Archivio del Tag ‘emergenza’
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Licenziamo i cialtroni del gas: solo rinnovabili dal 2030
Attenti ai soliti furbastri dell’energia sporca: saranno i primi ad approfittare della crisi tra Usa e Russia sull’Ucraina, secondo la più classica “Shock Doctrine”, che consiste nel creare un allarme a tavolino per imporre soluzioni d’emergenza che frutteranno miliardi. Lo sostiene Naomi Klein, secondo cui le pressioni americane per sganciare l’Europa dal gas russo sono una autentica follia, addirittura letale per l’ecologia statunitense, il cui territorio verrebbe letteralmente terremotato dal fracking. Ma la vera pazzia è illudersi che il metano sia una sorta di energia pulita, un “ponte” tra le fonti fossili – petrolio e carbone – e le rinnovabili. Unica soluzione veramente strategica e intelligente? Pensare da subito all’adozione di tecnologie di massa per rimpiazzare la vecchia energia, gas compreso, puntando a una produzione “pulita” al 100%, fatta solo di acqua, sole e vento.La crescente isteria anti-russa, scrive la Klein in un intervento sul “Guardian” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ha produtto due disegni di legge presentati frettolosamente al Congresso Usa, che propongono l’esportazione di gas naturale liquefatto (Lng), in nome di un aiuto all’Europa per svincolarla dalla dipendenza dai combuatibili fossili di Putin e migliorare la sicurezza nazionale statunitense. Dietro alla manovra, non è difficile individuare la “firma” di colossi come Chevron e Shell, che beneficiano dello “stato d’emergenza” creato con le tensioni con Mosca. «Perché questa strategia funzioni, è importante non cercare mai il pelo nell’uovo. Come il fatto che gran parte del gas non andrà mai in Europa – perché gli accordi dicono che il gas deve essere venduto sul mercato mondiale a qualsiasi paese faccia parte del Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. O il fatto che per anni l’industria ha fatto passare il messaggio che l’America debba accettare il rischio che corrono, a causa del fracking idraulico, il territorio, l’acqua e l’aria, pur di aiutare il paese a raggiungere “l’indipendenza energetica”».E adesso, aggiunge la Klein, «all’improvviso e di nascosto, l’obiettivo è stato spostato sulla “sicurezza energetica”», il che significa «vendere sul mercato mondiale il gas “fracked”», creando «una dipendenza energetica all’estero». Ma la cosa più importante, secondo la saggista, è che nessuno dica mai che «la costruzione delle infrastrutture necessarie per esportare il gas su larga scala richiede molti anni». Un singolo terminale Lng «può arrivare a costare sette miliardi di dollari, deve essere alimentato da una fitta rete a incastro di metanodotti e di centrali di compressione, e ha bisogno di una propria centrale elettrica solo per generare l’energia che serve per liquefare il gas attraverso il super-raffreddamento». Nell’attesa che questi progetti industriali tanto complessi entrino in funzione, Germania e Russia potrebbero anche essere diventati amici tra di loro. «Ma poi qualcuno si ricorderà che la crisi in Crimea fu solo una scusa colta al volo dall’industria dei petrolieri per far avverare il loro eterno sogno di esportare il gas, a prescindere dalle conseguenze per la società che provoca il fracking e quello che sarà di un pianeta sempre più cotto».Per Naomi Kleni, quello delle “sette sorelle” è «un vero talento nello sfruttare le crisi», realizzando profitti stellari. «Sappiamo tutti come funziona: in tempi di crisi – vera o artificiosa – le nostre élites riescono sempre a far imporre scelte politiche impopolari che sono dannose per tutti, ma che vengono adottate per motivi di emergenza. Certo che ci sono obiezioni – dagli scienziati del clima che avvertono dell’elevato potere di riscaldamento di metano, o dalle comunità locali che non vogliono che i porti delle loro amate coste diventino zone ad alto rischio – ma chi ha tempo per parlarne? E’ un’emergenza! Bisogna chiamare il 911, subito! Prima approviamo le leggi, al resto penseremo più tardi. Ci sono un sacco di imprese brave in questa strategia, ma nessuna è tanto brava a sfruttare con tanta razionalità i tentennamenti prodotti dalle crisi come l’industria del gas a livello mondiale».Negli ultimi quattro anni, prosegue Naomi Klein, la lobby del gas si è servita della crisi economica in Europa per raccontare a paesi come la Grecia che il modo migliore per uscire dal debito e dalla disperazione è far trapanare le loro coste e i loro bei mari. «E ha usato le stesse argomentazioni per razionalizzare il fracking in tutto il Nord America e nel Regno Unito». Il conflitto in Ucraina? «Viene utilizzato come un ariete per abbattere le forti restrizioni sulle esportazioni di gas naturale e per sostenerle forzando un controverso accordo di libero scambio con l’Europa. E’ proprio un bell’affare: si mettono insieme le economie delle imprese più aperte al libero scambio, quelle più inquinanti e quelle che intrappolano il calore del gas nell’atmosfera. Tutti lavorano per risolvere il problema di una crisi energetica, che in gran parte è tutta un’invenzione».Proprio l’industria del gas naturale, ricorda la Klein, è stata la più abile a sfruttare la crisi del cambiamento climatico stesso. «Non importa che la singolare soluzione trovata dall’industria per la crisi climatica sia una notevole espansione del processo di estrazione con il fracking, che emette enormi quantità di metano destabilizzante per il clima e per la nostra atmosfera». Attenzione: «Il metano è uno dei gas serra più potenti – 34 volte più potente dell’anidride carbonica, secondo le ultime stime del Intergovernmental Panel on Climate Change. E questo per un periodo di 100 anni, quanto è il tempo che impiega il metano a ridurre i suoi effetti nel tempo». Per il biochimico Robert Howarth della Cornell University, uno dei maggiori esperti mondiali sulle emissioni di metano, è molto più importante osservare l’impatto del gas nel raggio dei prossimi 15-20 anni, «periodo nel quale si svilupperà il potenziale di riscaldamento globale del metano», anche 100 volte superiore a quello dell’anidride carbonica. «E’ in questo lasso di tempo che rischiamo noi stessi di sprofondare in un riscaldamento globale molto rapido».Altra regola, sistematicamente violata: mai costruire infrastrutture multimilionarie a meno che non si pensi di usarle per almeno 40 anni. «E invece noi rispondiamo alla crisi del riscaldamento del nostro pianeta con la costruzione di una rete di forni atmosferici ultra-potenti», senza neppure conoscere l’esatto peso dell’impatto sull’ambiente dell’intera filiera del gas: estrazione, trasformazione, distribuzione. «Ma siamo pazzi?». La stessa industria del gas, nel 1981, sostenne che il gas naturale sarebbe stato un “ponte” verso un futuro di energia pulita. «Questo succedeva 33 anni fa. Un lungo ponte. E la costa, dall’altra parte, ancora non si vede». Nel 1988 – l’anno in cui il climatologo James Hansen avvertiva il Congresso, con una testimonianza storica, del problema urgente del riscaldamento globale – la American Gas Association cominciò a pubblicizzare esplicitamente il suo prodotto come una risposta all’“effetto serra”. «Non perse tempo, in altre parole, a vendersi come la soluzione a una crisi globale che aveva contribuito a creare».Ora, però, di fronte al pretesto della crisi ucraina – l’emergenza travestita da soluzione per la “sicurezza energetica” – siamo in molti di più a sapere «dove stanno le vere bugie sulla sicurezza energetica». Secondo ricercatori come Mark Jacobson e il suo team di Stanford, «sappiamo che il mondo può, entro il 2030, alimentarsi completamente con energia rinnovabile». E, grazie agli ultimi rapporti allarmistici dell’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu, sappiamo che seguire queste indicazioni adesso è un imperativo esistenziale. «Questa è l’infrastruttura che dobbiamo sbrigarci a costruire, non quei colossali progetti industriali che ci bloccheranno ancora dentro una pericolosa dipendenza dai combustibili fossili per altri decenni». Per la transizione, basteranno petrolio e carbone, senza ricorrere ai metodi di estrazione ultra-inquinanti come le sabbie bituminose e il fracking. In vent’anni, dice Jacobson, usando solo il petrolio e l’attuale gas convenzionale, potremmo arrivare ad alimentare il mondo con «nuove infrastrutture interamente pulite e rinnovabili: infrastrutture eoliche, idriche e solari». Più che a emanciparsi dal gas russo, conclude Naomi Klein, l’Europa dovrebbe pensare soprattutto alla riconversione ecologica dell’energia, completamente autoprodotta, lasciando perdere le pericolose offerte americane.Attenti ai soliti furbastri dell’energia sporca: saranno i primi ad approfittare della crisi tra Usa e Russia sull’Ucraina, secondo la più classica “Shock Doctrine”, che consiste nel creare un allarme a tavolino per imporre soluzioni d’emergenza che frutteranno miliardi. Lo sostiene Naomi Klein, secondo cui le pressioni americane per sganciare l’Europa dal gas russo sono una autentica follia, addirittura letale per l’ecologia statunitense, il cui territorio verrebbe letteralmente terremotato dal fracking. Ma la vera pazzia è illudersi che il metano sia una sorta di energia pulita, un “ponte” tra le fonti fossili – petrolio e carbone – e le rinnovabili. Unica soluzione veramente strategica e intelligente? Pensare da subito all’adozione di tecnologie di massa per rimpiazzare la vecchia energia, gas compreso, puntando a una produzione “pulita” al 100%, fatta solo di acqua, sole e vento.
