Archivio del Tag ‘embargo’
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Piano Manhattan: banche, guerra segreta contro Putin
«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.Juan Zarate, il “cervello” del Tesoro che ha contribuito a ridisegnare la politica della Casa Bianca dopo l’11 Settembre, la definisce «un nuovo tipo di guerra, una specie di insurrezione finanziaria strisciante, con l’intento di incidere senza precedenti sulla linfa vitale finanziaria dei nostri nemici». Una strategia «più efficiente e sottile di qualsiasi altro confronto geopolitico del passato, ma non meno spietato e distruttivo», scrive nel suo libro “La guerra del Tesoro: lo scatenamento di una nuova era di guerra finanziaria”. Obiettivo: stringere il cappio intorno al collo della Russia di Vladimir Putin, chiudendo lentamente l’accesso al mercato per banche, le aziende gli enti statali russi, scrive Evans-Pritchard in un intervento sul “Telegraph” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’arma invisibile è una disposizione contenuta nel Patriot Act: se una banca si macchia di mancato rispetto delle norme previste – se viene accusata di riciclaggio di denaro o di sovvenzionare attività terroristiche o reati collaterali – diventa “radioattiva” e viene catturata nell’abbraccio mortale di Wall Street. Il suo valore crolla e gli azionisti fuggono.«Questa può essere una condanna a morte, anche se il creditore non svolge nessuna operazione negli Stati Uniti», annota Evans-Pritchard. «Le banche europee non hanno il coraggio di sfidare le autorità di regolamentazione Usa e rompono tutti i loro rapporti con la vittima». Così, finora, hanno fatto anche i cinesi: nel 2005 gli Usa colpirono il Banco Delta Asia (Bda) di Macao, accusandolo di essere stato un canale di pirateria commerciale verso la Corea del Nord. La Cina staccò la spina e il Bda fallì entro due settimane. Zarate, lo stratega della guerra finanziaria contro Mosca, sostiene che gli Usa potrebbero procedere anche da soli con le sanzioni, senza neppure attendere gli alleati europei. Il nuovo arsenale, continua Evans-Pritchard, è stato schierato contro l’Ucraina già nel 2002, quando gli Usa accusarono le banche di Kiev di riciclare i fondi della mafia russa, facendole capitolare.«Si sta facendo una guerra segreta su scala globale di lungo termine», conferma Zarate. EPutin sa esattamente che cosa possono fare gli Usa con le loro armi finanziarie. Secondo Zarate, la Casa Bianca di Obama ha aspettato anche troppo a lungo per fare sul serio, aggrappandosi alla speranza che Putin avrebbe smesso presto di infrangere le regole. Non sono bastati gli “avvertimenti” inviati alle banche russe che sostenevano il regime siriano. Per lo stratega di Washington, gli americani ora «dovrebbero togliersi i guanti: più aspettano, più dovranno muoversi pesantemente». Sempre secondo Zarate, potrebbe essere già troppo tardi per mantenere il controllo dell’Ucraina orientale, ma non troppo tardi per far pagare ai russi un prezzo molto caro. «Se il Tesoro degli Stati Uniti affermasse che tre banche russe sono coinvolte in preoccupanti operazioni di riciclaggio – dice – siamo sicuri che Ubs o Standard Chartered non ci rimetterebbero niente?».Questo potrebbe far emettere sanzioni progressive alle imprese della difesa russa e alle esportazioni di minerali e di energia: basterebbe una stretta su Gazprom, per far crollare tutto il sistema. Per Evans-Pritchard, invece, è meglio che alla Casa Bianca non si facciano illusioni: la Russia ha 470 miliardi di dollari di riserve estere, con le quali la banca centrale combatte la fuga dei capitali e difende il rublo. Il professor Harold James, di Princeton, ricorda la vigilia della Prima Guerra Mondiale: Gran Bretagna e Francia pensavanodi scatenare una guerra finanziaria per controllare la potenza tedesca. Ma attenzione: rompere gli equilibri che sostengono la finanza mondiale significa che niente potrà più contenerla. Le sanzioni? Rischiano solo di innescare reazioni a catena simili allo shock del 2008. «Lehman era solo un piccolo istituto, se lo dovessimo confrontare con le banche austriache, francesi e tedesche che sono oggi altamente esposte al sistema finanziario della Russia. Un congelamento dei beni russi – scrive James “Project Syndicate” – potrebbe essere catastrofico per i mercati finanziari europei, anzi per i mercati globali».Secondo Evans-Pritchard, è molto serio il rischio di una «replica asimmetrica» dal Cremlino: «Gli esperti russi di guerrra cibernetica sono tra i migliori, e fecero un giro di prova sull’Estonia nel 2007. Un fermo cibernetico di un sistema idrico dell’Illinois nel 2011 è stato attribuito a fonti russe. Non sappiamo se la Us Homeland Security possa essere in grado di contrastare un attacco in piena regola che preveda un blocco dei servizi alle reti elettriche, ai sistemi idrici, al controllo del traffico aereo o peggio ancora al New York Stock Exchange, o a Washington stessa». Se scoppiasse una guerra cibernetica oggi, «gli Stati Uniti perderebbero: siamo semplicemente un paese molto dipendente e vulnerabile», disse nel 2010 il capo del servizio di spionaggio Usa, Mike McConnell. E nel 2012 il segretario alla difesa Leon Panetta lanciò l’allerta per un possibile cyber-attack tipo Pearl-Harbour, capace di paralizzare tutti i sistemi di logistica e di erogazione dei servizi vitali.