pubblicato nel 2017 da UnoEditori).Ragazzi, persino Pornhub ha donato denaro: ha deciso di dedicare gli incassi di una mensilità degli abbonamenti al sostegno di quelle realtà che cercano di fronteggiare l’emergenza coronavirus. Persino Pornhub, che è un sito porno: persino loro stanno raccogliendo soldi per chi si sta impegnando in quest’emergenza. La Chiesa cattolica, no. In alchimia è noto che, quando si alza la temperatura, in una reazione, le varie sostanze in un certo qual modo si distillano, quindi esaltano le loro identità. Immaginate quando si distilla un macerato, per farci dell’acquavite: si estraggono un po’ alla volta le varie sostanze, si separano; si aumentano certe combinazioni, e altre si separano. Al pari, in questo momento, la grande pressione che sta aumentando (lo vedete, c’è una grande pressione nell’aria) sta facendo evidenziare le caratteristiche di certi soggetti – un po’ di tutti, ma di alcuni in particolar modo. Ed ecco che, in questo momento, la Chiesa cattolica dichiara, palesa, rende evidente la sua identità. Getta la maschera, come non aveva mai fatto, in passato.
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Paura e morte, la dittatura della superpotenza democratica
Il dittatore della Nato, Erdogan, ora fa a botte a viso aperto con la Siria, protetta dalla Russia. Nemmeno la Siria è la patria della democrazia, ma almeno non minaccia di precipitare anche l’Italia in qualche guerra. La Siria, come narrato dal generale clintoniano Wesley Clark, era – con la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran – tra gli obiettivi imperiali della superpotenza democratica. Sarebbe stata devastata, dalla potenza democratica e dai suoi tentacoli, per una serie di ragioni. Perché si era rifiutata di ospitare un gasdotto scomodo per l’egemonia energetica russa. E perché il governo di Damasco continua, imperterrito, a chiamare Territori Occupati le regioni della Cisgiordania che Israele ha rubato ai palestinesi, in barba alle inutili disposizioni delle Nazioni Unite. Soprattutto, il regime di Assad è laico, avanzato, progredito, largamente sostenuto dalla maggioranza della popolazione: è l’ultimo residuo del partito Baath, il fantasma del socialismo panarabo sorto con il sovranismo egiziano di Nasser, durante la decolonizzazione, e sopravvissuto con Saddam Hussein, il despota già alleato dell’impero democratico ma poi abbandonato, sconfitto e infine impiccato dalla superpotenza che ha arrostito donne e bambini con il fosforo bianco nella fornace di Fallujah, violando qualsiasi convenzione Onu sull’uso delle armi di distruzione di massa, in questo caso scatenate anche contro l’inerme popolazione civile.Nel 2020, tecnicamente, in molte regioni del mondo la parola democrazia non significa niente, nella migliore delle ipotesi (nella peggiore, equivale al rituale ricorrente di bombardamenti, guerre, milioni di esuli e rifugiati, tra inconfessabili calcoli economici e reciproche convenienze, tacitamente stipulate da oligarchie formalmente nemiche ma in realtà alleate, sottobanco). Il capolavoro della superpotenza democratica, in Medio Oriente, negli ultimi anni è stata la sua micidiale doppiezza: massimo appoggio alla peggiore di tutte le dittature dell’area, l’Arabia Saudita, e guerra sporca contro ogni altro attore della regione, destabilizzato dalle rivoluzioni colorate o brutalmente devastato attraverso bande armate di tagliagole. Lo spettacolo della democrazia atlantica in versione mediorientale lo hanno lungamente scontato, sulla loro pelle, prima gli iracheni e poi i siriani. Questi ultimi, in particolare, sono stati letteralmente assaliti dalle milizie terroristiche organizzate, protette, armate e finanziate dalla superpotenza democratica e dai suoi camerieri regionali. I tagliagole hanno seminato orrore, terrore e morte, fino a quando non è intervenuta la Russia. Liberata la Siria e restituito il territorio ai siriani, il turco Erdogan – uno dei manovali terroristici reclutati dalla superpotenza democratica – ora non accetta il verdetto militare, e prova a negare ai siriani il diritto a una vittoria compiutamente definitiva.Un vero e proprio eroe del riscatto nazionale