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Quegli 80 euro, il prezzo della paura che hanno di noi
L’importante, per decidere il nostro futuro, è che tutti sappiano come ci si è arrivati e perché, a questi 80 euro. Ci si è arrivati cioè come misura emergenziale a fronte di una situazione sociale che incuteva, ormai, vero terrore nelle classi dirigenti economiche, finanziarie e mediatiche di questo paese. Vale a dire che dopo trent’anni di lotta di classe dall’alto verso il basso e di aumento della forbice sociale, dopo cinque anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, ci si è accorti di avere un po’ esagerato. E che, esagerando, si rischia di far crollare tutto. Di far cadere a pezzi tutto il sistema. Alle urne o fuori dalle urne. In modi imprevedibili ma comunque paurosi.E allora, da sempre, si fa così: dare qualcosa – non molto, ma qualcosa – per vedere cosa succede. Se basta a calmare le acque. Se fra un anno questa donazione si può togliere o ridurre. O se, al contrario, le tensioni saranno tali da doverla aumentare o estendere ad altri. È così, da sempre. E «il potere vestito d’umana sembianza che volge lo sguardo a spiar le intenzioni degli umili, degli straccioni». Quindi, di nuovo, fanno schifo questi 80 euro, fa ridere il fatto che il governo abbia rinunciato (ad esempio) a un solo F35 per finanziare questa dazione? No, non fanno schifo – e non fa ridere la rinuncia a un solo aereo, perché un F35 in meno è meglio di un F35 in più.Basta sapere che accontentarsene e appagarsene – anziché esigerne altri 800, altri 8.000 da parte di chi ha meno – cambierà di nuovo la tendenza, farà ripartire la lotta di classe dall’alto verso il basso, riallargherà la mostruosa forbice sociale che si è creata da tempo: e lo farà molto oltre questi 80, benedetti, euro che dal mese prossimo arriveranno in tasca a una fetta di italiani.(Alessandro Giglioli, “A spiar le intenzioni”, 20 aprile 2014, dal blog “Piovono Rane” che Gilioli cura su “L’Espresso”).L’importante, per decidere il nostro futuro, è che tutti sappiano come ci si è arrivati e perché, a questi 80 euro. Ci si è arrivati cioè come misura emergenziale a fronte di una situazione sociale che incuteva, ormai, vero terrore nelle classi dirigenti economiche, finanziarie e mediatiche di questo paese. Vale a dire che dopo trent’anni di lotta di classe dall’alto verso il basso e di aumento della forbice sociale, dopo cinque anni di austerità, precarizzazione e disoccupazione, ci si è accorti di avere un po’ esagerato. E che, esagerando, si rischia di far crollare tutto. Di far cadere a pezzi tutto il sistema. Alle urne o fuori dalle urne. In modi imprevedibili ma comunque paurosi.
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Augè: noi, l’umanità, contro l’utopia nera dell’oligarchia
Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.Voler scindere economia e educazione, scrive Augè in una riflessione su “La Stampa” ripresa da “Micromega”, ha significato il fallimento di entrambi i campi. «Dissociarli significa infatti cedere alla grande tentazione postmoderna: rifiutare di porsi la questione delle finalità». Oggi, sotto i morsi della grande crisi, la priorità viene sempre data agli obiettivi a breve termine: aiuti d’emergenza, piani sociali, formazione professionale. Ma, intanto, viene elusa la questione centrale: «In vista di cosa si lavora o si studia?». Il nostro fine ultimo, la nostra umanità profonda. «È considerata una sorta di lusso, un sogno da intellettuali idealisti a beneficio di altri sognatori», da dimenticare in fretta per ripiegare prontamente sugli obiettivi a breve termine. «Come in altri ambiti, il problema dei fini ultimi è abbandonato alle divagazioni talvolta letali dei fanatici e dei folli». Ma le conseguenze sono catastrofiche: non siamo più sicuri di sapere perché facciamo quello che facciamo, in una sorta di pericolosa alienazione sempre più funestata dal peggiorare delle condizioni socio-economiche.«Nel momento in cui si invocano requisiti di redditività per giustificare i ridimensionamenti che provocano un calo del potere d’acquisto, a sua volta causa del rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella sua fase attuale), le politiche educative sono sempre meno orientate all’acquisizione del sapere in sé e per sé», scrive Augè. Risultato: a cominciare da quelli “economicamente svantaggiati”, i bambini hanno una possibilità alquanto scarsa se non nulla di accedere a determinati tipi di insegnamento. Così, il sistema educativo tende a riprodurre le disuguaglianze sociali. E persino l’apertura delle università a tutti «è ufficialmente considerata come un mutamento della loro vocazione: le si invita a rispondere anzitutto ai bisogni del mercato del lavoro». Forse, continua Augè, un giorno ci ricorderemo che «non v’è altra finalità per gli uomini sulla Terra se non l’imparare a conoscersi e a conoscere l’universo che li circonda», un compito “infinito” che definisce l’umanità: «La conoscenza è l’unico modo di conciliare le tre dimensioni dell’uomo: individuale, culturale e generica».Se decidessimo di sacrificare tutto all’istruzione, alla ricerca e alla scienza, «facendo investimenti massicci e senza precedenti, nel settore dell’insegnamento a ogni livello», secondo Augè avremmo «più occupazione e maggior prosperità», perché l’ideale della conoscenza «non ha bisogno di disuguaglianze sociali o economiche ma, all’opposto, tali disuguaglianze sono fattori di stagnazione, sono ostacoli, una notevole dispersione di energia, un attentato al potenziale intellettuale dell’umanità». È certo, invece, che lasciare aumentare lo scarto tra i più istruiti e i non istruiti significa «aggravare irrimediabilmente l’impoverimento della stragrande maggioranza». Idea utopica? Per contro, quelle che guidano le politiche reali sono «follie», nutrite di «settarismo e ignoranza». Sicché, «obbligandoci a porre nuovamente la questione dei fini», proprio l’utopia «può aiutarci a definire un programma». In fondo, continua Augè, «quali individui mortali, siamo tutti condannati all’utopia. In vista di cosa viviamo? Malgrado la forma interrogativa, questa domanda è l’unica risposta – risposta critica, risposta di crisi – che si possa dare a coloro che pretendono di gestire la nostra vita quotidiana e al contempo di incaricarsi del nostro avvenire».È probabile che la crisi del mondo globalizzato «firmi l’atto di morte dell’ultimo “grande racconto”», per citare l’espressione di Jean-François Lyotard. Era il racconto liberale di Fukuyama: la felicità universale garantita da democrazia rappresentativa e libero mercato. Come sappiamo, la storia ha ripreso a correre – ma purtroppo in direzione opposta: siamo in balia di una élite nient’affatto democratica, anzi dispotica e oligarchica. Capace di infliggere infinite sofferenze all’umanità: diventa abissale il divario tra ricchi e poveri, pure «in un universo socio-economico in espansione», crescita che peraltro contrasta «con le dimensioni limitate del pianeta: ecco cosa la crisi ci ha manifestamente rivelato o confermato». A forza di «cullarci nell’illusione di un eterno presente», finiremo per scoprire di colpo che «i problemi attuali non erano che le premesse di uno sconvolgimento più radicale». Stiamo già vivendo «un ridimensionamento, al quale il nostro sguardo non si è ancora abituato e di cui la crisi è una delle conseguenze». Non possiamo sapere se a vincere sarà «l’utopia nera dell’oligarchia» o l’umanità, magari grazie «a un capovolgimento storico imprevisto, a qualche importante scoperta scientifica». Ma intanto già conosciamo l’utopia di domani: sarà la Terra, «il pianeta in quanto tale».Gli ideologi neoliberisti come Francis Fukuyama ci avevano annunciato la “fine della storia”, cioè la grande narrazione in base alla quale avremmo conquistato una “democrazia universale” fondata sul libero mercato? Tutto sbagliato, come s’è visto. Sotto i nostri occhi, sostiene il filosofo Marc Augé, c’è «l’utopia nera dell’oligarchia planetaria»: nel mondo delle reti globalizzate, la competenza scientifica e il potere economico e politico si concentrano in poche mani. Non una democrazia diffusa su tutta la Terra, bensì «un’oligarchia planetaria dominata da tutti coloro che sono in qualche modo collegati alla sfera del potere politico, scientifico ed economico, mantenuto e riprodotto dalla massa degli utilizzatori passivi quali sono i consumatori costretti al dovere di consumare, ma anche dalla massa sconfinata di tutti gli esclusi dal sapere e dai consumi». Altro che “fine della storia” concepita come accordo unanime sulla forma definitiva di governo degli uomini. Uscite di sicurezza? Una, l’utopia: rimettere la conoscenza al centro della nostra vita, declassando il culto della produttività.