«Potrebbero bloccare la rete elettrica di vaste zone del paese, potrebbero far deragliare treni passeggeri o, ancor più pericolosamente, far deragliare treni carichi di sostanze chimiche letali», o addittura «contaminare la fornitura d’acqua nelle grandi città». Solo una boutade esagerata, quella di Panetta, magari per chiedere più fondi al Congresso? Evans-Pritchard resta prudente: non è saggio provocare la Russia in modo tanto grave e pericoloso. «Le sanzioni sono vecchie come il mondo, così come le lezioni salutari», conclude il notista del “Telegraph”, ricorrendo all’insegnamento dell’antica Grecia. «Pericle cercò di spaventare la città-stato di Megara nel 432 a.C. bloccando tutti i suoi commerci con i mercati dell’impero ateniese e cominciarono così le guerre del Pelopenneso che portarono la fanteria oplita di Sparta ad abbattersi su Atene e distruggere tutto. Il sistema economico della Grecia cadde in rovina e in balia della Persia. Quello fu un assaggio di asimmetria».«Questa non è un’altra guerra fredda: non c’è nessun plausibile equilibrio tra Russia e Occidente, e nessuna ideologia mistica da contrapporre». Quella in atto contro Mosca è una guerra economica, che gli Usa stanno preparando da 12 anni. Si chiama “Progetto Manhattan”, messo a punto da un dipartimento d’élite del Tesoro: una «bomba finanziaria al neutrone», progettata per «mettere la Russia in ginocchio senza sparare un colpo». La strategia si basa sul controllo egemonico del sistema bancario globale: si tratta di colpire le banche russe, con la collaborazione – convinta o riluttante – di tutti gli alleati degli Usa. «La resa dei conti per la finanza degli Stati Uniti con la Russia è più pericolosa di quello che sembra», avverte Ambrose Evans-Pritchard: la Russia è il più grande produttore mondiale di energia, ha un fatturato da duemila miliardi di dollari, dispone di eccellenti scienziati e mantiene in efficienza un arsenale nucleare di prim’ordine.
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Gas: è scoppiata la Terza Guerra (mondiale) dell’energia
Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.Una precipitazione di eventi assai insolita, che profila tendenze di medio periodo suscettibili di mutare l’assetto strategico mondiale dell’energia. E ovviamente non dobbiamo stare a spendere parole sulla centralità dell’energia, sia dal punto di vista economico che politico, nell’ordine mondiale. A partire dagli anni novanta, si era determinato un quadro che possiamo descrivere come segue. Con la comparsa delle ingenti masse di gas russo, si produceva una accentuata diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico (ancora molto petrolio, ma anche gas, nucleare, carbone, etanolo da biomasse e fonti alternative) e, di conseguenza, delle tecnologie necessarie al trattamento delle varie fonti. La differenziazione di fonti e tecnologie induceva i vari paesi ad adottare diversi mix energetici, per così dire “personalizzati”, in base alle esigenze di ciascuno. E questo, a sua volta, dava luogo ad un accentuato policentrismo sia dei produttori che dei consumatori, assicurando un regime di relativa abbondanza energetica a basso costo.Questo accentuato policentrismo energetico, insieme all’affermarsi più rapido del previsto di nuove potenze economiche emergenti, determinava un più generale policentrismo dell’ordine mondiale. Un aspetto particolarmente importante di questa nuova situazione è stato rappresentato dal gas, rapidamente affermatosi fra le primissime fonti in ordine di importanza. Come si sa, esso è difficilmente trasportabile via mare (per i costi di liquefazione e poi rigasificazione del prodotto) e prevalentemente è distribuito attraverso gasdotti che hanno elevati costi di costruzione, per cui si privilegia lo scambio fra paesi limitrofi o, comunque, non eccessivamente distanti. Anche per questo motivo si è formato un mercato separato del gas che, cosa importante, non è necessariamente venduto in dollari ma in monete diverse. E questo è uno dei motivi della rapida ripresa russa dal 1998 in poi.In questo quadro, la diversificazione energetica ha avuto oggettivamente un ruolo di contrappeso al progetto di ordine mondiale monopolare degli Usa, alimentando le tendenze centrifughe verso un ordine policentrico. Le stesse guerre mediorientali degli Usa erano il tentativo di affermare il proprio progetto egemonico guadagnando una posizione di controllo della più importante area petrolifera mondiale. Ma, come è noto, le cose sono andate in modo diverso dal previsto e le tendenze dal policentrismo se ne sono rafforzate, garantendo il ritorno della Russia fra i grandi protagonisti della scena mondiale, insieme a Usa e Cina. Questo quadro ha subito una prima destabilizzazione fra il 2006-2010: in un primo momento si era temuto un rapido avvicinarsi del pick oil a causa dei forti consumi cinesi (quel che aveva fatti impazzire il prezzo del petrolio salito sino a 170 dollari al barile), ma dopo, per effetto della crisi bancaria del 2007-8 e delle prospettive offerte dal petrolio di scisti e dallo shale gas con la tecnica del fracking, la situazione si è in gran parte normalizzata, ma scontando nel frattempo un rafforzamento del gas e, pertanto, della Russia da cui la Ue, ormai, dipendeva largamente.Di qui partiva la “guerra dei gasdotti”, complicata dall’attraversamento ucraino dei gasdotti euro-russi. L’Ucraina, oltre che onerosi diritti di passaggio, esercitava massicci prelievi