siriano, il generale Qasem Soleimani – numero due del regime teocratico di Teheran, fiero avversario dell’Isis prima in Iraq e poi in Siria – è stato assassinato in modo brutale, a tradimento, con un raid terroristico a suon di missili ordinato dalla superpotenza democratica. La colpa di Soleimani? Una: era abile, stimato, autorevole. Legato all’oligarchia medievale dell’Iran, credeva nell’espansione della Mezzaluna Sciita come contrappeso geopolitico alla legge del taglione imposta dalla superpotenza democratica. Soleimani ha fatto la fine di Saddam, di Gheddafi, e di chiunque altro si opponesse – a vario titolo – alla spietata dittatura della superpotenza democratica. La cosiddetta opinione pubblica, nella patria mondiale della democrazia, è dominata da quattro famiglie, cui fanno capo centinaia di reti televisive. Un unico telegiornale, declinato in più modi, trasmette – 24 ore su 24 – le stesse notizie, distillate dalle medesime fonti. Ogni quattro anni, naturalmente, si vota. George Walker Bush divenne presidente a tavolino, per decreto, grazie a clamorosi brogli in Florida. Il suo successore, Barack Obama, aveva promesso – mentendo – di cambiare le regole del gioco: è stato il presidente che ha fatto assassinare più persone, nel mondo, attraverso gli omicidi mirati affidati ai droni.Obama, che ha dichiarato di aver ucciso anche Osama Bin Laden (spegnendo così il clamore sulle indiscrizioni riguardanti la sua vera origine – si sospettava che non fosse nato alle Hawaii, ma in Africa, cosa gli avrebbe impedito di candidarsi alla Casa Bianca) è stato anche il presidente che, dopo aver amnistiato i bari di Wall Street, si è inventato i Russiagate contro Putin, ha spintonato l’Europa per imporre le sanzioni alla Russia, ha fatto spiare anche il telefono privato di Angela Merkel. Poi la superpotenza democratica ha voltato pagina, con una nuova entusiasmante sfida elettorale: da una parte la cannibale Hillary Clinton, dall’altra il rozzo Donald Trump. Ora sono tutti d’accordo, ai piani alti, nel tagliare le unghie alla Cina: erano stati loro a delocalizzare in Asia (in paesi senza democrazia) la grande industria americana, ma adesso – visto che la Cina ha superato il maestro – pensano sia giunta l’ora di fare retromarcia, e intanto si godono le delizie del coronavirus. Nel frattempo, tra poco si rivota. Un candidato, Bernie Sanders, spara a zero sugli abusi razzisti del governo israeliano e si schiera con i palestinesi. Secondo tutti i bookmaker, non ha nemmeno una possibilità su mille di diventare il nuovo presidente della superpotenza democratica. Ecco il gioco: post-democrazia contro non-democrazia. Trovare la differenza.(Giorgio Cattaneo, 1° marzo 2020).Il dittatore della Nato, Erdogan, ora fa a botte a viso aperto con la Siria, protetta dalla Russia. Nemmeno la Siria è la patria della democrazia, ma almeno non minaccia di precipitare anche l’Italia in qualche guerra. La Siria, come narrato dal generale clintoniano Wesley Clark, era – con la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran – tra gli obiettivi imperiali della superpotenza democratica. Sarebbe stata devastata, dalla potenza democratica e dai suoi terminali, per una serie di ragioni. Perché si era rifiutata di ospitare un gasdotto scomodo per l’egemonia energetica russa. E perché il governo di Damasco, imperterrito, continuava (e continua) a chiamare Territori Occupati le regioni della Cisgiordania che Israele ha rubato ai palestinesi, in barba alle inutili disposizioni delle Nazioni Unite. Soprattutto, il regime di Assad è laico, avanzato, progredito, largamente sostenuto dalla maggioranza della popolazione: è l’ultima residua incarnazione del partito Baath, il fantasma del socialismo panarabo sorto con il sovranismo egiziano di Nasser, durante la decolonizzazione, e sopravvissuto con Saddam Hussein, il despota già alleato dell’impero democratico ma poi abbandonato, sconfitto e infine impiccato dalla superpotenza che ha arrostito donne e bambini con il fosforo bianco nella fornace di Fallujah, violando qualsiasi convenzione Onu sull’uso delle armi di distruzione di massa, in quel caso scatenate anche contro l’inerme popolazione civile.