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Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi
Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
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Ucraina, non solo gas: le mani sull’ex granaio di Russia
Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».Le “guerre del grano” esistono, eccome, ricorda Jalife-Rahme in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”: «Si potrebbe sostenere che altre guerre per il grano e i cereali sono in atto in forma occulta tanto in Sudan quanto in Argentina». Il Sudan, «leggendario fienile d’Africa», è stato «ridotto a un continuo disordine politico con l’emergenza del Sud Sudan, ricco di petrolio, cosa che ha attirato gli interessi di Stati Uniti e Israele». E l’Argentina, potenza ceralicola fin dall’inizio del ventesimo secolo, «sta soffrendo una brutale guerra multidimensionale, specificatamente nel suo molto vulnerabile sistema finanziario controllato dall’accoppiata Stati Uniti-Inghilterra, con mire sulla Patagonia, il più grande granaio sudamericano». Sul Mar Nero – quello in cui si protende la Crimea – si affacciano invece i porti attraverso cui l’Ucraina esporta i suoi cereali. Secondo il governo di Kiev, più del 50% dell’economia della Crimea dipende dalla produzione e dalla distribuzione alimentare.Il World Fact Book della Cia dichiara che l’Ucraina produceva il 25% delle esportazioni agricole dell’Urss, mentre oggi esporta sostanziali quantità di grano, il cui valore è esploso durante la delicata crisi di cambio di regime pro-Fmi a Kiev, che ha suscitato la reazione russa in Crimea. Le esportazioni agricole dell’Ucraina sono dirette al 20% in Russia e al 17% in Europa; seguono Cina, Turchia e Stati Uniti. Il “Financial Times” ricorda che sono state fatte guerre tra Russia, Polonia e l’Impero Ottomano per il controllo del prezioso “chernozem”, la prateria fertile dell’Ucraina. Nel 2011 l’Ucraina ha ottenuto un raccolto record di 57 milioni di tonnellate. Secondo la Berd, la Banca per la Ricostruzione e Sviluppo in Europa, le adeguate trasformazioni e applicazioni delle nuove tecnologie nell’agricoltura ucraina potrebbero duplicare la produzione di grano già nella prossima decade.Nell’ultimo decennio, scommettendo sull’enorme potenziale agricolo dell’Ucraina, molte delle sei multinazionali del cartello anglosassone che controlla il grano e i cereali (tra cui Cargill, Adm e Bunge, in pieno accordo con Nestlè e Kraft) hanno investito miliardi di dollari. Anche la temibile Monsanto, aggiunge Jalife-Rahme, si è messa in coda per il “chernozem” ucraino assieme alla DuPont Pioneer. «Oggi l’Ucraina ottiene 12 miliardi di dollari dalle sue esportazioni di grano e cereali e dalla sua particolare partnership commerciale con l’Europa», che ovviamente – insieme agli Usa – ha “acceso la miccia” della crisi a Kiev. «L’interesse ad incorporare l’Ucraina nel mercato europeo includeva l’obiettivo ad avere un “supermercato del pane e carne” in Europa mediante una maggiore disponibilità ad affittare o vendere i suoi terreni fertili».L’analista australiana Anna Vidot considera che la scalata all’Ucraina possa avere un impatto significativo nei mercati mondiali del grano. Washington stima che l’Ucraina fornisca il 16% del totale mondiale di mais e grano, la maggior parte del quale passa per il porto di Sebastopoli, in Crimea, sede della flotta russa nel Mar Nero, in una penisola che vanta abbondanti riserve marine di gas naturale. «La realtà è che la balcanizzazione di questo paese comporta come corollario la frattura catastale delle sue riserve di shale gas e del suo grano». I prezzi schizzano rapidamente alle stelle: «La corsa alla conquista della Crimea ha portato già ad un aumento del 40% del petrolio, dell’oro e del grano», conclude Jalife-Rahme. E avverte: «Gli incroci geopolitici per gli idrocarburi, il grano e i cereali sono soliti essere spesso tragici».Tutti parlano – giustamente – della “guerra del gas” che ieri opponeva il Cremlino a Kiev e che domani potrebbe armare il pericoloso braccio di ferro tra Putin e Obama sull’approvvigionamento energetico dell’Europa. Ma, senza dimenticare le immense riserve del sottosuolo ucraino, pari a 39 trilioni di metri cubi di gas non ancora estratto, e sul quale la Chevron firmò un contratto da 10 miliardi di dollari già all’epoca di George W. Bush, sono in pochi a parlare dell’altro immenso tesoro del paese orientale: il grano. L’Ucraina, ricorda l’analista economico messicano Alfredo Jalife-Rahme, è il terzo produttore mondiale di frumento, insieme all’Australia, dopo Stati Uniti e Argentina. Quella che potrebbe andare in scena è dunque anche la prima “guerra del grano” del terzo millennio. «La trasformazione dei prodotti alimentari è un importante segmento nell’economia ucraina: un lavoratore su quattro è impiegato nel settore agricolo o forestale». Grazie alla sua prateria fertile e ricchissima di sostanza organica, perfetta per coltivare grano e orzo ma anche segale, avena, girasole e barbabietola è «il granaio di Russia ed Europa».