aggiuntivi, che peraltro non pagava. Di qui la decisione russa di costruire gasdotti che la aggirassero: Northstream, dalla Russia alla Germania via Baltico, e South Stream dalle coste russe meridionali all’Italia. Questo progetto fu sottoscritto dall’Eni nel 2009, sotto l’aperta protezione di Berlusconi (siamo nel momento della grande amicizia con Putin con lo scambio di regali come il famoso lettone ed altro). Gli americani non presero bene la cosa, anche perché stavano cercando di realizzare un progetto concorrente, Nabucco, che avrebbe portato il gas centroasiatico sulle sponde del mediterraneo e poi, di lì, in Europa che così sarebbe stata sottratta al temuto magnete russo. La guerra dei gasdotti venne vinta, in un primo momento, dai russi, e sembrò per un attimo che Europa e Russia fossero destinate ad una fatale integrazione crescente (“Eurussia: è il nostro destino?” si chiedeva una copertina di “Limes” del 2009).Oggi questo quadro subisce un attacco frontale a seguito dei fatti ucraini e dell’annessione della Crimea da parte dei russi. Gli Usa sono stati rapidi nell’approfittare dell’ondata (peraltro largamente strumentale) di condanna dell’iniziativa russa e nello spingere la Ue in rotta di collisione con Mosca, che, a sua volta, ha reagito minacciando ritorsioni proprio sul gas. Gli americani si sono fatti avanti offrendo la sostituzione delle forniture russe. In realtà, agli americani preme la creazione di un mercato del gas regolato in dollari, così come è per tutto il resto, e la manovra americana va capita insieme alla questione del negoziato per l’area di libero scambio Usa-Ue. Ovviamente, se gli americani riuscissero nel loro intento, ai russi non resterebbe che offrire il loro gas alla Cina ed, in prospettiva, all’India. Pertanto assisteremmo alla nascita di due blocchi energetici: da un lato la tradizionale alleanza euro-americana cui corrisponderebbe, per reazione, il blocco euro-asiatico cino-russo, suscettibile di diventare cino-russo-indiano. E la competizione fra i due blocchi si sposterebbe rapidamente sull’accaparramento dei mercati mediorientali dove, abbiamo detto, la Cina è già entrata e con tutti due i piedi.Peraltro, è ragionevole aspettarsi un comportamento non omogeneo dei paesi di quell’area: realisticamente l’Iran si orienterebbe verso il blocco asiatico, mentre l’Arabia Saudita resterebbe il tradizionale alleato degli americani, ma con la fastidiosa spina irritativa del Qatar. Sull’altro fianco, l’evolvere della situazione potrebbe portare alla “normalizzazione” del Venezuela chavista. La Cina, che ha trovato spazio in Iraq (e ha la prospettiva del gas russo) potrebbe essere sempre meno generosa con il suo debitore latinoamericano e perdere interesse alle sue forniture, anche in ragione della precaria situazione politica. Viceversa, gli Usa stanno palesemente certando di compattare l’asse ispano-pacifico del continente meridionale, lungo l’asse Messico-Cile per isolare il Brasile (ed eventualmente l’Argentina); il Venezuela è dalla parte dell’Atlantico, ma sarebbe una gran bella posizione da occupare per il controllo del Sud America. Dunque, è facile prevedere che gli Usa cercheranno di approfittare dell’attuale situazione per destabilizzare il regime chavista (motivo di più per comporre subito il conflitto in atto con la piazza, cercando una via di uscita politica).Si profilano, pertanto, mutamenti geopolitici di grande rilievo, ad esempio il ritorno ad una logica di blocchi tendenzialmente bipolare. Beninteso: la globalizzazione ci ha abituato a tendenze fortemente reversibili, per cui più di un disegno è abortito strada facendo (a cominciare da quello monopolare americano) ed è possibile che anche questa volta intervengano controtendenze che scombinino in tutto i in parte il gioco iniziato. Anche perché rivedere l’assetto energetico mondiale, rifare gasdotti nuovi ed abbandonarne di vecchi non sono cose che si fanno in pochi mesi, durante i quali di cose possono succederne. Ma è anche vero che questa situazione di forte reversibilità del quadro non può durare all’infinito e, prima o poi, in modo naturale o cruento, un qualche ordine stabile finirà con affermarsi. Sicuramente una parte di questa battaglia sarà combattuta in Italia e ne vedremo i segni molto presto, con la nuova governance dell’Eni e le conseguenti decisioni su South Stream, che ormai può saltare da un momento all’altro.(Aldo Giannuli, “Si sta profilando una frattura strategica nel campo dell’energia”, dal blog di Giannuli dell’11 aprile 2014).Negli ultimi mesi si sono prodotti una serie di avvenimenti che hanno investito pesantemente il mondo dell’energia: la crisi di Crimea, che sta profilando una crisi nella vendita di gas russo alla Ue, con conseguente arresto del progetto South Stream e parallela proposta americana di forniture sostitutive; la forte penetrazione dei cinesi nel mercato mediorientale, dove sono diventati i primi acquirenti del petrolio iracheno; la destabilizzazione sociale e finanziaria del Venezuela (terzo produttore mondiale); l’inasprimento della crisi libica, dove le forniture sono sempre più a rischio; la crescente tensione fra il Qatar (detentore di fortissime riserve di gas e petrolio) e l’Arabia Saudita, che non approva l’appoggio ai Fratelli Musulmani e le pretese egemoniche quatarine sul Golfo. Il tutto mentre prosegue la guerra civile siriana e l’embargo euro-americano contro l’Iran.