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Banche pubbliche: rivoluzione, nella culla del neoliberismo
Il 2019 ha segnato un punto di svolta in un crescente movimento di banche pubbliche che ha preso slancio negli Stati Uniti. Tra le conquiste del movimento troviamo il passaggio del Public Banking Act (Ab-857) in California, l’istituzione di una banca pubblica statale nel New Jersey e l’apertura della Banca territoriale delle Samoa americane. Dopo che i legislatori della California hanno emanato il Public Banking Act dello Stato, San Francisco e Los Angeles hanno annunciato piani per l’istituzione di banche pubbliche. E ora ci sono più di 25 leggi per l’apertura di banche pubbliche in esame in altri stati. Perché il settore bancario pubblico? Perché ora? Dalla crisi bancaria del 2008, l’opinione pubblica ha espresso preoccupazioni per le banche commerciali e la natura del sistema bancario. Ogni anno miliardi di dollari di fondi pubblici vengono depositati in banche private (Wall Street). Non è il governo che conserva i nostri soldi, sono le banche private. In genere, questi fondi pubblici non sono investiti in comunità o Stati locali. Questi fondi finiscono in investimenti ad alto rendimento come l’industria dei combustibili fossili, condutture, prigioni private.Un movimento di disinvestimento in crescita si concentra ora sulla cessione di programmi governativi, come i fondi pensione dei dipendenti pubblici ad esempio, togliendoli alle grandi banche. La domanda quindi è dove metterli. Gli attivisti della giustizia economica affermano che la risposta è il settore bancario pubblico. Le banche pubbliche sono servizi pubblici, di proprietà delle persone con la missione di servire il bene pubblico e i valori della comunità. Secondo i sostenitori, le banche pubbliche possono offrire prestiti a basso tasso d’interesse per studenti e agenzie pubbliche e capitali per piccole imprese e organizzazioni no profit. In tal caso, il sistema bancario pubblico consentirebbe alle città, alle contee o agli Stati di ottenere di più per i loro fondi limitati e di gestire efficacemente il proprio denaro per fornire più servizi ai propri cittadini. Vale a dire alloggi a prezzi accessibili, servizi per i senzatetto, istruzione, energie rinnovabili, strutture sanitarie comunitarie, trasporto pubblico.Il 2019 è stato anche il centesimo anniversario della prima banca statale di proprietà pubblica americana, la Bank of North Dakota (Bnd), un’eredità vivente che fa prestiti al di sotto del mercato per le comunità locali e le imprese, generando allo stesso tempo un profitto per lo Stato. La Bank of North Dakota è stata fondata in risposta a una rivolta degli agricoltori contro le banche private che stavano ingiustamente pignorando le loro fattorie. Da allora la Bnd si è evoluta in una banca da 7,4 miliardi di dollari, che risulta essere ancora più redditizia rispetto a Jp Morgan Chase e Goldman Sachs, sebbene il suo mandato non sia effettivamente quello di generare profitti ma di servire le comunità locali. Insieme a centinaia di banche pubbliche in tutto il mondo, Bnd ha dimostrato cosa si può fare tagliando azionisti e intermediari privati e mobilitando le entrate pubbliche per servire il pubblico. Con la leadership di Bnd, il Nord Dakota è stato l’unico stato negli Stati Uniti a sfuggire alla crisi del credito del 2008, avendo anche il più basso tasso di disoccupazione e tasso di pignoramento nel paese. La Bank of Nord Dakota si pone come modello di successo.La rivoluzione del settore bancario pubblico potrebbe andare oltre, esplorando la rinascita del sistema bancario postale, un servizio realizzato in passato dagli uffici postali statunitensi. Le banche che inseguono gli utili tendono ad abbandonare i quartieri rurali e a basso reddito, lasciando una persona su cinque senza servizi bancari o “underbanked”. Questo, spesso li costringe a fare affidamento su servizi finanziari predatori come banchi dei pegni, servizi di cambio assegno e prestatori di giorno di paga. Di conseguenza, le famiglie senza accesso ai servizi bancari spendono quasi il 10% delle loro entrate solo per accedere al proprio denaro. L’ufficio postale locale potrebbe facilmente cambiare la situazione. Mentre le città e gli Stati iniziano a svilupparsi e ad investire nei propri sistemi bancari pubblici, siamo in un momento storico che potrebbe portare a un futuro più prospero per l’americano medio. La copertura mediatica di questo argomento è stata limitata all’annuncio di notizie isolate, invece di raccontare questa rivoluzione in atto nel settore bancario locale e le forze che la guidano.