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Guerra al gas russo? Ma a pagare il conto saremo noi
Dietro alla crisi dell’Ucraina, cioè il grande crocevia dei gasdotti, si nasconde una colossale operazione geopolitica: gli Usa puntano a uscire dalla crisi economica a spese dell’Europa, trasformata in importatrice di gas americano? A quanto pare, ci aspettano 6-7 anni d’inferno: tanto occorre, infatti, per attrezzare il vecchio continente in modo che possa rinunciare al gas russo e passare a quello norvegese e americano. Analoga scelta anche per la Russia: le servono 6-7 anni per sviluppare i nuovi gasdotti verso il più grande mercato industriale del mondo, la Cina. Per l’Europa, pessime notizie: riguardo all’energia e quindi all’economia, l’Unione Europea dipenderebbe al 100% dagli Usa e dai suoi prezzi. Secondo Giulietto Chiesa, dobbiamo aspettarci «una guerra fredda intensificata», perché «saremo sul fronte del combattimento» tra Washington e Mosca e «saremo costretti a pagarne il prezzo». Una sfida pericolosa, perché «l’intera sicurezza europea sarà completamente rivoluzionata, coi missili americani piazzati in Ucraina a 400 chilometri da Mosca».Putin, osserva Giulietto Chiesa in un video-editoriale su “Pandora Tv”, non può più arretrare: o si arrende, facendo la fine di Yanukovich, o – al contrario – ribatterà colpo su colpo, come sta facendo in Crimea. Facile previsione: «La popolarità di Putin aumenterà vertiginosamente». Il capo del Cremlino diventa il “salvatore” della Russia: «Lo hanno capito i russi d’Ucraina, lo stanno capendo i russi di Crimea, lo capiranno i 150 milioni di russi». E questo, aggiunge Chiesa, è un segnale molto preoccupante per l’Occidente, che gioca il tutto per tutto: «In una decina d’anni si decide il destino non solo dell’Europa e della Russia, ma del mondo intero». Sul peso della posta in gioco non ci sono dubbi: basta osservare la precisione con cui alcuni strateghi americani come Strobe Talbott, già consigliere di Clinton, si affrettano ad “avvertire” Putin sulle conseguenze finanziarie del braccio di ferro con Obama. Invasa la Crimea, la Borsa di Mosca è franata del 12%, provocando il crollo del rublo. Emergenza che «ha costretto Putin a intervenire per salvare la sua moneta con 60 miliardi di dollari. gli è costata più quest’operazione che non le Olimpiadi di Sochi».Da Gazprom a Rosneft, i colossi mondiali dell’energia russa sono quotati nelle maggiori Borse del pianeta e compartecipati da capitale internazionale, anche americano. Per non parlare degli “oligarchi” di Mosca, i cui asset sono depositati nelle banche occidentali. «E se improvvisamente gli Stati Uniti, tra le sanzioni, mettessero il congelamento dei loro conti? Che succederebbe alla gran parte dell’oligarchia russa? Ecco il grande problema. Putin – spiega Giulietto Chiesa – ha potuto prosperare e far aumentare la sua popolarità in Russia grazie a gigantesche entrate statali, prodotte dalla vendita di gas e petrolio. Ma se improvvisamente questa vendita diventasse difficoltosa, come potrebbe continuare ad aumentare le pensioni, come ha fatto, o gli stipendi dei militari, della polizia e degli alti funzionari, facendo prosperare un certo ceto medio? Come potrebbe, Putin, in una situazione del genere?». La minaccia è chiara. Perché «l’operazione “conquista dell’Ucraina” significa “conquista dei gasdotti”, attraverso i quali passa il 90% del gas russo verso gli utilizzatori europei». La Crimea? Trascurabile. Come dice Talbott: se la prendano pure, gliela porteremo via dopo. L’importante, adesso, è l’Ucraina: cioè il rubinetto del gas destinato all’Europa, oggi venduto a prezzi accessibili. Ma domani? Che fine farà la manifattura tedesca, italiana e francese, senza più la garanzia del gas russo?Gli analisti statunitensi ci promettono un altro gas, ovvero «il gas norvegese – che c’è già ma ha un difetto: non ha i gasdotti – oppure il gas americano e canadese, quello nuovo, che sta arrivando adesso, dicono, in grandi quantità e a prezzi economicissimi». Entrambi però «devono essere prima liquefatti, trasportati attraverso l’oceano e poi nuovamente rigassificati sulle coste di tutti i paesi europei». Quanto costerà l’operazione? «Le cifre sono vertiginose e fanno pensare a un vero disegno strategico: l’America si rilancerà, rilancerà la sua economia attraverso la costruzione di un gigantesco ponte gasifero attraverso l’Oceano Atlantico». Tempi già calcolati, dai russi ma anche dall’Eni: non meno di 6-7 anni per allestire le nuove infrastrutture. Cosa accadrà nel frattempo? «Nessuno lo sa. L’unica cosa certa è che con questo piano tutta l’industria europea dipenderà dalle decisioni degli Stati Uniti e dal prezzo del gas che stabiliranno loro. Quindi avremo rincari evidenti». Secondo Chiesa, «il colpo alla Russia sicuramente sarà inferto», perché – con questa “guerra del gas” – l’Europa finirà «sotto il controllo diretto degli Stati Uniti, anche economico oltre che finanziario». Ecco spiegato il fervore “democratico” con cui gli Usa sostengono Kiev contro Mosca. Un gioco molto pericoloso, tenendo conto che l’obiettivo finale, strategico, resta Pechino.Dietro alla crisi dell’Ucraina, cioè il grande crocevia dei gasdotti, si nasconde una colossale operazione geopolitica: gli Usa puntano a uscire dalla crisi economica a spese dell’Europa, trasformata in importatrice di gas americano? A quanto pare, ci aspettano 6-7 anni d’inferno: tanto occorre, infatti, per attrezzare il vecchio continente in modo che possa rinunciare al gas russo e passare a quello norvegese e americano. Analoga scelta anche per la Russia: le servono 6-7 anni per sviluppare i nuovi gasdotti verso il più grande mercato industriale del mondo, la Cina. Per l’Europa, pessime notizie: riguardo all’energia e quindi all’economia, l’Unione Europea dipenderebbe al 100% dagli Usa e dai suoi prezzi. Secondo Giulietto Chiesa, dobbiamo aspettarci «una guerra fredda intensificata», perché «saremo sul fronte del combattimento» tra Washington e Mosca e «saremo costretti a pagarne il prezzo». Una sfida pericolosa, perché «l’intera sicurezza europea sarà completamente rivoluzionata, coi missili americani piazzati in Ucraina a 400 chilometri da Mosca».
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Mangiare con 50 euro al mese, anche Tsipras si piega
Pessime notizie, tanto per cambiare, da Atene: anche Alexis Tsipras, candidato di opposizione alla presidenza della Commissione Europea, si è ormai di fatto rassegnato alla retrocessione definitiva della Grecia verso il terzo mondo, guidato dai suoi spin-doctor americani. Lo sostiene Grigoriou Panagiotis, in un drammatico diario quotidiano che illustra le condizioni di vita sempre più precarie della popolazione, in un paese in cui – secondo la rivista medica “Lancet” – il rigore della Troika di Bruxelles ha fatto aumentare la mortalità infantile del 42%. Emergenza umanitaria, grazie alla spietata “cura” neoliberista dell’Unione Europea, che ha raso al suolo lo Stato greco e la sua capacità di proteggere i cittadini. Risultato: niente soldi per cibo e medicinali. Ormai si sopravvive con 50 euro al mese: è il budget medio destinato all’alimentazione della famiglia. La vera tragedia? Tutti si stanno abituando all’idea, anche Syriza.«E’ il nuovo modello pensato per la Grecia e, fatte le debite proporzioni, per l’Irlanda», scrive Panagiotis in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. E’ la nuova povertà, ovvero «l’arte di vivere con 550 euro al mese, spendendo 200 euro per l’edilizia abitativa, 100 per riscaldamento ed elettricità, 30 di costi vari come l’acqua, 40 per il telefono – Internet compreso – e 100 euro dedicati alla cosiddetta previdenza sociale». E per il cibo? Soltanto 50 euro al mese. «Da qui la recente competizione tra i partiti politici (business tutto sommato succoso) su chi organizzerà la prima migliore zuppa popolare. E’ questo, del resto, il povero modello che Syriza ha già adottato senza dirlo troppo in giro». Secondo il blogger ellenico, a rassegnarsi alla “normalizzazione” degli stipendi medi attorno ai 580 euro sono gli stessi analisti del think-tank “Levy Economics Institute” del Bard College di New York, istituto che da poco più di un anno «è diventato consulente chiave (e ufficiale) della politica economica per il partito di Alexis Tsipras».Anziché combattere contro la camicia di forza dell’Eurozona, gli specialisti americani «propongono la messa in circolazione di una moneta interna e parallela all’euro», e in ogni caso si preparano a far digerire ai greci un futuro da 500 euro al mese. «Un economista del Levy Institute – continua Panagiotis – mi aveva detto a margine di un simposio qualche mese fa che “è preferibile allineare gli stipendi sui 580 euro mensili, piuttosto che lasciar diffondere la situazione attuale dove moltissimi greci lavorano talora come schiavi per meno di 300 euro al mese”». Capito? «Aspettando i 580 euro, Syriza e anche l’elettricità, in certi quartieri gli abitanti si organizzano in assemblee popolari per inventare, forse, un modo con il quale poter resistere di fronte ai pignoramenti immobiliari organizzati dal regime bancocrate, che ha come scopo quello di sottrarre ai greci i loro beni immobiliari in modo da sottometterli in una maniera più “adeguata” al nuovo regime di neo-depauperati, probabilmente sotto l’alto patronato della Banca Mondiale, perché no?».Pessime notizie, tanto per cambiare, da Atene: anche Alexis Tsipras, candidato di opposizione alla presidenza della Commissione Europea, si è ormai di fatto rassegnato alla retrocessione definitiva della Grecia verso il terzo mondo, guidato dai suoi spin-doctor americani. Lo sostiene Grigoriou Panagiotis, in un drammatico diario quotidiano che illustra le condizioni di vita sempre più precarie della popolazione, in un paese in cui – secondo la rivista medica “Lancet” – il rigore della Troika di Bruxelles ha fatto aumentare la mortalità infantile del 42%. Emergenza umanitaria, grazie alla spietata “cura” neoliberista dell’Unione Europea, che ha raso al suolo lo Stato greco e la sua capacità di proteggere i cittadini. Risultato: niente soldi per cibo e medicinali. Ormai si sopravvive con 50 euro al mese: è il budget medio destinato all’alimentazione della famiglia. La vera tragedia? Tutti si stanno abituando all’idea, anche Syriza.
