Archivio del Tag ‘energia’
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Ttip, una bomba a orologeria contro libertà e democrazia
«Siamo di fronte a un conflitto tra le imprese transnazionali e gli Stati. Questi ultimi sono stati tagliati fuori nelle loro decisioni fondamentali – politiche, economiche e militari – da organizzazioni globali che non dipendono da nessuno Stato e le cui attività non sono controllate da nessun Parlamento, né nessuna istituzione rappresentativa dell’interesse collettivo». Così il presidente cileno Salvador Allende nel 1972 all’assemblea generale delle Nazioni Unite, un anno prima di essere assassinato dal golpe di Augusto Pinochet organizzato da Henry Kissinger attraverso la Cia. Ora ci siamo: il pericolo denunciato da Allende sta per diventare legge con il Tttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue. Che interpreta alla perfezione l’auspicio espresso da David Rockefeller a “Newsweek” nel 1999: «Qualcosa deve sostituire i governi, e il potere privato mi sembra l’entità adeguata per farlo». Tribunali speciali, autorizzati a scavalcare ogni legge per affermare solo quella del business. «Contro quelle sentenze, Stati e Parlamenti non potranno più nulla», scrive la francese Danièle Favari in un saggio sul trattato euro-atlantico.La Favari, ricorda Laurent Pinsolle in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, cita tra gli altri anche Martin Hart-Landsberg, il quale denuncia «il dominio delle multinazionali», che «nel 2010 hanno generato un valore aggiunto di circa 16.000 miliardi di dollari, corrispondenti a più di un quarto del Pil mondiale». Nell’accordo in via di definizione tra Washington e Bruxelles, sul quale Matteo Renzi ha rassicurato Obama sostenendo che l’Italia preme perché venga chiuso in fretta, «oltre ai rischi sanitari e il fatto di agevolare le multinazionali, c’è un meccanismo poco conosciuto ma rivoltante, la sopravvivenza dei defunti Ami», accordi multilaterali sugli investimenti, e gli Rdie, «tribunali che sottomettono le democrazie». Règlement des Différends entre Investisseurs et Etats, cioè: regolamento controversie tra investitori e Stati, in inglese Isds, “Investor-State Dispute Settlement”. Giustizia privatizzata: l’arbitrato privato tra imprese e Stati «si sostituirebbe alle giurisdizioni esistenti, permettendo così agli investitori privati di liberarsi da tutte le leggi, di aggirare le decisioni per loro ingombranti e di consacrare la privatizzazione del potere legislativo».Solo nel 2012, sono stati esaminati 6.514 casi: Danièle Favari nota che «15 arbitri hanno deciso il 55% di tutte le controversie conosciute» e che «le rivendicazioni degli investitori sono state accettate nel 70% delle decisioni arbitrali conosciute». Ci sono indennizzi da 1,77 miliardi di dollari, come quello concesso all’Occidental Petroleum da parte dell’Ecuador. Secondo la Commissione Europea, l’accordo deve proteggere gli investitori da molte delle atuali leggi, che tutelano i consumatori. Questo principio ha permesso alla Philip Morris di perseguire l’Uruguay e l’Australia per le loro normative anti-tabacco. E il Ceta, accordo di libero scambio Ue-Canada, potrebbe permettere alle grandi compagnie del gas e del petrolio di contestare i divieti al fracking, la fratturazione idraulica, in Europa». Per Danièle Favari, l’arbitrato investitore-Stato è «un ingiustificato attentato alla sovranità» dei governi, visto che mette Stato e imprese sullo stesso piano. Peggio: si prenderanno «decisioni senza appello, che potrebbero fare giurisprudenza». Il che equivale a «subordinare i diritti dei popoli al commercio, all’economia e alla finanza». Ultimo atto, il Tafta, “Transatlatic Free Trade Area”, zona di libero scambio transatlantica: decreterebbe «la distruzione finale del nostro modello, delle nostre scelte di società e del diritto dei popoli di disporre di se stessi».«Siamo di fronte a un conflitto tra le imprese transnazionali e gli Stati. Questi ultimi sono stati tagliati fuori nelle loro decisioni fondamentali – politiche, economiche e militari – da organizzazioni globali che non dipendono da nessuno Stato e le cui attività non sono controllate da nessun Parlamento, né nessuna istituzione rappresentativa dell’interesse collettivo». Così il presidente cileno Salvador Allende nel 1972 all’assemblea generale delle Nazioni Unite, un anno prima di essere assassinato dal golpe di Augusto Pinochet organizzato da Henry Kissinger attraverso la Cia. Ora ci siamo: il pericolo denunciato da Allende sta per diventare legge con il Tttip, il Trattato Transatlantico Usa-Ue. Che interpreta alla perfezione l’auspicio espresso da David Rockefeller a “Newsweek” nel 1999: «Qualcosa deve sostituire i governi, e il potere privato mi sembra l’entità adeguata per farlo». Tribunali speciali, autorizzati a scavalcare ogni legge per affermare solo quella del business. «Contro quelle sentenze, Stati e Parlamenti non potranno più nulla», scrive la francese Danièle Favari in un saggio sul trattato euro-atlantico.