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Blondet: imbecilli, applaudono l’uomo della guerra
«Italiani, siete seriamente candidati al premio Darwin. Quando una intera nazione è nel vostro stato, si piega a simili governanti, accetta l’euro (lo accettate ancora in maggioranza), stima Draghi il Rettiliano, considera Napolitano un buon vecchio nonno e si aspetta protezione da Washington e aiuti da Berlino, non appende in piazza Loreto i suoi padroni folli, è logico che finisca come i dinosauri». E’ l’invettiva con cui Maurizio Blondet, su “Effedieffe”, conclude il suo grido di allarme sui drammatici sviluppi della crisi con Mosca: Obama ci sta letterarmente trascinando verso una possibile Terza Guerra Mondiale. Lo dimostra la preoccupante escalation politico-diplomatica contro Mosca, con risvolti militari su cui il mainstream tace: con l’Ue, «nuova prigione dei popoli», l’Ucraina ha appena firmato un dossier di assistenza militare in caso di guerra, mentre ci sono anche militari italiani nel team americano che sta sorvolando, ogni settimana, lo spazio aereo russo. E tutti – tranne Berlusconi – applaudono Obama.«Quelli che decidono a vostro nome sia da Roma, sia soprattutto da Bruxelles, hanno scelto per voi», scrive Blondet, in un post ripreso da “Megachip”. Escludere Mosca dal G8 e accodarsi a Obama, che si permette di minacciare la Russia «in difesa del governicchio ucraino, frutto delle eversioni americane, ovviamente anch’esso non eletto dagli ucraini». Esplicito, l’inquilino della Casa Bianca: «Agiremo in loro difesa qualunque cosa accada: questa è la Nato». Secondo Obama, «ci sono momenti in cui l’azione militare può essere giustificata». Possibile casus belli, dopo l’Ucraina, la “difesa” dei paesi baltici: Lituania, Estonia e Lettonia hanno una popolazione paragonabile a quella di una media provincia italiana, eppure «a Bruxelles contano più di Italia e Spagna», inoltre «fanno i galletti e sfidano Mosca, si armano spendendo il 4% del loro ridicolo bilancio per gli armamenti, perché si sanno coperti dall’America». E Washington, dice Blondet, li addita ad esempio: «Voi europei grossi e molli spendete troppo poco in armi, l’1, il 2% del Pil, scrive il “Wall Street Journal”, dovete armarvi di più, spendere più dalla Lockheed».Accusa Blondet: «Ebbene: i vostri politici vi hanno impegnato a difendere i baltici. Hanno detto sì ad Obama, senza nemmeno rimproverargli le manovre eversive americane a Kiev, ampiamente provate». In pratica, i nostri politici hanno «firmato di nuovo il patto di difesa reciproca della Nato», struttura «che avremmo dovuto sciogliere già dal ‘90, quando si sciolse il Patto di Varsavia». Sicché ora, «se uno dei galletti baltici fa qualche provocazione, noi dovremo partecipare alla guerra contro la Russia, e intanto subire le conseguenze economiche dell’embargo decretato anche da noi, per ordine di Washington». Pericolosa, aggiunge Blondet, la pratica dei sorvoli dello spazio aereo russo, avviati dopo la conquista di Kiev da parte delle milizie di piazza Maidan. Gli Usa «hanno cominciato a sorvolare coi loro aerei lo spazio russo, obbligando anche noi a fare altrettanto». Lo fanno «in base al trattato internazionale Cieli Aperti, “Open Skies”, firmato a Vienna per aumentare la fiducia reciproca nel campo della minaccia nucleare».Il trattato obbliga i paesi firmatari ad aprire il loro spazio aereo a regolari ispezioni. «In buona fede, Putin ha firmato questo trattato nel 2001. La Cina invece no, e guardacaso nessuno la minaccia». Da giorni, «il sorvolo è diventato una vera passione per Washington».Blondet riferisce che il 3 marzo il sorvolo ha visto ispettori francesi a fianco degli americani, mentre l’11 marzo con gli statunitensi «si sono levati ispettori italiani», imitati il 17 marzo da “ispettori” ucraini («non si sa a che titolo») e il 24 marzo di nuovo da ispettori francesi. Un sorvolo a settimana: «Immaginate solo se Putin pretendesse di fare altrettanto nello spazio aereo americano, in questo momento di estrema tensione: tutti i nostri media, all’unisono con i loro padroni americani, strillerebbero: “Provocazione! Aggressione! Espansionismo paleo-sovietico!”». La cosa preoccupante? «E’ quel che ha detto Obama, piombato in Europa a darci ordini. Ha detto di non essere preoccupato dall’aggressione Russa come minaccia per gli Stati Uniti; ha aggiunto però che