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Revelli: temo Renzi, pericoloso funambolo dilettante
L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del Governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.Tutto, come in una grande matrioska dal volto di roditore. Cosicché davvero, se fallisce, cade tutto: finisce il Pd, si scioglie il Parlamento, si commissaria il Paese, si accelera la dissoluzione sociale… Motivo per cui, appunto, non resta che “sperare”. Sperare a prescindere. Contro l’evidenza, che ci dice che così non può farcela. Renzi non ha né le competenze, né l’autorevolezza, né la forza politica (ha seminato troppi cadaveri nella sua marcia forzata), per fare questo “miracolo”. Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione, ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione mafiosa) assicuravano. Punta su un’unica risorsa: il mito della velocità.Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un secolo più tardi). E problematico per uno che vanta tra i principali supporter quello che dello slow ha fatto un brand, sia pur rispetto al food… Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi frantumando gli strati scistosi, anche Matteo Renzi pratica il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin qui, e dalla macchina dello Stato. Ma come gli ambientalisti ci spiegano che il fracking inquina le falde, così il renzismo rischia di inquinare il nostro spazio pubblico. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciarci – dopo aver fagocitato tutto – “nudi alla meta”. Per questo è così necessario, e così pressante, costruire uscite di sicurezza. Piani di emergenza (e di evacuazione). Alternative politiche in cui i naufraghi possano approdare. Noi, che siamo prudenti e predichiamo il “principio di responsabilità!” di cui parla Hans Jonas, lavoriamo a questo.(Marco Revelli, “Il renzismo come esorcismo”, dal sito “Lista Tsipras” del 24 febbraio 2014).L’Italia danza sull’abisso, nelle mani di un funambolo dilettante che cammina sulla fune senza rete. E tutti lì sotto, con il naso in aria, a gridargli di accelerare. E’ l’immagine che emerge dai tanti messaggi augurali pervenuti a Renzi. Di Scalfari. Di Gad Lerner. Di Mario Calabresi. Di Massimo Cacciari. Del “Messaggero” e del “Sole”. Delle Coop e di Confindustria. Tutti improntati a un’euforia di maniera (bisognava “fare qualcosa”). Tutti in realtà segnati dalla paura. E dalla vertigine. L’ultima accelerazione l’ha rivelato: nella sua corsa folle alla conquista del Palazzo, Matteo Renzi ha concentrato su di sé tutto – la crisi interna al Pd, la crisi di governabilità del Parlamento, la crisi di iniziativa del governo, lo stato comatoso dell’economia, la crisi di fiducia della società.
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Basta tasse: come trovare, gratis, 70 miliardi l’anno
Possiamo far ripartire l’economia risparmiando fino a 70 miliardi di euro l’anno. La soluzione è scritta nell’articolo 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi. Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro e lo presta alla banca pubblica allo 0,25% e la banca pubblica lo presta allo Stato a tassi di interesse nettamente inferiori all’attuale 4%. Lo abbiamo chiesto all’Unione Europea e il 14 gennaio 2014 abbiamo ricevuto la risposta. Si può fare. Ecco i dettagli tecnici e la corrispondenza con la Bce. L’immagine che ognuno di noi ha dell’Italia è di un paese in cui “non ci sono soldi” e la spiegazione che ci viene fornita è che i governi da decenni spendono di più di quello che incassano, per cui l’accumulo dei deficit pubblici cronici ha creato un enorme debito rendendo necessaria l’austerità.In realtà, la causa dell’elevato debito pubblico, attualmente di 2.100 miliardi, sta nel fatto che negli ultimi trenta anni lo Stato italiano ha pagato più di 3.000 miliardi di interessi. La soluzione del problema è quindi ridurre il costo degli interessi sul debito ad un livello pari o inferiore all’inflazione, come accade in Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Cina o come si faceva anche in Italia fino al 1981. Il problema del debito pubblico non è, quindi, un problema di deficit eccessivi, ma di interessi eccessivi: ce lo dicono i dati. Basta notare che dal 1992-1993 le spese delle Stato in Italia sono sempre inferiori alle entrate e addirittura, se guardiamo alla situazione attuale nel mondo, l’Italia è oggi il paese in cui lo Stato ha il surplus di bilancio più alto! Il debito pubblico italiano è esploso di colpo tra il 1982 al 1993, quando la spesa per interessi passò da 35 a 156 miliardi (traslando le lire di allora in euro di oggi). Si può quindi sostenere che, a parità (presumibilmente) di sprechi e corruzione, il debito pubblico è raddoppiato in percentuale del Pil a causa della spesa per interessi.I deficit annui (differenza tra spese ed entrate) hanno oscillato intorno ad una media di 40 miliardi annui e in percentuale del Pil hanno oscillato dal 3% al 7%, ma la spesa per interessi è raddoppiata in quattro anni, dai 35 miliardi del 1980 ai 69,8 miliardi del 1984 e di nuovo è raddoppiata a 142 miliardi nel 1991 per toccare un picco a 157 miliardi nel 1992. Dal 1992 lo Stato italiano ha applicato politiche di austerità, cioè di aumento delle tasse, aumentando le sue entrate in modo da avere sempre un avanzo di bilancio (differenza tra spese ed entrate prima degli interessi). Nonostante più di venti anni di politiche di austerità, cioè di imposizione fiscale crescente iniziate con i governi Ciampi e Dini nei primi anni ’90, lo Stato non è poi più riuscito a ridurre il debito pubblico a causa della “rincorsa” degli interessi che si cumulavano. La ragione di questa esplosione di spesa per interessi è che nel 1981 è caduto l’obbligo della Banca d’Italia di comprare debito pubblico calmierandone gli interessi (e dal 1989 si è vietato formalmente, nel Trattato di Maastricht ogni finanziamento dello Stato da parte della sua banca centrale).La “Troika” (Ue, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario) e i governi Monti, Letta e ora Renzi, non menzionano mai, però, questo semplice fatto, che il debito pubblico si è cumulato a causa del fatto che lo Stato è stato costretto a finanziarsi sul mercato e quindi pagare interessi reali elevati, mentre prima usufruiva del finanziamento di Banca d’Italia che ne riduceva il costo ad un livello pari o inferiori all’inflazione e quindi il debito non si accumulava (in percentuale sul Pil). In aggiunta, come molti sanno, con l’euro circa metà dei Btp sono stati comprati da investitori esteri, per cui almeno metà degli interessi pagati sono usciti dalla nostra economia (a differenza di quanto avveniva fino a metà anni ’90). Detto in parole semplici, lo Stato italiano è stato obbligato a farsi prestare denaro a costi di interessi dettati dalle banche estere (diciamo dal mercato finanziario estero), quando invece avrebbe potuto continuare a farsi finanziare a costo zero dalla Banca d’Italia. Se quindi eliminiamo questo laccio finanziario che costringe all’austerità permanente, l’Italia potrebbe ridurre le tasse in modo sostanziale e tornare ad essere un paese con un’economia paragonabile agli altri paesi europei e non un caso quasi disperato di depressione economica come accade ora.La soluzione. Lo Stato italiano può invertire questo meccanismo e da subito. In apparenza non sembra possibile farlo senza uscire dall’euro e rompere i trattati europei perché l’Unione Europea ha vietato alla Banca Centrale Europea di finanziare l’acquisto diretto di titoli di Stato e l’unica azione che la Bce può fare è quella di creare denaro per prestarlo alle banche. E’ vero che la Bce ha anche comprato nel 2011-2012 titoli di Stato di