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De Iulio: e adesso i padroni di Renzi ci faranno a pezzi
«Ci siamo svegliati in un brutto sogno», ammette Pier Francesco De Iulio su “Megachip”, di fronte alla nuova “notte della repubblica” che cala sul paese che fu di Berlusconi. «A tutti coloro che nutrivano aspettative in un cambiamento radicale della nostra rappresentanza politica bisogna parlare con franchezza: rassegnatevi», perché «il vecchio che avanza segna una vittoria elettorale di proporzioni bulgare». La peggiore delle notizie: Matteo Renzi e il suo Pd ipotecano la politica italiana, «e probabilmente lo faranno a lungo». Non ci sarà nessun nuovo corso: «Tutto previsto. Tutto ampiamente annunciato in campagna elettorale». Nessuna reale opposizione al regime di austerity europeo e nessuna opposizione ai diktat degli Usa sull’economia – il Ttip, Trattato Transatlantico – e sulla geopolitica, dal Medio Oriente all’Ucraina. E ancora: «Nessuna reale opposizione alla politica economica delle privatizzazioni selvagge e alla precarizzazione del mondo del lavoro».Campane a morto per la nostra democrazia in via di avanzata rottamazione, dall’abolizione del Senato al micidiale Italicum che impedisce agli elettori di selezionare i propri dirigenti. «Nessuna reale opposizione allo sfruttamento incondizionato delle risorse naturali e allo strapotere delle lobby del petrolio e del carbone», continua De Iulio. «Nessuna reale possibilità si salvaguardare lo “stato sociale” a garanzia dei cittadini, destinato a soccombere definitivamente sotto i colpi di machete del (neo)liberismo. Niente. Niente di niente. Soltanto chiacchiere e distintivo». E’ il seppellimento di qualsiasi possibile alternativa democratica: con o senza «le stampelle offerte da Alfano, i baci di giuda di Berlusconi e l’appoggio “responsabile” di altri possibili compagni di merende», il Pd renziano ormai rappresenta «il tentativo riuscito di dare vita a una nuova grande forza di centrodestra, capace di mettere insieme i potentati e le tante forze conservatrici di questo nostro martoriato paese, con buona pace della vecchia Democrazia Cristiana».De Iulio è pessimista: non vede nessuna reale possibilità che la politica uscita dalle urne delle europee possa «anche soltanto lontanamente provare a cambiare veramente le cose, a invertire la rotta», per evitare «la catastrofe sociale che ci attende», e che è già abbondantemente cominciata. Gli ominicchi della politica italiana? «Riciclati, invece che rottamati: una palude nefasta». Frammentate le opposizioni, sotto il 4% “Fratelli d’Italia”, isolata la Lega di Salvini. Tsipras, comunque tiepido sull’euro, si è fermato sull’orlo dell’esclusione, mentre l’iper-favorito Grillo – nonostante il programma che prometteva un referendum sulla moneta unica e il rituale “no al Fiscal Compact” – ha preferito concentrarsi sui piccoli ladri dell’Expo di Milano, anziché sui grandi ladri della nostra democrazia, che siedono a Bruxelles e a Francoforte, a Washington e a Wall Street, senza peraltro proferire verbo sulla catastrofica crisi dell’Est Europa, che mette in pericolo il futuro di tutti. Onestamente: «Occasione persa? Sì».«Ci siamo svegliati in un brutto sogno», ammette Pier Francesco De Iulio su “Megachip”, di fronte alla nuova “notte della repubblica” che cala sul paese che fu di Berlusconi. «A tutti coloro che nutrivano aspettative in un cambiamento radicale della nostra rappresentanza politica bisogna parlare con franchezza: rassegnatevi», perché «il vecchio che avanza segna una vittoria elettorale di proporzioni bulgare». La peggiore delle notizie: Matteo Renzi e il suo Pd ipotecano la politica italiana, «e probabilmente lo faranno a lungo». Non ci sarà nessun nuovo corso: «Tutto previsto. Tutto ampiamente annunciato in campagna elettorale». Nessuna reale opposizione al regime di austerity europeo e nessuna opposizione ai diktat degli Usa sull’economia – il Ttip, Trattato Transatlantico – e sulla geopolitica, dal Medio Oriente all’Ucraina. E ancora: «Nessuna reale opposizione alla politica economica delle privatizzazioni selvagge e alla precarizzazione del mondo del lavoro».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.
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Europee, contro il Pd di Renzi l’unico vero “voto utile”
La confusione è grande, perché non esiste un piano-B sufficientemente chiaro: non c’è ancora un possibile governo per l’alternativa, a cominciare dall’economia. Rispetto alle politiche 2013, però, la situazione si è molto chiarita: la crisi sta devastando famiglie e imprese, e la protesta contro Bruxelles ormai dilaga in tutta Europa, da Londra a Parigi. Si improvvisano liste no-euro per cogliere il vento favorevole, mentre sul fronte opposto fioccano scongiuri: ma sono motivati dalla scarsa credibilità attribuita a molte espressioni no-euro, piuttosto che da una reale convinzione nelle virtù della moneta unica, il cui fallimento disastroso è ormai sotto gli occhi di tutti. I critici più coerenti, sulle barricate da anni contro l’anomalo regime monetario di Francoforte, unico al mondo, invitano a non considerare affatto un fallimento quello dell’euro, bensì il perfetto compimento – col massimo profitto possibile – del piano oligarchico di cui l’euro sarebbe il braccio armato: ridurre gli Stati all’impotenza e preparare la loro resa definitiva alle ragioni del più forte, cioè il capitalismo globalizzato che oggi si rifugia nella speculazione finanziaria e nella razzia ai danni dello Stato, non potendo più ricorrere, come prima, al consueto saccheggio del colonialismo industriale a spese del terzo mondo.La situazione geopolitica si va facendo esplosiva, con gli Stati Uniti che accerchiano la Cina nel Pacifico e intanto in Ucraina logorano il più importante alleato dei cinesi, la Russia, con la piena collaborazione di un’Europa-fantasma, domani al guinzaglio anche sul piano commerciale grazie al varo del Trattato Transatlantico, che minaccia di porre fine alla storica sovranità giuridica europea in materia di libero scambio, agricoltura, energia, salute, lavoro, pensioni, sicurezza alimentare. Nell’offerta elettorale italiana, per molti aspetti sconcertante, uno spettro variegato di forze – da destra a sinistra – denuncia perlomeno alcuni aspetti della crisi. Una sola, il Pd, procede invece a rullo compressore verso un regime di devastante pericolosità. Jobs Act e precariato obbligatorio, abolizione del Senato, legge elettorale liberticida: secondo i maggiori giuristi è a rischio la sopravvivenza stessa della democrazia, o di quel che ne rimane, grazie soprattutto al soggetto politico prescelto per tenere l’Italia in stato di sofferenza, sprofondando il paese in una depressione irreversibile. Se una vera soluzione non c’è ancora, milioni di elettori andranno alle urne il 25 maggio con in testa un’idea precisa: la convizione che ogni voto contro il Pd di Renzi sia un voto utile.Fermare il Bugiardo di Firenze, in qualunque modo. Per milioni di elettori, molestati dal debordante presenzialismo televisivo del premier, è la vera missione del voto del 25 maggio. Vale tutto: qualsiasi lista – da Tsipras a Fratelli d’Italia – può servire a sbarrare la strada a quello che la maggioranza relativa degli italiani ormai considera il pericolo numero uno per il paese, il Pd, percepito come il partito di gran lunga più compromesso coi “nemici” storici dell’Italia. Partito che ora, con Renzi, si appresta a sfrerrare il colpo di grazia di fronte al quale Berlusconi e persino Monti avevano esitato. Vecchia, triste regola degli ultimi decenni: il super-potere sceglie la sinistra (intesa come partiti) per colpire a fondo i ceti popolari. Così Prodi, D’Alema e Amato introdussero privatizzazioni, tagli e flessibilità, producendo sofferenze e precariato. Oggi, il partito del super-potere euroatlantico teme l’antagonista Grillo, e gli oppone il giovane Matteo. Obiettivo: fingere di innovare il paese e in realtà smantellare quel che resta dello Stato, a beneficio del grande capitale finanziario che si appresta a banchettare su pensioni e sanità, scuola, servizi vitali, acqua potabile, trasporti.