quello che lo preoccupa è “un fungo atomico sopra Manhattan”. Sapendo che a Manhattan hanno avuto lo stomaco di far saltare quei due grattacieli (l’11 Settembre, e vi siete bevuti la storia ufficiale) per giustificare l’invasione di Afghanistan ed Iraq nonché l’introduzione della tortura nel diritto di guerra statunitense e il non-riconoscimento dei nemici come combattenti legittimi».Blondet riferisce che, nel frattempo, all’Aia si è svolto uno strano vertice sulla sicurezza nucleare. Secondo il ministro degli esteri canadese, John Baird, «al momento attuale la minaccia di terrorismo nucleare resta una delle più gravi per la sicurezza mondiale». Da qui il rafforzamento del partenariato con Israele – presente Yuval Steinitz, ministro dell’intelligence di Tel Aviv – per aiutare «gli Stati del Medio Oriente e altrove a perseguire i pericolosi criminali che conducono attività nucleari illecite». Chi pensava alla solita trama paranoide sionista contro l’Iran, dice Blondet, ora dovrà ricredersi, di fronte alla sconcertante uscita di Obama, che dice di temere «un fungo atomico sopra Manhattan». Siamo sicuri che l’Ucraina abbia consegnato, a suo tempo, tutte le testate che aveva in custodia dall’Armata Rossa? La stessa Yulia Tymoshenko ha appena dichiarato di voler sterminare, con l’atomica, gli 8-10 milioni di russi che vivono nell’Est dell’Ucraina.Escalation nucleare? «Se accade, italioti, ci siete in mezzo», scrive Blondet. «Vi hanno messo in mezzo i mascalzoni di Bruxelles, vi ci ha messo quel tizio danese che si chiama Ander Fogh Rasmussen, vi ha messo in mezzo il governo Napolitano – pardon, volevo dire il governo Renzi». E per cosa? «Per salvare “la democrazia” in Ucraina», un paese che vuole “venire in Europa” e intanto – a parte le atomiche della Tymoshenko – ha già proibito la lingua russa e spento le televisioni che trasmettevano in russo. E sui nostri media mainstream, naturalmente, notte fonda: si evita di dire che l’Ucraina ha firmato solo il 2% del trattato di pre-adesione all’Ue, cioè la parte che riguarda «un piano per una politica estera e di sicurezza congiunta», e che dopo le elezioni del 25 maggio si trasformerà in «un insieme di condizioni di riforma militare che equivalgono “ad un accordo con la Nato preliminare all’integrazione”».Regista dell’operazione, Herman Van Rompuy. «E i nostri politici non hanno eccepito. Anzi, hanno detto: “Sì, escludiamo la Russia dal G8”». Tutti, tranne uno: Berlusconi. «Credo sia avventato e controproducente aver escluso la Russia dal vertice di ieri all’Aia», ha detto il Cavaliere. «Questo contrasta con il lungo lavoro fatto da noi, dal governo italiano: siamo stati noi a trasformare il G7 in G8 a Genova con Putin». Peccato però che Berlusconi non sia più in Parlamento e sia prossimo agli arresti domiciliari, conclude Blondet. Il leader di Forza Italia – l’unico fuori dal coro anti-russo – non ha più alcuna prospettiva di governare in futuro, e dopo tutti i disastri del passato recente – ora appare troppo indebolito per impostare una politica anti-Ue e contraria alle pericolose forzature di Obama. «L’elettorato di centrodestra è nella mani dell’harem, della mignottocrazia, delle concubine». In altre parole, siamo rovinati: se Berlusconi sembra «un decrepito imperatore cinese», tutti gli altri applaudono entusiasti alla guerra che verrà.«Italiani, siete seriamente candidati al premio Darwin. Quando una intera nazione è nel vostro stato, si piega a simili governanti, accetta l’euro (lo accettate ancora in maggioranza), stima Draghi il Rettiliano, considera Napolitano un buon vecchio nonno e si aspetta protezione da Washington e aiuti da Berlino, non appende in piazza Loreto i suoi padroni folli, è logico che finisca come i dinosauri». E’ l’invettiva con cui Maurizio Blondet, su “Effedieffe”, conclude il suo grido di allarme sui drammatici sviluppi della crisi con Mosca: Obama ci sta letterarmente trascinando verso una possibile Terza Guerra Mondiale. Lo dimostra la preoccupante escalation politico-diplomatica contro Mosca, con risvolti militari su cui il mainstream tace: con l’Ue, «nuova prigione dei popoli», l’Ucraina ha appena firmato un dossier di assistenza militare in caso di guerra, mentre ci sono anche militari italiani nel team americano che sta sorvolando, ogni settimana, lo spazio aereo russo. E tutti – tranne Berlusconi – applaudono Obama.