(Mattew Ascano, “La rivoluzione delle banche pubbliche, nella culla del neoliberismo”, da “Projectcensored.org”; articolo presentato da Riccardo Donat-Cattin su “Come Don Chisciotte”. Ascano è un ricercatore della San Francisco University).Il 2019 ha segnato un punto di svolta in un crescente movimento di banche pubbliche che ha preso slancio negli Stati Uniti. Tra le conquiste del movimento troviamo il passaggio del Public Banking Act (Ab-857) in California, l’istituzione di una banca pubblica statale nel New Jersey e l’apertura della Banca territoriale delle Samoa americane. Dopo che i legislatori della California hanno emanato il Public Banking Act dello Stato, San Francisco e Los Angeles hanno annunciato piani per l’istituzione di banche pubbliche. E ora ci sono più di 25 leggi per l’apertura di banche pubbliche in esame in altri stati. Perché il settore bancario pubblico? Perché ora? Dalla crisi bancaria del 2008, l’opinione pubblica ha espresso preoccupazioni per le banche commerciali e la natura del sistema bancario. Ogni anno miliardi di dollari di fondi pubblici vengono depositati in banche private (Wall Street). Non è il governo che conserva i nostri soldi, sono le banche private. In genere, questi fondi pubblici non sono investiti in comunità o Stati locali. Questi fondi finiscono in investimenti ad alto rendimento come l’industria dei combustibili fossili, condutture, prigioni private.
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Trump in Medio Oriente: lo status quo, con il minimo sforzo
Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario”. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.Difficilmente difendibile la responsabilità di Trump nella violenta eliminazione di Soleimani: ha ucciso un soldato con importanti ruoli politici, e l’ha fatto di un paese non in guerra. Un omicidio mirato in uno Stato terzo, senza chiederne l’autorizzazione né informarne le autorità, oltretutto uccidendo anche cittadini iracheni. E comunque: si può giudicare razionale l’azione americana di eliminazione del generale iraniano? Inoltre: quali sono gli obiettivi di lungo periodo che gli Usa vogliono raggiungere, in Medio Oriente? Infine: quali mezzi militari sono adatti a raggiungere questi obiettivi strategici? L’uccisione di Soleimani, scrive Tirabassi, conferma la storica ostilità americana verso Teheran: l’Iran non deve avere armi nucleari e deve cessare la ricerca di un’egemonia regionale, dall’Iraq allo Yemen, alla Siria e al Libano (con gli alleati Hezbollah e Hamas), smettendo di minacciare Israele e l’Arabia Saudita. Massima pressione contro il regime degli ayatollah, confermata anche dall’uscita dall’accordo sul nucleare e dall’inasprimento delle sanzioni economiche. Obiettivo: interrompere il flusso di finanziamenti da parte iraniana ai vari partner stranieri (Hezbollah e Hamas, gli Huthi in Yemen), «con la conseguenza di dissanguare le casse dello Stato, ormai ridotte allo stremo, incrinando il consenso, e quindi la forza degli ayatollah».Mentre la tecnologia estrattiva del fracking ha assicurato agli Stati Uniti un’autosufficienza energetica che li mette al riparo dal ricatto petrolifero, le conseguenze delle sanzioni sull’economia iraniana non si sono fatte attendere: nel 2019 il Pil di Teheran si è contratto del 9,5%. Se le cose non cambiamo, nel 2020 l’economia iraniana «calerà più del doppio, mentre l’inflazione viaggia al 30%». La deterrenza militare esibita da Trump nell’operazione-Soleimani «dimostra il predominio militare americano», e sopratutto «manda in frantumi la percezione di impunità che avevano a Teheran». Secondo Tirabassi, gli ayatollah avevano scambiato per debolezza l’indecisione degli Usa, che aveva disorientato gli alleati americani in Medio Oriente, «sorpresi e impauriti dalla mancanza di reazione di Trump e dalle sue parole concilianti dopo l’abbattimento da parte iraniana di un drone americano il 20 giugno dello scorso anno e l’attacco ai pozzi di petrolio sauditi del settembre 2019». Ben 20 