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Cremaschi: l’euro è stato creato per demolire la sinistra
A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.Infatti la scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare la scala mobile e il sistema di protezione sociale. Lo Sme invece mise al centro della politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del Tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i Bot per finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile, contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.In sintesi l’euro e la perdita formale della sovranità monetaria a favore della Bce sono il punto di arrivo, e non la partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche keynesiane, imporre gli interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli insuperabili per gli Stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da noi anche dalla destra oggi anti-euro, è l’ultimo atto formale di tale politica trentennale. L’effetto euro sulle economie europee é stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del lavoro e dello Stato sociale. Dall’altro lato la moneta unica forte ha finito per mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione estrema.Di questo si è avvantaggiata profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro, aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti mini-job, lavori precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite denunce alla Corte di Giustizia Europea a causa delle delocalizzazioni che hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di 8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma di devastazione economica di massa.Ora i due partiti che guidano l’Unione Europea, la Germania e gli altri principali governi, Pse e Ppe, promettono un allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non rinegoziabili, da Maastricht al Fiscal Compact, non prevede alternative alle politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole ostacolo da parte della Spd. Tre anni fa una intervista di Giuliano Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire – certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social-liberale che ha ben poco della sinistra – ma la realtà è che il sistema europeo non è riformabile.Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna elettorale – condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa, Eurobond, trasformazione della Bce in un istituto che dia i soldi direttamente agli Stati e non alle banche – non sono realizzabili senza cancellare, e non semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco. Chi sostiene queste misure dovrebbe aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare avanti. Invece questo non viene detto, e così il sistema di potere economico finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore della Linke tedesca, Oskar Lafontaine, aveva proposto un piano europeo di smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.È chiaro che dire no all’euro non basta se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente; e proprio questa insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra. Come ho cercato di spiegare, l’euro non é tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al liberismo.La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista, e così questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea. Invece il campo è stato abbandonato e così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle politiche di austerità sotto le larghe intese Ppe-Pse e la contestazione degli euroscettici reazionari. E il sostegno Ue al governo ucraino infarcito di neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due schieramenti possono trovare sintesi. Un’alternativa di sinistra a tutto questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.In Italia questo significa una sinistra che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il “Movimento 5 Stelle”, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la sinistra che non vuol morire renziana. Aveva ragione Berlinguer a dire no allo Sme, e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è stato messo lì per distruggerla.(Giorgio Cremaschi, “Perché la sinistra deve dire no all’euro”, da “Micromega” del 14 maggio 2014).A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.
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I denti degli oligarchi: a Biden junior il gas dell’Ucraina
R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.Sino a vent’anni fa l’oligarca era un generico esponente di un sistema di governo che poche persone imponevano a tutti. L’oligarca post-sovietico è invece una cosa più specifica: è un uomo d’affari che ha arraffato – mentre occupava una posizione dominante derivante dalla politica – le immense ricchezze pubbliche tratte dalla selvaggia privatizzazione dell’economia sovietica dopo il crollo dell’Urss. Questo tipo umano è ormai l’unico a essere etichettato come oligarca. La russofobia che regna nel discorso pubblico occidentale fa il resto: a est, anzi, in Russia, ci sono oligarchi; da noi, invece, sani imprenditori di specchiata virtù che mai oserebbero spolpare una nazione. Come definire altrimenti un De Benedetti. Pazienza se moltissimi oligarchi russi, prima di decidere se appoggiare o combattere la nuova “verticale del potere” di Putin, siano stati per prima cosa delle creature occidentali.Ma Hunter Biden è lì a ricordarci, con il suo cursus honorum e i suoi denti, stretti su un cucchiaio d’argento, che gli oligarchi esistono anche qui a Ovest, e prosperano e frequentano tutti i corridoi che portano alle stanze del denaro, dei governi, dell’intelligence. Con una colossale excusatio non petita, a Washington ci provano lo stesso a dircelo: secondo loro, le entrature nel governo, per il figlio del numero due della Casa Bianca non contano. E pertanto Biden ha ottenuto la sua carica nella lontana colonia europea solo per via del suo curriculum. Se i fatti ci dicono altro, è colpa nostra, che siamo prevenuti. È solo una coincidenza, infatti, che il 21 aprile Biden il Vecchio porti la sua dentatura a Kiev per dettare i suoi voleri, e che proprio negli stessi giorni Biden il Giovane diventi l’homo americanus dell’azienda più strategica del paese, in piena battaglia del gas.Il sospetto è che laggiù servisse uno sperimentato oligarca, appunto, che facesse da ufficiale di collegamento fra l’oligarchia locale e gli ottimati di Washington. E il dottor Hunter Biden aveva davvero il curriculum giusto per questo compito urgente: carriera universitaria presso le più prestigiose ed elitarie università private, e poi un impressionante lavoro di interconnessione interno e internazionale fra multinazionali, organizzazioni non governative imbevute di valori (soldi) governativi, uffici legali di super-lobbisti, ecc. Soprattutto, Hunter Biden è uno dei più stretti collaboratori del presidente del National Democratic Institute for International Affairs (Ndi), un’organizzazione creata dal governo Usa come emanazione del National Endowment for Democracy (Ned) per canalizzare contributi e donazioni miranti a «rafforzare la democrazia» in 125 diverse nazioni. Cioè un elemosiniere politico, una delle fabbriche delle rivoluzioni colorate di mezzo mondo, presieduta nientemeno che da Madeleine K. Albright, ex segretario di Stato ai tempi di Clinton e del bombardamento della Serbia. È quella stessa personalità politica che disse in Tv che mezzo milione di bambini morti per l’embargo in Iraq erano