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Russia isolata? No, più vicina alla Cina. E addio dollaro
La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.Tradotto in parole semplici, riassume “Zero Hedge” in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, significa che Mosca «potrebbe fare a meno degli acquisti occidentali di debito russo», a loro volta finanziati dagli acquisti cinesi di T-bonds statunitensi, e andare «direttamente alla fonte», ovvero la Cina. E’ questo che intende Mosca quando dice che le sanzioni per l’annessione della Crimea sarebbero «controproducenti». Chiaro il messaggio proveniente dalla Rosneft: se l’Europa e gli Stati Uniti dovessero isolare la Russia, Mosca cercherà nuovi affari, accordi energetici, contratti militari e alleanze politiche ad Oriente. Già per maggio si attende che Putin, in visita in Cina, firmi l’accordo per il super-gasdotto destinato a collegare la Russia con Pechino, sostituendo così l’Occidente come “grande cliente”. Già a partire dal 2018, la Gazprom spera di pompare 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno verso la Cina.«Quello che è dolorosamente evidente a tutti», aggiunge il blog, è che «più peggiorano le relazioni della Russia con l’Occidente, più la Russia vorrà averne di buone con la Cina». A questo si aggiungono gli scambi bilaterali denominati sia in rubli che in renminbi (o in oro) con paesi come Iran e India. Presto toccherà anche all’Arabia Saudita, il maggior fornitore di greggio per la Cina: il principe ereditario ha appena incontrato il presidente Xi Jinping per espandere ulteriormente i commerci. «Possiamo cominciare a dire addio ai petrodollari», ipotizza “Zero Hedge”. Per il leader di Pechino, l’asse con Mosca «sarebbe utile ad entrambi i paesi, come contrappeso agli Stati Uniti». Quest’anno, inoltre, la Cina ha superato la Germania come più grande acquirente di petrolio russo, grazie alla Rosneft, che ha aumentato le forniture di petrolio verso est, attraverso il gasdotto che unisce la Siberia Orientale all’Oceano Pacifico, e quello che attraversa il Kazakhstan.«Se Mosca fosse isolata da un nuovo round di sanzioni occidentali – continua “Zero Hedge” – Russia e Cina potrebbero rafforzare la cooperazione anche in altri settori, oltre all’energia. La crescita dei rapporti bilaterali include investimenti strategici nelle infrastrutture ma anche forniture militari, come quella per i caccia Sukhoi Su-35. Un declino del commercio con l’Occidente potrebbe costringere Mosca ad abbandonare alcune delle sue riserve sugli investimenti cinesi nei settori strategici. Il volume del commercio russo-cinese è cresciuto del 8,2% nel 2013, raggiungendo quota 8,1 miliardi di dollari, ma la Russia lo scorso anno era ancora solo il settimo più grande partner cinese per le esportazioni, e non era tra i primi 10 paesi per le merci importate. E’ l’Unione Europea il principale partner economico della Russia, e ancora oggi rappresenta quasi la metà di tutto il suo fatturato commerciale.«E se spingere la Russia verso un caldo abbraccio con la nazione più popolosa del mondo non fosse ancora abbastanza, c’è anche a disposizione il secondo paese più popoloso del mondo, l’India». Putin, in effetti, non ha perso tempo: non si è limitato a rigraziare la Cina per la “comprensione” dimostrata col voto non contrario, all’Onu, sull’annessione della Crimea, ma si è affrettato a riconoscere anche la “moderazione e obiettività” dell’India, intavolando relazioni col premier Manmohan Singh sulla possibilità di sviluppare accordi con un paese non-allineato come l’India. Per l’editore del quotidiano “The Hindu”, autorevole voce dell’establishment di New Delhi, sulla Crimea «la Russia ha degli interessi legittimi». Così, «mentre il più grande spostamento geopolitico dai tempi della Guerra Fredda sta accelerando, con l’inevitabile consolidamento dell’“asse asiatico”», per “Zero Hedge” l’Occidente «monetizza il suo debito e si crogiola nella ricchezza di carta creata da un mercato azionario fortemente manipolato», mentre la propria economia si indebolisce e il futuro svolta verso Oriente.La crisi in Ucraina, sollecitata dagli Usa coinvolgendo l’Europa, finirà con l’accelerare in modo decisivo le relazioni strategiche tra Mosca e Pechino, cioè tra la superpotenza delle risorse naturali e quella del capitale e del lavoro. «Mentre l’Europa sta cercando disperatamente di trovare delle fonti energetiche alternative, nel caso la Gazprom dovesse bloccare le esportazioni di gas naturale verso la Germania e l’Europa», osserva il blog “Zero Hedge”, la Russia sta preparando l’annuncio-chiave del commercio energetico, cioè la nascita dell’asse preferenziale con la Cina. «Una mossa che causerebbe onde d’urto geopolitiche in tutto il mondo»: getterebbe le basi «per una nuova valuta di riserva, in grado di aggirare il dollaro». La Russia, come ventilato, potrebbe astenersi dal chiedere prestiti esteri, già nel corso di quest’anno. La grande corsa verso la Cina, a quanto pare, è cominciata.