droni e 11 missili, partiti da una base iraniana al confine con l’Iraq, avevano colpito i siti di Abqaiq e Khurais. «Azioni culminate con l’uccisione del contractor americano a Kirkuq e l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad, orchestrato secondo gli Usa dagli iraniani, in conseguenza del bombardamento di una base della milizia irachena».Azioni però destinate a far cambiare idea al presidente americano – spiega Tirabassi – perché colpivano immediatamente l’autorevolezza Usa avendo anche un’enorme potenza mediatica, facendo ricordare i giorni bui del sequestro di 52 membri dell’ambasciata statunitense a Teheran, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Il lancio del missile su Soleimani? «Risponde alla logica del colpo su colpo, affinché il nemico capisca in modo inequivocabile che non può agire impunemente». Ed è anche un messaggio chiaro per il governo di Baghdad, o meglio di quella parte che flirta con l’Iran. Ma, a parte questo, la Casa Bianca ha una visione per il Medio Oriente? Nonostante la raggiunta indipendenza energetica, spiega sempre Tirabassi, gli Usa puntano comunque alla stabilità della produzione petrolifera, fondamentale per far l’economia del mondo. Questo comporta l’impegno automatico al fianco dell’Arabia Saudita. Altro caposaldo: lo strettissimo rapporto di Trump con Israele, al punto da proporre un piano di pace che però impedisca ai profughi palestinesi di tornare alle loro case. Se Bush voleva ridisegnare la mappa del Medio Oriente, e Obama tentava accordi “impossibili” «con regimi e nemici che tutto vogliono meno che la pace», Trump si muove in modo diverso: vorrebbe «mettere fine ai “regime change” sia in veste neocon che democratica, lezione rafforzata dal caso venezuelano».Quello che emerge, secondo Tirabassi, è un disegno americano del Medio Oriente dai tratti negativi: «Trump non fa altro che fissare di nuovo gli interessi in purezza degli Stati Uniti, al di là dei desideri, volontà e ideologie. E da questa considerazione traccia una conseguente strategia militare, del massimo risultato con le minime perdite, ottenuto sfruttando appieno il “vantaggio competitivo” Usa della sua strabiliante forza militare che a sua volta riposa su un predominio economico, tecnologico e logistico senza pari nel mondo». Tradizione anglosassone declinata in epoca postmoderna: una «visione isolazionista-imperiale», fatta di «controllo assoluto dei mari, dell’aria, dello spazio e del cyberspace: flotte che solcano i mari, aerei continuamente in volo, satelliti nello spazio, basi Usa dislocate in tutto il mondo». In sostanza: «Obiettivi politici limitati», ottenuti grazie alla superiorità militare, e senza puntare a cambi di regime (neppure in Siria, dove la Russia ha potuto esercitrare un ruolo decisivo, concordato con la Casa Bianca). «Rimane tutto da vedere – conclude Tirabassi – se questo tipo di strategia è capace di produrre qualche tipo di ordine, e se permetta di sganciarsi dal caos mondano, consentendo agli Stati Uniti di rompere solo saltuariamente e per il tempo strettamente necessario il loro nuovo isolamento». Fosse per Trump, aggiunge l’analista, il compito di stare sul terreno sarebbe demandato di volta in volta agli altri Stati, dalla Russia ai partner della Nato. Basterà?Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario“. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.
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L’Italia frana, mentre Salvini & Sardine pensano all’Emilia
Mentre le Sardine prodiane si affannano nelle piazze a insultare l’Uomo Nero sulla base di slogan vuoti e istericamente pericolosi, come la pretesa di togliere all’odiato nemico la libertà di esprimersi sul web, emerge sempre più chiaramente la vera natura dell’altro colossale abbaglio gialloverde, il cosiddetto fronte sovranista (in realtà solo salvinista). E’ vistoso il panico del Pd di fronte alle elezioni emiliane, in una Regione-simbolo che, per la prima volta nella storia, sembra seriamente contesa dal centrodestra. Ma pur di sviare l’attenzione dal vero pericolo – la fine dell’eterno poltronificio “rosso” – il Pd preferisce scendere sullo stesso terreno di Salvini, fingendo cioè di credere che a Bologna sia in gioco chissà cosa, la fine del mondo, il tramonto dell’umanesimo di fronte all’incombere