stati «un prezzo giusto», e ne era valsa la pena («the price is worth it?»).Biden si sceglie buone compagnie. Sempre assieme alla Albright, è fra gli amministratori del Truman National Security Project, un centro di formazione che impiega ingenti risorse per forgiare intere leve di esponenti politici progressisti intorno ai temi della sicurezza nazionale. Quando sentite qualche vago esponente di sinistra che parla bene della guerra, sappiate da dove viene imbeccato. Secondo Hunter Biden, il proprio compito a Kiev consisterà nel dare buoni consigli su «trasparenza, corporate governance e responsabilità, espansione internazionale e altre priorità» al fine di contribuire, nientemeno, «all’economia e al benessere del popolo ucraino». Sembra di sentire le stesse parole pronunciate nel 2003 per l’Iraq da Paul Bremer, il governatore coloniale insediato dal presidente George W. Bush quando invase e devastò quel paese. Ma mentre gli imperialisti repubblicani avevano una concezione rudimentale dell’“esportazione della democrazia”, la gente dell’Ndi è più duttile, perché afferma che «l’Ndi non presume di imporre soluzioni né ritiene che un sistema democratico si possa replicare da qualche altra parte». Semmai, l’Ndi «condivide esperienze e offre una serie di opzioni in modo che i leader possano adattare quelle pratiche e istituzioni che possano lavorare meglio nel loro proprio ambiente».“Adattare” è dunque la parola chiave. E gli imperialisti democratici americani in Ucraina si sono “adattati” così bene da allearsi con partiti fascistoidi e formazioni paramilitari naziste. Si tratta di un’alleanza scandalosa che non imbarazza minimamente gli esponenti del Partito Socialista Europeo. Come non scandalizza nemmeno il plurimiliardario Ihor Kolomyski, fondatore della European Jewish Union, doppia cittadinanza ucraina e israeliana, co-proprietario della banca Privat e di diverse società che hanno individuato grosse riserve di gas naturale proprio nelle zone ucraine in cui si combatte. Un’inchiesta di “Forbes” ha descritto molto bene il modo in cui Kolomyski ha fatto fortuna: «Kolomyski ha usato delle forze “quasi-militari” della banca Privat per far valere l’acquisizione ostile di aziende, arruolando un gruppo di “teppisti, armati di mazze da baseball, spranghe di ferro, gas e pistole con proiettili di gomma e motoseghe” per prendersi con la forza un impianto siderurgico a Kremenchuk nel 2006 e ha usato “un mix di ordini del tribunale fasulli (spesso per mano di giudici e/o cancellieri corrotti) e di maniere forti” per sostituire amministratori nei consigli di amministrazione delle società delle quali acquistava le partecipazioni».Si vede che a “Forbes” non hanno molta dimestichezza con la cronaca antimafia, che userebbe invece concetti più brevi per descrivere il profilo criminale di un siffatto personaggio. Il presidente golpista Turchynov, a ogni buon conto, lo ha nominato governatore dell’Oblast di Dnipropetrovsk, una regione confinante con i punti caldi della rivolta dei russi d’Ucraina. Kolomyski ha promesso «una taglia per chi catturi militanti sostenuti dai russi e ricompense per chi depone le armi». Questo magnate della finanza e del gas – fra un impegno di cosca e l’altro – sarà uno di quei campioni di «trasparenza, corporate governance e responsabilità» con cui dovrà interloquire Mister Biden jr. Qui c’è un punto ancora più interessante.Il sito di documentazione anticorruzione ucraino (AntAc), d’ispirazione alquanto americana, nel 2012 ha tentato di ricostruire a chi possa appartenere davvero la Burisma, che si presenta come la faccia più alla luce del sole della catena proprietaria dell’impresa gasiera. Una volta che si muovono nel territorio finanziario off-shore, le tracce diventano più difficili, come in una caccia al tesoro mondiale.Abbiamo visto che la Burisma è controllata dall’entità cipriota Brociti Investments Ltd, che l’aveva rilevata dai precedenti proprietari, gli oligarchi Mykola Zlochevsky (ministro dell’energia del deposto presidente Janukovich) e Mykola Lisin (nel frattempo deceduto). Nello schema finanziario della vendita della Brociti sembra essere coinvolta un’altra grossa impresa del settore degli idrocarburi, la Ukrnaftoburinnya. Se vogliamo sapere chi possiede Ukrnaftoburinnya, le tracce ritornano a Cipro, dove il 90% della società sta in pancia alla Deripon Commercial Ltd. Qua dobbiamo fare un volo più lungo, perché la Deripon è controllata a sua volta da una holding delle Isole Vergini britanniche, la Burrad Financial Corp. Laggiù la nebbia, ancorché ai tropici, diventa fittissima. Ma il nome della Burrad non è tuttavia insignificante, perché ricorre in svariate inchieste che ricostruiscono le operazioni finanziarie gestite dalla banca Privat. Cioè la banca di Ihor Kolomyski.Per “Forbes”, comunque, resta probabile che il proprietario sia ancora Zlochevsky (con possibile suo doppio gioco). Lo so, vi siete persi. E anche io. Ma provo a riassumere. Kolomyski, tramite società off-shore, era il dominus della Burisma, la più importante impresa estrattiva del gas in Ucraina, in cui ora si impegna in prima persona quel dentone di Hunter Biden. Kolomyski l’ha ufficialmente ceduta, grazie a uno schema finanziario che gli era familiare, a un’impresa off-shore di cui perdiamo le tracce dei proprietari. Nello stesso tempo Kolomyski è diventato un’autorità politica territoriale di riferimento per le aree in cui si presume la presenza di grandi riserve di gas in mano alla società di cui è amministratore Biden. L’Ucraina, grazie alle nuove tecnologie estrattive per gli idrocarburi sviluppate negli ultimi anni dagli Usa, è ormai un centro di attrazione per esplorazioni e sfruttamento di nuove aree. La coltivazione di questi giacimenti – ora pienamente sfruttabili nell’orbita nordamericana – minaccia apertamente la posizione dominante di Gazprom, ossia l’architrave energetica della rinata potenza russa.Il fatto che il cuore del potere Usa si scomodi per gestire così da vicino la pratica del gas inviando il figlio del vicepresidente conferma la crescente rilevanza politica di questa partita. Solo la subalternità, la ricattabilità e le misere ambizioni sub-dominanti dei politici europei potevano consentire questo gioco. Non è un caso che l’altro eminente consigliere di amministrazione della Burisma – profilo tutto politico anche il suo – sia l’ex presidente della Polonia, Aleksander Kwaśniewski, un campione di ingerenza atlantista (e polacca) in Ucraina. Il portavoce del Cremlino fa ironia, mentre dichiara di non vedere un conflitto d’interesse nel ruolo di Biden. «In fondo, come tutti sanno, non c’è nessun gas in Ucraina. Il gas in Ucraina è russo». E mostra i denti. I suoi.R. Hunter Biden, figlio del vicepresidente Usa, Joe, ha ereditato dal padre un numero incredibile di denti. Con questi ci sorride energicamente dalle sue foto ufficiali. Ora ci informano che quei denti azzannano una delle più ambite poltrone dell’Ucraina, facendo di lui uno dei nuovi padroni della Kiev post-golpista. Biden il Giovane si è infatti da poco insediato nel consiglio di amministrazione della più importante compagnia ucraina di estrazione del gas, la Burisma, con i pozzi in Europa e la sede a Cipro, dove la controlla un’altra impresa off-shore di diritto cipriota, la Brociti Investments Ltd. Vedremo poi dove vanno le tracce. Durante il volo che lo ha portato dai cieli dell’élite statunitense alle alte sfere dell’oligarchia di un paese post-sovietico, il rampollo americano ha potuto anche lui riflettere su come è cambiata la parola oligarca.