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Mandela e la vergogna dell’altro apartheid: Israele
L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.L’impero britannico da allora non ha smesso di sollecitare la diaspora ebraica e di proporre la creazione di uno stato ebraico, come fece Benjamin Disraeli, primo ministro della regina Vittoria alla Conferenza di Berlino (1884). Le cose cambiarono con il teorico dell’imperialismo britannico, il “molto onorevole” Cecil Rhodes – il fondatore dei diamanti De Beers e della Rhodesia – che trovò in Theodor Herzl il lobbista di cui aveva bisogno. I due uomini si scambiarono una fitta corrispondenza, la cui riproduzione fu vietata dalla Corona in occasione del centenario della morte di Rhodes. Il mondo doveva essere dominato dalla «razza germanica» (ossia secondo loro gli inglesi, irlandesi inclusi, gli statunitensi e canadesi, gli australiani e neozelandesi e i sudafricani), che dovevano estendere il loro impero conquistando nuove terre con l’aiuto degli ebrei.Theodor Herzl non solo era riuscito a convincere la diaspora a partecipare a questo progetto, ma rovesciò il parere della sua comunità utilizzando i suoi miti biblici. Lo Stato ebraico non sarebbe stato una terra vergine in Uganda o in Argentina, ma in Palestina, con Gerusalemme come sua capitale. Ne deriva che l’attuale Stato di Israele sia il figlio tanto dell’imperialismo quanto dell’ebraismo. Israele, fin dalla sua proclamazione unilaterale, si è rivolto verso il Sud Africa e la Rhodesia, gli unici Stati assieme ad esso che manifestavano il colonialismo di Rhodes. Poco importa da questo punto di vista che gli Afrikaneers avessero sostenuto il nazismo, perché si erano nutriti con la stessa visione del mondo.Benché il primo ministro John Vorster fece viaggi ufficiali nella Palestina occupata solo nel 1976, già nel 1953 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva condannato «l’alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo». I due Stati lavorarono con una collaborazione stretta tanto in materia di manipolazione dei media occidentali, quanto nei trasporti per aggirare l’embargo, o ancora per sviluppare la bomba atomica. L’esempio di Nelson Mandela dimostra che è possibile superare questa ideologia e ottenere la pace civile. Oggi Israele è l’unico erede al mondo dell’imperialismo alla maniera di Cecil Rhodes. La pace civile presuppone che israeliani e palestinesi trovino il loro De Klerk e il loro Mandela.(Thierry Meyssan, “Mandela e Israele”, da “Megachip” dell8 dicembre 2013).L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.
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Contro Usa e Israele: il Mandela che non osano citare
«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».Mandela è stato da lungo tempo sostenitore dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, offrendosi come mediatore politico tra Israele e i suoi vicini. «Israele dovrebbe ritirarsi da tutte le aree che ha conquistato a danno degli arabi nel 1967, e in particolare dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania», dichiarò Mandela, come riferì Suzanne Belling dell’agenzia “Jewish Telegraph”. Storico l’incontro con Fidel Castro nel 1991, insieme a cui tenne un discorso intitolato “Quanto lontano siamo andati noi schiavi”. Il paese stava commemorando il 38° anniversario della presa della caserma Moncada da parte dei castristi, e Mandela salutò il «posto speciale» di Cuba nel cuore della gente dell’Africa. «Fin dai suoi primi giorni, la rivoluzione cubana è stata anche una fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Ammiriamo i sacrifici del popolo cubano nel mantenere la propria indipendenza e sovranità di fronte alla malvagia campagna imperialista orchestrata per distruggere l’impressionante miglioramento realizzato nel corso della rivoluzione cubana».Sempre il leader sudafricano invitò a porre fine alle dure sanzioni imposte dall’Onu alla Libia nel 1997, e promise il suo sostegno a Gheddafi, a sua volta un suo sostenitore di lunga data. «È nostro dovere dare sostegno al leader fratello, soprattutto per quanto riguarda le sanzioni, che non stanno colpendo solo lui ma stanno colpendo la massa della gente qualunque, i nostri fratelli e sorelle africani», dichiarò Mandela. In occasione della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, il 4 dicembre 1997, Mandela assemblò un gruppo «in qualità di sudafricani, di palestinesi nostri ospiti e di umanisti, per esprimere la nostra solidarietà nei confronti del popolo della Palestina». Nel discorso, fece appello affinché le fiamme metaforiche della solidarietà, della giustizia e della libertà fossero tenute accese. «L’Onu ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi».«Se c’è un paese che ha commesso atrocità indicibili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti d’America. A loro non importano gli esseri umani». Parola di Nelson Mandela. Mentre il mondo ricorda l’eredità di “Madiba” in veste di primo presidente nero del Sudafrica e icona anti-apartheid, va ricordato che fu anche profondamente scettico nei confronti della potenza americana, criticata all’epoca dell’invasione dell’Iraq. Inoltre, Mandela era un sostenitore cruciale dell’Olp di Arafat. «Qui di seguito», annuncia “Rt” in un servizio ripreso da “Megachip”, «potrete leggere le sette citazioni del leader che hanno meno probabilità di essere pubblicate, anche laddove si sta rendendo onore alla sua vita e si commemora la sua morte nei media mainstream». Prima dell’invasione Usa dell’Iraq, Mandela sferzò duramente gli Stati Uniti: al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, dichiarò che il movente principale dell’allora presidente Bush era «il petrolio». Rincarò la dose intervistato da “Newsweek”: «L’atteggiamento degli Stati Uniti d’America è una minaccia per la pace nel mondo».