paesi in difficoltà, ma come misura di emergenza e in misura molto limitata perché appunto è vincolata dai trattati europei (a differenza delle banche centrali dei paesi anglosassoni e asiatici). La Bce da quando è iniziata la crisi finanziaria nel 2008 ha però creato (“dal niente” e senza costi) circa 2,800 miliardi di euro e ha di recente fornito alle banche più di 1.000 miliardi ad un costo vicino a zero, usati da queste per comprare titoli di Stato a lunga durata come i Btp. In pratica le banche italiane hanno ricevuto prestiti ad un costo inferiore allo 0,5% con cui hanno comprato Btp che rendevano più del 4%.E’ evidente che se lo Stato potesse prendere a prestito dalla Bce lo stesso denaro che ha fornito alle banche a questo tasso, risparmierebbe decine di miliardi e del famoso “spread” non si sentirebbe più parlare, ma come sappiamo questa strada sembra sbarrata, oltre che dall’opposizione dei quattro paesi nordici, dai trattati europei che l’Italia ha firmato. In realtà il comma 2 dello stesso articolo 123 offre una scappatoia agli Stati dell’Eurozona, perché prevede che gli enti creditizi di proprietà pubblica possano anche loro ricevere finanziamenti dalla Bce. E poi niente impedisce che girino questi soldi allo Stato. Uno stato della Ue che controlli enti creditizi potrebbe farsi finanziare da loro i deficit, pagando un interesse vicino a quello che la Bce offre, cioè vicino allo zero e comunque non superiore all’inflazione. L’ideale sarebbe non continuare ad emettere Btp, ma utilizzare prestiti diretti, ad esempio a tre anni, che rispetto all’acquisto di Btp offrono il vantaggio che il loro valore a bilancio non oscilla di anno in anno a causa di andamenti di mercato e quindi elimina il problema degli attacchi speculativi sul Btp.Su un debito pubblico italiano attuale di circa 2.000 miliardi questo significa arrivare a pagare interessi per ad esempio 10-20 miliardi annui invece che gli oltre 80 miliardi attuali. Anche se occorre del tempo perchè man mano il debito a scadenza venga rifinanziato con prestiti diretti di banche pubbliche, in pratica l’effetto di “calmiere” sul mercato lo sentiresti da subito, perché il mercato finanziario si renderebbe conto che lo Stato italiano ha di nuovo accesso diretto alla liquidità. In pratica avresti un effetto calmieratore sul costo del debito simile a quello che ottengono in Giappone, Gran Bretagna, Stati Uniti con l’accesso diretto alla liquidità della loro banca centrale. La sostanza è che se il debito pubblico venisse man mano rifinanziato tramite prestiti diretti di banche pubbliche (che hanno accesso al finanziamento della Bce), il suo costo non verrebbe più determinato dal mercato finanziario. Si tornerebbe cioè alla situazione pre-1981, quando il costo del debito pubblico non era un problema perché era costantemente pari o inferiore all’inflazione.Va sottolineato che non ci sarebbe alcun rischio per le banche pubbliche, perché lo Stato italiano, al netto degli interessi, è un ottimo “pagatore”. Infatti lo Stato italiano sarebbe in attivo negli ultimi 20 anni di 500 miliardi di euro (sempre al netto degli interessi). E’ chiaro che è un ottimo cliente per qualsiasi banca e un banca pubblica può prestare senza fini di lucro, ad un costo che copra le sue spese amministrative. Senza contare che prestare allo Stato non è considerato nei regolamenti bancari europei un rischio che richiede di accantonare capitale e di conseguenza è possibile per le banche prestare 500 o 1.000 miliardi senza dover aumentare di un euro il loro capitale (cosa dimostrata dal programma di Draghi chiamato “Ltro” lanciato a fine 2012, in cui appunto le banche hanno comprato centinaia di miliardi di Btp senza accantonare alcun capitale addizionale).Esiste quindi la strada per lo Stato italiano per arrivare a risparmiare anche 70 miliardi di euro di interessi all’anno. Abbiamo voluto verificare questa possibilità, (applicata in Germania e Francia tramite due enti pubblici, rispettivamente Kfw e Bpi), contattando gli uffici dell’Unione Europea circa la fattibilità dell’utilizzo di banche pubbliche per finanziare lo Stato. La risposta ricevuta per email (a nome della Bce) è stata affermativa: «Il divieto di scoperto bancario e di altre forme di facilitazione creditizia in favore dei governi non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca Centrale Europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati». Inoltre, in riferimento a banche pubbliche: «Gli istituti di credito possono liberamente prestare i soldi ai governi o comprare i loro titoli di Stato, nonché prestare soldi a qualsiasi cliente».E’ quindi possibile per lo Stato italiano nazionalizzare una banca, la quale acceda alla liquidità della Bce e finanzi il suo debito ad un tasso di interesse appena superiore a quello applicato dalla Bce stessa e in ogni caso sempre molto inferiore a quello di mercato, che va ricordato è attualmente superiore del 3% all’inflazione. Stiamo parlando qui di come “trovare” non due o tre miliardi con l’Imu o qualche privatizzazione o risparmiando sulla sanità, le scuole, le infrastrutture, ma risparmiando sugli interessi, sulla rendita che da decenni lo Stato italiano paga a investitori esteri, banche e anche a investitori italiani. Si tratta alla fine di scegliere tra rendita finanziaria o lavoro e imprese. La rendita finanziaria ha incassato in trenta anni dallo Stato, lo ricordiamo ancora, più di 3.000 miliardi di euro di interessi, mentre le imprese e i lavoratori italiani venivano schiacciati da una tassazione soffocante, giustificata con il peso del debito pubblico di 2.000 miliardi, creato dall’accumularsi di questi interessi.Gli italiani devono rendersi conto che non è vero che “non si può fare niente” contro il peso del debito pubblico e delle tasse a causa dei trattati firmati e delle posizioni degli altri governi all’interno delle istituzioni europee. In realtà, un governo italiano competente e che abbia a cuore gli interessi degli italiani invece che del “mercato finanziario” può muoversi anche all’interno dei trattati europei. Il nostro, oltre che un articolo, è anche un appello ai cittadini italiani che trovino convincenti i fatti che abbiamo esposto e diffondano, ovunque possano, questa soluzione pratica al problema del debito, allo scopo di mettere la parola fine alle politiche di austerità che stanno soffocando l’economia italiana.(Giovanni Zibordi e Claudio Bertoni, sintesi dell’intervento “Il debito pubblico è un problema di interessi, non di deficit eccessivi e si può risolvere”, ripreso dal blog di Marco Della Luna. L’intervento integrale include il carteggio intercorso con l’Unione Europea e la Bce. Analista finanziario, Giovanni Zibordi gestisce uno dei siti finanziari più noti in Italia, www.cobraf.com; Claudio Bertoni proviene dall’imprenditoria del settore equo-solidale).Possiamo far ripartire l’economia risparmiando fino a 70 miliardi di euro l’anno. La soluzione è scritta nell’articolo 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. Il governo può creare una banca di proprietà statale che lo finanzi. Il sistema è semplice: la Bce crea il denaro e lo presta alla banca pubblica allo 0,25% e la banca pubblica lo presta allo Stato a tassi di interesse nettamente inferiori all’attuale 4%. Lo abbiamo chiesto all’Unione Europea e il 14 gennaio 2014 abbiamo ricevuto la risposta. Si può fare. Ecco i dettagli tecnici e la corrispondenza con la Bce. L’immagine che ognuno di noi ha dell’Italia è di un paese in cui “non ci sono soldi” e la spiegazione che ci viene fornita è che i governi da decenni spendono di più di quello che incassano, per cui l’accumulo dei deficit pubblici cronici ha creato un enorme debito rendendo necessaria l’austerità.