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Geithner e il golpe 2011, Sapelli: nel mirino era Tremonti
Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.Quella che oggi sgancia Geithner è una bomba: «Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far dimettere Berlusconi». Per prima cosa bisogna contestualizzare gli eventi, raccomanda Sapelli, intervistato da Fabio Franchini per “Il Sussidiario”. Geithner, ex ministro di Obama, nel 2014 scrive un libro dove racconta come a far cadere il governo Berlusconi non siano stati gli Usa, bensì la tecnocrazia europea dominata dai tedeschi. Motivo? «Perché l’Italia si era detta non favorevole a salvare la Grecia portando quote ulteriori di capitali rispetto a quelli che già versava al fondo della Comunità Economica Europea». Se Geithner dice questo, aggiunge Sapelli, «vuol dire che ora come ora i rapporti tra Germania e Usa sono lacerati, pessimi. Uno come lui che ha avuto responsabilità internazionali di altissimo livello (mentre oggi le ha nel mondo finanziario) e che scrive un libro con dentro cose di questo tipo…».Il vero obiettivo di Bruxelles era Tremonti, insiste Sapelli: era lui l’uomo da far cadere. «Consiglio di andare a sfogliare le appendici di “Uscita di sicurezza”, scritto dall’ex ministro dell’economia: contengono delle verità terribili. Tremonti ha continuato ad avvisare la Comunità Europea sull’arrivo imminente della crisi, invitando a perseguire politiche antideflazionistiche, che andavano però a contrastare le mire tedesche. Andava allontanato». L’Italia, o meglio Tremonti, vittima dunque di una vera e propria ritorsione? «Sì, ma anche della sua stessa debolezza politica». Secondo Sapelli, uno come Tremonti «avrebbe dovuto trovare il modo di dirle anche da ministro le cose che dice nel libro». Il fatto resta senza precedenti: nella “democratica” Europa «non era mai accaduto che un governo eletto fosse destituito così. Quell’esecutivo era sì traballante, ma non ancora sfiduciato dal Parlamento. Costituzionalmente parlando è una cosa gravissima».E la calamità dello spread? «Non ha alcun senso. Lo spread, come dimostrano i fatti di oggi, era un’invenzione: era tenuto volontariamente alto per creare una psicosi. Lo spread adesso è caduto mica per merito del governo Renzi, bensì perché i mercati dei paesi emergenti, che prima tiravano, stanno manifestando i primi sentori di una crisi». Alla vigilia del voto del 25 maggio, che conseguenze può avere una rivelazione di questa portata che svela queste trame? Geopolitica: gli americani oggi impegnati in Ucraina nel braccio di ferro contro Putin sanno benissimo che il libro di Geithner avrà un’enorme eco mediatica, quindi «hanno tutto l’interesse a destabilizzare la Merkel e i governi che la sostengono». Alla luce del retroscena di Geithner, il ruolo di Napolitano in quei convulsi mesi estivi e autunnali cambia o rimane invariato? Sapelli non ha dubbi: «Dico solo una cosa: riflettiamo sul viaggio della regina Elisabetta in Italia: chi è venuta a trovare la regina? il Papa e Napolitano. Ecco».Prima Alan Friedman, col suo libro nel quale Prodi, De Benedetti e lo stesso Monti ammettono che nel 2011 c’erano state “consultazioni”, anche da parte di Napolitano, per far fuori Berlusconi, il premier in carica. Ora la conferma arriva da Timothy Geithner, uomo di Wall Street dirottato a Washington come ministro del Tesoro di Obama: la Casa Bianca, scrive oggi Geithner, nel 2011 ricevette pressioni da parte di alcuni paesi europei per far cadere Berlusconi. Il “golpe”, insomma, c’è stato. «Non sono sorpreso», commenta l’uomo di Arcore. «È la conferma di ciò che ho sempre sostenuto, che c’è stata una precisa volontà di togliere di mezzo un premier democraticamente eletto che difendeva gli interessi del suo paese e contrastava quelli della Germania». Ma secondo Giulio Sapelli, docente di storia economica nell’università di Milano, la tecnocrazia europea targata Angela Merkel aveva qualcun altro nel mirino: Giulio Tremonti. Era lui l’uomo nero della Troika, il vero bersaglio dell’Ue, perché resisteva – in ogni modo possibile – ai diktat dell’austerity.
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Ue, Mosca e Pechino soci perfetti: è l’incubo degli Usa
E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo, che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin «come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb, l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».L’elemento saliente di quel periodo, ricorda Helevi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è la seconda guerrra cecena, combattuta tra il 1999 e il 2001. «La strategia militare elaborata da Putin implicò delle perdite fortissime tra i civili residenti in Cecenia (sia ceceni che russi) e questa violazione dei diritti umani non venne mai denunciata politicamente e formalmente dagli “occidentali” perchè troppo importante era Putin in relazione ad un possibilissimo ritorno al potere dei neo-comunisti». Altro errore, analogo: «Trattare la Cina come “qualcosa di rosso” perché c’è il Pcc al potere». Altro caso di miopia che, sempre secondo Halevi, «rende una grossa parte della sinistra completamente scema senza possibilità d’appello». Il modo migliore di intepretare la nuova Cina? «E’ vederla come un fenomeno ultra-bismarckiano», pur tenendo conto del fatto che «la formazione di una potenza bismarckiana delle dimensioni della Cina pone dei problemi per l’altra potenza», quella americana.Una visione, questa, elaborata già nel 1999 dalla Rand Corporation. Cina ultra-bismarckiana? A coniare la formula fu Zalmay Khalilzad, afghano emigrato negli Usa diventato sotto Bush figlio e ambasciatore Usa a Kabul dopo il 2001, poi ambasciatore in Iraq dopo il 2003 ed infine ambasciatore statunitense all’Onu. Sul versante geopolitico, Khalilzad spiega perchè – con la Cina di oggi – gli Usa non possono avere rapporti di sola cooperazione amichevole o di solo conflitto. «Pochi hanno colto la dimensione duale e contraddittoria degli interessi Usa in Cina, ma per coglierli basta studiare – leggendo il “Wall Street Journal” e l’“International New York Times” – Walmart, Apple e la General Electric». Quei colossi «sono in Cina per rifornire in primo luogo il mercato Usa, in secondo luogo il resto del mondo, in terzo luogo per vendere sul mercato cinese in crescita asfissiante (letteralmente)». Il successo della loro presenza in Cina «dipende dalla crescita cinese, che è organizzata dallo Stato bismarckianamente».Questa crescita, continua Halevi, significa «capacità di mettere in piedi in breve tempo grosse strutture industriali con ampie economie di scala e con ritmi di lavoro parossistici». Tutto ciò «conferisce una dimensione concreta alla globalizzazione». Esempio, il caso Apple, con iPad e iPhone «progettati negli Usa, prodotti da una società di Taiwan ma localizzata in Cina», perchè «a Taiwan e nemmeno negli Usa avrebbero potuto costruire, in poco tempo e con tutte le infrastrutture di collegamento, un insieme di impianti che occupano oltre 700 mila persone». Così, si è generato «uno iato crescente tra gli interessi economici del capitale Usa e la capacità dello Stato Usa di garantirne gli interessi in maniera coerente». Per esempio, negli Usa si discute la necessità di far rivalutare la moneta cinese, lo yuan: «A non volerlo sono proprio le società Usa che operano dalla Cina».Fino alla fine degli anni ‘90, prosegue Halevi, il mantenimento dell’egemonia statunitense si fondava sul ruolo della spesa pubblica federale (senza la quale il sistema militare, politico e finanziario non funzionerebbe) e sul ruolo del dollaro. Due elementi che permettevano e permettono il controllo delle cruciali zone energetiche del Medio Oriente. Un analista come Zbigniew Brzezinski sostenne che il controllo dell’arco energetico che va dall’Arabia Saudita all’insieme del Medio Oriente pemette di “tenere al guinzaglio” simultaneamente sia il Giappone che l’Unione Europea. «Giustissimo, per quel periodo», dice Halevi. «Da allora, la Russia è emersa come superpotenza energetica e la Cina come fulcro della produzione industriale mondiale, nonchè come asse dei meccanismi finanziari sui mercati delle materie prime, come il carbone».«Insieme alla finanziarizzazione degli Oceani e soprattutto dell’Artico – conclude Halevi – la dinamica dei prodotti finanziari globali non è certo determinata dal debito pubblico italiano e dallo spread, bensì dalla Cina». Sicché, la formazione di un “continuum” economico tra Cina, Russia ed Europa, Germania in primis, «è nei piani sia cinesi che tedeschi e russi». La parte più debole meno coordinata è quella russa, «perchè il processo di disgregazione dell’Urss apertosi nel 1991 è lungi dall’essersi concluso: la Russia è una superpotenza energetica, ma come forza statuale è ancora nel day-after del 26 dicembre del 1991». Per gli Stati Uniti, dunque, «è essenziale che non si formi alcun “continuum” euroasiatico, altrimenti entrerebbe seriamente in crisi la capacità dello Stato americano di proteggere coerentemente gli interessi del capitale Usa».E’ ovvio che Obama attacca Putin perché teme che la Russia – immenso serbatoio energetico – faccia da ponte tra l’Europa e la superpotenza cinese. Ma sarebbe pazzesco pensare, solo per questo, che Putin sia “qualcosa di sinistra”, e così il regime di Pechino. Lo sostiene l’economista Joseph Halevi, riflettendo sui retroscena della crisi mondiale, che lo scontro sull’Ucraina ha reso evidente. Trattare Putin «come una specie di surrogato progressista»? Errore: «E’ questo che rende la sinistra ovunque totalmente imbecille – dice Halevi – e comincio a credere che lo sia sempre stata». L’attuale capo del Cremlino, infatti, venne scelto dalla vecchia nomenklatura del Kgb, l’unica che riuscì a tenere insieme la Russia che Eltsin stava mandando in pezzi. Ma l’obiettivo era uno solo: «Bloccare la sicura vittoria dei neo-comunisti alle prime elezioni post-Eltsin». Tutto questo «venne fatto dagli Usa, direttamente e soprattutto “via Europa”, per sostenere e rafforzare il potere di Putin, prima come premier e poi come presidente succeduto a Eltsin».