della barbarie. L’Emilia come linea del Piave, come soglia psicologica: se crollasse, però, insieme all’onesto buongoverno dell’uscente Bonaccini finirebbe rottamato soprattutto lo storico radicamento territoriale di un potere che, partendo dalla genuinità campagnola dei tanti industriosi Peppone, una volta insediatosi a Roma (dopo la fine della Prima Repubblica) ha tranquillamente svenduto il paese alla famelica finanza globalista, grazie a condottieri anti-italiani come Prodi. E qualcuno può pensare seriamente che, con il baldo Salvini, la musica sarebbe diversa?In premessa, ovviamente, del Pd si può dire tutto il male possibile. Liquidati Moro dalla strategia della tensione e Bettino Craxi da Mani Pulite, la filiera ex-Pci ha consegnato quel che restava dell’elettorato di sinistra al turbocapitalismo neoliberista e privatizzatore, che ha distrutto l’economia mista (gruppo Iri) che faceva dell’Italia un paese anomalo, insopportabilmente benestante grazie al traino dell’industria di Stato, pur al netto delle tante piaghe nazionali: il clientelismo atavico e la corruzione dei partiti, l’evasione fiscale record, il ruolo invasivo delle mafie nell’economia. Quell’Italia è stata sabotata già nel 1981 con il divorzio fra Tesoro e Bankitalia, poi al resto ha provveduto il Trattato di Maastricht: dopo il lavoro sporco affidato a Prodi e Draghi, il “vincolo esterno” imposto alla politica nazionale è stato salutato con giubilo da leader come D’Alema. Agli ex amici dell’Urss è stato finalmente permesso di guidare il paese, sia pure solo formalmente, a patto che si limitassero a eseguire gli ordini del grande capitale finanziario neoliberale. Un’opera che solo l’ex sinistra poteva condurre in porto, con provvedimenti come la legge Treu per ridimensionare il peso e i diritti dei lavoratori, d’intesa con la Cgil.A conferma delle menzogne quotidiane fabbricate dalla propaganda sinistrese, per finire l’opera c’è stato bisogno che si chiudesse l’inutile parentesi del cosiddetto ventennio berlusconiano: la pietra tombale sui diritti del lavoro è infatti giunta solo con Renzi, sotto forma di Jobs Act e abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Contro il nuovo partito scelto dal potere per regnare sull’Italia si era levato il Movimento 5 Stelle, che aveva individuato nel Pd – giustamente – il vero nemico della sovranità italiana. Se però l’ex sinistra aveva fatto ricorso a politiche sofisticate e a menti raffinatissime per ingannare l’elettorato, spacciando per medicina il veleno che veniva somministrato al paese, i grillini hanno sfondato alla velocità della luce ogni limite estetico, ogni diaframma di decenza politica: in un pugno di mesi hanno rinnegato al 100% il loro programma iniziale, calpestando tutte le promesse e gettando nella spazzatura le speranze di un elettore su tre. Per un anno, usando come paravento l’uomo-ombra Giuseppe Conte, al governo coi 5 Stelle c’era pure la Lega di Matteo Salvini, che aveva ereditato da Bossi un Carroccio al 4% dei consensi. Quadruplicati, i suffragi leghisti, occupando stabilmente le televisioni per anni, essenzialmente con invettive: contro l’euro e l’Europa matrigna, contro i migranti e i campi Rom da spianare con le ruspe, contro l’atlantismo servile da rimpiazzare con una politica multipolare più rispettosa della Russia e delle istanze nazionali, ricalcando posizioni come quelle espresse in Francia da Marine Le Pen e in Ungheria da Viktor Orban.Una volta al governo, però, il Capitano (coraggioso, a quanto patre, solo a parole) ha cominciato a frenare: ha ingoiato la bocciatura di Paolo Savona imposta dai grandi poteri tramite Mattarella, ha subito senza fiatare il siluramento del fido Armando Siri, l’uomo della Flat Tax, e ha incassato l’umiliante “niet” di Bruxelles in relazione alla richiesta di espandere il deficit: si trattava peraltro solo del minimo sindacale, per finanziare investimenti capaci di dare un po’ di fiato al made in Italy, ma al nostro paese è stato negato anche quello. Di che pasta fosse il sovranismo di Salvini lo si è poi visto nel dicembre 2018, con l’avvilente genuflessione di fronte a uno dei massimi terminali del potere imperialista, nella versione israeliana incarnata dal famigerato Benjamin Netanyahu, uno dei politici più pericolosi del Medio Oriente. Il resto è cronachetta: le penose risse sugli sbarchi e gli strascichi giudiziari all’italiana mentre il vero potere si mangia la Libia, l’inaudita condanna inflitta alla Lega (costretta a “restituire” 49 milioni di euro, in realtà mai rubati) e l’imbarazzante vicenda di Gianluca Savoini, sorpreso a Mosca a discutere di forniture energetiche: fatto su cui Salvini si è finora rifiutato di dare spiegazioni.Unico politico italiano capace di esprimere un esultante tifo calcistico a favore del brutale omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani, l’ex mattatore del Papeete è oggi contestato dalle Sardine essenzialmente per il lessico politicamente sgarbato, intollerabile per il buonismo dei gretini che proprio non vedono i 100 trilioni di dollari già pronti, per la speculazione del secolo che si avvale dell’ingenuità della minorenne svedese. Un grande spettacolo per ciechi: da una parte l’implume Greta elogiata dal fantasma-Zingaretti e dall’altra il villanzone lombardo, mentre i tre grandi poteri del mondo (gli azionisti di Vanguard, BlackRock e State Street) stabiliscono – al posto dei politici – come dovremo vivere e cosa dovremo pensare, nei prossimi anni. Avanza nel modo pià subdolo l’ambigua rete wireless 5G, destinata a rivoluzionare il nostro modo di esistere e di lavorare. Secondo medici e scienziati, prima di decretarne la sicurezza per la salute pubblica occorrerebbero almeno tre anni di test e di studi seri e indipendenti, che invece nessuno pretende: del 5G non si preoccupano né Salvini né le Sardine, per non parlare del Pd e dei resti umani pentastellati.Per la prima volta nella storia repubblicana, 130.000 bambini italiani quest’anno sono stati esclusi da nidi e materne: la tragedia dell’obbligo vaccinale imposto senza motivazioni mediche ha messo nei guai milioni di famiglie, ma il problema semplicemente non esiste nell’agenda politica di nessun soggetto, inclusa la Lega e i suoi valorosi detrattori “ittici”. Le autostrade crollano, l’Ilva agonizza e l’Alitalia traballa, la Fiat svende ai francesi l’auto italiana senza dare nessuna garanzia sulla sopravvivenza degli stabilimenti nazionali, ma Salvini & Sardine (come anche grillini e zingarettiani, meloniani e renziani) hanno ben altro per la testa: legge elettorale, prescrizione, taglio dei parlamentari. E soprattutto: elezioni regionali in Emilia Romagna, cruciale bivio per i destini delle italiche poltrone. Interrogativi amletici: riusciranno i Conte-boys e resistere un altro anno, per piazzare 500 figurine (suggerite dai soliti sovragestori) negli enti strategici del sottopotere, fino ad arrivare poi alla poltronissima del Quirinale? Viceversa – ohibò – scatterebbe l’ora di Matteo Salvini, l’eroe del glorioso sovranismo italiano ispirato direttamente da Medjugorje. Lui, il titanico artefice del riscatto nazionale, armato di crocefisso e devoto a San Donald, noto patrono dell’indipendenza italiana di cielo, di terra e di mare.Mentre le Sardine prodiane si affannano nelle piazze a insultare l’Uomo Nero sulla base di slogan vuoti e istericamente pericolosi, come la pretesa di togliere all’odiato nemico la libertà di esprimersi sul web, emerge sempre più chiaramente la vera natura dell’altro colossale abbaglio gialloverde, il cosiddetto fronte sovranista (in realtà solo salvinista). E’ vistoso il panico del Pd di fronte alle elezioni emiliane, in una Regione-simbolo che, per la prima volta nella storia, sembra seriamente contesa dal centrodestra. Ma pur di sviare l’attenzione dal vero pericolo – la fine dell’eterno poltronificio “rosso” – il Pd preferisce scendere sullo stesso terreno di Salvini, fingendo cioè di credere che a Bologna sia in gioco chissà cosa, la fine del mondo, il tramonto dell’umanesimo di fronte all’incombere della barbarie. L’Emilia come linea del Piave, come soglia psicologica: se crollasse, però, insieme all’onesto buongoverno dell’uscente Bonaccini finirebbe rottamato soprattutto lo storico radicamento territoriale di un potere che, partendo dalla genuinità campagnola dei tanti industriosi Peppone, una volta insediatosi a Roma (dopo la fine della Prima Repubblica) ha tranquillamente svenduto il paese alla famelica finanza globalista, grazie a condottieri anti-italiani come Prodi. E qualcuno può pensare seriamente che, con il baldo Salvini, la musica sarebbe diversa?