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Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito
Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro. E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.(Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
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Facciamo esplodere la Siria, poi piangiamo per gli sbarchi
Era completamente falsa la “notizia” strombazzata per due giorni, in primis da “Repubblica”, degli “scafisti siriani” che, a cinghiate, avrebbero costretto i migranti a uccidersi, gettandosi dal gommone proveniente dalla Libia nel mare davanti Scicli. Una notizia vera ha trovato, invece, pochissimo spazio sul mainstream: secondo l’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni, sono sempre di più i siriani che approdano sulle nostre coste: lo fanno per fuggire dalle bande di mercenari che stanno insanguinando quella nazione, e dalla conseguente reazione dell’esercito siriano, ma soprattutto, per fuggire dalla fame e dalla miseria esplose in Siria col feroce embargo decretato due anni fa dall’Unione Europea, Italia compresa. E i motivi di questo embargo, accusa Francesco Santoianni, sono politici e scritti nero su bianco: l’obiettivo è costringere la popolazione a ribellarsi ad Assad. «Una “primavera araba” dettata dall’Occidente, che ha già fatto 100.000 morti e due milioni di profughi».
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Roger Waters: vergogna-apartheid, boicottiamo Israele
In occasione dei recenti Promenade Concerts alla Royal Albert Hall di Londra, il virtuoso violinista e violista inglese Nigel Kennedy ha accennato al fatto che Israele è uno Stato che pratica l’apartheid. Voi penserete che non ci sia nulla di strano, finché la baronessa Deech (nata Fraenkel) ha contestato il fatto che Israele sia uno Stato di apartheid e ha avuto la meglio sulla Bbc nel censurare l’esibizione di Kennedy, rimuovendo la sua dichiarazione. Nonostante la baronessa Deech non abbia prodotto uno straccio di prova per sostenere la sua dichiarazione, l’apolitica Bbc, che probabilmente agisce solo su comando della baronessa Deech, si è improvvisamente comportata alla 1984. Bene!! È tempo che mi faccia avanti, insieme a mio fratello Nigel Kennedy, com’è giusto che sia. A proposito Nigel: grande rispetto, amico. Qui di seguito una lettera modificata l’ultima volta a luglio.
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Siria, come regalare il Medio Oriente a sauditi e terroristi
E’ il 1990 quando la giovane kuwaitiana Nayirah racconta di aver aver visto i soldati iracheni «strappare i bambini dalle incubatrici per lasciarli morire sul pavimento». Indignazione mondiale, rafforzata dalla conferma di Amnesty International. Quanto basta a George Bush per scatenare la prima guerra contro Saddam. Poi, a cose fatte, si scopre che quella testimonianza era falsa, inventata di sana pianta: i soldati iracheni non avevano mai allungato le mani sui neonati. Peggio: la giovane “testimone” Nayirah al-Sabah era in realtà la figlia dell’ambasciatore kuwaitiano, e aveva «recitato un pezzo preparato dalla società di comunicazione Hill & Knowlton, ingaggiata dall’emirato per favorire la liberazione del paese». Ancor più celebre, ricorda il condirettore di “Geopolitica”, Daniele Scalea, è il caso delle “armi di distruzione di massa” attribuite all’Iraq, cioè il casus belli la seconda Guerra del Golfo, nel 2003. Un copione che ricorda quello di oggi a Damasco: gli ispettori Onu che non trovano prove di responsabilità e Washington che punta sull’uso unilaterale della forza.
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La danza della pace di quei soldati sull’orlo della guerra
Ma gli americani che fanno? Quello che hanno sempre fatto: la guerra. «Ora dovremo dare una bella spazzolata alla Siria», diceva tempo fa un giovanotto, a cena ai tavoli di una pizzeria, in una città del nord. Indossava una tuta col tricolore e la scritta “Italia”. Era l’inizio del 2012: al film delle armi chimiche mancava ancora un anno e mezzo. Eppure, era come se il giovanotto lo conoscesse già: «Dovremo colpire la Siria – ripeteva, con aria grave – perché poi, lo sappiamo, ci aspetta lo scontro vero, quello con l’Iran». I commensali annuivano, attoniti, fingendo di capire: strana fiaba nera, ambientata in una geografia teoricamente prossima, mediterranea, eppure così remota e oscura, infestata di pericoli e di nemici incomprensibili. L’unico ambasciatore intellegibile, tra i misteri di quelle latitudini infide, era appunto il giovanotto con addosso la tuta militare – il solo volto amico momentaneamente a portata di mano. Con in tasca un messaggio chiarissimo e indiscutibile: guerra. Ma perché? Perché sì. Semplice: guerra contro il perfido dittatore Assad, come necessaria premessa per poi dare una lezione ai fanatici barbuti di Teheran.
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Stiamo precipitando verso la guerra: Grillo se n’è accorto?
Sulla “soggezione” verso la Bonino del “Movimento Cinque Stelle” (dove, forse, c’è ancora qualcuno che rimpiange non vederla presidente della Repubblica) avevo già scritto ai tempi della prima “uscita pubblica” dei parlamentari della Commissione Esteri. Credevo che, da allora, le cose fossero migliorate. Non è così. E riparliamo quindi della Bonino e, soprattutto, di un avverbio da lei usato: “attivamente”. Ecco un estratto del suo testo da lei letto, il 26 agosto 2013, al “Forum sulla politica estera”: «Comunque, l’Italia non prenderebbe attivamente parte ad azioni militari contro la Siria deliberate al di fuori del Consiglio di Sicurezza dell’Onu». Testo da lei riletto, il 27 agosto 2013, nella riunione su Egitto e Siria della “Commissioni affari esteri congiunte Senato e Camera” alla presenza – ahinoi! – di deputati e senatori Cinque Stelle (che, ci auguriamo, avevano già avuto modo di documentarsi sulle posizioni espresse dalla Bonino il giorno prima).