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Giannuli: Hollande e Merkel complici dei nazisti di Odessa
In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.«Quando ricompaiono i nazisti con le loro atrocità – scrive Giannuli nel suo blog – non è possibile alcuna neutralità e non c’è dubbio sulla parte da scegliere: contro di loro e a fianco delle vittime». Il pogrom di Odessa è illuminante: «E’ in corso in Ucraina una partita strategica mondiale che va molto oltre gli attori che occupano il palcoscenico». Premessa fondamentale: «L’Ucraina, così come la conosciamo, non è mai esistita: non c’è mai stata un’Ucraina indipendente con questa conformazione territoriale e, soprattutto, non c’è mai stata questa distribuzione etnica», che è frutto di «due secoli di dominazione russa», con imponenti migrazioni interne. La Crimea, poi, non è mai stata Ucraina; fu “regalata” da Kruscev alla maggiore repubblica dell’Urss, dopo quella russa, come parte di un pacchetto di concessioni fatte per isolare e battere la guerriglia indipendentista dei seguaci di Stephan Bandera, eponente dell’ultra-destra.Se sotto l’Urss l’Ucraina era «poco più di un’unità amministrativa, dotata di una sua fittizia autonomia politica», con la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’Ucraina è diventata uno Stato, senza però mai riuscire a diventare una nazione. Resta «un aggregato disomogeneo di regioni poco amalgamate, con zone prevalentemente russofone, zone propriamente ucrainofone e un nucleo centrale misto con percentuali variabili da provincia a provincia». Quanto ai confini veri e propri, la Russia disastrata di Eltsin non era in condizione di ridefinirli. La contrapposizione inter-etnica? Molto enfatizzata dai media, ma la reatà è diversa: non tutti gli ucraini sono russofobi, non tutti i russofoni sono anti-ucraini, e in diverse regioni la coesistenza è perfettamente pacifica. In compenso, in questi vent’anni di indipendenza, i pessimi politici di Kiev non sono stati capaci di costruire un vero e proprio senso di appartenza nazionale. Gli anti-russi? «Più che di indipendentisti ucraini, ha senso parlare di eurofili che sognano di diventare una nuova Germania o una nuova Francia sol che si compia il miracolo dell’ammissione nella Ue».A dividere il paese, continua Giannuli, è proprio la proiezione economica verso l’Europa da parte di regioni non amalgamate tra loro, e non pronte a reggere l’impatto dell’occidentalizzazione forzata. «Tutto questo è anche il prodotto di una classe politica che è peggiore persino di quella italiana: i vari Kravchuk, Jushenko, Tymoscenko, Yanukovich, che si sono succeduti alla presidenza, sono stati personaggi assolutamente impresentabili, che, invece di costruire un’identità nazionale, hanno cavalcato le contrapposizioni, inasprendole per quanto potevano, allo scopo di mietere voti e conquistare un governo che poi non hanno saputo usare. Yanukovich – aggiunge Giannuli – è stato il più ladro e cialtrone dei governanti di quello sventurato paese: aveva promesso ai russofoni una parificazione linguistica che si è ben guardato dal realizzare, aveva accettato l’integrazione nella Ue per poi fare marcia indietro. Non stupisce che sia caduto in disgrazia presso tutti. Anche Mosca non sapeva come fare per liberarsi di lui».Nel frattempo la crisi mondiale rendeva i margini finanziari sempre più stretti: oggi l’Ucraina è un paese virtualmente fallito, con un debito enorme verso la Russia, dalla quale ha preso molto più gas di quanto potesse pagare, approfittando del passaggio del gasdotto attraverso il suo territorio. «Che si arrivasse a una mobilitazione di piazza era nell’ordine delle cose», ma le milizie neonaziste hanno preso il sopravvento «solo dopo che quell’incapace di Yanukovich ha iniziato a giocare al “dittatore cattivo”, scatenando una repressione che non era neppure in grado di reggere a lungo». Le violenze di Kiev a quel punto hanno innescato il riflesso separatista. «Le regioni orientali, in riva al Mar Nero, dove le percentuali dei russofoni sono elevate, hanno iniziato a manifestare umori separatisti, ci sono stati scontri sempre più frequenti, cui gli accordi di Ginevra hanno vanamente cercato di porre fine, perché il governo di Kiev, neppure 48 ore dopo, ne ha fatto strame, partendo con una spedizione punitiva contro le regioni orientali che, nel frattempo, organizzavano il referendum».Il pogrom di Odessa va inserito in questo quadro, conclude Giannuli, e dimostra come «governo e bande fasciste siano sulla stessa linea: terrorizzare i russofoni e provocare Mosca ad intervenire, nella speranza di un allargamento del conflitto che tiri dentro la Nato», come se l’Europa morisse dalla voglia di confrontarsi militarmente con il temibile esercito di Putin. Il vuoto spaventoso è quello della politica europea, che anziché cercare un ruolo di interposizione strategica si allinea agli estremisti più pericolosi. Neppure la Germania della Merkel ha finora assunto una posizione accettabile, autorevole e indipendente da Washington. Ma c’è chi è riuscito a fare persino peggio: «Hollande è il più spregevole in questa gara a chi è il servo più servo degli americani». L’augurio di Giannuli è che alle elezioni europee «il Ps francese sprofondi sotto il 10% e si disintegri».In Ucraina, «la Ue sta facendo un gioco ignobile al servizio degli Usa, non cercando di porsi come mediatore, ma schierandosi apertamente con una delle parti in conflitto, in nome di principi inesistenti come quello dell’intangibilità delle frontiere», che in questo caso sono un puzzle interetnico, data la labilità storica dell’identità nazionale ucraina. Accusa Aldo Giannuli: «Da Merkel e da Hollande non è venuta una parola di condanna per il pogrom di Odessa, il che li rende complici morali di esso». Giannuli cita il breve, terribile documentario montato da Giulietto Chiesa su “Pandora Tv”, che dimostra che la strage di Odessa è stata pianificata: un massacro di civili inermi, alcuni bruciati vivi ma altri trucidati a colpi di pistola, o strangolati nel proprio ufficio, come accaduto a una donna incinta i cui assassini si sono vantati di aver “ucciso una russa e il piccolo russo che aveva in grembo”.