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Senza moneta siamo in agonia? Toseranno i risparmi
Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».Non a caso, aggiunge Bottarelli su “Il Sussidiario”, il comunicato con cui Palazzo Chigi ha tentato di tamponare l’incidente diplomatico alla vigilia del voto di fiducia è la classica toppa peggio del buco: si dice infatti sì che l’intenzione non è quella di imporre nuove tasse bensì di abbassare quelle attuali, ma si parla anche di rimodulazione delle aliquote per finanziare l’abbattimento del cuneo fiscale. Quindi, non si esclude affatto che quel 12,5% possa diventare 15%. O magari 20%. Tanto, come ha detto Delrio, la vecchietta con i suoi Bot non starà male per questo. Tanto più che servirà a qualcosa di importante, ovvero l’abbattimento del costo del lavoro per aiutare i giovani a essere assunti e gli imprenditori ad assumere. «Un bel ricatto morale, fatto alla perfezione. Ce lo chiede l’Europa, mancava nel comunicato. Ma non tarderà a saltare fuori questa formula».Questo, insiste Bottarelli, è il governo dei curatori fallimentari, in missione per conto della Commissione Europea. Lo si capisce benissimo fin dalle prime battute, «al netto del nulla cosmico in cui si è sostanziato il discorso di Matteo Renzi al Senato, tra bambini che meritano scuole sicure e investimenti esteri mischiati insieme come in un frullato zuccheroso di buone intenzioni senza nemmeno una cifra o un provvedimento concreto». Per capire l’aria che tira, continua l’analista del “Sussidiario”, basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo all’estero. Nel silenzio più assoluto, il governo austriaco ha appena reso noto che i detentori di bond di Hypo-Alde-Adria-Bank, nazionalizzata nel 2009, potrebbero non vedersi ripagato il capitale: questo avviene in Austria, non a Cipro o in Grecia.La decisione del governo toccherà solo i bond con garanzia della provincia della Carinzia, mentre quelli con garanzia federale pagheranno secondo le regole. Ma un nuovo modello, dopo quello cipriota del bail-in, sembra giunto in Europa a mostrare la via. «Ora, se il governo di un paese sano come l’Austria arriva a questo nei riguardi di un istituto nazionalizzato, a cosa potrà arrivare quello italiano, paese dove le banche hanno oltre il 12% di sofferenze sul totale dei prestiti e Monte dei Paschi dovrà essere nazionalizzata entro la fine dell’anno?». D’altronde, il governo Renzi «ha una genealogia lunga e tutta compresa nel documento segreto redatto dalla Commissione Europea, che la Reueters ha intercettato e letto». Eccone il punto fondamentale: «I risparmi dei 500 milioni di cittadini dell’Unione Europea saranno usati per finanziare investimenti a lungo termine per stimolare l’economia e contribuire a riempire il vuoto lasciato dalle banche dall’inizio della crisi finanziaria».Ufficialmente, la Commissione vuole “svezzare” le economie dei 28 paesi sudditi «dalla loro pesante dipendenza dai prestiti bancari, e trovare altri mezzi di finanziare le piccole imprese, i progetti infrastrutturali e altri investimenti». Tutto questo, in una situazione in cui – in previsione dell’unione bancaria – le banche temono gli stress test «che, se venissero condotti in maniera seria, vedrebbero una serie di bocciature capace gli spedire gli spread reali sulla luna». C’è poi la ricetta di Davide Serra, il guru finanziario di Renzi. Secondo Serra, «il primo problema è il debito sbilanciato: troppo debito pubblico, poco privato e poco delle aziende. Questo blocca la crescita». Serra, inoltre, propone anche l’abolizione del contante e il ricalcolo di tutte le pensioni, oggi modulate col sistema retributivo, per rimetterle al magrissimo sistema contributivo: «Il tutto – conclude Bottarelli – per dare i soldi in surplus ricavati alle imprese, sgravando le banche dal loro compito. In qualche modo, una redistribuzione forzosa dai vecchi ai giovani: tu chiamala, se vuoi, rottamazione».Da quando hanno preso i soldi dalla aste Ltro della Bce, le banche «stanno comprando debito pubblico come se non ci fosse un domani». Chiedere agli istituti di credito di finanziarie anche le imprese? «E’ troppo. Ci pensino i cittadini-contribuenti: attraverso le pensioni, la tassazione sui Bot, i tagli sulle detenzioni obbligazionarie e magari domani un bel prelievo forzoso sui conti correnti, come suggerito poco tempo fa dal Fmi». Certo, aggiunge l’analista, l’aver tenuto in piedi l’euro come moneta, agendo sul debito sovrano, ha comportato un prezzo alto da pagare, e non solo per la banche: si è fatto grippare del tutto il motore di creazione di credito in Europa. Il quale oggi è creato dalle banche, che lo fanno indebitandoci: così, la massa monetaria s’è ridotta all’1,5% annuo, ben sotto al target del 4,5% a cui fa riferimento la stessa Bce per mantenere l’inflazione al 2%, come detta il suo mandato.C’è però un problemino, reso noto da Eurostat: inflazione stabile a gennaio per l’Eurozona. Ovvero: la deflazione è dietro l’angolo. «Se non aumenta la massa monetaria, non sale l’inflazione: e Draghi non solo non è stato in grado di mantenere il suo target del 4,5% ma lo ha dimezzato, facendo scendere il tasso inflattivo sotto la metà dell’obiettivo prefissato del 2%». Avverte Bottarelli: «In queste condizioni, l’Italia muore. E i soldi vanno presi dove ci sono, ovvero nel risparmio dei cittadini, visto che le banche non prestano ad aziende non finanziarie, come mostra questo grafico. Preparatevi alla grande tosatura, cari lettori, il governo dei curatori fallimentari è qui per questo. E Delrio non è affatto lo sprovveduto che vogliono dipingere: ha tastato il polso, su mandato. Ora basterà uno scossone, un’emergenza a livello europeo, uno spavento sullo spread e tutto sarà possibile. Perché ce lo chiede l’Europa e lo farà con la faccia giovane, fresca e rassicurante di Matteo».Non fate l’errore, cari lettori, di credere davvero che quella di Graziano Delrio sia stata la classica scivolata su una buccia di banana frutto dell’inesperienza. Non è così. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio è tutto tranne che un politico inesperto: è furbo, preparato, e naviga a vari livelli nei marosi della politica attiva da qualche decennio. Se parla, sa cosa dice. E quando ha parlato di aumentare la tassazione sui Bot dall’attuale 12,5% – sottolinea Mauro Bottarelli – non ha dato fiato a una voce dal sen sfuggita: ha testato la piazza, su preciso mandato. «È come nel rugby: la prima mischia ordinata della partita serve a testare la consistenza del pacchetto avversario. Chi vince la prima, impone le regole tutta la partita. Magari non fisicamente, ma sicuramente psicologicamente».
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Occhetto: rottamata la sinistra, nel Pd vince il potere
«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.Eppure, nonostante il granitico impianto ideologico di Letta, Renzi e Napolitano – tagli allo Stato, privatizzazioni necessarie, “sacrifici” sociali inevitabili (secondo i dettami del pensiero unico dell’élite) per Occhetto evidentemente il Pd non è affatto liberista, è ancora “di sinistra”. Intervistato da “Il Giorno” a fine novembre 2013, l’ex segretario rievoca la sua “svolta” che aprì la strada alla Seconda Repubblica del bipolarismo berlusconiano. «La mia era una scommessa storica: coniugare la libertà a una politica radicalmente alternativa al modello neoliberista», dice Occhetto. «La domanda è ancora oggi senza risposta: è possibile abbracciare la libertà senza andare a destra?». Grigio lo spettacolo offerto dai dirigenti Pd: «Sembrano zombie che si muovono nel vuoto senza sapere dove andare. Non si può costruire il nuovo unendo il peggio del Pci e il peggio della Dc». Tra loro, «ha vinto chi ha interpretato la svolta come l’ingresso nel salotto buono del potere per il potere, del governo per il governo».Manca un passaggio, fondamentale: il livello governativo nazionale – cui Occhetto fa riferimento – è ormai un dettaglio trascurabile. La politica di bilancio è subordinata alle indicazioni vincolanti dei decisori veri, quelli di Bruxelles, che rispondono a Draghi e alla Merkel, oltre che ai “mercati”, ormai padroni di quel che resta dello Stato. Occhetto preferisce limitarsi a denunciare le larghe intese, «una soluzione emergenziale che produce altra emergenza», e puntare il dito contro i difetti del Pd: «E’ afflitto dal male oscuro delle consorterie». Via d’uscita? «Raccogliere il meglio della tradizione della sinistra, a partire dal valore dell’uguaglianza declinato non più in chiave di giustizia sociale ma come tema di economia politica». A Renzi, Occhetto chiede «di andare avanti con la rottamazione, perché la politica smetta di essere il ripostiglio degli ex, ma di non limitarsi alla rottamazione dei nomi: serve anche una rottamazione delle idee, una nuova costituente delle idee, delle primarie sulle idee».«Berlusconi è finito, il berlusconismo non ancora». Larghe intese? «Difficile trovare accordi con la componente filogovernativa del vecchio Pdl: è vero che non sono più berlusconiani, ma continuano a essere liberisti». Così la pensa Achille Occhetto, un quarto di secolo dopo la “svolta della Bolognina” che segnò la fine del vecchio Pci, caduto il Muro di Berlino. Riflettori italiani, allora, tutti puntati su Craxi e Mani Pulite, mentre a Bruxelles le tecnocrazie europee – compresi elementi dell’aristocrazia italiana del futuro centrosinistra – agli ordini dell’élite finanziaria mettevano a punto il dispositivo egemonico sintetizzato dal Trattato di Maastricht, quello che avrebbe ridotto mezza Europa in frantumi (e l’Italia in mutande) con l’adozione dell’euro e la conseguente dottrina del rigore. Dettaglio: il centrosinistra è l’unico, tuttora, a difendere l’euro-disciplina ultraliberista.
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Meno e meglio: oggi sprechiamo metà del nostro cibo
Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’uniformativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.In Spagna, sottolinea Guzmàn in un post su “Rebeliòn” ripreso da “Come Don Chisciotte”, ogni anno finiscono nella spazzatura 2,9 milioni di tonnellate di alimenti, in un paese dove secondo la Caritas ci sono 9 milioni di persone ridotte in povertà, con meno di 6.000 euro all’anno. Nel 2012, il Parlamento Europeo ha sollecitato gli Stati membri a impegnarsi a dimezzare gli sprechi entro il 2050. Sempre in Spagna, il ministero dell’agricoltura ha chiesto alla grande distribuzione di ridurre gli sperperi alimentari. In realtà, sostiene Guzmàn, si tratta di campagne che mirano a «nascondere deliberatamente le responsabilità dell’attuale industria agroalimentare», a cominciare dalla reale quantità – tenuta nascosta – dei rifiuti alimentari prodotti. Tesi: «Provano a farci credere che l’attuale spreco alimentare non è una conseguenza del modello agroalimentare imposto negli ultimi anni dalle grandi aziende». Sprechi osceni, a livello globale? Sì, ma secondo loro la colpa è nostra, dei consumatori “spreconi”: compriamo troppe merci, non sappiamo utilizzare al meglio i prodotti, trascuriamo le date di scadenza. Siamo stupidi, compulsivi e irresponsabili.«Scegli i tuoi prodotti secondo le necessità della tua casa», raccomanda la campagna del ministero spagnolo dell’agricoltura. «Prima di programmare un acquisto controlla lo stato degli alimenti che hai in casa, soprattutto i prodotti freschi o con data di scadenza. E pianifica il menù giornaliero o settimanale tenendo conto del numero di persone che mangiano». Ma le grandi aziende agroalimentari e i governi non hanno nessuna colpa? «Se mettiamo a fuoco le industrie e le loro strategie – osserva Guzmàn – cominceremo a vedere i contorni di una responsabilità immensamente superiore». Primo fronte, le quantità di merci immesse: l’Europarlamento insiste sul fatto che gli “agenti della catena alimentare” sono i primi responsabili. L’industria apporta il 39% dei rifiuti, mentre ristoranti, catering e supermercati contribuiscono ad appesantire il sistema ecologico per un altro 20%. Naturalmente, «imprese, governi e lobby alimentari danno per inevitabili queste percentuali». L’industria è responsabile anche nel consumo finale, visto che la maggior parte dei rifiuti domestici sono dovuti gli imballaggi. In Spagna, l’80% degli acquisti alimentari è effettuato all’ipermercato (infatti i piccoli negozi, che prima del 2000 erano ancora 95.000, in pochi anni si sono ridotti a 25.000).Inoltre, con la scusa di “migliorare l’efficienza del processo”, le industrie «integrano le “banche alimentari” nella catena agroalimentare», e così «prendono due piccioni con una fava», perché «migliorano l’immagine aziendale e riducono i costi del trattamento dei rifiuti». Una strategia che, alla fine, «rende cronico un intervento assistenziale che di norma sarebbe d’emergenza temporanea» come il “last minute market” dei prodotti vicini alla scadenza, «facendolo invece diventare parte integrante della “catena”», tra l’altro «dimenticando che questi interventi generano stigmatizzazioni sociali e molte volte l’offerta alimentare non è poi adeguata, con mancanza di alimenti freschi, con alimenti trasformati, poveri di nutrimento e sproporzionati a livello di energie, grassi saturi e carboidrati, favorendo così malattie cardiovascolari e diabete». Tuttavia, continua Guzmàn, queste campagne «vengono spacciate come punti di forza», sia dalla Ue che dalla Fao, come fossero davvero utili per ridurre i rifiuti alimentari e promuovere agricoltura territoriale piccoli negozi locali. Le filiere corte evitano dispersioni sia nella produzione, non soggetta ai canoni standard dell’agroindustria, sia nella distribuzione, perché il prodotto locale «non necessita di una grande catena del freddo e di trasporto per arrivare al consumatore finale».Inoltre, la vendita diretta «migliora l’incontro tra offerta e domanda, consumando esattamente ciò di cui necessitiamo». Così, si creano «prezzi equi per i produttori, posti di lavoro e indotto, dinamizzazione del territorio e rivalorizzazione del mondo rurale, incremento generale della qualità nutritiva degli alimenti». E’ la strada che sta battendo la Francia, fino a ieri “regina” europea della grande distribuzione. Il governo di Parigi, ricorda Guzmàn, si sta impegnando anche a livello legislativo per favorire l’economia a chilometri zero: incentivi per la produzione e la trasformazione locale, adeguamento delle norme igienico-sanitarie alle caratteristiche della piccola produzione e iniziative di sostegno diretto come l’acquisto di alimenti per scuole, ospedali e università, presso agricoltori e allevatori locali, «convertendo lo sviluppo dell’agricoltura locale in uno dei pilastri centrali della strategia contro gli sprechi». La Spagna resta lontana. Solo il 3% degli agricoltori iberici ha accesso alla vendita diretta, contro il 20% dei colleghi francesi. Volendo, conclude Guzmàn, basterebbe imitare la Francia per rilanciare l’economia virtuosa dei territori, abbattendo così anche il costo dei rifiuti agroalimentari.Le grandi aziende tramutano lo sperpero alimentare nel nuovo “trending topic” del marketing sociale aziendale. «Gli attuali dati sugli sprechi alimentari sono uno scandalo etico e morale», accusa Javier Guzmàn, direttore del centro Vsf che si occupa di “giustizia alimentare globale”. In Europa, si perdono o sperperano tra il 30% e il 50% degli alimenti sani e ancora commestibili lungo tutti gli anelli della catena agroalimentare, fino ad arrivare al consumatore finale. Le quantità alimentari che annualmente si sprecano nei 27 stati membri sono 89 milioni di tonnellate, ossia 179 chili per abitante. E senza contare quelle di origine agricola, generate nei processi di produzione, né gli scarti del pescato rigettato a mare. In un’informativa sui rifiuti alimentari, la stessa Fao segnala che nel 2007 la terra coltivata per generare sprechi era di 1,4 miliardi di ettari, il 28% della superficie coltivabile a livello mondiale, proprio mentre sta crescendo la pressione su queste risorse a fini non alimentari, cioè per speculazioni finanziarie o per produrre agrocombustibili.