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Chiesa: siamo seri, Putin non voleva nemmeno la Crimea
L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.Vero, per carità, che Putin non ha “controparti interne”. Ma occorre aggiungere che il consenso che oggi circonda Putin è altissimo e tale che nemmeno in Occidente lo si mette in discussione (se non per dire che i russi sono un popolo bue, incompatibile con la nostra, superiore democrazia). Resta il fatto che il grande pubblico della società dello spettacolo, al 99%, non sa nulla né delle reali intenzioni della Russia di Putin, né dei suoi gesti politici. Si afferma, come un dato scontato (e scontato non è affatto) che Putin voglia conquistare l’Ucraina e che lo stia facendo in modo subdolo, “allestendo la protesta sul suolo ucraino”. Ho numerosi argomenti forti a sostegno della tesi che Putin desidera, in ogni modo, evitare l’annessione delle due regioni del sud est ucraino, cioè il Donbass e il Lugansk. Aggiungo che ho abbondanza di prove che Putin avrebbe volentieri evitato anche il referendum della Crimea.Ma capisco che questo lo si può capire solo se ci si libera di una parte del veleno russofobico che tutti siamo costretti a ingoiare. Basti un solo dato di fatto, incontrovertibile. I dodici milioni di russi dell’Ucraina sud-orientale (inclusi i due milioni di crimeani) non hanno mosso nemmeno il mignolo del piede sinistro durante i cinque mesi che hanno preceduto il colpo di Stato che ha abbattuto Yanukovic. Come mai? Il fatto è che non Putin ha assunto l’iniziativa dell’offensiva, ma gli Stati Uniti. I russi di Ucraina sono stati tranquilli e sottomessi fino a che non è emersa a Kiev la giunta con le pustole naziste che adesso conosciamo. Solo allora hanno cominciato, all’improvviso, a preoccuparsi, prima, e poi a reagire. Se si pensa che sia Putin a allestire la protesta nel Donbass, temo che si sbagli. Un conto è sostenere il peso dell’ingresso della Crimea. Un altro conto sarebbe assumersi il peso di un paese di oltre dieci milioni di persone, due volte la Svizzera.E, probabilmente, non si sa nulla della lettera che, nel pieno della crisi, Putin ha inviato a diciotto capi di governo dell’Europa, invitandoli a sedersi attorno a un tavolo per risolvere, insieme, il problema economico e sociale dell’Ucraina. Il mainstream italiano ha negato le notizie essenziali. L’altro errore, sesquipedale, è nel considerare Yanukovic come un uomo di Putin. Se avessimo seguito da vicino le vicende ucraine degli ultimi 23 anni, sapremmo che nessuno dei quattro presidenti che si sono succeduti a Kiev dopo la sua prima e unica indipendenza nazionale è stato “uomo di Mosca”. Sono stati tutti e quattro degli agenti dell’Occidente. Lo fu Kravchuk; lo fu Kuchma; lo fu, ovviamente, l’arancione Yushenko. Lo era anche l’oligarca Yanukovic. Il quale promosse e condusse, con totale miopia e stupidità, la trattativa con l’Europa che avrebbe dovuto sfociare nel trattato di Vilnius.Ovvio che Putin abbia cercato di fermarlo, nell’interesse della Russia. Ma non risulta che abbia organizzato un colpo di Stato per abbatterlo. Gli promise un prestito a tasso agevolato di 15 miliardi di dollari, più due miliardi all’anno di sconto sulla bolletta del gas. Se questa è un’aggressione, allora io devo aver dimenticato il vocabolario italiano. E poi, una domanda: tutti fanno i propri interessi, o sbaglio? E perché mai l’unico cui non è permesso di fare i propri interessi, per giunta senza spargimento di sangue, per giunta nelle immediate vicinanze delle sue frontiere, dovrebbe essere Putin? Strane pretese. E quale “civile difesa” dei propri diritti resterebbe ai russi di Ucraina alla luce del mostruoso pogrom di Odessa?Mi fermo qui. Io non sono né un “volontario forzato”, né un “partigiano senza domande”. A me pare di ragionare da europeo con la testa sul collo. Questa crisi è stata creata artificialmente da Washington (ricordate il “fuck Eu” della signora Victoria Nuland?). È destinata a colpire la Russia, senza dubbio, ma anche l’Europa, sottoponendola a un controllo strettissimo da parte Usa e tagliandole legami economici vitali, a cominciare da quelli energetici, con la Russia. Resta la domanda: ma non potevano aspettare le prossime elezioni, tra un anno, per fare fuori Yanukovic? Invece hanno avuto fretta. Proviamo a chiederci da dove è venuta tanta fretta americana e di parte dell’Europa. Io penso che l’Europa dovrebbe avere con la Russia un partenariato strategico amplissimo. Non vorrei più essere suddito dell’Impero, proprio mentre l’Impero non è più tale, vacilla, diventa sempre più aggressivo e irresponsabile. Dunque pericoloso. Non voglio andare in guerra. Contro nessuno. Dunque penso. Dunque cerco di difendermi.(Giulietto Chiesa, sintesi dell’intervento “Russia-Ucraina, chi fa propaganda e chi la subisce”, pubblicato da “Il Fatto Quotidiano” il 7 maggio 2014, in risposta alle domande di un lettore).L’Occidente è compatto con un monolite nelle smisurate menzogne che racconta. Non solo oggi. Sempre. La Russia, invece, non ha voce in Occidente. Nessuna. Storicamente l’ha avuta solo fino a che esistettero i partiti comunisti. Ma questi non esistono più da ormai 35 anni circa. E, infatti, la voce, le opinioni, le posizioni della Russia (non dico dei russi, per il momento) letteralmente non esistono in tutto l’Occidente. E, data l’assoluta ormai uniformità propagandistica del mainstream occidentale, le opinioni del Cremlino sono affidate esclusivamente alle capacità propagandistiche di Vladimir Putin. Che non bastano per bucare il muro di silenzio, e di russofobia, che circonda la Russia. Un bel guaio per noi europei che dissentiamo dalle linee guida del “consenso washingtoniano” e che non abbiamo strumenti per cambiare il corso delle cose, essendo stati espropriati delle regole della democrazia liberale.
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Sorpasso cinese sugli Usa, cresce il pericolo di guerra
Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.Secondo l’ultimo studio della Banca Mondiale, citato dal “Financial Times”, gli Stati Uniti stanno per consegnare alla Cina lo scettro di prima economia al mondo: «Il sorpasso avverrà molto prima del previsto 2019, forse già quest’anno», scrive Conti su “Contropiano”. Gli Usa detengono il primo posto dal 1872, quando avevano superato la Gran Bretagna. E saranno presto incalzati anche dall’India, che sta per prendersi il terzo posto. «È la temuta crisi dell’egemonia statunitense, affermatasi pienamente con la Seconda Guerra Mondiale ma lungamente preparata nei decenni precedenti». Storia: «Non si è mai vista una potenza imperiale dominare sul mondo senza essere anche la prima economia del pianeta». Ma il “lungo addio” della Gran Bretagna all’egemonia globale è potuto maturare «solo grazie a un mondo assai più lento di oggi e allo “speciale rapporto” con l’ex colonia che stava diventando una superpotenza».Oggi, continua Conti, l’economia finanziaria viaggia in tempo reale: la competizione, a questo livello, si gioca sui centesimi di secondo. «E anche le forze militari sono mobilitabili in tempi infinitamente più rapidi». Peccato però che gli approvvigionamenti energetici stiano diventando sempre più problematici, tra risorse storiche in via di esaurimento e “risorse non convenzionali” appena sufficienti, per ora, a mantenere allo stesso livello i consumi planetari. «Gli Stati Uniti sanno meglio di tutti che il loro dominio sul mondo è a rischio, e hanno deciso di lottare per non farsi scalzare, nemmeno a favore di un “multipolarismo” in cui non potrebbero restare dei “primus inter pares”», perché non possono più sperare all’infinito di «affrontare i propri problemi stampando dollari e imponendo agli altri di accettarli in cambio di prodotti fisici».Così, gli Stati Uniti di Obama «attaccano in Europa cogliendo i due punti deboli dell’emergente imperialismo dell’Unione Europea: forniture energetiche e dotazione militare», e inoltre «attaccano in Asia tentando di “contenere” militarmente l’esplosiva influenza economica cinese». E’ un azzardo, un’offensiva inedita su tutti i fronti, dall’Atlantico al Pacifico. «È una dinamica antica e ripetitiva», sostiene Conti: «Una coazione a ripetere, ma estremamente pericolosa», perché «la crisi economica non passa», e quindi «la guerra inter-imperialista si affaccia di nuovo come possibile soluzione». Peccato, chiosa l’editorialista di “Contropiano”, che tutte quelle testate nucleari in giro per il mondo garantiscano – da 70 anni – una sola certezza: la Terza Guerra Mondiale non conoscerebbe vincitori, ma solo vittime.Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.
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Chiesa: divisi non si vince, spiegatelo a Grillo (e Tsipras)
«Quell’assemblea di difensori dell’ordine pubblico che applaudono altri difensori dell’ordine pubblico che hanno ucciso un ragazzo, mi ha fatto venire in mente i magistrati che accusano di terrorismo quei cittadini che difendono la democrazia, quei manager che guadagnano cifre smisurate, quei politici che sono collusi con i mafiosi, quei corrotti e corruttori che hanno espropriato i cittadini di ogni possibilità di decidere del proprio futuro, e che continuano a succhiare ricchezza senza vedere la tempesta che si avvicina. Penso che siano tutti sintomi dello sfacelo della società italiana: se ne esce soltanto con una grande riforma intellettuale e morale». Per Giulietto Chiesa, «ci vuole una forza politica nuova che riesca a vedere la profondità dell’abisso e indichi una strada». Purtroppo, però, «questa forza politica non c’è», non esiste ancora. E, naturalmente, «non si creerà da sola».Il commento di Chiesa, pubblicato sulla sua pagina Facebook, ha suscitato «una vera bufera di reazioni, opposte». Da una parte i sostenitori del Movimento 5 Stelle, secondo i quali ovviamente «la nuova forza politica già c’è e non bisogna cercarne altre», e dall’altra «quelli di sinistra, che continuano a negare ogni credibilità al M5S». A questi ultimi, Giulietto Chiesa risponde con le cifre: «Una alternativa di sinistra all’attuale regime non esiste e – io ne sono certo – non esisterà più in un futuro prevedibile». I motivi? «Moltissimi, tutti convergenti», più volte enunciati: la sinistra (elettorato) non ha “visto” la natura e le dimensioni epocali della grande crisi – economia, energia, clima, fine della crescita illimitata – mentre la nomenklatura del centrosinistra ha di fatto “eseguito” i diktat dell’élite oligarchica oggi alla guida del capitalismo finanziario globalizzato.Un’illusione, però, anche quella di chi (come molti grillini) coltiva la speranza di cambiare l’Italia col 25% dei voti. «Enrico Berlinguer – che si rivolgeva, si badi bene, al più forte partito comunista dell’Occidente – dopo i fatti del Cile del 1973, quando Salvador Allende fu rovesciato e ucciso da un colpo di Stato organizzato dalla Cia, disse che non si poteva cambiare il paese nemmeno con il 51%. Perché lo disse? Perché sapeva che il nemico sarebbe uscito dal terreno democratico e avrebbe rovesciato il tavolo e la legalità. Aveva ragione. Infatti avvenne proprio così. Adesso è la stessa, identica situazione». In ogni caso, è sbagliato sottovalutare il potenziale democratico espresso dal movimento di Grillo: «Il M5S è una realtà nuova, di grande importanza», sottolinea Chiesa. «Per quanto mi riguarda l’ho sostenuta in tre consultazioni elettorali (in Sicilia nel 2012, alle elezioni politiche del 2013, ora nel 2014)». Una forza “amica”, dunque, che però «da sola, non potrà cambiare il paese».Ennesima occasione perduta, la campagna elettorale per le europee: «Il non avere tentato una convergenza sulla candidatura di Tsipras è stato un errore grave». Errore che peraltro la stessa Lista Tsipras «ha commesso, alla rovescia, rifiutando pregiudizialmente ogni contatto con il M5S». Chi ci rimette? «Milioni di italiani», cioè quelli che «vogliono cambiare radicalmente il paese, e che non sono né di sinistra, né del M5S». E’ a loro che Giulietto Chiesa pensa, quando parla di «una grande alleanza democratica e di pace e di pulizia, un’alleanza per la salvezza nazionale». Che fare? «Bisogna che tutti, sia il M5S, sia le sinistre (non parlo del Pd, che sinistra non è più), siano capaci di mettersi assieme per formulare un programma di governo, e una lista di governo». Una grande riforma intellettuale e morale «richiede molte forze ideali e componenti che non sono racchiudibili dentro gli attuali schieramenti». C’è bisogno di tutti, purché fuori dalla “casta”, quella dei partiti “maggiordomi” dei poteri forti: prima lo si capisce, e prima avremo concrete possibilità di fermare i diktat dell’oligarchia.«Quell’assemblea di difensori dell’ordine pubblico che applaudono altri difensori dell’ordine pubblico che hanno ucciso un ragazzo, mi ha fatto venire in mente i magistrati che accusano di terrorismo quei cittadini che difendono la democrazia, quei manager che guadagnano cifre smisurate, quei politici che sono collusi con i mafiosi, quei corrotti e corruttori che hanno espropriato i cittadini di ogni possibilità di decidere del proprio futuro, e che continuano a succhiare ricchezza senza vedere la tempesta che si avvicina. Penso che siano tutti sintomi dello sfacelo della società italiana: se ne esce soltanto con una grande riforma intellettuale e morale». Per Giulietto Chiesa, «ci vuole una forza politica nuova che riesca a vedere la profondità dell’abisso e indichi una strada». Purtroppo, però, «questa forza politica non c’è», non esiste ancora. E, naturalmente, «non si creerà da sola».